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Il lato nascosto della violenza. Una conversazione con Dimitris Lyacos

a cura di Toti O’Brien.
Con un’appendice a cura della redazione di Almanacco.

Già apparsa in «The Common», 8 luglio 2024, con il titolo Violence and Its Other

Finché la vittima non sarà nostra di Dimitris Lyacos uscirà per Il Saggiatore il prossimo 29 aprile. Si tratta, secondo l’autore, di un “libro zero” da anteporre all’ormai celebre trilogia Poena Damni, che ha per protagonista un uomo in fuga ma non spiega da chi, da cosa, da dove stia scappando, omettendo di definire il passato, rivelando solo le cicatrici residue. Sarà il libro nuovo a tracciare una mappa dell’universo pre-fuga, il quale – come sorprendersi? – non è altro che la civiltà occidentale, di cui Lyacos ci fornisce sia uno scavo archeologico che una panoramica aerea (a partire dalle origini giudaico-cristiane, attraverso industrializzazione e capitalismo, fino alla digital-globale era presente).

Nonostante si stesse recando in Israele e in Cisgiordania quando gli ho proposto questa intervista, Lyacos ha accettato di svolgerla durante il viaggio. Gliene sono particolarmente grata.

Toti O’Brien:La società che evochi, alternando voci di leader e seguaci, vincitori e vinti, è intrisa di violenza concetto controverso, diversamente inteso a seconda dei punti di vista. Solo a partire dagli anni Sessanta, ad esempio, si è iniziato a discutere di violenza psicologica, di violenza istituzionale. A tali questioni sono stati dedicati fiumi d’inchiostro che non hanno inciso molto, però, sull’opinione comune. L’atto di rompere una vetrina durante una protesta è tuttora ritenuto più violento dei secoli d’abuso che ne sono la causa. Il tuo nuovo libro esplora la dialettica tra violenza visibile e violenza invisibile, tra aggressione fisica e manipolazione nascosta, nelle sue pieghe più intime. Secondo te, che cos’è la violenza se la si spoglia degli abiti di scena? Come la definisci dal tuo punto di vista?

Dimitris Lyacos: “Arrecare danno attraverso l’uso della forza” potrebbe essere una definizione adeguata. Tuttavia, sebbene la violenza sia in genere connessa alla forza fisica, quest’ultima non deve necessariamente esprimersi in forma attiva. Negligenza deliberata e omissione possono essere altrettanto nocive. Pensa al supplizio di Tantalo: era immerso in uno stagno da cui non poteva bere e l’albero che gli cresceva accanto sfuggiva alla presa quando tentava di raccoglierne i frutti. Non subiva alcun tipo di “forzatura”. La natura, al contrario, lo evitava, come fosse a conoscenza delle sue colpe. Questo esempio eccede l’ambito mitologico… Pensa a quanti divieti d’accesso incontrano individui e gruppi di classi subalterne nelle società attuali: i mega supermercati e i centri commerciali non sono certo fatti per i meno abbienti…  Possono risultare loro tanto inaccessibili quanto i grandi saloni dei castelli lo erano per i servi che lavoravano i campi. I nostri sistemi socioeconomici contemplano varie forme di esclusione, di cui la mancanza di accesso a prodotti e servizi è forse la più benigna.

L’esclusione, del resto, è espressione archetipica di violenza dai tempi della Bibbia: Dio non punisce corporalmente Caino per l’assassinio del fratello, ma lo “priva della sua presenza” condannandolo a quella Poena Damni (titolo della trilogia) che comporta la perdita della visione divina, dell’aiuto “paterno”, la caduta dalla grazia e il conseguente abbandono in un mondo ostile quello che un genitore impietoso farebbe a suo figlio. Tali forme di crudeltà non sono invenzioni umane. Le troviamo anche nel mondo animale. Ad esempio, tra i pesci gatto è stato osservato ostracismo verso gli esemplari albini, mentre Jane Goodall ha raccontato come gli scimpanzé evitino individui malati o estranei al gruppo. Ma il merito di elevare l’esclusione a metodo punitivo primario senz’altro ci appartiene. Per tornare a Finché la vittima non sarà nostra, esclusione e violenza fisica sono entrambe presenti dall’inizio. Quel che chiamo il frammento pre-iniziale descrive una scena cruenta. Il capitolo A, subito dopo, introduce espulsione ed esilio: la terra di Nod, in cui la violenza diventa un indispensabile mezzo di sopravvivenza.

T.O.: Stai esponendo temi essenziali che il tuo libro affronta in modo a volte velato e più spesso diretto. Tutti hanno radici nel passato, ma appartengono senza dubbio anche al nostro presente. La violenza-negligenza evoca inevitabilmente il problema dei residui tossici, che non nomini, eppure sfigurano in modo inequivocabile i paesaggi che descrivi nel libro. La violenza-deprivazione è oggi una forma di tortura legale: una delle scene più intense di Finché la vittima non sarà nostra si svolge in un carcere di massima sicurezza, offrendone uno squarcio indimenticabile. Mi ha colpito il fatto che il libro indichi l’espulsione come “castigo originale”: sembra che l’idea di casa e quella di esilio siano letteralmente nate insieme. La violenza che descrivi spesso consiste nel proibire alle vittime l’accesso a certi luoghi e nell’imporre loro la permanenza in altri, definendo dove hanno o non hanno il diritto di essere. Esodi, diaspore e genocidi derivano da tale principio, ma anche ghetti e prigioni, reali o virtuali.

Metaforicamente (i capitoli sono identificati dalle lettere dell’alfabeto) e non solo, il libro implica forme di collusione tra violenza e linguaggio. Le parole possono ampliare il campo d’azione della violenza e accelerare il suo progresso. L’abuso crea sempre le proprie narrative. Cosa ci puoi dire in proposito? In che modo il linguaggio serve la violenza?

D.L.: Il linguaggio è un sistema simbolico, uno dei tanti. Sono tutti connessi con la violenza? C’è violenza, ad esempio, nella logica, nella matematica? Forse no, a meno che un insegnante non ci forzi a impararle. In tal caso, però, l’imposizione emana dall’individuo, non dalla disciplina. Tuttavia dobbiamo accettare un tipo di coercizione interiore o esteriore per poter imparare, cioè per essere “formati”. Apprendere comporta un ordine esterno a cui aderire. Nell’allegoria della caverna Platone insiste sul fatto che liberarsi da pregiudizi e false credenze è un processo violento. Penso sia per questo che alcuni di noi non amano la scuola. Per apprendere qualsiasi cosa, linguaggio incluso, il soggetto deve obbedire alle regole, come direbbe Wittgenstein. La violenza in quest’ambito non presuppone aggressione, ovviamente, solo forza. Il soggetto è forzato a (o si sforza di) aderire a un sistema e alle norme che esso comporta.

Qui potresti obiettare: un momento, non hai detto che violenza è ciò che arreca danno? In che modo può nuocerci il fatto di assimilare una struttura simbolica e partecipare a un sistema?

Rousseau ti direbbe che un tempo eravamo nobili selvaggi e la civiltà ci ha corrotti. Il mio punto di vista è diverso: quando entriamo a far parte di un ordine, di un sistema, rinunciamo in suo favore alla nostra parcella, al nostro “diritto alla violenza”. Il sistema se ne impadronisce, riassegnandone l’uso secondo i propri intenti. Al suo interno la violenza è presente, ma astratta. Non le serve manifestarsi concretamente. È l’essenza stessa dello Stato: Κράτος in greco significa Forza/Potere, parola senza dubbio violenta, che ricorda il carattere omonimo nel Prometeo incatenato di Eschilo (il compagno di Βία, Violenza).

È possibile allora che la violenza abbia effetti positivi? Sì e no, direi. Nel corso delle sue camaleontiche metamorfosi che il libro in parte esplora può apparire innocua o nociva a seconda dei punti di vista. Mi chiedo se lo Stato, qualora avesse una coscienza, considererebbe dannoso il monopolio della violenza o se invece riterrebbe (polizia inclusa) che ordine e controllo siano salutari e provochino soltanto un male necessario. Eccoci al punto di partenza: i sistemi, anche quelli simbolici, sono inerentemente costrittivi. Plasmano, modellano, formano: esistono per questo.

T.O.: Quando parli di “assimilare” è immediato pensare al vissuto degli immigrati, per i quali aderire a nuove norme linguistiche è l’unico modo di capire cosa esige e cosa prescrive la cultura di arrivo. Solo assimilando le sue norme, infatti, si può sperare di essere a propria volta assimilati o almeno tollerati.

Il tuo libro sorprende il lettore per l’estrema versatilità espressiva. Coloro che rappresentano Κράτος, come ovvio, sono sistematici e logici nelle loro verbalizzazioni. Quelli che sono incatenati come Prometeo si esprimono altrimenti, attraverso monologhi onirici e frammentari che evocano indimenticabili diari della Shoah. Cosa ci puoi dire del loro linguaggio, delle loro voci?

D.L.: Sono appena tornato dal Museo Storico dell’Olocausto di Yad Vashem al mio alloggio nella zona Ovest di Gerusalemme. Le parole delle vittime, le loro testimonianze e i diari mi risuonano ancora nella testa. Storie di “dentisti” che estraggono denti ai morti prima che siano gettati nei forni, gente che ancora respira dopo essere stata gassata per venticinque minuti. Una donna anziana racconta di essere sopravvissuta, a sette anni, perché arrampicandosi su un muro di corpi è riuscita a uscire dal pozzo. Semplici e scarni resoconti fattuali, incapsulamenti rudimentali dell’orrore in un linguaggio che non ammette ulteriori approfondimenti. Non c’è tempo per elaborazioni linguistiche quando la tua massima aspirazione è quella di tenere a bada la fame in tali circostanze la retorica è irrilevante. È significativo invece che il termine “Shoah” sia emerso nella conversazione: nella Bibbia appare nel libro di Zephaniah che si ritiene abbia particolarmente influenzato l’inno cattolico medioevale Dies Irae – e da lì viene il senso di catastrofe che lo caratterizza. In Zephaniah è menzionato il “giorno di Dio”. All’inizio del primo capitolo la voce divina ripete tre volte: “Egli sterminerà, consumerà uomini e bestie”. Nel secondo capitolo c’è una profezia della distruzione di Gaza: Γάζα διηρπασμένη ἔσται.

Alla fine della mia visita a Yad Vashem sono passato dal guardaroba al piano seminterrato. C’erano zaini sul pavimento e, a fianco, fucili messi ad angolo retto per formare un quadrato, poi un altro quadrato sovrapposto, poi un altro. Una torre di un metro, geometrica e precisa. I soldati che come noi avevano visitato il museo, seguendo attentamente la guida attraverso le gallerie, sono entrati a riprenderli. Li ho guardati bene: ragazzi ebrei, una o due ragazze. Mi chiedo cosa resterà loro di questo incontro con la brutalità cieca della storia, cosa penseranno questi giovani armati delle mani stanche e disperate che hanno scarabocchiato vane parole come ultimo segno di speranza. Non lo so, ma credo che la violenza continuerà a perpetuare sé stessa. Credo che impariamo a fatica, a prescindere dal linguaggio in cui ci giunge la lezione.

T.O.: Il tuo libro sembra dirlo a voce alta… che il ciclo della violenza non ha fine. Lo pensi davvero? La “meno danneggiata” dei tuoi personaggi (la bambina che ha perso il padre) prega nella speranza di ritrovarlo, ma nessuno risponde. Alla fine del libro il protagonista contempla la fuga, ma non lo vediamo scappare, ancor meno arrivare in un luogo che possa chiamare “casa”. Dunque, anche se ribellione e resilienza sussistono, forse non prevarranno.

È questo che vuoi dire? Se invece interrompere il ciclo è un obiettivo possibile, dov’è l’anello debole della catena? Se il linguaggio non può aiutarci (ma davvero non può?) che alternativa abbiamo?

D.L.: Siamo studenti pigri del passato e la sofferenza ci scivola addosso, eppure siamo riusciti a limitare le forme convenzionali di violenza. All’inizio, i livelli statistici di violenza tra umani erano uguali a quelli che esistevano tra gli altri primati: 2%. Nel corso della storia sono diminuiti e oggi sono nettamente minori. Ciò è probabilmente dovuto all’avvento di nuove organizzazioni socio-politiche: negli odierni Stati-società la violenza letale è scesa quasi all’1%. Naturalmente questi numeri hanno un significato parziale. Riguardano soltanto gli omicidi. Dimostrano che, sebbene la nostra specie sia filogeneticamente predisposta alla violenza, la cultura però può in parte limitarne gli effetti. Con un po’ di ottimismo possiamo sperare che li annulli del tutto. Il problema è che la violenza si incarna subdolamente in forme sempre nuove, continua a trasformarsi e moltiplicarsi. Ma ammettiamo di riuscire ugualmente a controllarla: l’altro giorno ho avuto l’onore di essere invitato a un tour privato della nuova Biblioteca Nazionale di Israele. Un piacevole esempio di architettura minimalista-postmoderna, le curve dell’edificio si distendono a incontrare lo sguardo. L’interno è calmo e accogliente: silenzio, spessi tappeti, una colonna di luce con attorno una scala… La colonna ricorda quella che guidò Mosè nel deserto, la scala a spirale ascende verso il cielo. Al seminterrato, milioni di libri che i robot organizzano in perfetto silenzio. È questa la risposta? Il mondo trasformato in una simile biblioteca e noi, lettori calmi e pensosi, sensibili e profondi, collegati da onde di informazione, conoscenza e persino saggezza? Quali prerequisiti, che tipo di “coordinazione” sarebbe necessaria per produrre tale idillico super-organismo? A cosa dovremmo rinunciare? Forse ai conflitti interni che albergano nella nostra psiche? Al nostro io privato, abitato dall’intero spettro delle emozioni animali? In contrasto penso alle stradine del Monte degli Ulivi a Gerusalemme Est, il quartiere arabo in cui fu arrestato Cristo, animato, sporco, con i suoi rumori, le voci, gli odori inconsueti, caotico e creativo. Qual è il senso? Dove dirigersi? Nel capitolo Z di Finché la vittima non sarà nostra il personaggio non fugge da una società “organicamente violenta”. Al contrario, le forme tradizionali di violenza sono state espunte e il problema è risolto. Cos’è che non funziona? Perché si alza e va via?


APPENDICE A CURA DELLA REDAZIONE

Il genocidio in corso a Gaza e la violenza subita dalla popolazione palestinese negli ultimi due anni non sembrano avere fine. La promessa di pace, annunciata per gennaio 2025, è stata disattesa con il riavvio dei bombardamenti da parte di Israle questo 18 marzo. L’intervista di Toti O’Brien, realizzata a luglio 2024, è seguita da due domande della redazione di Almanacco, poste a marzo 2025. Alla luce dell’evoluzione drammatica degli eventi e dell’importanza del tema della violenza nell’opera di Dimitris Lyacos, ci è sembrato necessario riprendere la riflessione su quanto sta accadendo in questi territori.

Redazione. Posto il dominio della violenza. C’è, credi, una differenza nell’uso della violenza da parte dei vinti e dei vincitori? Sono diverse forme dello stesso tipo di violenza, o due violenze diverse? Pensiamo alla descrizione che fai della Biblioteca di Gerusalemme, dove la creatività è scomparsa, e non possiamo non pensare alla violenza che ora si svolge ai danni della vicina Gaza, laddove sembra che la violenza continui a mutare forma da decenni, al limite del mancato riconoscimento da parte di molti.

DL. È esattamente così. Gli inglesi, quando qualcosa costa troppo, sono soliti dire: It costs an arm and a leg, “costa un braccio e una gamba”. I ristoranti in Israele, specie a Tel Aviv, sono molto cari – “costano un braccio e una gamba”. Il confronto con la realtà infernale oggi ci porta a riconoscere che evidentemente un braccio e una gamba di una bambina di Gaza ci costano di meno. Infatti i ristoranti continuano a essere affollati, a Tel Aviv come da noi. In un certo senso la risposta a questa domanda è implicita in ciò che ho detto nell’intervista in merito alla violenza passiva. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si era posta la questione se i tedeschi conoscessero quello che succedeva nei campi di sterminio. C’è stato un dibattito. Qui non c’è nessun dibattito. Sappiamo tutti. E siamo tutti complici.

Redazione. Le atrocità che si stanno consumando in Palestina, in particolare a Gaza, sono causate dalla violenza fisica dei bombardamenti e della distruzione, come da una continua deprivazione dei diritti fondamentali, una violenza che perdura da molto prima degli eventi del 7 ottobre 2023. Questa realtà potrebbe essere interpretata come una forma di ‘violenza invisibile’, come quella che esplori nel tuo lavoro? E in che modo questa violenza si relaziona con l’attuale escalation del conflitto, che sembra non conoscere fine?

DL. Come ho detto, è una violenza del tutto visibile. Sappiamo tutti. Diventa invisibile in quanto la nostra passività la mette da parte, quando trasformiamo noi questa violenza in una forma di “noise” che accompagna le nostre vite, in maniera più o meno presente. La sofferenza è lì, ma ognuno di noi sceglie se e come integrarla nel sistema della propria vita personale. Mi viene in mente l’ultimo film di Aki Kaurismäki, Foglie al vento: in varie occasioni i due protagonisti, assillati dai propri problemi, si imbattono negli aggiornamenti dei bombardamenti su Mariupol’. Ascoltano per qualche secondo e poi cambiano la frequenza della radio, continuano la loro vita. Il film lascia aperta la domanda, non fa capire se questi problemi che vengono da lontano li riguardino in qualche modo. Il “noise” della sofferenza lontana diventa un rumore di fondo nelle loro vite. Poi vanno avanti. Sembra che tutti noi, ciascuno a suo modo, riusciamo a metabolizzare le atrocità se non ci riguardano personalmente, a immunizzarci da esse. Quando ci vengono vicine, allora è un’altra cosa. Il mio traduttore israeliano, Ioram Melcer, dopo aver terminato qualche mese fa la traduzione di Finché la vittima non sarà nostra, l’ha presentata a un importante editore israeliano. L’editore non ha apprezzato. “Il libro è molto violento” ha commentato (cosa, naturalmente, non vera). Succede purtroppo che siamo arrivati al punto in cui la rappresentazione della violenza disturba più della violenza stessa, perché tramite la sua rappresentazione la violenza non riesce più a rimanere invisibile o ignorata. E quando non si può più ignorare, non si riesce a mangiare con calma nel ristorante la sera, c’è qualcosa che disturba l’ordine desiderato, come ne Il fascino discreto della Borghesia di Buñuel.


Nota biografica

Dimitris Lyacos (Atene, 1966) è scrittore, poeta e drammaturgo. La trilogia Poena Damni, iniziata trent’anni fa e concepita come un eterno work in progress, è una delle opere più note e rispettate della letteratura europea contemporanea e lo ha reso uno degli autori più significativi del nostro tempo (inserito nel Who’s Who, il database che raccoglie le biografie delle persone più importanti in tutti i campi dell’attività umana). Rinomata per lo stile provocatorio e la combinazione innovatrice di elementi che provengono tanto dalla tradizione letteraria quanto dall’ambito della religione, della filosofia, dell’antropologia, l’opera di Lyacos riesamina il corpus narrativo del canone occidentale nel contesto di alcuni dei suoi motivi più duraturi, in particolare la violenza, la malattia mentale, la redenzione, il capro espiatorio, il ritorno dei morti. Completata nel corso di trent’anni, è stata tradotta in più di venti lingue e ha ispirato creazioni musicali, visive e teatrali. Alcuni capitoli tratti da Finché la vittima non sarà nostra – il “grado zero” della trilogia, che uscirà in anteprima mondiale in Italia a fine aprile per Il Saggiatore – sono stati recentemente pubblicati in inglese su alcune tra le più importanti riviste americane: «MAYDAY», «Image Journal», «River Styx» e «Chicago Review».

Toti O’Brien, nata a Roma e residente a Los Angeles dall’inizio degli anni ’90, è autrice di quattro raccolte di poesia e tre di prosa.  Alter Alter, una raccolta di racconti, è stato pubblicato  da Elyssar Press nel 2024. O’Brien collabora con riviste specializzate nei settori di arte, cultura e società. Traduce testi letterari dall’italiano, dallo spagnolo e dal francese.

“Una margherita sboccia nel campo del Merz”: Cinque poesie di Margret Kreidl

Introduzione e traduzioni a cura di Marta Maria Ricci

Nata a Salisburgo, Margret Kreidl vive a Vienna dal ’96. È autrice di poesia e prosa, scrive per la radio e per il teatro. Ha collaborato con il collettivo “Rhizom”, con numerosi scrittor*, artist*, musicist*, e alla creazione di installazioni in spazi pubblici. Dal 2015 insegna presso il Max Reinhardt Seminar di Vienna.

Kreidl ha partecipato a residenze d’artista in Germania, Serbia e Svizzera ed è stata visiting professor negli Stati Uniti; ha ricevuto numerosi premi e sovvenzioni per il suo lavoro, tra cui l’Elias-Canetti-Stipendium della città di Vienna (2016-17), il Robert-Musil-Stipendium (2017), l’Outstanding Artist Award per la letteratura della Cancelleria federale (2018), il premio per la letteratura della città di Vienna (2021) e nel 2024 il premio H. C. – Artmann.

I testi presentati qui di seguito sono tutti inclusi in Mehr Frauen als Antworten. Gedichte mit Fußnoten [Più donne che risposte. Poesie con note a piè di pagina], la più recente raccolta poetica dell’autrice, pubblicata nel 2023 con Edition Korrespondenzen (Vienna).

Il titolo del libro ricalca il modo di dire, che è poi un confronto quantitativo, “mehr Fragen als Antworten”, l’equivalente tedesco letterale dell’italiano “più domande che risposte”. Un intervento minimo – la sostituzione di una sola lettera – cambia tutto, e “Fragen” diventa “Frauen”, donne. Ed è così che molti testi poetici della raccolta sembrano procedere: per assonanze, consonanze, somiglianze foniche e scarti semantici. Quello che Kreidl instaura con la lingua è rapporto giocoso, dinamico. Le poesie sono vivaci, sembrano avere un carattere mobile, una flessibilità, e sono spesso imprevedibili; da una riga all’altra le immagini volgono nel surreale, gli accostamenti sono inattesi, eppure a chi legge sembrerà di capire, stupendosi.

Sicuramente inconfondibile è il tono delle poesie, l’acume, il Witz. L’essenzialità e la concisione dei testi, asciutti, limpidi, diretti, la massima condensazione semantica, la scelta di lessico che si direbbe semplice, comune, sono cifre stilistiche che strutturano la raccolta, la quale è piuttosto una composizione coerente e coesa, con un suo sviluppo; da raccordo alcuni motivi e colori risuonano in contesti diversi, creando una rete di connessioni, paralleli, variazioni e contrasti.

Caratterizza inoltre Mehr Frauen als Antworten una certa varietà tematica. Una molteplicità di esperienze umane trova voce nei versi e li informa: un sogno, un ricordo, un fatto di cronaca, una notizia di attualità, una cartolina, un incontro, un onomastico, una foglia, tante letture e immagini. Tra le pagine compaiono sia uomini che donne: Lucia Joyce, ma anche Silvio Berlusconi. Così Kreidl ci mostra che tutto può essere materiale poetico, tutto può essere filtrato e trasfigurato, mutarsi e addensarsi in un bel pezzetto d’oro; che la poesia è qualcosa di vicino, accessibile, reale, che viene dalle frequentazioni della vita, anche quotidiana – e che è una pratica, ed è normale che come tutti gli artisti pure i poeti abbiano i loro “materiali”: ex nihilo nihil fit.

Una particolarità di questa raccolta poetica è la presenza di quelle che l’autrice nel sottotitolo identifica come note a piè di pagina, una per ogni testo. Non numerate e nello stesso carattere e dimensione delle poesie, non sono, com’è consuetudine nella letteratura scientifica, una parte esterna, disgiunta dal testo, in cui si indicano fonti, si forniscono informazioni aggiuntive, ulteriori riferimenti d’approfondimento e spiegazioni. Le note assolvono qui solo in parte queste funzioni, e sono a tutti gli effetti parte integrante dei testi poetici: vi sono menzionati scrittori e artisti, titoli di libri, articoli di giornale, opere d’arte; si possono intendere come commenti a posteriori, ripensamenti ironici che testimoniano anche l’umorismo ricco di sfumature di Kreidl, o sono postille, frasi a chiosa della poesia che seguono, talvolta indizi sulla scintilla dell’ispirazione, la scaturigine di un’immagine, rivelando così segreti del processo creativo; a volte “localizzano” il testo, lo inseriscono in un contesto… Si può scegliere di leggerle o no, leggerle subito o alla fine, andare a verificare ogni riferimento, interrogarsi su possibili nessi. Certo è che questo libro consente al lettore di esercitare la sua mitschöpferische Tätigkeit (attività co-creativa), come la chiamava Ingarden – lettore dal cui contributo attivo dipende la costruzione del significato. Le note a piè di pagina in definitiva tengono aperto lo spazio della poesia affinché si possa leggere ulteriormente, cercare, interpretare, incuriosirsi, ragionare – intento chiaro anche nel titolo, che, è vero, esclude la parola “domande” ma non intende indebolirle, al contrario lasciarle aperte, suggerire che c’è sempre qualcosa che eccede le risposte.


Der Sänger singt von einem Bett im Gras

und einem weißen weißen Arsch.

Der Mond ist gelb, der Klee schmeckt süß.

Der Sänger spielt mit Hand und Füßen:

Für eine Dame braucht man mehr als

einen Schlüssel. Ein Ring aus Glas, ein Kranz

aus Margeriten, Duft von Lindenblüten,

ein Lied mit Reimen, Mond und Arsch in einer Zeile.

Minne hat keinen Sinn, in der blauen Stunde

ist die Dame grün, sagt Walther von der Vogelweide,

die Halme blühn, das Wasser rinnt, die Fische

schwimmen im Gras. Hier ist mein Lied zu Ende,

der Sänger lacht, ich habe von der Welt getrunken,

schön wars, du bist als nächster dran,

ich steig jetzt in den Brunnen.

Cantarai d’aquestz trobadors

sang von den tolpatzen troubadouren

Peire D’Alvernhe, Uljana Wolf, Schreibheft 89/2017.

Il cantore canta di un letto nell’erba

e di un culo bianco bianco.

La luna è gialla, dolce il sapore del trifoglio.

Il cantore suona con piedi e mani:

per una signora non bastano

le chiavi. Un anello di vetro, una corona

di margherite, profumo di fiori di tiglio,

una canzone in rima, luna e culo sulla stessa riga.

L’amor cortese non ha senso, nell’ora azzurra

la signora è verde, dice Walther von der Vogelweide,

gli steli crescono, l’acqua scorre, i pesci

nuotano nell’erba. Qui finisce la mia canzone,

ride il cantore, ho bevuto dal mondo,

è stato bello, tu sei il prossimo,

adesso entro nel pozzo.

   

Cantarai d’aquestz trobadors

sang von den tolpatzen troubadouren

Peire D’Alvernhe, Uljana Wolf, Schreibheft 89/2017.

Gestern habe ich um dein Gesicht getrauert –

was für ein Charakter!

Heute hast du ein anderes Gesicht.

Es ist also wahr:

Das Gesicht von gestern steigt in den Himmel auf.

Ein heller Moment:

Die Wolken reißen ein Loch ins Gesicht.

Wolkenlicht,

Lichtbüschel,

Büschelentladung:

Das Gesicht ist wolkig aufgewühlt,

durchlichtet.

Bertolt Brecht, Erinnerung an die Marie A., 1920.

Ieri ero tanto afflitta per il tuo viso –

straordinario!

Oggi hai un altro viso.

E allora è vero:

il viso di ieri se ne va in cielo.

Un momento terso:

Le nuvole ti strappano un buco sul viso.

Luce fosca,

lampi di luce,

scarica di lampi:

il viso inquieto, annuvolato

traluce.

Bertolt Brecht, Ricordo di Marie A., 1920.

Eine Margerite blüht im Merzrevier,

ich liebe dir und du liebst mir,

du heißt Hase, ich heiße Schatz,

wir nehmen auf der Wiese Platz,

die Sonne tropft ins grüne Gras,

zehn gelbe Tropfen und einer ist elf,

gelb ist die Farbe deines Fells,

dein Name schmeckt nach Karamell,

du süßes heißes Tier, vergiss dich und die

rührenden, weiblichen, die reinen,

die einsilbigen und die unreinen Reime,

du bist mir einer und ich bin deine

von vorne und von hinten,

oben, unten, ohne Titel, hier:

deine Margarete blüht im Merzrevier.

Kurt Schwitters, Ohne Titel (Sich öffnende Blüte), Gips bemalt, 1942/1945.

Una margherita sboccia nel campo del Merz,

io amo a te e tu ami a me,

tu sei lepre, io sono tesoro,

ci sediamo sul manto erboso,

il sole gocciola sul prato verde,

dieci gocce gialle e una fanno undici,

giallo è il colore del tuo vello,

il tuo nome sa di caramello,

tu dolce bestia calda, dimentica te stessa e le

rime toccanti, femminili, quelle pure,

le rime monosillabe e quelle impure,

per me tu sei il solo e io sono tua

da davanti e da dietro,

sopra, sotto, senza titolo, qui:

la tua margherita sboccia nel campo del Merz.

Kurt Schwitters, Senza titolo (Fiore che sboccia), gesso dipinto, 1942/1945.

Ich erinnere mich an das Licht

zwischen den Bäumen. Der Wind

ist der Wind in meinen Haaren.

Ich weiß, dass ich ein Gesicht habe.

Ich rede mit meiner linken Hand.

Eine Antwort bleibt aus.

Ich reite auf einem Schaf durch das Haus.

Ein Haus kommt zum andern.

Ich zähle mich in das Wir hinein.

Wir spielen das lange Spiel.

Es ist sieben Uhr früh.

Ich bin mit meinem Mund allein.

Augusta Laar, MITTEILUNGEN GEGEN DEN SCHLAF. Träume, Lieder, Skizzen, 2021.

Mi ricordo la luce

tra gli alberi. Il vento

è il vento tra i miei capelli.

So di avere un volto.

Parlo con la mano sinistra.

Nessuna risposta.

Cavalco una pecora per la casa.

Una casa va incontro all’altra.

Mi considero parte del “noi”.

Giochiamo al gioco lungo.

Le sette di mattina.

Sono sola con la mia bocca.

Augusta Laar, MITTEILUNGEN GEGEN DEN SCHLAF. Träume, Lieder, Skizzen, [COMUNICAZIONI CONTRO IL SONNO. Sogni, canzoni, schizzi], 2021.

Er nannte mich eine Landschaft,

es fehlte das Wort Asphalt,

wir tanzten auf einer Ansichtskarte,

bis es hell wurde. Die Luft war blau,

als er sagte: Rehbraune Augen

hat mein Schatz. Ich habe seinen

Namen vergessen. Es war Sommer.

Das Schwimmbad war eine Baustelle.

Ich musste den Kran zusammenfalten.

Eine Ansichtskarte von Thalgau mit Naturschwimmbad, Kirche und Trachtenmusikkapelle.

Diceva che ero un paesaggio,

mancava la parola asfalto,

danzammo su una cartolina,

finché non fu giorno. L’aria era blu

quando disse: occhi di cerbiatto

ha il mio tesoro. Ho dimenticato

il suo nome. Era estate.

La piscina era un cantiere.

Ho dovuto smontare la gru.

Una cartolina di Thalgau con piscina naturale, chiesa e banda musicale tradizionale.

Frontiere

editoriale a cura di Riccardo Innocenti.

Frontiere è una rubrica mensile a cura di Francesco Brancati, Riccardo Innocenti e Riccardo Socci che raccoglierà interventi scritti da poet3 che sono stat3 invitat3 a riflettere sulla loro opera in relazione all’orizzonte delle scritture contemporanee. I contributi si concentreranno su questioni formali e teoriche come: libro-progetto e raccolta; prosa e versi; cut up e riscrittura; poesia e fotografia; la vergogna della poesia; lirica e transfemminismo; espressivismo e saggismo; ecfrasi; poesia e pedagogia. Sono argomenti noti e noi non ci poniamo l’obiettivo di esaurirli, vogliamo invece proporre uno spazio in cui ragionare sulle forme che diamo ai nostri testi e sulle poetiche che motivano le nostre scelte.

La poesia tende all’ autoreferenzialità e allo specialismo, fatto che assumiamo senza autoindulgenza e senza arrampicamenti retorici e ipocriti. Non ci interessa capire come continuare a ri-funzionalizzare la poesia per renderla un mero veicolo di ‘pensierini’ o dell’azione politica. Rivendichiamo invece il nostro interesse per la letteratura come fatto estetico che non necessita di essere legittimato dalla sua spendibilità sociale. 

L3 poet3 affronteranno quindi le problematiche della scrittura di oggi in riferimento alla propria opera e a quella altrui. Abbiamo richiesto delle riflessioni critiche spontanee e libere, sicuri della possibilità di arricchimento che può derivare da un confronto su temi troppo spesso oggetto di discorsi retorici e riti esausti.

Pensiamo che la dimensione politica, esistenziale, speculativa  della scrittura debba essere sostanziata da un ricerca sulle forme e siamo convinti che la migliore poesia sia sempre accompagnata dal tentativo di rispondere a problemi formali e teorici. Per questi motivi abbiamo concepito la rubrica Frontiere come un laboratorio che offra una riflessione collettiva su ciò che facciamo in quanto poet3: scrivere.

La riflessione sui fenomeni che interessano la scrittura e il gesto che la produce deve per forza di cose tenere in considerazione il contesto in cui questa nasce, non perché sia doveroso ma perché non può fare altrimenti. Non vogliamo quindi ripudiare tutto ciò che sta fuori dal testo e che comunque è spesso oggetto di rubriche valide e riflessioni che apprezziamo.

Tuttavia è ormai evidente che il discorso ‘critico’ proposto dalle riviste online,  dalle presentazioni o dai semplici post sulle piattaforme social, si sia spostato dalla lettera al concetto. Le opinioni che stanno dietro al testo sembrano giustificare la sua esistenza più che motivarlo. Un fenomeno che, amplificato dalle possibilità autofittive dei social, comporta in poesia la riproposizione di pose istrioniche che speravamo di esserci lasciate alle spalle. La speranza è che, fuori dall’occhio di bue sotto il quale qualcuno si contende a colpi di virtue signaling le briciole di quel che resta di una civiltà letteraria, si possa discorrere più liberamente.

Chi progetta una rubrica pensa anche a un pubblico al quale rivolgersi. Ci immaginiamo di dialogare con un pubblico potenzialmente indifferenziato, ovviamente quello delle persone interessate alla poesia. Vorremmo dare a questa rubrica un taglio personale, procedendo secondo il nostro gusto e senza avanzare pretese universalistiche che difficilmente riusciremmo a rispettare.

Chi non è alle prime armi ha imparato che in un contesto di produzione ristretta come quello della poesia solitamente si ragiona secondo un criterio ‘amichettistico’, il quale garantisce la pace e il fluire di legittimazioni reciproche. Questo equilibrio frutta solo recensioni lodevoli o innocue, perché colpiscono una persona morta alla poesia (leggi: Franco Arminio) o una fazione notoriamente avversa. Noi proveremo a privilegiare i nostri gusti e le nostre idiosincrasie, prendendoci la libertà di coinvolgere persone che secondo noi hanno qualcosa di interessante da dire. Cercheremo di scoraggiare discorsi che evitano di affrontare onestamente il lavoro della scrittura, stimolando invece riflessioni sui compromessi che quotidianamente dobbiamo fronteggiare.

Scrivere significa mediare fra ciò che ci viene naturale, ciò a cui puntiamo idealmente e quello che il nostro pubblico può accettare. Possiamo gestire questo compito con più leggerezza grazie alla legittimazione di chi occupa una posizione forte nel campo letterario, oppure percorrendo una strada sicura, aperta e battuta da altr3 prima di noi. La collaborazione e la stima disinteressata di un gruppo di pari, invece, permette di avanzare nell’orizzonte, comprendendo verso quali frontiere conducono le vie che stiamo percorrendo e quali strade ci sono ancora precluse.

Gli amori emarginati: un’antologia poetica di Pino Pograjc

Introduzione e traduzioni a cura di Giorgia Maurovich

Pino Pograjc (1997, Lubiana) si è laureato in inglese e letterature comparate presso l’Università di Ljubljana. È cresciuto a Kamnik, dove ha letto per la prima volta le sue poesie davanti a un pubblico in occasione di gare di slam poetry, vincendo diverse volte.

Nel 2022 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, Trgetanje (unione dei termini trganje, strappo, e drgetanje, brivido), per cui ha vinto il premio per il miglior esordio letterario al 38° Salone del Libro sloveno. Nel 2024 è uscita la sua seconda raccolta, Trepete (anch’esso un gioco di parole con trepetaje, trepidazione, e repete, bis, a richiamare per assonanza il titolo dell’opera prima) con la quale si è aggiudicato il premio Mlado pero.

Nella sua poesia Pograjc si concentra sulle sfaccettature della sua identità e delle sue esperienze con approccio confessionale e diaristico: scrive della sua sessualità, della sua diagnosi di schizofrenia paranoide, dell’essere figlio di un padre alcolizzato e di una madre sopravvissuta al cancro. La sua poetica è attenta alla creazione di circostanze in cui predomina l’intento di immedesimazione, che restituisce al lettore uno spaccato di quotidianità di categorie spesso rimosse dal discorso pubblico, come i malati o i pazienti psichiatrici, o a cui sono stati preclusi accesso e compartecipazione all’immaginario letterario.

Troviamo così versi che raccontano, con enfasi sull’elemento dialogico-narrativo, più che su quello visivo, l’infanzia e l’adolescenza nella cittadina di Kamnik, la complessa situazione familiare, che rispecchia una realtà sottaciuta ma condivisa da gran parte della sua generazione, i resoconti crudi e al contempo teneri dei ricoveri in reparto, dove alla freddezza e alla violenza del personale ospedaliero Pograjc oppone la trasparenza della sua volontà testimoniale e l’empatia dei rapporti intessuti con i degenti; infine, l’educazione sentimentale e sessuale in un contesto rurale, in cui l’esistenza di un tipo diverso di mascolinità stride con le aspettative e le consuetudini sociali.

L’io lirico opera allora su due fronti: quello della narrazione, a restituire la fedeltà della sua esperienza nel modo più rarefatto e attento alle emozioni possibile, ricorrendo anche a immagini scabrose a spregio di ogni politica del decoro; e quello della lingua, sempre più sperimentale nell’inserimento di incisi, apostrofi, allitterazioni e scomposizione delle parole in sillabe e assonanze frammentarie, elemento ormai di punta nelle raccolte e nei testi successivi all’esordio, che consolidano la posizione di Pograjc sulla scena letteraria come una delle figure di spicco della letteratura queer.

È grazie al lavoro portato avanti negli scorsi decenni da nomi preminenti come Brane Mozetič, Nataša Velikonja e Suzana Tratnik che è stato possibile ritagliare uno spazio per la produzione letteraria queer sulla scena slovena. Alla casa editrice ŠKUC e alle sue collane Vizibilija e Lambda, che vantano una tradizione pluridecennale di editoria queer slovena di vario genere, si stanno affiancando case editrici più piccole, come l’indipendente Črna skrinjica, che nell’ultimo anno ha pubblicato tre raccolte di poeti queer sloveni, due delle quali esordienti.

Non mancano tuttavia critiche soprattutto da nomi autorevoli della vecchia guardia, che lamentano pubblicamente la premiazione delle opere queer slovene o l’esistenza di consigli di lettura sulle “migliori opere queer slovene” nei principali mezzi d’informazione, e che mettono in guardia i lettori dal declino della “scrittura slovena forte e maschile” per il timore che il paese si trasformi in “una nazione di poetesse vulnerabili”.

Le poesie qui tradotte sono tratte dalla raccolta Trgetanje (ed. Črna skrinjica, 2022).

bratstvo

moj brat študira ekonomijo
in analitično pristopa
k problemom sveta

tonina je volil, ker
koga bi pa on zajebal?
samo poglej njegov fris

ko kupi bejzbolski kij,
ga vprašam, zakaj,
in pojasni mi
včasih je treba koga zjebat

ko ga vprašam,
zakaj ne objavlja slik
na socialnih omrežjih
in nikomur ničesar ne lajka
mi obrazloži
treba je ohranjat misterij

ko ga vprašam,
zakaj v nahrbtniku za šolo
nosi uteži,
me razsvetli
treba je bit lep

star je bil 12 let,
ko sem mu želel povedati,
da imam rad moške
cel teden sem si pulil lase,
goltal bruhanje
in pripravljal govor

na morju sem ga posedel za mizo,
začel s tem, da želim,
da nekaj izve od mene,
ne od drugih

prekinil me je
si gej, ane?
in me objel,
medtem ko so solze tekle
po mojih licih

fratellanza

mio fratello studia economia
e ha un approccio analitico
ai problemi del mondo

ha votato per tonin, perché
a chi mai lo metterebbe in culo uno così?
basta guardarlo in faccia, dai

quando compra una mazza da baseball
gli chiedo perché,
e mi spiega
ogni tanto a qualcuno bisogna metterlo nel culo

quando gli chiedo
perché non pubblica foto
sui social network
e non mette like a niente e a nessuno
mi illustra
bisogna mantenere un alone di mistero

e quando gli chiedo
perché nello zaino di scuola
si porta dei manubri,
mi illumina
bisogna essere belli

aveva 12 anni,
quando decisi di dirgli
che mi piacciono gli uomini

mi strappai i capelli per una settimana,
trattenendo il vomito
e preparandomi un discorso

lo portai a un tavolo davanti al mare,
esordii dicendo che volevo
lo venisse a sapere da me,
non da altri

mi interruppe
sei gay, vero?
e mi abbracciò,
mentre sulle mie guance
scorrevano le lacrime

enkrat

dovolj sem pijan,
da ga ljubim,
zato greva med grmovje,
ki raste iz betona

vodim ga za roko,
v temi se je lahko izgubiti,
skejterji pogledujejo,
zavohajo, da sva začasna

poročil bi se z njegovimi prsti,
močnimi, razbeljenimi
jutri ga bom blokiral

odpenjanje gumbov je razodetje,
na kolenih nastajata stigmati
jutri se bom sovražil

pogledam v uretro
in vidim
najinega otroka

una volta

sono abbastanza ubriaco
da far l’amore con lui,
così avanziamo tra gli arbusti
che crescono dal cemento
lo porto per mano,
al buio è facile smarrirsi,
gli skater ci osservano,
lo avvertono, che siamo qui solo per poco

sposerei quelle sue dita,
forti, bianche e calde,
domani lo bloccherò

sbottonarlo è una rivelazione
sulle ginocchia si formano le stigmate
domani mi detesterò
gli guardo nell’uretra
e vedo
il nostro bambino

samonadzor

zjutraj ti lahko natočim mleko
in njemu skuham kavo,
še nisi slišal?
nekateri imajo ljubezni na pretek

lahko delim
(kar je ostalo od moje)
lupine zaužitega sadja

hrani prostor zame

njegova koža je tapeta,
tvoje kosti so temelji
hiše, ki bi jo udomačili

nič takega

ponoči se lahko stisnem med vaju,
brez odeje, ki bi me pokrila,
natančno na sredino

autocontrollo

al mattino posso versare il latte a te
e preparare il caffè a lui
non lo sapevi?
c’è chi ha fin troppo amore da dare
posso spartire
(quel che resta del mio)
la scorza di un frutto già mangiato

fai spazio anche a me

la sua pelle è carta da parati
le tue ossa le fondamenta
di una casa che vorrebbero domare

niente di che

la notte posso stringermi tra voi due,
senza una trapunta che mi copra,
proprio nel mezzo

več

bil si edini,
ki je tako tiho zdrobil svet

vsak teden se na novo zaljubim
ista šivanka
prebada gumb,
plete obsedenosti,
ovija me v plin

voham testosteron
in oči pokažejo belo

začelo se je v osnovni šoli

sedel je zraven mene
pri treh predmetih,
vsak dan mi je bolj bílo srce
ponoči sem sanjal, da svoje telo pustim
v postelji
in poletim do njegovega okna
le da ga vidim

nekega poletja sva se
malo zadeta
sprehajala
po kamniških gričih

nasmehnil sem se vsaki njegovi besedi

obljubil mi je,
da mi pokaže shotgun,
izdihne dim
v moja usta

ko sva prišla na samo,
nama je že zmanjkalo trave
in ostala je zgolj obljuba

prva obsesija je popustila
zelo počasi,
uvedla cikle hrepenenja
z različnimi igralci

moje male psihoze

di più

sei stato l’unico
a farmi a pezzi il mondo senza fare rumore

ogni settimana mi innamoro da capo
sempre la stessa sarta
che mi cuce il bottone,
le maglie dell’ossessione,
mi avvolge nel vapore

sento l’odore del testosterone
e gli occhi già mostrano il bianco

iniziò alle elementari

sedeva accanto a me
in tre materie,
il cuore mi batteva ogni giorno più forte
la notte sognavo di abbandonare
il corpo
il letto
e di volare alla sua finestra
soltanto per vederlo

era estate, eravamo
un po’ fatti
camminavamo
per le colline di kamnik

ridevo a ogni sua parola

mi promise
di mostrarmi il suo shotgun,
di esalarne il fumo
nella mia bocca

arrivammo a un luogo isolato
quando l’erba era già finita
e ci era rimasta solo la promessa

la prima ossessione si allentò
poco per volta,
inaugurando cicli di desiderio
con gli attori più diversi

le mie piccole psicosi

Il vociare tartassante che plasma lui le cose. Il rapporto tra finzione e realtà tra il Mostro di Firenze e la scomparsa di Wilma Montesi. 

Intervista a Silvia Cassioli a cura di Giovanni Peparello.

La prima volta che ho sentito parlare del Mostro di Firenze è stato grazie a quello spezzone di processo che gira su YouTube, in cui l’imputato Pacciani e il giudice della Corte d’assise si scambiano battute con perfetti tempi comici. “Se ni monno esistesse un po’ di bene – recita la poesiola di Pacciani – e ognun si considerasse suo fratello / ci sarebbe meno pensieri e meno pene / e il mondo ne sarebbe assai più bello…”. Il giudice lo interrompe: “Bravo, bravo. Noi condividiamo. Ma ora siamo davanti alla Corte d’assise e lei è imputato di sedici omicidi”.

 Con gli amici alle medie continuavamo a guardare i video del processo, ossessionati da questo gruppo di assassini che parlavano e si comportavano come il mi’ nonno e la mi’ nonna, ma sbudellavano l’òmini come il mi’ nonno scannava ‘l maiale. A questa storia orribile si aggiungeva il fascino del complotto: com’è possibile che questi contadinotti avessero compiuto indisturbati sedici omicidi? C’era qualcuno dietro? Li avevano accusati ingiustamente per coprire qualcun altro? Ipotesi e illazioni: di questo è fatto il mistero del Mostro di Firenze. Così per anni ho continuato a informarmi su Wikipedia e su YouTube, senza avere il coraggio di affrontare i libroni dei “mostrologi” – come li chiama Silvia Cassioli – cioè coloro che studiano il Mostro e le sue dinamiche processuali, producendo caterve di teorie. Di tutte queste teorie, alla fine le poesiole del Pacciani mi sembravano l’unica cosa reale. 

Finché non è arrivato Il Capro di Silvia Cassioli. Uscito nel 2022 per Il Saggiatore, il libro racconta la storia del Mostro di Firenze da una prospettiva onnicomprensiva, gaddiana: nel romanzo c’è tutto, con un registro linguistico capace di passare dal dialetto all’italiano macchinoso dei questori. Così leggiamo che “l’òmini nel giorno del Signore son cacciatori e trombatori. Se non fosse che l’è attaccata, s’impaglierebbero anche qualche fiha, di modo che unne scappi”. E poi, subito dopo, sentiamo dire che il Mostro è “soltanto il povero schiavo di un incubo di tanti anni fa”. Le ipotesi surreali seguono gli atti del processo, con una piena consapevolezza del lato comico della vicenda. 

Al Capro è seguito Wilma (Il Saggiatore, 2024) che racconta l’indagine sulla morte della giovane Wilma Montesi, il cui cadavere fu trovato nell’aprile del 1953 sulla spiaggia di Torvajanica, vicino Roma. In un collage di frammenti contraddittori, seguiamo prima il ritrovamento del cadavere, poi l’indagine “che scuote l’Italia”, arrivando a lambire “i palazzi del potere”. Ma ogni cosa è confusa fin dal principio: già nella prima pagina, il cadavere viene trovato da un muratore che sta mangiando un panino; poi quel muratore, in realtà, stava facendo jogging; poi no, scusate: stava andando al lavoro in bicicletta; anzi no, aspettate, mi correggo: stava aspettando l’arrivo del capomastro. Ciò che accomuna Il Capro e Wilma, insomma, non è soltanto la cronaca nera più eclatante, ma anche l’idea della Verità come un concetto irraggiungibile. Durante l’indagine, è come se il velo del chiacchiericcio giudiziario nascondesse un velo più grande, il velo del mondo, e dietro questo velo si acquattasse il Male assoluto, insaziabile, irraggiungibile come la Verità stessa. Qui ho intervistato Silvia Cassioli, per chiederle da dove nascono questi due romanzi e l’idea di letteratura che li sostiene.


Giovanni Peparello: Uno degli aspetti interessanti della tua scrittura è che racconta contemporaneamente il crimine, il contesto e le persone che vi partecipano, arrivando a considerare ogni aspetto della realtà, senza per questo giungere alla verità – che sia giudiziaria, storica o personale. C’è qualche opera da cui hai preso ispirazione in particolare?

Silvia Cassioli: Forse alla radice di questo c’è un’ostinazione nevrotica a dire tutto, a non passare sopra a niente. E quindi il racconto collassa, si tira dentro quello che trova: crimine, contesto, diretti interessati e indiretti interessati. È come se qualcuno mi avesse detto “guarda che non si può raccontare tutto” e per reazione mi fossi fissata a raccontare tutto invece, da tutti i punti di vista, con l’idea di esaurire la faccenda in modo che non se ne parli più. Ostinazione, rigidità. Vedi che il salto al comico è un attimo. E qui la prima cosa che mi viene in mente è Vita e opinioni di Tristram Shandy, non c’è Wilma senza Laurence Sterne, quel tipo di discorso viene direttamente da lì, dalla versione inceppata e idiosincratica delle Mille e una notte. Nel mio caso muovo da un’indagine giudiziaria, ma la deriva parossistica è simile. Quell’intestardimento sulle cose secondarie, a sviscerarle bene, quell’aggrapparsi alle parentesi mentre sei in caduta libera…

G. P.: Hai dichiarato di aver scelto il titolo Il Capro per “dare l’idea collegiale del male, qualcosa che rimanda a una entità diabolica dove si passa di continuo dal presunto colpevole a un altro presunto colpevole, come se la colpa fosse diffusa in un mondo patriarcale violento”. Anche la vicenda di Wilma Montesi ha a che fare con un male collegiale, patriarcale e violento. Ci sono altri aspetti che accomunano le due vicende? Sei sempre stata interessata a queste storie oppure è un caso che i tuoi ultimi due romanzi abbiano a che fare con due casi eclatanti di cronaca nera?

S. C.: Wilma e Il Capro raccontano due vicende già successe, secondo me è questo che mi attira più che il fatto di cronaca in sé. Preferisco saperlo subito come va a finire. E infatti il romanzo che precede questi due, totalmente d’invenzione, [Il figliolo della terrora, Exòrma edizioni 2019, Ndr] l’avevo costruito a partire da una griglia rigidissima di eventi predeterminati, mi ricordo che ero andata dalla mia prima agente e le avevo srotolato davanti questa bobina chilometrica di carta e mi aveva chiesto ma perché?, non le aveva fatto una bella impressione. Sarà che ho un problema con le cosiddette storie e allora le prendo già fatte, può essere.

Altro tratto in comune che mi viene in mente: il silenzio di Wilma e quello in bianco di una vittima nel Capro vs la logorrea del racconto. È la solita lotta tra il tenersi tutto dentro e il non tenersi niente. Finisce che scrivi troppo, e infatti i miei lavori sono pieni di gente ossessionata dallo scrivere. In Wilma a un certo punto producono una tale quantità di carta che il magistrato è costretto a installare una cassaforte alta, che tutti continuano a scambiare per un ascensore. C’è qualcosa di irresistibile in questa gente che scrive, scrive. E mi attirano l3 scrittor3 corpos3. In generale li trovo più sporchi e più umani. Insomma, simpatizzo.

Quanto alla cronaca nera, è stato un caso. Non sono un’appassionata di nera ma non ho niente contro le storie di nera, per me vale tutto. Per dirti, dopo questi due romanzi pensavo che anche il terzo sarebbe stato un caso di nera, e mi sono messa a cercare, di solito incappo in quelli più eclatanti proprio perché non sono una specialista, e però alla fine ho trovato tutt’altro, la vita di una santa. Sì, il caso di Wilma l’avevo seguito in televisione, mi aveva appassionato anni fa, ma era finita lì. Poi ho avuto un incidente in mare, la corrente stava per portarmi via. Allora ho ripescato questa vicenda della ragazza (forse) annegata, e l’ho raccontata in un modo per cui la corrente in realtà si porta via tutti gli altri, giornalisti e investigatori, indiziati e testimoni oculari. Ti faccio un esempio, per uscire dalla vaghezza: a un certo punto del romanzo introduco il marchese della Capocotta. Nel tempo che mi metto a spiegare chi è, che storia ha, lui in contro scena ha già concluso un paio di affari tirando sul prezzo, ha già piazzato una partita difettosa di tappeti persiani alla madre di Claretta Petacci… è questa la corrente che intendo: tu provi a mettere un punto e sei già da un’altra parte. È come se dicessi: sì, io gli faccio il ritratto a questo signore, ma intanto lui ha messo le gambe per conto suo. È come se una cosa dovesse sempre lottare con la sua rappresentazione.

G. P.: Il Capro ha un narratore popolare e anonimo, che forse è Silvia Cassioli stessa, che cambia tono, dialetto e voce a seconda del personaggio su cui si focalizza. In questo chiacchiericcio, qual è il rapporto che intercorre tra lo spazio dell’indagine e quello del romanzesco?

S. C.: Non lo so, c’è confusione fra queste due parti. C’è sicuramente la voce di qualcuno che fa di tutto per sparire dentro alle voci degli altri, ogni tanto riemerge e poi torna sommersa. Narrativamente parlando non è un male, è una modalità come un’altra, diventa interessante se è la tua propria, se è proprio quella cosa che ti fa impazzire nella vita, cioè se è tua, se è autentica. Il conflitto con l’io decide il narratore. Quanto riesci a sparire? Qual è la crepa in cui ti puoi infilare? Ha a che fare con la molteplicità di personaggi esterni e interni. A proposito di narratore popolare, penso a Giovanna Marini, a quella voce piena di altre voci che dà un impatto emotivo enorme. Eh, magari somigliarle.

G. P.: Il Capro è un romanzo che si nutre anche di spazi bianchi, che sembrano manifestare sia il silenzio dei testimoni sia ciò che rimane inenarrabile, come una voragine incolmabile tra ciò che può essere saputo e la verità. In Wilma questi spazi bianchi diventano costitutivi del testo, finché anche l’indagine scompare, scompare il corpo della ragazza, rimane solo il contesto. Wilma è stato definito “un collage di tutto ciò che è stato detto e scritto su Wilma Montesi”. Ci sono state altre fonti, oltre quelle citate? Tra un romanzo e l’altro, il cambiamento stilistico è stato il riflesso di un’evoluzione di pensiero?

S. C.: Ha senso questo che dici, anche se ho scritto prima Wilma e poi Il Capro. C’è una centralità dello spazio bianco che prende una forma precisa nel Capro proprio perché sono passata attraverso i pezzi esplosi di Wilma. Sono tutte cose a cui uno pensa dopo, ovviamente, ma che scompaia il corpo e rimanga solo il contesto mi sembra detto perfetto: a forza di indagare su qualcosa la cosa sparisce, e allora come fai a raccontarla? C’è di mezzo un eccesso di informazioni, ormai è il nostro habitat naturale. Non è solo che sono contraddittorie, è che sono tante. Si contraddicono e non si contraddicono. Ti portano via: eccola di nuovo, la corrente. Il vociare tartassante che plasma lui le cose. Spero che Wilma riesca a parlare di questo, non solo del caso Montesi.

G. P.: In Wilma l’istanza narrante si configura nel montaggio dei frammenti che vengono dalle fonti più disparate: il Corriere della Sera, atti giudiziari, ma anche documentari, film, libri sul caso Montesi. Oltre a questo collage, affiorano anche alcuni commenti e dichiarazioni senza fonte, che sembrano provenire dalla voce dell’autrice, spesso in tono ironico e antifrastico. Quanto c’è di fittizio, di inventato e di romanzesco in queste frasi?

S. C.: Di romanzesco tutto, anche nel caso dei pezzi tratti dai giornali, perché il montaggio non è un’operazione neutrale, è solo un altro modo del narrare. Infatti non ho messo bibliografie, non volevo che ci fossero dubbi su questo: è finto, tutto finto. Eppure non ho inventato niente dal punto di vista dei fatti, nemmeno le cose più assurde come l’indagine sui piedi della sorella al posto di quelli della morta o l’arrivo alla sbarra di un testimone che nessuno sa perché è stato chiamato lì, o il medico legale che parla l’esperanto. Ma anche le cose vere diventano finte quando ci fai sopra un romanzo. E poi non volevo inciampi sulla pagina: dove la citazione della fonte rallentava il passo l’ho tolta e amen. Quindi ci sono passaggi che in effetti sono tolti da un giornale, ma senza che sia segnalato. E di alcune fonti ho travisato il nome, per esempio non esiste nessun libro dedicato al caso Montesi che si intitoli Sesso potere e morte perché ce ne sono diversi che hanno quel tipo di focus e non avrebbe avuto senso citarli tutti: ne ho fatto uno solo. E ho trattato il Corriere della sera come un personaggio distinto dal Messaggero o il Gazzettino, anche se non esiste nessun signor Corrieredellasera, e due commentatrici le ho inventate di sana pianta, la psicologa Nadia Ferro e la sessuologa Marta Cavallo… alla fine paradossalmente la voce più “vera” è quella che finge di essere un semplice connettore di voci altrui.

G. P.: Qual era l’idea di partenza? Questi commenti sono arrivati in un secondo momento o sono sempre stati nella struttura originaria del romanzo?

S. C.: No no, nasce tutto insieme. Ho cominciato a raccontare del ritrovamento di questo cadavere sulla spiaggia e già al secondo rigo è partito quell’impulso a rettificare: ehi, però non è andata esattamente così. All’inizio ho cercato di trattenermi, poi mi sono detta “ma sì”, e ho lasciato che anche la mia voce si insinuasse. Anche sotto forma di commento figurato, attraverso le icone. L’importante è dire sempre con il minimo. Ripetere va bene, però appena si capisce dove vai a parare devi passare oltre, a costo di lasciare la frase a metà. Tapparsi la bocca non va bene, rischi di fare peggio. E poi era nello spirito di partenza, in reazione a quell’incidente in mare. Anche lì sono finita dentro a un vortice e non ho cercato di nuotare contro corrente, non ce la facevo, ho dovuto lasciarmi andare. Le onde mi hanno portato su uno scoglio, mi sono salvata così.


Silvia Cassioli (Torrita di Siena, 1971) è scrittrice e poetessa. I suoi testi sono apparsi su varie riviste, fra cui L’immaginazione, il Verri e Semicerchio. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Unghie, plantari, gambe di legno e altri ex-voto fantastici (2009). Il Saggiatore ha pubblicato Il capro (2022) e Wilma (2024).

White People Rape Dogs di Jacopo Iannuzzi

Nota di lettura a cura di Adriano Giuffré

Sesso, droghe, marginalità ed esistenze antiborghesi: sono questi gli ingredienti narrativi dell’opera d’esordio di Jacopo Iannuzzi. Edito da Einaudi nel 2024, White people rape dogs (d’ora in poi WPRD),  potrebbe sembrare un romanzo della beat generation. Anche lo stile ne conserva gli echi, con il suo lessico concreto e colloquiale, la sintassi secca, gergale, a volte scomposta. Parole e immagini evocano un contatto diretto con l’accumulo disordinato e assurdo della realtà con cui i personaggi vogliono lottare, straziandola o essendone straziati. Il romanzo poggia su un’architettura episodica scandita da quattro capitoli, più uno di conclusione, al centro dei quali viene inquadrato ogni volta uno dei personaggi che fa parte della vita di Remo, io narrante e alter ego dell’autore.

Tra le strade di una cittadina di provincia senza nome, Remo incontra Gioia, studentessa di moda e creator su OnlyFans, inquietante e melliflua come una strega, ma soprattutto portatrice di una vitalità libera e ctonia di cui lui non riesce mai veramente a mettere a fuoco i contorni. Nonostante l’intensità con cui comunicano, infatti, il loro rapporto si conclude con la partenza di lei. L’incontro tra i due avviene fortuitamente per merito di Jem, l’amico più stretto di Remo e anche quello più incasinato, impegnato com’è a cercare una via d’uscita tra spaccio, sex work e piccole rapine. A completare il quadro ci sono Pingu, una specie di Mitridate delle anfetamine con l’hobby del collezionismo di ossa, e Franco, aka Francoboy, che fa consegne per la Coop e cospira segretamente per rovesciare il sistema.  

Per quanto ognuno possegga una personalità ben definita, i personaggi sono strettamente accomunati dall’ambizione alla fuga dalle convenzioni della società borghese. Al termine del secondo capitolo, dopo aver fatto soldi in un modo che in fondo lo turba, Jem si lancia in un monologo contro la società conformista e sedata, contro la massa di coloro che seguono legge e morale come «cani artificiali abituati alla catena» (p. 61), mentre lui è, con le sue parole, un leprotto che scappa lontano. L’immagine del leprotto, scelta non a caso per la copertina, rappresenta in modo fulminante la risultante delle tensioni che animano il romanzo e l’identità autentica di tutti i personaggi.

Di tutti, ma non di Remo. Perché Remo non se ne va davvero come Gioia, non spaccia come Jem, non ruba i gioielli alla madre per farsi come Pingu, non fa parte di un gruppo terroristico come Francoboy. Remo prende la naspi, ogni tanto sogna di partire, di intraprendere il suo viaggio in fuga dalla società e alla scoperta di se stesso, ma alla fine rimane dove sta. È amico dei personaggi, partecipa alle loro avventure, ma non prende mai veramente l’iniziativa. Mentre gli altri si arrabattano, sostenendo disagi e angosce,  esplorando in qualche modo la vita come la intendevano Kerouac e Burroughs, lui si fa trascinare: non è mai il motore dell’azione. In realtà Remo è poco più di un osservatore, e il suo stesso corpo porta i segni di questa impotenza. Per due volte le sue mani, la parte più rappresentata, vengono ferite, e altre due volte il protagonista viene mostrato nell’atto di ritrarle, per di più da un contatto con Gioia. Lui stesso, d’altra parte, le chiama «le mie mani sterili» (p. 23).

Questa passività dell’io narrante innesca una dinamica pornografico/voyeuristica di secondo grado, per cui chi legge osserva il protagonista che osserva. Di conseguenza, i fatti narrati prendono la forma di uno spettacolo di intrattenimento, al contempo vividi ma lontani, intensi ma bidimensionali, di fronte ai quali chi legge è consapevole e gode del suo ruolo di spettatore. Perché il vero focus è in realtà tutto all’interno e, piuttosto che i fatti narrati, sono le intuizioni poetiche e i monologhi riflessivi a fungere da punti di convergenza del libro. Remo diventa davvero protagonista solo quando pensa. 

Del resto, che la scrittura funzioni solo secondariamente come rappresentazione dell’esperienza immediata, è testimoniato anche da elementi metaletterari che mostrano una chiara verve giocosa, già a partire dal titolo. L’asserzione “White people rape dogs”, infatti, pare rivolta a criticare la grottesca perversione dell’occidente bianco ma, per ammissione dello stesso autore, è in realtà stata reperita casualmente tra i commenti di un video su youtube e scelta a prescindere dal suo significato. Un discorso simile vale per le «scarpe da skate modello X Wing» (p. 20) con cui Remo si presenta a casa di Gioia, che ovviamente non esistono ma sono un inaspettato e (piacevolmente) gratuito riferimento a Star Wars.

Ma l’elemento narrativo più significativo a questo proposito è quello del drift. Le sostanze sono il tema più presente nel romanzo: le cannette sono una costante, ma anche funghetti, bamba, ketamina e altri analgesici vantano una discreta presenza. La precisione dei riferimenti, inseriti in contesti rappresentati in modo realistico, invita chi legge a prendere la narrazione sul serio, come resoconto ragionevolmente fedele di fatti realmente accaduti. La sostanza che domina, sia in termini di occorrenze che riguardo al peso specifico delle scene in cui compare, è proprio il drift. Stando al libro, si presenta per lo più in cristalli incolore, più raramente anche in forma liquida, e il suo effetto pare avere caratteristiche accostabili all’anfetamina, all’mdma e alla dmt. Si tratta, purtroppo, di uno stupefacente inesistente, eppure non è nemmeno una completa invenzione di Iannuzzi. Non so se ci sia un filiazione diretta, o se una trama oscura di rapporti letterari lo abbia portato fino a questo libro, ma il drift appare in un racconto pubblicato sul subreddit r/nosleep (qui) nelle vesti di una droga inizialmente paradisiaca, con effetti simili a quelli descritti in WPRD, ma che si rivela presto un raccapricciante strumento di morte. Sembra insomma che l’autore abbia voluto conquistare chi legge con il suo scabro realismo, per ottenere la libertà di inserire surrettiziamente non dei dati falsi, che sarebbe stato banale, ma delle particelle di puro gioco letterario.

È chiaro che al giudizio dato all’inizio serva una correzione. White people rape dogs sembra un romanzo della beat generation, ma a quell’esistenzialismo ribellistico, immediato e fenomenologico, aggiunge un layer di decostruzione psicologica e metaletteraria che lo arricchisce del fascino dell’ambiguità, e ne fa un’opera che merita di essere letta.  

Lettera aperta ai lettori

di Michela Dentamaro

«I lettori non sono scomparsi, basta andarli a cercare»

André Schiffrin

«È cosa detta più volte, che quando decrescono negli stati le virtù solide, tanto crescono le apparenti».

Giacomo Leopardi

«Le donne, nell’adoperare la penna sono diventate guerriere;

hanno da combattere battaglie sociali; da vendicarsi;

da denunciare (ecco la grande parola);

da mettere avanti qualche alibi;

e soprattutto da legittimare, nero su bianco, l’aspirazione alla loro libertà».

Gianna Manzini

Care lettrici e cari lettori,

colgo questa gentile occasione che mi è stata offerta per scrivere una lettera aperta a voi e raccontarvi un’esperienza editoriale e i retroscena che ne conseguono e ragionare insieme sullo stato attuale del settore dei libri contemporaneo.

Sette anni fa ho fondato Rina edizioni, casa editrice, etichettata come indipendente, il cui progetto si occupa di scegliere e recuperare i testi di scrittrici italiane dalla fine dell’Ottocento a gran parte del Novecento e di scrittrici straniere inedite in Italia o a margine della letteratura internazionale. L’intento è quello di preservare e presentare il percorso identitario, intimo, sociale e politico intrapreso dalle scrittrici che, seppur molto diverse tra loro, coesistono in un contenitore letterario che diffonde le loro opere e si impegna a restituirle al panorama contemporaneo.

Il progetto di Rina fonde insieme lavoro editoriale e ricerca letteraria, scava nel passato per ricostruire una memoria e sensibilizzare una coscienza critica sul grave processo di rimozione della presenza delle scrittrici nella storia della letteratura, soprattutto in quella italiana. Emarginare e rinnegare la loro presenza vuol dire amputare l’altro sguardo, quello femminile, la prospettiva e la percezione da un’intera nazione e rendere monca la sua identità. Questo impegno coinvolge tutti in un atto di responsabilità verso noi stessi, per i movimenti di emancipazione e inclusione a cui crediamo di aderire e di portare avanti per migliorare la nostra società, per contrastare il patriarcato interiorizzato di cui siamo vittime e per educarci a un altro sentire.

Recentemente riscoprire e occuparsi di donne è diventata una tendenza editoriale ‒ e non solo ‒, un’operazione che fortunatamente sta rimettendo sul mercato molti testi scomparsi come le loro autrici, ma ciò che ci dobbiamo chiedere è come lo stiamo facendo e a quale scopo. Che sia per cavalcare una moda? Per sentirci a posto con la coscienza e garantire una condizione di parità e uguaglianza anche in letteratura? Per garantire un femminismo liberale così da conformarci all’intellighenzia engagé? Ma quanto durerà prima di dover ricominciare tutto da capo tra quarant’anni?

Il pregiudizio e la diffidenza nei confronti dei testi scritti da donne sono molto diffusi; se la casa editrice che le pubblica non è un marchio conosciuto hanno meno valore, tra voi lettori meno che tra gli editoriali, se poi sono italiane e non straniere si rischia ancora di più ‒ fatta eccezione per le solite note, soggette a una ciclica promozione e riabilitazione di massa ‒, così come se non si confeziona il libro facendolo introdurre e quindi (ri)battezzare da un nome conosciuto.

Se ci riflettete per un momento è paradossale che nel nostro paese le persone conoscano un numero maggiore di nomi di scrittrici anglosassoni – pronunciati più correttamente – di quelli di scrittrici italiane: sono citate nei discorsi dai più impegnati a quelli da bar, sono inserite nei programmi scolastici, quindi si studiano a scuola, trattate con un po’ più di considerazione rispetto alle colleghe italiane relegate invece nei riquadri, schede di approfondimento o paragrafi di curiosità all’interno dei manuali di storia della letteratura. Sono scrittrici, quelle straniere, su cui si organizzano conferenze, rassegne, gruppi di lettura, su cui si scrivono articoli, che va bene – intendiamoci, il valore letterario va al di là di qualsiasi appartenenza geografica, culturale, identitaria – però introdurre qualcosa di nuovo, di poco conosciuto, che farebbe parte della nostra identità potrebbe stimolare diversamente la conoscenza, l’intelligenza e la sensibilità e aiuterebbe a conoscerci meglio, no?

Forse no, ma la butto lì, non resta che stoicamente guardare avanti, magari verso altri orizzonti.

Lo stesso discorso, quello di introdurre nuovi approcci, andrebbe fatto meno teoricamente ma più concretamente rispetto al sistema davvero contorto che rende il mercato editoriale un universo di commercio e comunicazione a sé, con peculiarità bizzarre che lo differenziano dalle altre attività produttive. Il libro è un oggetto nobile, sì, ma è anche il frutto, o meglio il prodotto, di un investimento di denaro e di lavoro, e alla fine si inserisce anch’esso in un mercato commerciale.

In sé per sé fondare una casa editrice, se non si hanno un capitale consistente da investire, molte conoscenze e grandi velleità, non è un’operazione complicata o molto diversa dall’avviare un’attività in proprio; si crea un marchio, lo si registra in camera di commercio, si istituisce una forma giuridica consona al tipo di investimento, al numero di lavoratori e di obiettivi da raggiungere, si decide che tipo di prodotto creare – in questa sede non approfondiremo il discorso sulla filosofia che ogni editore può avere rispetto alla realizzazione della sua linea editoriale etica ed estetica – e soprattutto ci si avvale di un bravo commercialista! Quello che poi si scopre una volta entrati nell’ambiente è uno scenario sorprendente, in peggio.

Per esempio, fin da subito Rina si è affacciata al mercato editoriale senza avere una distribuzione, secondo una presa di posizione molto discussa all’esterno, sia per i costi a dir poco elevati di questo servizio e il conseguente debito che matura, sia soprattutto per la costrizione che dipendere dal distributore genera in fatto di produzione. Provo a semplificare e chiedo scusa a chi ha già noto il processo: il ruolo di mediazione che il distributore – molto spesso anche promotore – ricopre regola il funzionamento del mercato editoriale tra case editrici e librerie che siano di catena o indipendenti. Una volta ricevuti gli ordini dalle librerie di un titolo che l’editore affida alla distribuzione, quest’ultima paga all’editore la quota di prenotato (non di vendita) scontata, allo stato attuale è il 60% sul prezzo di copertina, per poi rivendere il titolo ai librai, i quali se il libro non vende possono renderlo e quindi scambiarlo con liquidità. La resa però, un tempo prenotato, ricade sull’editore che dovrebbe restituire i soldi ricevuti in precedenza sottraendo le copie che sono rientrate. Per ripagare il distributore ciò che spesso accade è uno scambio con novità invece di soldi, quindi più produci più vai a coprire il tuo debito. A tutto ciò si aggiungono i costi di magazzino e della mobilitazione delle copie.

Se regolarsi e decidere sul debito rende dipendenti, mi chiedo allora come si fa a definirsi davvero una casa editrice indipendente? Si dipende dalla distribuzione, il cui effetto strozzinaggio ramificato manda in corto la (sovra)produzione intellettuale e il catalogo delle case editrici; si dipende dalle fiere, perché vige il motto «se non ci vai non esisti», e peccato che ogni anno di più l’aumento dell’affitto degli spazi, pagati al metro quadro come nel mercato immobiliare, e ulteriori servizi, è sproporzionato rispetto al guadagno; si dipende dai giornali, a cui molto sfugge ma se non ti recensiscono non vali; si dipende dalla tendenza a trovare in qualcuno, simpatico e influente, un capo a cui affidarsi e lasciarsi guidare; si dipende dalle relazioni con un contesto sempre più simile allo star system, che se ti inimichi stai pur certo che gli incubi delle ricreazioni alle medie torneranno a trovarti.

È un approccio dominante che oscilla tra rassegnazione e frustrazione, derivato anche dalla mancanza di una classe intellettuale che recentemente si è arenata, ha lasciato fare, si è piegata all’amichettismo e al posizionamento, a un imborghesimento, all’ipocrisia e al perbenismo, scollata dalla realtà, indifferente, individualista, superiore, che ha rinunciato a dialogare con la massa dei lettori e a continuare a proporre libri “difficili” per costruire e rinnovare una coscienza critica e politica. È stata silenziata la voce della popolazione, è venuto meno il dibattito e di conseguenza i libri non impattano più così tanto il discorso sociale, economico e politico.

È necessario immaginare nuovi spazi, nuovi contenitori e soprattutto nuovi approcci più congeniali a un’editoria artigianale e ai bisogni delle entità che ci lavorano, senza piegarsi alle regole del monopolio e della plutocrazia, e uso questo termine non a caso perché quello che succede o sta succedendo in politica si riversa in tutti gli altri ambiti in modo verticale, e perché nel settore editoriale sta avvenendo da tempo che pubblicare un libro e avere il controllo del mercato che ne regola la sua diffusione, tra informazione, comunicazione e stampa è di fatto un’azione e più ampiamente una manovra politica. Del resto. uno dei più grandi e influenti marchi editoriali, titano per raggruppamento di altre aziende nel settore, è di proprietà di Fininvest. Ma come scrive André Schiffrin: «Non affermerò che l’editoria è sempre stata, in passato, libera da pressioni politiche».

«Quando gli uomini sembrano essere più portati a confondere la saggezza con la dottrina e la dottrina con l’informazione, e a cercar di risolvere i problemi della vita in termini d’ingegneria, sta sviluppandosi una nuova forma di provincialismo che forse merita anch’esso un nome nuovo. È un provincialismo non di spazio, ma di tempo»[1] e per non cadere in questa trappola è necessario sforzarsi per superare le conseguenti ristrettezza di visione, cecità progettuale e mancanza di prospettiva e ripararsi da una vocazione globale che costringerà chi non vuole essere provinciale a farsi eremita.

È necessario e doveroso, mai come in questo momento storico, per chi opera nella cultura ridestarsi e ripensare, con uno sguardo al secolo scorso, il ruolo dell’editore e quindi del progetto che è alla base della casa editrice. È necessario riequilibrare la tendenza indiscriminata verso il profitto e l’appiattimento con la scelta di proposte più intellettuali e culturali per migliorarne le condizioni. Come abbiamo visto, scegliere di pubblicare un libro sarebbe un atto politico, di impegno e responsabilità verso i lettori.

È necessario chiedere più sostegno alla cultura, selettivamente, a uno Stato che apparentemente non esiste, almeno per il settore editoriale, che non si mobilita mai a differenza di altri settori per rivendicare e preservare la propria indipendenza culturale.

È necessario raggiungere concretamente uno stato di unione tra piccoli editori, con le librerie indipendenti, istituti scolastici e universitari, biblioteche, municipi, attraverso la collaborazione, il confronto e la cooperazione per cercare di affiliare nuovi lettori e insieme lottare per la sopravvivenza. E se si combatte per sopravvivere perché aderire alle logiche dei grandi e non contrastarle?

Bisognerebbe – come rifletteva Luce Fabbri – «portare l’umanità su un altro piano mentale e su un altro terreno di lotta (il piano mentale della libera solidarietà, il terreno di lotta fra tutti gli oppressori e sfruttatori da una parte ‒ e ce n’è di “destra e di “sinistra”, di “imperialisti” e di “comunisti” ‒ e tutti gli oppressi e sfruttati dall’altra). Per fare questo bisogna liberare noi stessi e gli altri dalle frasi fatte e dagli slogan che minacciano di condurre su opposti campi di battaglia ‒ per servire interessi non più tanto nazionali, ma di gruppi e caste sotto velo ideologico ‒ esseri umani che hanno le stesse aspirazioni e gli stessi bisogni»[2].

Invece dell’indignazione e della protesta, la tendenza allo stato attuale è quella di soccombere in silenzio e con pavidità alle imposizioni degli altri e farsi guerra tra di noi.

Nel suo diario Piero Gobetti scriveva: «Il centro della crisi del libro dunque è la crisi dell’editore. In Italia non si crede all’editore. Quasi tutti gli editori sono tipografi e librai[…] Se il discorso si riferisce soltanto all’Italia, l’Italia non ha crisi libraria: voglio dire che la produzione non è diminuita né peggiorata in confronto ad altri periodi della nostra storia intellettuale. La crisi è sempre esistita e continuerà ad esistere se si paragona la qualità e la quantità della nostra produzione editoriale con quella di altri paesi civili […] La verità è che paragonata colla cultura europea moderna l’Italia manca di autori, di editori, di librai, di pubblico»[3]. Alla luce di questi frammenti devo ammettere che molte cose sono cambiate, anche in meglio, tuttavia la sostanza del discorso ruota intorno alla mancanza del ruolo dell’editore come creatore di un orientamento politico, intellettuale, culturale e del malfunzionamento del sistema imperante in un tempo, come direbbe Leopardi, nel quale i libri si stampano per vedere e non per leggere[4].

L’argomento è lungo e complesso, sarebbe bello sapere cosa ne pensate, la percezione e la prospettiva da lettori di un mondo come quello editoriale che si mostra spesso patinato da tante manifestazioni contrastanti ma che fa parte di una partita che ci riguarda tutti.

Michela


[1] T.S. Eliot, What is a Classic?,1944

[2] Luce Fabbri, Critica dei totalitarismi, a cura di Lorenzo Pezzica, Eleuthera, Milano, 2023.

[3] Piero Gobetti, L’editore ideale, Vanni Scheiwiller, Milano, 1966.

[4] Giacomo Leopardi, Pensieri, Feltrinelli, 1994. Cfr. anche Zibaldone, 4268-4272: «Molti libri oggi, anche dei bene accolti, durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli. Se poi si volesse aver cura della perfezion dello stile, allora certamente la durata della vita loro non avrebbe neppur proporzione alcuna con quella della lor produzione; allora sarebbero più che mai simili agli efimeri […]».

In teoria e in pratica | Gianluca Furnari

Le risposte di Gianluca Furnari all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Nella stesura di Quaternarium mi ha guidato l’idea di una conversazione fra terra e cielo, fra presente e passato, ovvero – in seconda battuta – fra presente e futuro. C’è stata una fase della mia scrittura, di cui non resta quasi traccia, in cui ho esplorato questo tema sull’onda di suggestioni rinascimentali e in particolare michelangiolesche: inni semiseri agli angeli della Cappella Sistina, canzoni sulle «vite precedenti», poesie su visitazioni spiritiche… Da quest’immaginario pittorico è affiorato, dopo la lettura di A. C. Clarke, un nucleo fantascientifico: sono comparse le prime astronavi; la lingua ha virato sul lessico delle scienze naturali; è crollato – o semplicemente mutato – il palcoscenico dell’io, sempre più spesso isolato in un paesaggio estremo, selenitico: di qui Ipersonno, la prima sezione di Quaternarium, in cui un io si misura con la propria morte e con quella della specie, trasmigrando sulla luna. Nel frattempo ho cominciato a smembrare testi lunghi per farne dei trittici, più comprensibili, meno innodici, cioè meno verticali nelle loro aperture metafisiche.

La storia successiva di Quaternarium è quella di un’ulteriore epicizzazione. Ho sentito il bisogno di saldare fantasia e realtà e di dare concretezza al linguaggio e organicità alle parti liriche, altrimenti centrifughe. Da spunti di fantascienza hard, che ho tratto ad esempio dalla trilogia di Marte di Kim Stanley Robinson, è nato il racconto di Calendario marziano: inizialmente una costola di Ipersonno, chiamata Ciclo di Tharsis; poi una creatura a sé stante, distinta sia per l’ambientazione unitaria (Marte), sia per la presenza di un protagonista (Z.), sia per le rubriche iniziali in prosa. 

Il libro mi pareva concluso; mi restava lo scrupolo di non aver dato testimonianza, tra le sue pagine, di un’altra «scrivania» alla quale siedo volentieri, quella della poesia in latino. A pochi mesi dalla pubblicazione, durante il soggiorno a New York, ho ripreso in mano un progetto di inni in latino sulla fine dello spaziotempo. Ho tentato la via di un latino degenere, alieno, linneano, che accoglie ritmi medievali e immaginari quantistici. La sezione mi è sembrata un buon coronamento – e insieme un buon capovolgimento – delle precedenti. L’ho chiamata prima Nova novissima, poi Quantum nova, con titolo anglo-latino. 

 A ispirarmi sono stati quindi gli autori della protofantascienza e della fantascienza classica: Verne, Salgari («Le meraviglie del Duemila»), Wells, Stapledon, Clarke, Dick, etc.; il cinema di settore; e Petrarca, che ritorna in singoli versi, testi o sezioni. 

 Un consiglio per «costruire» un libro di poesia… Per me si tratta di scegliere pochi e buoni riferimenti e poi di navigare il difficile equilibrio fra una rigorosa pianificazione e un ascolto assiduo delle proprie correnti profonde.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Credo che il «sé» sia un concetto psicologico ormai inservibile nella critica letteraria. «Invenzione» e «finzione» sono parole altrettanto nebulose e si portano dietro l’ombra di un giudizio morale (escapismo, insincerità…). Difendendole o aggredendole, si rischia di alimentare uno scontro – più terminologico che oggettivo – fra la pretesa autenticità dei «lirici» e il sedicente realismo degli «antilirici», legittimando una polarizzazione ormai vecchia (e troppo italiana). Per quanto mi riguarda, inventio significa, semplicemente, trovare l’argomento, fictio costruirlo: sono quindi due parti essenziali della scrittura. 

«Biografia» è, invece, una parola bellissima: tutto ciò che testimoniamo in quanto viventi attraverso i segni linguistici ricade in questa categoria e ogni poesia è, a suo modo, un biomarcatore.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Mi hanno introdotto alla poesia due persone care, che oggi non ci sono più, mio padre e mio zio. Quanto al mio esordio, Vangelo elementare, lo ricordo con affetto. Molte cose si affinano nel tempo, e confrontarsi con la “bolla” aiuta a sfidare certi automatismi. Ci sono delle invarianti: il confronto con la poesia prenovecentesca; la tentazione metafisica… La mia lingua è molto cambiata, specialmente grazie al confronto con autrici e autori che non amavo; ma non nutro alcuna illusione di progresso. Tengo presente chi mi legge soprattutto in fase di revisione, quando si tratta di asciugare i versi, organizzare i testi, spalmare sull’oscurità uno smalto di chiarezza. In generale mi sento spesso solo, il che è contemporaneamente un male e un bene. 

4) Tutti non sopportano qualcosa di ciò che scrivono. Tu cosa odi della tua scrittura? Che rapporto hai con i tuoi automatismi? 

Ho un rapporto dismorfofobico con la mia poesia. Mi vedo più ermetico e meno classicistico di come sono, con tutte le conseguenze – anche nefaste – del caso. Sfido i miei automatismi con una specie di nevrosi della forma, cambiando modelli, piantando ordigni metrici sotto i versi, cassando strofe, archiviando testi in cartelle dell’oblio, etc.

5) Nel programma radiofonico Le interviste impossibili, andato in onda tra il 1974-1975, alcune voci della cultura italiana contemporanea immaginavano di intervistare dei personaggi storici (Ponzio Pilato, Uomo di Neanderthal, Jack lo Squartatore etc…) inscenando un botta e risposta. Se avessi la possibilità di intervistare un personaggio famoso della storia, chi sceglieresti? Scrivi le tre domande che gli vorresti fare. 

Trovarmi davanti un personaggio famoso sarebbe un incubo: l’ansia sociale mi divorerebbe e non riuscirei a guardarlo negli occhi. Tutt’al più sceglierei un timido, qualcuno con cui stare in silenzio per ore, tipo Virgilio. 

Confini in dissoluzione: frammenti di intimità nella poesia di Krzysztof Muszyński

Introduzione e traduzioni a cura di Chiara Wasowski, vincitrice della Call for Translators “Pur sempre amore”.

Poeta e autore di racconti brevi, Krzysztof Muszyński è nato nel 1989 a Bytom, in Slesia, terra di confine dalla storia complessa. Come si legge sulla quarta di copertina della sua prima raccolta poetica, nel giorno della sua nascita il governo polacco rimosse la censura preventiva. Muszyński appartiene, quindi, alla generazione cresciuta durante la transizione verso la democrazia liberale e il capitalismo, un’esperienza collettiva che si riflette nella sua poesia. Esplorando il confine fra intimo e sociale, l’autore interroga un sistema di consumo che non coinvolge solo le merci, ma anche gli affetti e le emozioni.

Laureato in Giornalismo e Comunicazione sociale, Muszyński ha conseguito un dottorato in Scienze umanistiche e ha lavorato come lettore a Napoli e a Torino. Oltre a fare ricerca in ambito accademico, si occupa di consulenza nel campo dei media e della cultura. Vive a Covilhã, in Portogallo.

Muszyński è autore di due raccolte poetiche, pubblicate rispettivamente nel 2021 e nel 2022 dalle edizioni Biblioteka Śląska: Ma na noc e Po lekku, che potremmo tradurre come Turno di notte e Leggermente

La sua poesia racconta le vicende umane più profonde e banali – come l’amore – in una sintesi densa di immagini quotidiane e visioni simboliche. Si caratterizza per una forte componente visiva e, più generalmente, sensoriale. Come nota Alina Świeściak-Fast, Muszyński «osserva, ascolta, annusa, esamina» per poi giocare col montaggio poetico, associando le atmosfere della Slesia a scorci di Cabo da Roca, Napoli, Torino…

Le prime due poesie che proponiamo sono tratte da Ma na noc.
In Nowa szczerość (Una nuova sincerità) il poeta osserva frammenti di vita urbana con sguardo distaccato e indulgente. La città di Porto si anima di storie semplici, in un presente che appare alle volte fuori dal tempo, altre volte penosamente autoreferenziale. La seconda parte del testo racconta per immagini un amore fragile ma tenace: legame discreto, forza quieta che resiste all’alienazione e alla precarietà.

In Przez lato (D’estate), sullo sfondo della Serra de Estrela, l’amore è scoperta e memoria. Il poeta restituisce un momento di vulnerabilità e vicinanza fisica: «il mio ecosistema è vicino al tuo collo / alla tua pelle liscia e al tuo respiro / abito sulla tua spalla». Dalle immagini minute di un sentimento incerto, infantile, il quadro si espande al cielo stellato, suggerendo una connessione fra gli amanti e il cosmo.

Gdy obydwoje szepczemy modlitwy (Quando entrambi sussurriamo preghiere) è parte della raccolta Po lekku. Questo testo presenta l’amore come fusione: le voci di due amanti s’intrecciano fino a confondersi, in un gesto intimo che si fa trascendente. Riferimenti alla Bibbia, alla cosmologia e alla tradizione popolare proiettano la loro unione in una dimensione originaria, spirituale, in cui i confini identitari si dissolvono.

Nowa szczerość

świat jest bogaty
znajdziesz w nim to
co chcesz znaleźć
gołębie w pojemniku
na bułki w markecie
zapadliska asfaltu
w których ktoś z placu
trzyma nogę rano
wyprowadzanego psa
za krawat przez
taksówkarza z kościoła
znajdziesz też miłość
ale cię to nie przekona

cała epoka składa się ze wstydu
za kogoś w telewizorze
i poczucia winy za wstyd
w kolejnych pustych miejscach
przeszło mi to samo

składam i składają mnie w brikolażu
i kocham jej srebrny włos wyrywam
sklepienie niebieskie
w kawowych jej oczach
jak brzmiący cymbał już
nie brzmię, mamy bilety
na koncert nasza para
i kilka osób przy barze
obok Coliseu deszczową zimą
przy placu Aliantów
w milionowej reprodukcji
Nighthawksów i kwitnących migdałowców
Van Gogha na niebieskim
pozdrawiamy i życzymy
udanego spotkania
a sério

Una nuova sincerità

il mondo è ricco
ci troverai ciò
che vuoi trovare
piccioni nei contenitori
del pane al supermercato
al mattino il piede
di uno del quartiere
in voragini d’asfalto
un cane tirato
per la cravatta da
un tassista fuori dalla chiesa
troverai anche l’amore
ma non ti convincerà

un’intera epoca di vergogna
per qualcuno in televisione
e senso di colpa per quella vergogna
in vuoti che si susseguono
ci sono passato anch’io

mi piego e mi ripiegano
in un continuo bricolage
e amo quel suo capello argenteo che strappo
la volta celeste nei suoi occhi caffè
come un cembalo tintinna io
non tintinno più, abbiamo i biglietti
per un concerto, noi due
e un po’ di gente al bar
accanto al Coliseu nella pioggia d’inverno
in Praça dos Aliados
nell’ennesima riproduzione
dei Nottambuli e dei mandorli in fiore
sull’azzurro di Van Gogh
un saluto e l’augurio
di un bell’incontro
ma davvero

Przez lato

nie znaliśmy się wtedy dobrze
gdy patrzyłaś na papierowe
drzewo, wybierałaś okulary
wybiegałaś z bloku
pod Serra da Estrela
ocean jest po jednej stronie
wysokie góry po drugiej
mało miejsca do spacerowania
zaraz zaczynają się autostrady
kończą chodniki i drzewa

w sierpniu rośliny są zakurzone
przerośnięte jak w niemym
filmie o lądowaniu na Księżycu
moje środowisko jest przy twojej szyi
gładkiej skórze i oddechu
mieszkam na twoim ramieniu
dziś znowu jak dzieci na podwórku
nie mamy nic do roboty
nie mamy pracy

światła miasta spadają po stoku
gdzie dorastałem razem z tobą
i niebo gwiaździste w nas
a prawo Bronxu nad nami

D’estate

non ci conoscevamo bene allora
quando fissavi l’alberello
di carta, stavi scegliendo gli occhiali
sei corsa via dall’isolato
ai piedi della Serra da Estrela
l’oceano è da un lato
le alte montagne dall’altro
poco spazio per passeggiare
subito iniziano le autostrade
finiscono i marciapiedi e gli alberi

ad agosto le piante sono polverose
cresciute oltre misura come in un film
muto sullo sbarco sulla Luna
il mio ecosistema è vicino al tuo collo
alla tua pelle liscia e al tuo respiro
abito sulla tua spalla
oggi di nuovo come bambini nel cortile
non abbiamo niente da fare
non abbiamo lavoro

le luci della città scendono lungo il pendio
dove sono cresciuto con te
il cielo stellato dentro di noi
la legge del Bronx sopra di noi

Gdy obydwoje szepczemy modlitwy

Nie wiem czyj głos jest czyj
Czy ja mówię twoim głosem
Czy ty moim ja twoim ty moim
Gdy obydwoje szepczemy te same modlitwy
Nie mają różnic nasze głowy
Mówię twoim głosem ty moim
Jak to ryby i bydlęta na Święta
Rodzą się planety
t = 0
= Tak jak kiedyś

Quando entrambi sussurriamo preghiere

Non so quale voce sia di chi
Se io parlo con la tua voce
O tu con la mia io con la tua tu con la mia
Quando entrambi sussurriamo le stesse preghiere
Le nostre teste non conoscono differenza
Io parlo con la tua voce tu con la mia
Come pesci e bestiame a Natale
Nascono i pianeti
t = 0
= Come un tempo