Già apparsa in «The Common», 8 luglio 2024, con il titolo Violence and Its Other
Finché la vittima non sarà nostra di Dimitris Lyacos uscirà per Il Saggiatore il prossimo 29 aprile. Si tratta, secondo l’autore, di un “libro zero” da anteporre all’ormai celebre trilogia Poena Damni, che ha per protagonista un uomo in fuga ma non spiega da chi, da cosa, da dove stia scappando, omettendo di definire il passato, rivelando solo le cicatrici residue. Sarà il libro nuovo a tracciare una mappa dell’universo pre-fuga, il quale – come sorprendersi? – non è altro che la civiltà occidentale, di cui Lyacos ci fornisce sia uno scavo archeologico che una panoramica aerea (a partire dalle origini giudaico-cristiane, attraverso industrializzazione e capitalismo, fino alla digital-globale era presente).
Nonostante si stesse recando in Israele e in Cisgiordania quando gli ho proposto questa intervista, Lyacos ha accettato di svolgerla durante il viaggio. Gliene sono particolarmente grata.
Toti O’Brien:La società che evochi, alternando voci di leader e seguaci, vincitori e vinti, è intrisa di violenza – concetto controverso, diversamente inteso a seconda dei punti di vista. Solo a partire dagli anni Sessanta, ad esempio, si è iniziato a discutere di violenza psicologica, di violenza istituzionale. A tali questioni sono stati dedicati fiumi d’inchiostro che non hanno inciso molto, però, sull’opinione comune. L’atto di rompere una vetrina durante una protesta è tuttora ritenuto più violento dei secoli d’abuso che ne sono la causa. Il tuo nuovo libro esplora la dialettica tra violenza visibile e violenza invisibile, tra aggressione fisica e manipolazione nascosta, nelle sue pieghe più intime. Secondo te, che cos’è la violenza se la si spoglia degli abiti di scena? Come la definisci dal tuo punto di vista?
Dimitris Lyacos: “Arrecare danno attraverso l’uso della forza” potrebbe essere una definizione adeguata. Tuttavia, sebbene la violenza sia in genere connessa alla forza fisica, quest’ultima non deve necessariamente esprimersi in forma attiva. Negligenza deliberata e omissione possono essere altrettanto nocive. Pensa al supplizio di Tantalo: era immerso in uno stagno da cui non poteva bere e l’albero che gli cresceva accanto sfuggiva alla presa quando tentava di raccoglierne i frutti. Non subiva alcun tipo di “forzatura”. La natura, al contrario, lo evitava, come fosse a conoscenza delle sue colpe. Questo esempio eccede l’ambito mitologico… Pensa a quanti divieti d’accesso incontrano individui e gruppi di classi subalterne nelle società attuali: i mega supermercati e i centri commerciali non sono certo fatti per i meno abbienti… Possono risultare loro tanto inaccessibili quanto i grandi saloni dei castelli lo erano per i servi che lavoravano i campi. I nostri sistemi socioeconomici contemplano varie forme di esclusione, di cui la mancanza di accesso a prodotti e servizi è forse la più benigna.
L’esclusione, del resto, è espressione archetipica di violenza dai tempi della Bibbia: Dio non punisce corporalmente Caino per l’assassinio del fratello, ma lo “priva della sua presenza” condannandolo a quella Poena Damni (titolo della trilogia) che comporta la perdita della visione divina, dell’aiuto “paterno”, la caduta dalla grazia e il conseguente abbandono in un mondo ostile – quello che un genitore impietoso farebbe a suo figlio. Tali forme di crudeltà non sono invenzioni umane. Le troviamo anche nel mondo animale. Ad esempio, tra i pesci gatto è stato osservato ostracismo verso gli esemplari albini, mentre Jane Goodall ha raccontato come gli scimpanzé evitino individui malati o estranei al gruppo. Ma il merito di elevare l’esclusione a metodo punitivo primario senz’altro ci appartiene. Per tornare a Finché la vittima non sarà nostra, esclusione e violenza fisica sono entrambe presenti dall’inizio. Quel che chiamo il frammento pre-iniziale descrive una scena cruenta. Il capitolo A, subito dopo, introduce espulsione ed esilio: la terra di Nod, in cui la violenza diventa un indispensabile mezzo di sopravvivenza.
