L’esordio poetico nel 2010, a trent’anni, e una seconda collezione nel 2020, l’anno della sua prematura scomparsa. Nel frattempo, chapbooks di poesia, insegnamento universitario, e tutta la vita raccontata nel memoir del 2016, Bandit, in cui Molly Brodak sceglie di raccontare il rapporto con il padre, un rapinatore di banche più volte arrestato. Ma è un escamotage per parlare di sé, per delineare in controluce un’identità che non sarebbe stata altrettanto osservabile direttamente. Un io narrante che fatica a narrarsi, un sé fortissimo ma liquido, mutevole, perché basato sull’assunto che un io obiettivo non esista. Specie per chi scrive.
Molly Brodak inizia il suo memoir con due pagine in cui racconta i fatti della vita di Joe Brodak: la dipendenza dal gioco, i debiti, le rapine, gli arresti. In due pagine, la realtà viene liquidata. Tutto quello che viene dopo, ci avverte, è narrazione: comprese le vite dipanatesi attorno a questa figura, e i traumi che hanno subìto a causa sua. Come Brodak ammette, la scelta del memoir, della nonfiction, punta a distaccarsi dalla facilità della fiction, dai suoi “rounded, finite arcs, tidy rise and fall, buttressing values, their little lessons, like solved equations”, ma allo stesso tempo non prova a perseguire un’esattezza fattuale che, semplicemente, non esiste. La soluzione, dunque, una realtà vera perché dichiaratamente soggettiva, è ciò che Brodak trova da adolescente nella forma poetica, quella che non abbandonerà mai più e che “it seemed to know a better way to the world – an approach more honest, more direct, sharper”.
Eppure, se sembra impossibile raccontare una vita in modo “onesto e diretto”, specie il dolore che la caratterizza, è proprio sul trauma che si incentra la ricerca letteraria di Brodak. Forse proprio in nome della sua capacità di influenzare la percezione di sé e degli altri. Nel 2010, nell’esordio A little middle of the night, Brodak parte dal trauma fisico di un corpo malato, descrivendo la sua esperienza di ricovero in ospedale a seguito di un’operazione al cervello. Poesie in cui la realtà si mescola alle visioni indotte dalla malattia e dai farmaci, in cui l’esperienza del coma traccia una linea netta tra la propria percezione e quella altrui, con la poesia come unico mezzo per cercare di comunicare tra prospettive inconciliabili.
Ma la risposta, o perlomeno un tentativo, arriverà solo in The Cipher, nel 2020, in cui si affronta compiutamente il trauma della fuga dall’Olocausto che hanno affrontato entrambi i suoi genitori, la madre dalla Russia e il padre dalla Polonia. Un trauma generazionale che diventa proprio; la perdita del nonno, morto a Dachau, che diventa la perdita della figura paterna; una coazione a ripetere che perpetua il trauma dell’assenza. Il dolore ci pone in un limbo tra passato inalienabile e futuro inconoscibile, descritto come “the awful future: half magnetic, half chiaroscuro”, che ci tira a sé pur nascondendosi da noi. Intrappolati tra il passato che il destino ci ha dato e ciò che con la nostra volontà decidiamo di farci, diventa impossibile stabilire veri nessi causali, capire chi siamo e cosa ci ha reso tali. Ed è di nuovo la poesia ad essere proposta come unico modo per arrivare alla realtà del proprio io. Se ogni scrittura è metafora di una realtà inconoscibile, “one x that did not equal x”, come viene detto nella poesia che apre The Cipher, allora la poesia è il mezzo che più di ogni altro sa seguire esattamente il processo non lineare che caratterizza la coscienza:
I listened to some invisible bird
rattling off the facts of consciousness.
He used that exact word,
cipher.
La poesia diventa così l’unico modo per affrontare una realtà che sembra una prigione, in cui l’unica reazione sensata è “Panic, because suddenly everything signifies”, ma in cui l’accesso al vero senso sembra sempre interdetto, sempre un passo più in là rispetto a noi.
In the cipher, where
we live, there is only personality.
What is outside of the cipher, where we’re headed?
Due scelte, di fronte a questa impossibilità conoscitiva. Perpetuare l’illusione del simbolo grazie al mezzo poetico. O abbandonare il gioco, dirigersi “outside the cipher”, fuori dalla prigione della propria personalità, verso quella morte che viene così spesso accennata in The Cipher. Posare la penna, scegliere la pace dell’assenza definitiva di ogni significato.
Da the cipher (2020)
Bells
Nothing special, a home,
a plot of empty space,
with a calendar on the wall. Each day ahead
is lake black. Bells, still.
God popped like a balloon
when I looked directly.
Songs just clank the fetters.
I remember ergo sum.
I never needed to dig graves.
Everyone, a terminal,
a terminal of photons,
irritating rackets,
generosity, gently extinguishing
fire,
which is nothing special.
All of them.
The people ran for the boats.
