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Quando ho scoperto Kathy Acker

Restituzione dell’incontro “Tradurre genealogie femministe: da Kathy Acker a Lidia Yuknavitch” a cura della rassegna di letteratura e traduzione Quasi La Stessa Cosa.

Introduzione a cura di Elena Strappato, contributi a cura di Guia Cortassa, Alessandra Castellazzi e Arianna Preite

Se è vero, come ricorda un narratore da L’Impulso (Nottetempo, 2024) di Lidia Yuknavitch, che le storie sono «quanti», particelle elementari che connettono esistenze, da quale interazione, da quale groviglio di vita e di materia si generano a loro volta le storie? Quali incontri materiali le precedono? Quali nuovi incontri riproducono?

Il 12 ottobre, insieme alle traduttrici Guia Cortassa e Alessandra Castellazzi, e alla dottoranda Arianna Preite, ci siamo trovate alla Biblioteca delle donne per raccontare un libro e un incontro. Quell’innesto di materia esplosa, violenza e tenerezza che è L’Impero dei non sensi di Kathy Acker (NERO Editions, 2024) con un occhio aperto su una sua lettrice, e poi scrittrice, privilegiata: Lidia Yuknavitch. Un incontro, quello tra Kathy Acker e Lidia Yuknavitch, fuori e dentro il testo; un incontro, il nostro, con le loro voci.

Abbiamo tentato di leggere Acker con Yuknavitch e Yuknavitch con Acker per ricreare una genealogia delle nostre letture. Non solo perché queste autrici si sono incontrate, e l’influenza di una è stata fondamentale per la seconda. Ma anche perché la voce dell’una scopre e riscopre quella dell’altra, senza gerarchie o ordine che tenga, ma in un gioco di echi e reti nate fuori dal testo, cause ed effetti di un incontro incanalato dalla parola scritta e poi condivisa.

In una, è il desiderio di lacerare tutto, fare della pagina la ferita e la cassa di risonanza della ferita, nell’altra, la voglia di cucire insieme i tagli, ricreare una mappa con le suture. Nelle loro differenze abbiamo cercato uno spazio per raccontare i loro testi senza addomesticarne suoni e sensi.

Riportiamo qui una traccia dell’incontro nei contributi di Guia Cortassa, Alessandra Castellazzi e Arianna Preite.

PRENDERE. DISTRUGGERE. RICOSTRUIRE.

[Kathy] Acker racconta ripetutamente la stessa storia: la madre è incinta della figlia e il padre se ne va. La madre incolpa la figlia e cerca di abortirla. Il corpo della figlia sopravvive, ma non il suo sé unificato… È vero? Ha importanza?… Acker libera la libido dal mondo sotterraneo represso di Freud.[1]

Ma poi, ancora, non ha fatto quello che tutti gli scrittori devono fare? Creare una posizione da cui scrivere?

La vita di Acker era una favola, e descrivere la confusione, l’amore e gli obiettivi contrastanti dietro questi memoriali sarebbe come abbozzare un’allegoria apocrifa di una vita artistica alla fine del ventesimo secolo.[2]

Si è parlato molto della sperimentazione formale di Yuknavitch, in particolare dell’uso di forme ibride nel testo… Ma l’aspetto genuinamente sovversivo e stimolante dell’opera di Yuknavitch è la sua messa in primo piano del corpo, e in particolare la sua presentazione del sesso. Yuknavitch ci costringe a vedere il corpo in tutta la sua fisicità, la sua carne, i suoi fluidi e le sue escrezioni, e raffigura scene di sesso, tra cui sesso feticista e sadomasochistico, che sono brutalmente viscerali. Le scene di sesso di Yuknavitch sono famose tra le scrittrici americane contemporanee, non solo per la loro esplicitezza, ma per il modo in cui le usa per perseguire questioni di intenzione, individualità e implicazioni etiche del fare arte.[3]

Se un lavoro è abbastanza immediato, abbastanza vivo, la risposta più adeguata non è essere accademiche, scriverne, ma usarlo, per andare avanti. Usandoci l’un l’altra, usando i testi delle altre, continuiamo a vivere, immaginare, fare, scopare, e combattiamo a morte questa società.[4]

Allora non limitarti a leggere questo testo. Usalo – come un attrezzo, un martello, una pietra per infrangere qualsiasi barriera ti impedisca di immaginare un posto altro e migliore. I testi letterari partecipano alle conseguenze nel mondo reale.[5]