T.O.: Stai esponendo temi essenziali che il tuo libro affronta in modo a volte velato e più spesso diretto. Tutti hanno radici nel passato, ma appartengono senza dubbio anche al nostro presente. La violenza-negligenza evoca inevitabilmente il problema dei residui tossici, che non nomini, eppure sfigurano in modo inequivocabile i paesaggi che descrivi nel libro. La violenza-deprivazione è oggi una forma di tortura legale: una delle scene più intense di Finché la vittima non sarà nostra si svolge in un carcere di massima sicurezza, offrendone uno squarcio indimenticabile. Mi ha colpito il fatto che il libro indichi l’espulsione come “castigo originale”: sembra che l’idea di casa e quella di esilio siano letteralmente nate insieme. La violenza che descrivi spesso consiste nel proibire alle vittime l’accesso a certi luoghi e nell’imporre loro la permanenza in altri, definendo dove hanno o non hanno il diritto di essere. Esodi, diaspore e genocidi derivano da tale principio, ma anche ghetti e prigioni, reali o virtuali.
Metaforicamente (i capitoli sono identificati dalle lettere dell’alfabeto) e non solo, il libro implica forme di collusione tra violenza e linguaggio. Le parole possono ampliare il campo d’azione della violenza e accelerare il suo progresso. L’abuso crea sempre le proprie narrative. Cosa ci puoi dire in proposito? In che modo il linguaggio serve la violenza?
D.L.: Il linguaggio è un sistema simbolico, uno dei tanti. Sono tutti connessi con la violenza? C’è violenza, ad esempio, nella logica, nella matematica? Forse no, a meno che un insegnante non ci forzi a impararle. In tal caso, però, l’imposizione emana dall’individuo, non dalla disciplina. Tuttavia dobbiamo accettare un tipo di coercizione – interiore o esteriore – per poter imparare, cioè per essere “formati”. Apprendere comporta un ordine esterno a cui aderire. Nell’allegoria della caverna Platone insiste sul fatto che liberarsi da pregiudizi e false credenze è un processo violento. Penso sia per questo che alcuni di noi non amano la scuola. Per apprendere qualsiasi cosa, linguaggio incluso, il soggetto deve obbedire alle regole, come direbbe Wittgenstein. La violenza in quest’ambito non presuppone aggressione, ovviamente, solo forza. Il soggetto è forzato a (o si sforza di) aderire a un sistema e alle norme che esso comporta.
Qui potresti obiettare: un momento, non hai detto che violenza è ciò che arreca danno? In che modo può nuocerci il fatto di assimilare una struttura simbolica e partecipare a un sistema?
Rousseau ti direbbe che un tempo eravamo nobili selvaggi e la civiltà ci ha corrotti. Il mio punto di vista è diverso: quando entriamo a far parte di un ordine, di un sistema, rinunciamo in suo favore alla nostra parcella, al nostro “diritto alla violenza”. Il sistema se ne impadronisce, riassegnandone l’uso secondo i propri intenti. Al suo interno la violenza è presente, ma astratta. Non le serve manifestarsi concretamente. È l’essenza stessa dello Stato: Κράτος in greco significa Forza/Potere, parola senza dubbio violenta, che ricorda il carattere omonimo nel Prometeo incatenato di Eschilo (il compagno di Βία, Violenza).
È possibile allora che la violenza abbia effetti positivi? Sì e no, direi. Nel corso delle sue camaleontiche metamorfosi – che il libro in parte esplora – può apparire innocua o nociva a seconda dei punti di vista. Mi chiedo se lo Stato, qualora avesse una coscienza, considererebbe dannoso il monopolio della violenza o se invece riterrebbe (polizia inclusa) che ordine e controllo siano salutari e provochino soltanto un male necessario. Eccoci al punto di partenza: i sistemi, anche quelli simbolici, sono inerentemente costrittivi. Plasmano, modellano, formano: esistono per questo.