I stayed to ring the bell. I’ve forgotten
their faces but I remember their white aprons with eyelets,
leather hoods with spark burns, small shoes, the sound of them
all typing at once, their little worn dice, worn to beads.
Blue and pink charms, cassocks, gold chains they shared.
They dragged mom’s body and dad’s body as far as they could on the beach.
They scattered into a shoreless sea.
And you want to be happy.
Campane
Una casa, niente di speciale,
un terreno, uno spazio vuoto,
con un calendario sul muro. Ogni giorno a venire
è nero come un lago. Eppure, le campane.
Dio è scoppiato come un palloncino
non appena l’ho guardato.
Le canzoni scuotono le catene, nient’altro.
Mi ricordo ergo sum.
Non ho mai avuto bisogno di scavare tombe.
Ogni persona, un capolinea,
un capolinea di fotoni,
un baccano fastidioso,
generosità, un fuoco che si spegne
piano,
niente di speciale.
Tutti loro.
La gente corre verso le barche.
Io sono rimasta per suonare la campana. Ho dimenticato
le loro facce ma ricordo i loro grembiuli bianchi orlati di pizzo,
cappucci di pelle bruciacchiati, scarpe piccole, il suono
di tutti loro che scrivono a macchina contemporaneamente,
i loro piccoli dadi consumati, tanto da sembrare perline.
Ciondoli rosa e blu, abiti talari, catene d’oro condivise.
Hanno trascinato i corpi di mamma e di papà sulla spiaggia più lontano che potevano.
Sparsi in un mare senza riva.
E tu vorresti essere felice.
bee in jar
You cannot help knowing, said Tolstoy.
The world is a distance to go.
Remember, once you were good for nothing
and you didn’t know it.
Cedar branches live a little while on the fire.
Some young swallows
cover some sea then
turn back on their first migration.
Only matter can
be transformed.
Transformed into matter.
Things that are not matter
cannot be transformed.
The key is cut by the lock.
You will code then decode your mind.
You will save yourself.
You cannot help it.
l’ape nel barattolo
Non si può fare a meno di sapere, diceva Tolstoj.
Il mondo è una distanza da percorrere.
Ricordati, una volta eri un buono a nulla
e non lo sapevi.
I rami di cedro vivono ancora per un po’ mentre bruciano.
Alcune giovani rondini
percorrono un po’ di mare poi
tornano indietro durante la loro prima migrazione.
Solo la materia può
essere trasformata.
Trasformata in materia.
Le cose che non sono materia
non possono essere trasformate.
La chiave assume la forma del lucchetto.Programmerai e decifrerai la tua mente.
Ti salverai.
Non puoi farne a meno.
in the morning, before anything bad happens
The sky is open
all the way.
Workers upright on the line
like spokes.
I know there is a river somewhere,
lit, fragrant, golden mist, all that,
whose irrepressible birds
can’t believe their luck this morning
and every morning.
I let them riot
in my mind a few minutes more
before the news comes.
di mattina, prima che accada qualcosa di brutto
Il cielo è aperto
da parte a parte.
Operai dritti sulla linea
come raggi.
So che da qualche parte c’è un fiume,
illuminato, fragrante, nebbia dorata, tutto quanto,
con i suoi uccelli irrefrenabili
che stamattina non riescono a credere ai loro occhi
come ogni mattina.
Li lascio sfogarsi
nella mia mente qualche minuto ancora
prima che la notizia arrivi.
come and see
The far away
asphalt lot
covered over in fog
& lit raw gold by
one lamppost
against night.
The terminal
helplessness
of one creature
without its others.
I saw the owl’s wings
but no owl.
The slow-mo mushrooms.
I taught my hands to work
to keep them away
from each other. Rasp,
awl, the block plane, the spirit
level. The needle
one holds, which sharpens
which? Still, I was separate.
Still they
were where
the song came from.
The light from our closest star
is not starlight, it being
just one.
I saw Michigan, sunk home, from space
in a moment, and I hadn’t cried
until just then, in the dark
kitchen, no hands
to close over my face.
vieni a vedere
Il parcheggio d’asfalto
così lontano
ricoperto di nebbia
e illuminato d’oro crudo da
un lampione
contro la notte.
La fragilità
terminale
di una creatura
senza i suoi altri.
Ho visto le ali del gufo
ma nessun gufo.
I funghi al rallentatore.
Ho insegnato alle mie mani a lavorare
per tenerle staccate
l’una dall’altra. Lima,
punteruolo, pialla, la livella
in bolla. L’ago
che si tiene in mano, che affila
cosa? Eppure, ero separata.
Eppure era
da lì che
veniva la canzone.
La luce dalla stella più vicina a noinon è luce di stelle, perché è
soltanto una.
Ho visto il Michigan, sono sprofondata a casa, dallo spazio,
in un istante, e non avevo pianto
fino a quel momento, nella cucina
buia, senza mani
in cui nascondere il volto.