Non è vero che non sei niente. Sei vitale per la tua cultura. Noi disadattati siamo quelli capaci di entrare nel dolore. Nella morte. Nel trauma. Ed emergerne. Ma dobbiamo continuare a raccontare le nostre storie, ad affidarle l’uno all’altra, o ci mangeranno vive. La nostra sofferenza non è la storia di Cristo. La nostra sofferenza genera un significato secolare. Mettiamo al mondo delle forme ordinarie di speranza così che gli altri, trasandati o raffinati che siano, possano andare avanti.[6]

di Guia Cortassa

Kathy Acker + Lidia Yuknavitch

Ho deciso che volevo saperne di più di Kathy Acker quando l’ho incontrata per la seconda volta, nel giro di pochi mesi, in un libro che stavo traducendo. Il primo era Everybody di Olivia Laing (Saggiatore,2022), un saggio sui corpi e sulla libertà. A partire dal potentissimo “The Gift of Disease”, un articolo in cui Acker descrive il proprio rapporto con la malattia, Laing rifletteva sulla sua scelta di rifiutare le cure convenzionali per il cancro, di cui morì nel 1997. L’altro era La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch (Nottetempo, 2022), un memoir in cui Acker appare in compagnia di George Bataille e il Marchese de Sade, Dennis Cooper e William Burroughs, a formare il «ventre molle della letteratura» (e in carne e ossa, a nuotare con l’autrice).

«Ho trovato una progenitrice letteraria in Kathy Acker» conclude Yuknavitch. E in effetti tra le due c’è più di un’affinità. Per cominciare, c’è la voglia di sbattere in faccia a chi legge il dolore e la violenza del mondo, e il modo in cui ricadono sul corpo di una donna o di una bambina, senza mai edulcorare il racconto. «Una caratteristica notevole dei romanzi di Acker è che sono popolati da alter ego» scrive Laing, «che a prescindere dall’età restano povere bambine abbandonate, trascurate, precocemente sessualizzate, perse in un paesaggio psichico sudicio, pericoloso, spesso letale». Ci sono figure ricorrenti nei suoi romanzi: pirati, motociclisti, tatuatori – bambine stuprate dai padri. In L’impero dei non sensi queste figure deflagrano nel viaggio allucinato di Thivai (un pirata) e Abhor (mezza donna e mezza robot), due amanti che si odiano, nelle strade di una Parigi messa a ferro e fuoco da una rivolta algerina, alla ricerca di un farmaco salvavita. Esplode tutto: la città simbolo dei lumi europei, i corpi che – come figurine di pongo – sopravvivono a ogni brutalità immaginabile. Salta in aria l’ordine patriarcale, occidentale, del capitale. Restano le macerie in cui continua a formicolare ostinata, mutilata, la vita.

Anche i romanzi di Yuknavitch sono pieni di alter ego. C’è sempre una bambina – la bambina che è stata, la figlia che ha perso. In L’impulso è una ragazzina che viaggia nel tempo tuffandosi in acqua; in Lasciarsi cadere (Nottetempo, 2023) è l’unica superstite di una famiglia annientata dalla guerra. C’è sempre una donna che insegna a purificare il dolore nel sesso: a volte assume i connotati di una fotografa, altre della maitresse di un bordello. Sempre, è l’artefice di una catarsi. Il suo intervento sprigiona il desiderio nella scrittura di Yuknavitch, una fame di piacere, di dissoluzione, che racchiude in sé gli opposti della distruzione e della speranza. Serpeggia nei romanzi, asseconda il fluire del racconto: la speranza intima e feroce è il motore che muove la scrittura di Yuknavitch. «È il mio fuoco» spiega. «Le storie nascono dal luogo dove in me sono avvenute la vita e la morte». 

Di Alessandra Castellazzi

Giochi della matassa collettivi dentro e fuori dall’opera di Kathy Acker

Parlare di Kathy Acker a quattro voci ha creato un momento di riflessione e comprensione nuova della sua scrittura, attraverso quello che mi è sempre sembrato chiedere la sua opera: un gesto attivo di ingaggio con i suoi testi, molto più che una lettura solitaria, silenziosa e attenta. Le sue pagine hanno più spesso evocato l’idea che il modo migliore per comprenderle fosse quello di saper creare dei momenti condivisi a partire da queste, dei rituali che si riverberassero nel mondo, che uscissero in maniera radicale dall’oggetto-libro.

Quando questo accade, quello che mi colpisce sempre è vedere come ogni persona segua il proprio filo rosso, tra i molteplici che possono condurre a questa autrice, e lo percorra religiosamente sulla base della sua genealogia di Acker alla quale i propri personalissimi giochi della matassa nel tempo hanno condotto. Questo ovviamente genera a sua volta delle letture che moltiplicano la percezione che si ha della sua scrittura: il fatto di averla scoperta tramite una certa altra autrice, che ha nascosto un pezzo di lei in un suo testo, spalanca le porte a una specifica visione della sua narrativa, basata sulla fonte della scoperta, sulla sorgente che ne ha consentito la rivelazione. Lo scambio collettivo fa incontrare tutte queste diverse versioni di lei, e scoprire quante ne esistono e come si relazionano tra loro consente di osservare quello che ha visto qualcun’altra e di confrontarlo con quello che hai visto tu.

Lo facciamo con tutte le scrittrici? Lo facciamo con tutte le opere letterarie? In qualche modo sì, ma forse in una maniera diversa quando i testi in questione, e soprattutto la loro autrice, hanno molte voci e una narrativa fondata sulla liberazione di tutte queste contemporaneamente, sull’intersezione di medium diversissimi, che chiedono a chi legge di approcciarsi a ogni pagina in modo nuovo: di girare il libro al contrario, di guardare le parole diventare immagini, di decifrare una lingua inconoscibile. Forse da questo possiamo riconoscere una grande scrittrice, e non da quanto i burocrati del canone ritengano valido o meno inserire il suo nome nei loro registri, ma dalla sua capacità di rifiutare così radicalmente ogni confine da portarci fuori dal testo, e anche se in qualche modo insieme, ognuna in una direzione diversa.

di Arianna Preite

Note

1] Dodie Bellamy, Digging Through Kathy Acker’s Stuff, citato in Chris Kraus, “Littoral Madness: On Kathy Acker”, the Paris Review, 22 agosto 2017, https://www.theparisreview.org/blog/2017/08/22/littoral-madness/

[2] Chris Kraus, “Littoral Madness: On Kathy Acker”, the Paris Review, 22 agosto 2017, https://www.theparisreview.org/blog/2017/08/22/littoral-madness/

[3] Garth Greenwell “The Wild, Remarkable Sex Scenes of Lydia Yuknavitch” in the New Yorker, 25 agosto 2015,​​https://www.newyorker.com/books/page-turner/the-wild-remarkable-sex-scenes-of-lidia-yuknavitch

[4] Kathy Acker citata in Alexandra Kleeman “The Future Is a Struggle: On Kathy Acker’s Empire of the Senseless”, the Paris Review, 12 giugno 2018, https://www.theparisreview.org/blog/2018/06/12/the-future-is-a-struggle-on-kathy-ackers-empire-of-the-senseless/

[5] Alexandra Kleeman “The Future Is a Struggle: On Kathy Acker’s Empire of the Senseless”, the Paris Review, 12 giugno 2018, https://www.theparisreview.org/blog/2018/06/12/the-future-is-a-struggle-on-kathy-ackers-empire-of-the-senseless/

[6] Lydia Yuknavitch “It’s a myth that suffering makes you stronger”, Ideas.Ted.Com, 24 ottobre 2017, https://ideas.ted.com/its-a-myth-that-suffering-makes-you-stronger/


In copertina, una fotografia di Kathy Acker scattata nel 1996 (Creative Commons Licence)

All of Us Lovers: gli amori tradotti della redazione

In attesa delle vostre proposte per la Call for Translators su poesia e amore, la sezione Traduzioni di Almanacco si mette a nudo con le sue editors’ picks.

Si chiama ‘Pur sempre amore’, l’abbiamo lanciata qualche settimana fa, è una Call for translators in cui vi invitiamo a esplorare, con le vostre traduzioni poetiche, le forme, i modi e le funzioni della scrittura d’amore contemporanea. Come l’odore del cibo fa venire fame, come chi è innamorato innamora, con queste editors’ picks vogliamo farvi venire l’acquolina in bocca. Vi offriamo una specie di Satura lanx, un piatto di primizie in cui troverete un po’ di tutto: l’inglese, il francese e lo spagnolo, ma anche il greco moderno e il polacco; il verso, il verso che va verso la prosa, e la prosa; amori mortiferi esagerati erotici sconsolati bizzarri materni. Eppure, per quanto diversificata, la nostra è una selezione di testi che non vuole esaurire, quanto piuttosto suggerire, provocare, invitare ad aggiungere…

Aliquot lineae desiderantur, ‘mancano alcune linee’, è la formula che i filologi utilizzavano per segnalare la presenza di una lacuna in un testo. “Desiderantur…desiderantur…desiderantur”, insiste anaforicamente Sanguineti nel primo tassello del suo Laborintus, lasciando intuire come la lacuna in questione non sia più soltanto testuale, ma si apra nel ventaglio di una polisemica mancanza.

Donne desideranti (e non solo desiderate), donne scriventi (e non solo scritte), donne amanti (e non solo amate), donne osservanti (e non solo osservate), per esempio: una lacuna nella storia ufficiale della letteratura occidentale. Così, tradurre le voci contemporanee di Sara Torres, Bronka Nowicka, Phoebe Giannisi, ma anche le meno contemporanee di Louise Bogan e Catherine Pozzi, è il nostro tentativo parziale di colmare questa mancanza, ma è anche un modo per farvi venire voglia di tradurre, un invito ad aggiungere i vostri amori ai nostri, le vostre voci alle nostre. Perchè “solo nel coro”, diceva Kafka, “può esserci una certa verità”.

Da Phantasmagoria (La Bella Varsovia, 2019) di Sara Torres, traduzione di Camilla Marchisotti

has construido un escritorio en tu habitación nueva. la única en la qué me acuesto sabiendo que será necesario desaparecer a la mañana siguiente. hay flores secas en jarrones de cristal distinto. otras no tan muertas todavía en violáceo. verde oscuro. copa con agua. segunda fotografía de alguien que podría ser tú. tu figura y la suya son similares. vuelvo a mirar atenta. debo entenderlo todo. he de ser certera afilada contemplar todas las pistas en el mapa del dolor. seguir hasta la extenuación hasta la extenuación. busco y me encuentro también en los objetos. deseo trazar la jerarquía. más restos que lleven a mí. adherida con cinta a la pared una moneda de cinco peniques con la que codiciamos en tiempos de derrumbe. solo unos días atrás.  vamos a intentarlo ―y entonces la respuesta es no. será heroico y tozudo o no será. será grandilocuente ostentado burdeos o no será. no será si no basa su entereza en la creencia de la gran mentira. la ciega. la fe. la ciega. la fe. voy abajo hasta el poso naranja de las huellas frescas. voy al compost buceando palmas palas de arcilla rota. será caprichoso y hambriento. irrrumpiente y trastornado como el carro que desborda la velocidad de las bestias que iban tirando de él y las empuja a las esquinas del camino. flancos hacia arriba. mirando perplejas. será como el gesto de sorpresa en los ojos redondos y oscuros de las bestias súbitamente arremetidas o no será  

hai costruito una scrivania nella tua stanza nuova. l’unica in cui dormo sapendo che dovrò sparire la mattina dopo. ci sono fiori secchi in vasi di diversi vetri. alcuni non ancora così morti in viola intenso. verde scuro. acqua nel bicchiere. seconda foto di qualcuno che potresti essere tu. la tua e la sua figura sono simili. guardo di nuovo attenta. devo capire tutto. devo essere precisa affilata contemplare ogni indizio sulla mappa del dolore. continuare fino all’estenuazione fino all’estenuazione. cerco e mi ritrovo anche negli oggetti. voglio tracciare la gerarchia. altri resti che conducano a me. appiccicata con il nastro alla parete una moneta da cinque pence con cui tanto abbiamo desiderato  in tempi di rovina. appena qualche giorno fa. proviamoci ―allora la risposta è no. sarà eroico e ostinato o non sarà. sarà grandiloquente ostentato porpora o non sarà. non sarà se non basato interamente sulla credenza nella gran menzogna. quella cieca. la fede. quella cieca. la fede. scendo fino al residuo arancio delle tracce fresche. scavando verso il compost i palmi pale di argilla rotta. sarà capriccioso e affamato. dirompente e frastornato come il carro che sorpassa in velocità le bestie che lo tirano e le spinge ai lati della strada. pancia in su. sguardo perplesso. sarà come il gesto di sorpresa negli occhi tondi e oscuri delle bestie d’improvviso soggiogate o non sarà

Da Kodeks pomylonych (Biuro Literackie, 2020) di Bronka Nowicka, traduzione di Marta Wanicka

SERCE
Serce im prostsze, tym lepsze. Nie wydziwiaj przy nim. Uszyj mieszek. Nie za słaby, bo pęknie, zbyt mocny stwardnieje. Skrój go z płótna, które kurczy się i oddycha. Uchwyć właściwą pojemność. Serce ma pomieścić najcenniejsze rzeczy. Po odłożeniu igły weź coś ulotnego. Jednym dmuchnięciem tchnij płochliwość w środek. Dorzuć głośno chodzący zegarek.

CUORE
Il cuore più è semplice, meglio è. Non sbizzarrirti troppo. Cuci un borsellino. Non troppo debole, così scoppia, troppo forte poi diventa duro. Ritaglialo dal telo che si stringe e respira. Cogli la capienza giusta. Il cuore è fatto per tenere le più care cose. Dopo aver riposto l’ago prendi qualcosa di effimero. Con un soffio inspiragli l’istinto della fuga. Buttaci l’orologio che ticchetta forte.

OKO
Kulkę kwiatu bawełny nasącz wodą. Już z tego możesz uzyskać nie najgorsze oko. O ile nada się do czułego opatrzenia rany, zachowaj je jako udane. Jeżeli będzie mogło tylko widzieć – wyrzuć. 

OCCHIO
Bagna una pallina di fiore di cotone. Già così può uscirne un occhio niente male. Se si presta a fasciare con cura una ferita, tienilo per buono. Se può solo vedere – buttalo.

USTA
Usta wykop w ciele. Lej mleko w ten dół. Jeżeli płyn wsiąknie, to znaczy, że się przyjęły. Sprawdzaj, czy zamieszkał tam czerwony robak. Jeśli tak, uwiąż go do nory, by nie wyszedł dalej niż za krawędź. Codziennie pobudzaj obleńca do ruchu. Jeżeli okaże się leniwy, zrobiłeś paszczę. Lecz gdy robak zacznie się uwijać i otwór przemówi, dokonałeś ust ludzkich.

BOCCA
Scava la bocca nel corpo. Versa del latte nella fossa. Se assorbe il liquido, vuol dire che ha attecchito. Controlla regolarmente se ci è andato a vivere un lombrico rosso. Se sì, legalo alla tana, in modo che non vada oltre il bordo. Ogni giorno stimola il verme a muoversi. Se viene fuori pigro, hai creato delle fauci. Ma se il lombrico comincia a dimenarsi e il buco parla, hai realizzato una bocca umana.

SZEPT
Opakuj głos mówiący w aksamit, w którym ukryłeś listek celofanu. Podawaj zawiniątko przez wąską szczelinę.

SUSSURRO
Avvolgi la voce parlante nel velluto in cui hai nascosto un foglietto di cellofan. Il pacchettino va servito da una fessura stretta.

SŁOWO
Mowa jest niczym pokarm. Zawiera treść. Może krzepić jak cukier lub palić jak pieprz. Truje bądź odżywia. Dlatego tak wyrabiaj słowa, żeby podawane z ust do ust były jak świeże ryby, winne jabłka, miód.

PAROLA
Il parlare assomiglia all’alimentazione. Contiene sostanza. Può rinvigorire come lo zucchero o bruciare come il pepe. Avvelena o nutre. Per questo, lavora le parole in modo che servite da labbra a labbra siano fresche come pesci, mele succose, miele.

SKŁADNIA
Sztukę scalania słów poprzedzaj praktyką dotyku. Nim wypowiesz „miękka sierść”, długo trzymaj rękę na psim łbie.

SINTASSI
All’arte di assemblare le parole fai precedere la pratica del tocco. Prima di dire “pelo morbido” tieni una mano poggiata a lungo sulla testa di un cane.

WIERSZ
Uszyj brzuch. Umieść w nim embrion – zwitek czystej kartki. Przywiąż ciążę trokami i noś. Chodząc, kołysz. Kiedy poczujesz, że to już, przykucnij, przyj. W pęknięciu błyśnie główka, zmarszczone papierzątko. Przytul kukiełkę ze znamieniem pisma. Odczytaj z jej czoła pierworodny wiersz.

POESIA
Cuci un ventre. Piazzaci un embrione – foglio bianco arrotolato. Allaccia la gravidanza con le cinghie e portala. Nel camminare, ondeggia. Quando senti che è arrivato il momento, accovacciati, spingi. Nella fessura risplenderà una testolina, un pezzetto di carta sgualcito. Abbraccia il pupazzetto macchiato di scrittura. Leggi dalla sua fronte la poesia primogenita. 

Da Très Haut Amour. Poèmes et autres textes di Catherine Pozzi (ed. di Claire Paulhan e Lawrence Joseph, Gallimard, 2002), traduzione di Elena Strappato

N’ayant absolument plus aucun espoir
Ne comptant, même plus, sur l’intelligence
Comprenant que la gloire est pour les heureux ;
Empêchée de vivre de ce corps foudroyé,
Les amis étant morts,
La science utile étant pour les vivants ;
Objet d’étonnement à ceux qui passent,
Scandale à ceux qui se contentent,
Assise sans presque respirer,
Elle travaille,
Une rose au cœur.

Non avendo assolutamente più nessuna speranza
Non contando più nemmeno sull’intelligenza,
Preso atto che la gloria è per i felici;
Impedita a vivere da questo corpo fulminato,
Gli amici ormai morti,
La scienza utile riservata ai vivi;
Oggetto di stupore per i passanti,
Scandalo per chi si accontenta,
Seduta quasi senza respirare,
Lei lavora,
Una rosa al cuore.

Da Body of this Death: Poems (Robert M. McBride, 1923) di Louise Bogan, traduzione di Elena Strappato

“Epitaph for a Romantic Woman”

She has attained the permanence
She dreamed of, where old stones lie sunning.
Untended stalks blow over her
Even and swift, like young men running.

Always in the heart she loved
Others had lived,—she heard their laughter.
She lies where none has lain before,
Where certainly none will follow after.

“Epitaffio per una donna romantica”

Ha raggiunto la permanenza
che sognava, dove vecchie pietre stanno al sole.
Steli negletti le respirano accanto
rapidi e compatti, simili a giovani in corsa.

Sempre nel cuore ha amato
altri hanno vissuto – li ha sentiti ridere.
Sta dove nessuno è mai stato
dove è certo che nessuno seguirà.

Da ομηρικά (οmeriche, Kedros, 2007) di Phoebe Giannisi, traduzione di Vassilina Avramidi

“(Πηνελόπη ΙΙΙ)”

λατρεύει τα παιδιά της
όταν ήταν μικρά από το πιάτο τελείωνε αυτή το φαγητό τους
ακόμα τρώει τα υπολείμματα
και τώρα πλέον
φορά τα ρούχα της κόρης της από εκείνης ψηλότερης
όταν τα έχει βρωμίσει και στο καλάθι τα αφήνει για πλύσιμο
φορά τα καλτσάκια
και πάει μ αυτά στη δουλειά
τα λερωμένα δανείζεται
άραγε κάνει οικονομία στις πλύσεις ή
το φυλαχτό είναι ενεργό

μονάχα
όταν κρατά από το σώμα
το πιο δικό μας
ίχνος
των εκκρίσεων τη μυρωδιά;

“(Penelope III)”

adora i suoi figli
quando erano piccoli lei stessa dal piatto finiva il loro cibo
ancora mangia gli avanzi
e adesso ormai
porta i vestiti della figlia, più alta di lei
quando sporchi li lascia nel cesto del bucato
si mette i calzini
e con questi va al lavoro
prende in prestito quelli sudici
sarà per risparmiare sui bucati oppure
l’incantesimo rimane attivo

soltanto
quando mantiene dal corpo
traccia
quella più nostra
l’odore delle secrezioni?

“(Πηνελόπη IV)”

όταν γεννιέται ένα παιδί
η τρυφερότητα ρέει
όπως το γάλα απ’ τις ρώγες
ο ουρανός καθαρός
όπως τα μάτια του που θολά βλέπουν
γεννιέται μεγάλο μέσα στο τόσο μικρό

ανοιχτό και κλειστό
κάθε νεογέννητο ο Δίας στο άντρο του
θηλάζει απ’ την κατσίκα το γάλα
ανίσχυρο και για αυτό
δυνατότερο όλων
έτοιμο
έχει στα χέρια του τον κόσμο

ξύπνησα μέσα στη νύχτα
να μουρμουρίσω την αγάπη μου για αυτό
τον αγώνα τη δύναμή του για ζωή

τις κάλτσες τα ρούχα του
την δική μας ανίκητη μυρωδιά
τον ήσυχο ύπνο του
ένα απέραντο δώρο έπεσε πάλι από τα αστέρια

“(Penelope IV)”

quando nasce un bimbo
la tenerezza cola
come il latte dai capezzoli
il cielo chiaro
come i suoi occhi che guardano sfocati
nasce grande dentro quel tanto piccolo

aperto e chiuso
ogni neonato è Zeus nel suo antro
prende il latte dalla capra
impotente e perciò
più forte di tutti
pronto
tiene nelle mani il mondo

mi sono svegliata nella notte
a mormorare il mio amore per lui
la sua gara la forza per la vita

i suoi calzini i vestiti
il nostro invincibile odore
il suo sonno quieto
un altro regalo infinito caduto dalle stelle

Sette domande sul post-esotismo. Intervista ad Antoine Volodine

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Lorenzo Petrachi (Università di Bergamo; Dalla Ridda)

L’utilizzo del “noi” e del “voi”, in quest’intervista del 7 ottobre 2024, è dovuto allo statuto peculiare della funzione autore nella letteratura post-esotica, statuto accomunabile per certi versi all’eteronimia. Antoine Volodine si vuole infatti unico “portavoce” di una letteratura scritta altrove, composta da una molteplicità di voci autoriali che, nella finzione post-esotica, abitano un universo concentrazionario e prendono il nome di “surnarratori”. Tra questi, Manuela Draeger, Elli Kronauer, Lutz Bassmann e lo stesso Antoine Volodine, eteronimo sui generis del solo individuo in carne ed ossa che congegna e dà alle stampe il post-esotismo. “Essere un collettivo”, scrive, “è qualcosa di molto delicato”. Si ringraziano Anna D’Elia, traduttrice del volume Liturgia del disprezzo, e la casa editrice 66thand2nd.


Lorenzo Petrachi: Il rapporto della letteratura post-esotica con l’attività di traduzione è tutt’altro che esteriore, al contrario, si potrebbe dire che è particolarmente stretto, forse persino costitutivo. In primo luogo, perché lei, Antoine Volodine, oltre che portaparola e delegato degli scrittori post-esotici – quanto a loro morti, imprigionati, impazziti, comunque sia impossibilitati a parlare da sé fuori dalle mura del loro universo concentrazionario –, è traduttore dal russo e dal portoghese di una letteratura che non appartiene agli orizzonti del post-esotismo (con l’eccezione degli Slogans di Maria Soudaïeva). Poi, e più fondamentalmente, perché i volumi che compaiono in libreria accompagnati dalle vostre firme costituiscono le prove materiali dell’esistenza di un altrove, rappresentano e veicolano una cultura non solo relativamente, ma assolutamente straniera. Nelle vostre parole, il post-esotismo è «una letteratura straniera scritta in francese», pensata in una lingua estranea al francese, indistinta quanto alla sua nazionalità. Per questo motivo, i vostri libri prendono forma in una «lingua di traduzione» da situare a valle rispetto a un originale inaccessibile, spurio e dall’esistenza comunque incerta. Qual è il rapporto tra questa traduzione primaria e quelle che ne derivano, come ad esempio quelle in lingua italiana? In che modo gli scrittori post-esotici affrontano la traduzione dei loro libri in più lingue, tutte estranee a diverso titolo al loro mondo e alle loro abitudini?

Antoine Volodine: È un grande piacere per me essere tradotto in una lingua straniera, e in particolare – siamo in Italia – in particolare in italiano, perché ciò che adesso è disponibile in traduzione non è un piccolo libro isolato, ma già una parte dell’edificio post-esotico. Infatti, Isabella Ferretti, che dirige 66thand2nd, ha in progetto di pubblicare tutto il post-esotismo, e sono davvero molto felice di vedere questo progetto prendere forma. Si sta concretizzando rapidamente e con costanza. Inoltre, ho una traduttrice straordinaria, Anna D’Elia, che ha recentemente tradotto – ma non era il primo libro che traduceva – Liturgia del disprezzo, ed è davvero molto piacevole sapere che questi testi, che hanno all’origine un’esistenza in lingua francese, riprendono vita in Italia in altro modo, grazie alla magia della traduzione. Per me, è un vero piacere sapere che i libri esistono in un altrove vicino o lontano e toccano un pubblico non francese, dialogando con un pubblico non francofono. È magico. E infatti, come lei ha sottolineato, il fatto che il post-esotismo esista in lingue diverse, comprese lingue poco abituali, come il coreano, il cinese, lo sloveno, fa parte di questa costruzione senza bandiera che è il post-esotismo. È un’estensione del nostro progetto, un superamento degli ostacoli che esistevano all’inizio, quando la nostra «letteratura straniera scritta in francese» restava meno accessibile, meno internazionalista. Oggi questa proclamazione internazionalista è meno astratta. In Italia, diventa profonda. Questo non cambia in nulla le nostre abitudini di scrittura, i nostri fondamenti ideologici, ma rafforza il nostro progetto. Molte lingue mancano all’appello, anche in Europa. Speriamo che la situazione evolva!

L.P.: Leggendo i vostri libri e le vostre interviste ciò che risalta immediatamente è il valore che attribuite a ciò che chiamerei l’autonomia di questo universo letterario. Un’autonomia che non si illude certo di essere assoluta e che forse non è ostentata, ma che risulta inaggirabile, dacché indica precisamente l’alterità propria al post-esotismo. Avete più volte sottolineato come questo enorme edificio letterario si sia formato senza tenere conto dei gusti, delle tendenze, delle tradizioni del mondo editoriale, senza badare a eredità e filiazioni nella «letteratura ufficiale», avendo cura soltanto di produrre qualcosa che vi piacesse – cioè che piacesse a voi e al vostro pubblico immaginario, caratterizzato significativamente dalla condivisione pressoché totale della vostra sensibilità, della vostra visione del mondo, delle vostre ribellioni. Nel concreto, questa alterità si è prodotta sistematicamente, lavorando con metodo affinché nomi, luoghi ed eventi non portassero alcuna traccia che potesse ricondurli a un territorio culturale preciso, impegnandovi in una ginnastica traduttiva operante tramite l’auto-censura, la sovrapposizione di filtri onirici e la proliferazione di generi letterari inediti (narrats, entrevoûtes, Shaggäs…). Forse è anche per questo che avete descritto la vostra scrittura come non tanto schizofrenica quanto «ostinata», come una scrittura che procede, incurante, per la sua strada. Cos’è in gioco in questa questione dell’autonomia? Si tratta con ogni evidenza di un nodo cruciale della vostra poetica, dal momento che riguarda la centralità quasi fondativa del piacere dello scrittore-lettore, il metodo teorizzato e messo in opera dai surnarratori post-esotici e, di conseguenza, il procedimento di scrittura che costituisce la letteratura post-esotica in quanto tale.

A.V.: Uno dei miei obiettivi, l’unico obiettivo, è scrivere per i lettori. Includere lettori e lettrici nelle opere post-esotiche che hanno tra le mani, condividere le nostre emozioni, le nostre avventure, i nostri percorsi, e, prima di tutto, le nostre immagini. I lettori sono, in una prima cerchia, in un primo tempo, lettori immaginari, che sono prigionieri e prigioniere in una prigione immaginaria, e che forniscono anche dei frammenti di testo sui quali lavorano gli eteronimi per creare libri che appaiono all’esterno, al di fuori dei muri della prigione. Questo è il principio. Una letteratura puramente carceraria che funziona a circuito chiuso, in cui tutte le ricerche formali e le immagini, le allusioni storiche, i segreti, i falsi segreti, i giochi, l’umorismo, sono composti in un’atmosfera estremamente complice, e che, una volta pubblicata, diventerà una sorta di letteratura di poetica e di cultura testimoniale, offerta ai simpatizzanti e ai lettori e alle lettrici delle librerie. Una sequenza letteraria strana, offerta a un pubblico vasto, un pubblico che è chiamato a unirsi, simpatizzando, ai fantasmi, alle storie filmate o teatralizzate, alle ruminazioni di autori immaginari, la cui creazione è molto diversa da ciò che chiamiamo «la letteratura ufficiale». Ma, ben inteso, si può anche mettere tra parentesi questo sfondo carcerario, questa presenza genetica di un coro immaginario di voci imprigionate. Scrivo, come anche lei ha sottolineato, per il piacere di creare qualcosa che è sì marginale nella letteratura, ma che al contempo cerca di avere una propria estetica, una propria bellezza. Non nascondo che per me scrivere è un piacere, mi fa stare bene. Anche quando i passaggi che attraversano i libri sono dolorosi o inquietanti. Per la mia primissima opera, Biographie comparée de Jorian Murgrave, scrivevo soprattutto per me stesso, come avevo fatto fin dall’infanzia. Non avevo ancora pubblicato e scrivere era un piacere solitario. Ma, dal secondo libro in poi, ho preso coscienza che scrivevo per lettori concreti. E, da quel momento, ho saputo di avere il compito di coinvolgere uomini e donne concreti in sequenze di immagini, di farli entrare nelle storie e, se possibile, di renderli parte dei mondi onirici che mi perseguitavano, che ci perseguitavano.

L.P.: Alcune immagini post-esotiche portano con sé un alone piuttosto caratteristico di indefinitezza e indecidibilità. Penso ad esempio a quei personaggi che vengono descritti come uccelli, senza altre specificazioni, e che vengono poi visti compiere gesti che richiedono evidentemente una costituzione e una postura antropomorfe, senza che per questo smettano di essere degli uccelli. Si sarebbe tentati di dire che queste immagini facciano parte del funzionamento della complicità post-esotica tra scrittori e lettori, i quali, avendo una cultura, una memoria, una sensibilità comuni e condividendo la stessa necessità di eludere lo sguardo onnipresente del nemico, non hanno bisogno di esplicitarle ulteriormente, temendo anzi di venir troppo compresi da chi è estraneo alla loro solidarietà tramante e sediziosa. Queste immagini ambigue sono tali anche nel braccio di massima sicurezza o scaturiscono al contrario quali effetti di traduzione?

A.V.: Non si tratta di una questione di traduzione. Si tratta di costruire effettivamente una cultura, come ha detto anche lei, una cultura condivisa tra lettori, narratori, surnarratori. Si tratta di fare in modo che i lettori si approprino di questa cultura durante la lettura e non siano disorientati da ciò che hanno sotto gli occhi e da ciò che, consapevolmente o inconsapevolmente, emerge nei loro stessi sistemi di immagini. È nostra responsabilità, in quanto autori (parlo a nome di tutti noi, Lutz Bassmann, Elli Kronauer, Manuela Draeger e altri), riuscire in questa immersione accompagnata del pubblico nei nostri libri. Ciò significa che alcune nozioni stabilite dal “senso comune” vadano alla deriva verso un mondo più onirico, senza che ciò disturbi la lettura. Lei ha infatti segnalato una porosità completa tra l’animale e l’umano, che non è decisa, non è decidibile, e che consente, penso, al lettore di sognare a modo suo, di introdursi in personaggi totalmente marginali, estremamente mal posizionati nel mondo. Nei nostri romanzi più recenti, questa porosità si estende anche tra viventi e non viventi. Molti dei nostri personaggi non appartengono al mondo dei viventi, ma agiscono con normalità (con una normalità relativa), sebbene ciò avvenga dopo la morte, in mondi oscuri (come in Black village) o luminosi (come in Terminus radioso). In generale, si potrebbe dire che tutti questi mondi sono «magici», un aggettivo che uso con cautela, poiché troppo utilizzato, a torto e a ragione. Ci organizziamo affinché lettori e lettrici siano trasportati là dentro e ammettano questa nuova normalità che offriamo loro…

L.P.: L’edificio post-esotico sta per completarsi con la pubblicazione del quarantanovesimo volume, il ciclopico Retour au Goudron, cui lavorate ormai da molto tempo e che verrà firmato col nome collettivo di Infernus Iohannes. Antoine Volodine ha recentemente pubblicato il suo ultimo romanzo, Vivre dans le feu, congedandosi in maniera tutt’altro che mesta dal mondo editoriale, mentre Manuela Draeger ha annunciato Arrêt sur enfance, quarantottesimo e dunque penultimo tassello del mosaico. Come hanno preso il ritiro Elli Kronauer e Lutz Bassman? E Volodine, cos’ha intenzione di fare adesso, raggiungerà «finalmente» gli altri nel braccio di massima sicurezza? Come immaginate, una volta stampata l’ultima frase, quel «mi taccio» [Je me tais] che chiuderà Retour au Goudron, la posterità di questo strano oggetto letterario che è il post-esotismo?

A.V.: Innanzitutto, è molto difficile immaginare una posterità. E d’altra parte, l’ultima frase – l’ho detto e ridetto – sarà proprio «Je me tais», taccio, e, dopo essermi taciuto, non farò più apparizioni pubbliche né pubblicazioni. Vedo che è molto informato sugli ultimi titoli. Effettivamente, Manuela Draeger pubblicherà tra qualche mese, nella primavera del 2025, Arrêt sur enfance, che sarà l’ultimo titolo dell’edificio post-esotico romanzesco propriamente detto. Abbiamo dato grande importanza alle voci femminili in tutte le nostre opere (qualunque ne sia stato l’autore) e Manuela Draeger ha firmato moltissimi testi dell’edificio: è normale che dopo «l’ultimo di Volodine» esca «l’ultimo di Manuela Draeger» per chiudere il ciclo. Poi ci sarà un’ultima performance. Se vogliamo considerare la scrittura del post-esotismo come una performance letteraria che si è svolta per quarant’anni, allora questo ciclopico Retour au Goudron è una performance nella performance. Firmato Infernus Iohannes, 4000 pagine e anche più, 4400 pagine, 343 brochure «bardiche», con fotografie, testi e rubriche regolari: un oggetto gigantesco che non può avere una sua esistenza editoriale e si presenterà quindi (almeno in un primo momento) come una scultura labirintica, posta nello spazio di un’esposizione. