Per Anne Carson, la scrittura poetica è imparentata con una speciale forma di estasi che coincide con la completa liberazione dalla forma. È la decreazione, a cui la poetessa canadese dedica pagine memorabili in Decreation, uno dei suoi libri migliori: «To be a writer is to construct a big, loud, shiny centre of self from which the writing is given voice and any claim to be intent on annihilating this self while still continuing to write». Chi potrà negarlo? Scrivere significa disfare la propria esperienza e la propria identità, tendere – non ingenuamente: con disciplina, concentrazione – a uno stato di radiosa e benefica non conoscenza, che per Carson, autentica greca tra i moderni, è la capacità di amare. Un vero e proprio sacrificio, che dalle scorie dell’identità fa nascere una forma più pura di esistenza non più di donna o uomo ma di creatura capace di amare.
La «decreazione», questo processo di annullamento creatore implicito nell’atto poetico, è al centro della ricerca poetica di Tommaso Di Dio e del suo ultimo Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo, edito dalla casa editrice d’arte Scalpendi nella collana «Assemblaggi e sdoppiamenti», che ospita testi sperimentali che esplorano le possibilità connesse alla scrittura poetica delle immagini. In questo libro, il poeta milanese raccoglie testi editi e inediti concepiti lungo tutto l’arco della sua attività poetica, dall’inizio degli anni Duemila a oggi. Tra i suoi libri ricordiamo: Favole (Transeuropa 2009), Tua e di tutti (LietoColle 2014) e Verso le stelle glaciali (Interlinea 2020).
Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo (d’ora in poi NLAFNT) è un’opera significativa sul piano editoriale, perché recupera e antologizza testi dispersi e in certi casi ormai irreperibili –pubblicazioni “minori” in antologie, riviste o siti, oppure plaquette senza ISBN completamente fuori commercio, come ad esempio Alla fine delle favole (Origini Edizioni 2016).
Le poesie si articolano in nove sezioni – da qui le «nove lame» del titolo – ordinate cronologicamente e intervallate da riproduzioni di fotografie reali, tratte dall’archivio familiare dell’autore (a eccezione della fotografia d’apertura del grande maestro siciliano Ferdinando Scianna, che fa storia a sé).
Come avverte l’autore stesso nelle note finali, NLAFNT costituisce la seconda parte di un trittico in formazione, avviato con la pubblicazione di Verso le stelle glaciali. In effetti le linee di continuità sono moltissime, sia dal punto di vista tematico che formale: come per i più importanti poeti della sua generazione, per Di Dio è la forma del libro, e non il singolo componimento o la silloge, il terreno dove si misura la tenuta e la novità di un’opera. Come ha efficacemente sintetizzato l’autore in una nostra conversazione milanese: se Verso le stelle glaciali era un attraversamento dello spazio, questo libro è un attraversamento del tempo. Di Dio lavora sulla forma dell’antologia, scavando al proprio interno un percorso che va dal riconoscimento della necessità del distacco e della separazione dalle proprie esperienze passate alla ricerca di una dimensione umana corale – ci ritorneremo.
Un’indicazione fondamentale sulla forma del libro ci viene fornita dall’epigrafe montaliana (la poesia è tratta dal Carnevale di Gerti delle Occasioni (1933): «È Carnevale / o il Dicembre s’indugia ancora? Penso / che se tu muovi la lancetta al piccolo / orologio che rechi al polso, tutto / arretrerà dentro un disfatto prisma». Un disfatto prisma è proprio il libro che abbiamo davanti: un libro solido, tagliato dentro una dura materia cristallina, ma eterogeneo, vario e sfaccettato – e soprattutto disfatto, sottratto a se stesso, come precipitato dentro la propria assenza.
Raccogliendo esperienze poetiche sparse negli anni, NLAFNT affronta un grande numero di temi connessi alla vita dell’autore. Le prime raccolte appaiono dominate dal tema dell’amore, inteso come forza inquietante e disgregatrice, che produce allontanamento, solitudine e reclusione dell’essere nella sua identità, come in questo testo anonimo risalente al periodo di Favole:
Fare l’amore fino a fare i figli. Addentrarsi
nella genuflessione. Dire prendo questo corpo
senza limiti; a furia di reni sfondare
il fondo cupo dei preservativi. La neve poi
che immerge ogni cosa. Palazzi, strade, ogni volto
oltre i fiumi immemorabili della storia.
oggi volevo fare l’amore con te. Oggi volevo
sbranare la paura di essere solo due
corpi finiti.
Questa dimensione maggiormente intimista delle prime raccolte, in cui è esibita una chiara traccia della poesia di Mario Benedetti, si apre nelle opere successive verso una più narrativa, che si distacca con maggiore coerenza dal registro della lirica. Nelle poesie più belle di questa stagione, l’autore riesce a bilanciare con grande abilità il resoconto vividissimo della propria esperienza e una dimensione collettiva, corale, fatta di un intreccio di voci e di storie. È il caso, ad esempio, della quarta sezione «Per il lavoro del principio», che racconta un soggiorno di due settimane nel reparto di neonatologia dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna.
Il narratore di queste poesie si aggira tra le stanze del reparto osservando con occhio partecipe e allo stesso tempo straniato l’atto della nascita. Nessun individuo nasce nel vuoto della creazione; venendo al mondo, ognuno di noi eredita frammenti di tempo che provengono da vite passate, vite che non sono la nostra, e che pure in qualche modo ci costituiscono. In modo indiretto, allusivo, viene dunque istituito un nesso tra la scrittura autobiografica e la rinascita: in entrambi i casi, chi scrive abbandona il proprio tempo, risale verso la matrice, verso l’origine “preindividuale” delle nostre vite – in quanto individui, ma anche in quanto specie.
Tu che sei nato
adesso. Tu che sei
nato prima del tempo, prima
del compimento biologico totale.
tu non sei solo. Sei già stato
accolto e protetto
deposto in teche, scaldato amato curato
affinché tutto di te
possa crescere bene.
Quando sarai grande, non dimenticare
questo campo intermedio, spazio
fra i mondi, ventre più grande
dove hai incontrato cento madri
e cento padri: braccia
ti hanno già amato anonime
perché tu possa un giorno
dirti vivo.
Il movimento verso una dimensione in qualche modo “preindividuale” dell’umano è il lavoro di una decostruzione, di una cancellazione progressiva dell’identità: questo scambiarsi di presenza e assenza, così come di nascita e morte, è pervasivo e innerva e dà sostegno a tutta l’opera. Il raggiungimento della pienezza, diremmo, passa attraverso un’opera di disfacimento che conduce a un gioioso spossessamento di sé. Un disfatto prisma potrebbe dunque riferirsi anche al risultato del lavoro che Di Dio ha operato sul suo stesso Io poetico. Un lavoro, per usare un termine che abbiamo imparato, di decreazione. I momenti più belli della raccolta sono forse quelli in cui emerge in modo più diretto questa estatica fuoriuscita dal sé, dalla propria finitudine di soggetto, sulla scena di un mondo illimitato e privo di determinazioni, abitato unicamente dalla meraviglia delle forme in continua metamorfosi nel tempo:
«[…] Io sono il niente
dove sbarca la catena dei giorni
dove si svuota e si riempie
questo che ci scanala e ci devasta eppure vedi vive
si slancia» (p. 161)
«Se chiudo gli occhi, adesso sento
ognuno di noi
racchiuso in questa immagine» (p. 209)
«Perché questo è anche
ciò che siamo. Fin dal principio frutto
spartito nel lavoro di molti
nella luce e nell’aria scacciato
e costretto
nel reame d’amore plurale» (p. 82)