T.O.: Quando parli di “assimilare” è immediato pensare al vissuto degli immigrati, per i quali aderire a nuove norme linguistiche è l’unico modo di capire cosa esige e cosa prescrive la cultura di arrivo. Solo assimilando le sue norme, infatti, si può sperare di essere a propria volta assimilati o almeno tollerati.
Il tuo libro sorprende il lettore per l’estrema versatilità espressiva. Coloro che rappresentano Κράτος, come ovvio, sono sistematici e logici nelle loro verbalizzazioni. Quelli che sono incatenati come Prometeo si esprimono altrimenti, attraverso monologhi onirici e frammentari che evocano indimenticabili diari della Shoah. Cosa ci puoi dire del loro linguaggio, delle loro voci?
D.L.: Sono appena tornato dal Museo Storico dell’Olocausto di Yad Vashem al mio alloggio nella zona Ovest di Gerusalemme. Le parole delle vittime, le loro testimonianze e i diari mi risuonano ancora nella testa. Storie di “dentisti” che estraggono denti ai morti prima che siano gettati nei forni, gente che ancora respira dopo essere stata gassata per venticinque minuti. Una donna anziana racconta di essere sopravvissuta, a sette anni, perché arrampicandosi su un muro di corpi è riuscita a uscire dal pozzo. Semplici e scarni resoconti fattuali, incapsulamenti rudimentali dell’orrore in un linguaggio che non ammette ulteriori approfondimenti. Non c’è tempo per elaborazioni linguistiche quando la tua massima aspirazione è quella di tenere a bada la fame – in tali circostanze la retorica è irrilevante. È significativo invece che il termine “Shoah” sia emerso nella conversazione: nella Bibbia appare nel libro di Zephaniah – che si ritiene abbia particolarmente influenzato l’inno cattolico medioevale Dies Irae – e da lì viene il senso di catastrofe che lo caratterizza. In Zephaniah è menzionato il “giorno di Dio”. All’inizio del primo capitolo la voce divina ripete tre volte: “Egli sterminerà, consumerà uomini e bestie”. Nel secondo capitolo c’è una profezia della distruzione di Gaza: Γάζα διηρπασμένη ἔσται.
Alla fine della mia visita a Yad Vashem sono passato dal guardaroba al piano seminterrato. C’erano zaini sul pavimento e, a fianco, fucili messi ad angolo retto per formare un quadrato, poi un altro quadrato sovrapposto, poi un altro. Una torre di un metro, geometrica e precisa. I soldati che come noi avevano visitato il museo, seguendo attentamente la guida attraverso le gallerie, sono entrati a riprenderli. Li ho guardati bene: ragazzi ebrei, una o due ragazze. Mi chiedo cosa resterà loro di questo incontro con la brutalità cieca della storia, cosa penseranno questi giovani armati delle mani stanche e disperate che hanno scarabocchiato vane parole come ultimo segno di speranza. Non lo so, ma credo che la violenza continuerà a perpetuare sé stessa. Credo che impariamo a fatica, a prescindere dal linguaggio in cui ci giunge la lezione.
T.O.: Il tuo libro sembra dirlo a voce alta… che il ciclo della violenza non ha fine. Lo pensi davvero? La “meno danneggiata” dei tuoi personaggi (la bambina che ha perso il padre) prega nella speranza di ritrovarlo, ma nessuno risponde. Alla fine del libro il protagonista contempla la fuga, ma non lo vediamo scappare, ancor meno arrivare in un luogo che possa chiamare “casa”. Dunque, anche se ribellione e resilienza sussistono, forse non prevarranno.
È questo che vuoi dire? Se invece interrompere il ciclo è un obiettivo possibile, dov’è l’anello debole della catena? Se il linguaggio non può aiutarci (ma davvero non può?) che alternativa abbiamo?
D.L.: Siamo studenti pigri del passato e la sofferenza ci scivola addosso, eppure siamo riusciti a limitare le forme convenzionali di violenza. All’inizio, i livelli statistici di violenza tra umani erano uguali a quelli che esistevano tra gli altri primati: 2%. Nel corso della storia sono diminuiti e oggi sono nettamente minori. Ciò è probabilmente dovuto all’avvento di nuove organizzazioni socio-politiche: negli odierni Stati-società la violenza letale è scesa quasi all’1%. Naturalmente questi numeri hanno un significato parziale. Riguardano soltanto gli omicidi. Dimostrano che, sebbene la nostra specie sia filogeneticamente predisposta alla violenza, la cultura però può in parte limitarne gli effetti. Con un po’ di ottimismo possiamo sperare che li annulli del tutto. Il problema è che la violenza si incarna subdolamente in forme sempre nuove, continua a trasformarsi e moltiplicarsi. Ma ammettiamo di riuscire ugualmente a controllarla: l’altro giorno ho avuto l’onore di essere invitato a un tour privato della nuova Biblioteca Nazionale di Israele. Un piacevole esempio di architettura minimalista-postmoderna, le curve dell’edificio si distendono a incontrare lo sguardo. L’interno è calmo e accogliente: silenzio, spessi tappeti, una colonna di luce con attorno una scala… La colonna ricorda quella che guidò Mosè nel deserto, la scala a spirale ascende verso il cielo. Al seminterrato, milioni di libri che i robot organizzano in perfetto silenzio. È questa la risposta? Il mondo trasformato in una simile biblioteca e noi, lettori calmi e pensosi, sensibili e profondi, collegati da onde di informazione, conoscenza e persino saggezza? Quali prerequisiti, che tipo di “coordinazione” sarebbe necessaria per produrre tale idillico super-organismo? A cosa dovremmo rinunciare? Forse ai conflitti interni che albergano nella nostra psiche? Al nostro io privato, abitato dall’intero spettro delle emozioni animali? In contrasto penso alle stradine del Monte degli Ulivi a Gerusalemme Est, il quartiere arabo in cui fu arrestato Cristo, animato, sporco, con i suoi rumori, le voci, gli odori inconsueti, caotico e creativo. Qual è il senso? Dove dirigersi? Nel capitolo Z di Finché la vittima non sarà nostra il personaggio non fugge da una società “organicamente violenta”. Al contrario, le forme tradizionali di violenza sono state espunte e il problema è risolto. Cos’è che non funziona? Perché si alza e va via?
APPENDICE A CURA DELLA REDAZIONE
Il genocidio in corso a Gaza e la violenza subita dalla popolazione palestinese negli ultimi due anni non sembrano avere fine. La promessa di pace, annunciata per gennaio 2025, è stata disattesa con il riavvio dei bombardamenti da parte di Israle questo 18 marzo. L’intervista di Toti O’Brien, realizzata a luglio 2024, è seguita da due domande della redazione di Almanacco, poste a marzo 2025. Alla luce dell’evoluzione drammatica degli eventi e dell’importanza del tema della violenza nell’opera di Dimitris Lyacos, ci è sembrato necessario riprendere la riflessione su quanto sta accadendo in questi territori.
Redazione. Posto il dominio della violenza. C’è, credi, una differenza nell’uso della violenza da parte dei vinti e dei vincitori? Sono diverse forme dello stesso tipo di violenza, o due violenze diverse? Pensiamo alla descrizione che fai della Biblioteca di Gerusalemme, dove la creatività è scomparsa, e non possiamo non pensare alla violenza che ora si svolge ai danni della vicina Gaza, laddove sembra che la violenza continui a mutare forma da decenni, al limite del mancato riconoscimento da parte di molti.
DL. È esattamente così. Gli inglesi, quando qualcosa costa troppo, sono soliti dire: It costs an arm and a leg, “costa un braccio e una gamba”. I ristoranti in Israele, specie a Tel Aviv, sono molto cari – “costano un braccio e una gamba”. Il confronto con la realtà infernale oggi ci porta a riconoscere che evidentemente un braccio e una gamba di una bambina di Gaza ci costano di meno. Infatti i ristoranti continuano a essere affollati, a Tel Aviv come da noi. In un certo senso la risposta a questa domanda è implicita in ciò che ho detto nell’intervista in merito alla violenza passiva. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si era posta la questione se i tedeschi conoscessero quello che succedeva nei campi di sterminio. C’è stato un dibattito. Qui non c’è nessun dibattito. Sappiamo tutti. E siamo tutti complici.
Redazione. Le atrocità che si stanno consumando in Palestina, in particolare a Gaza, sono causate dalla violenza fisica dei bombardamenti e della distruzione, come da una continua deprivazione dei diritti fondamentali, una violenza che perdura da molto prima degli eventi del 7 ottobre 2023. Questa realtà potrebbe essere interpretata come una forma di ‘violenza invisibile’, come quella che esplori nel tuo lavoro? E in che modo questa violenza si relaziona con l’attuale escalation del conflitto, che sembra non conoscere fine?
DL. Come ho detto, è una violenza del tutto visibile. Sappiamo tutti. Diventa invisibile in quanto la nostra passività la mette da parte, quando trasformiamo noi questa violenza in una forma di “noise” che accompagna le nostre vite, in maniera più o meno presente. La sofferenza è lì, ma ognuno di noi sceglie se e come integrarla nel sistema della propria vita personale. Mi viene in mente l’ultimo film di Aki Kaurismäki, Foglie al vento: in varie occasioni i due protagonisti, assillati dai propri problemi, si imbattono negli aggiornamenti dei bombardamenti su Mariupol’. Ascoltano per qualche secondo e poi cambiano la frequenza della radio, continuano la loro vita. Il film lascia aperta la domanda, non fa capire se questi problemi che vengono da lontano li riguardino in qualche modo. Il “noise” della sofferenza lontana diventa un rumore di fondo nelle loro vite. Poi vanno avanti. Sembra che tutti noi, ciascuno a suo modo, riusciamo a metabolizzare le atrocità se non ci riguardano personalmente, a immunizzarci da esse. Quando ci vengono vicine, allora è un’altra cosa. Il mio traduttore israeliano, Ioram Melcer, dopo aver terminato qualche mese fa la traduzione di Finché la vittima non sarà nostra, l’ha presentata a un importante editore israeliano. L’editore non ha apprezzato. “Il libro è molto violento” ha commentato (cosa, naturalmente, non vera). Succede purtroppo che siamo arrivati al punto in cui la rappresentazione della violenza disturba più della violenza stessa, perché tramite la sua rappresentazione la violenza non riesce più a rimanere invisibile o ignorata. E quando non si può più ignorare, non si riesce a mangiare con calma nel ristorante la sera, c’è qualcosa che disturba l’ordine desiderato, come ne Il fascino discreto della Borghesia di Buñuel.
Nota biografica
Dimitris Lyacos (Atene, 1966) è scrittore, poeta e drammaturgo. La trilogia Poena Damni, iniziata trent’anni fa e concepita come un eterno work in progress, è una delle opere più note e rispettate della letteratura europea contemporanea e lo ha reso uno degli autori più significativi del nostro tempo (inserito nel Who’s Who, il database che raccoglie le biografie delle persone più importanti in tutti i campi dell’attività umana). Rinomata per lo stile provocatorio e la combinazione innovatrice di elementi che provengono tanto dalla tradizione letteraria quanto dall’ambito della religione, della filosofia, dell’antropologia, l’opera di Lyacos riesamina il corpus narrativo del canone occidentale nel contesto di alcuni dei suoi motivi più duraturi, in particolare la violenza, la malattia mentale, la redenzione, il capro espiatorio, il ritorno dei morti. Completata nel corso di trent’anni, è stata tradotta in più di venti lingue e ha ispirato creazioni musicali, visive e teatrali. Alcuni capitoli tratti da Finché la vittima non sarà nostra – il “grado zero” della trilogia, che uscirà in anteprima mondiale in Italia a fine aprile per Il Saggiatore – sono stati recentemente pubblicati in inglese su alcune tra le più importanti riviste americane: «MAYDAY», «Image Journal», «River Styx» e «Chicago Review».
Toti O’Brien, nata a Roma e residente a Los Angeles dall’inizio degli anni ’90, è autrice di quattro raccolte di poesia e tre di prosa. Alter Alter, una raccolta di racconti, è stato pubblicato da Elyssar Press nel 2024. O’Brien collabora con riviste specializzate nei settori di arte, cultura e società. Traduce testi letterari dall’italiano, dallo spagnolo e dal francese.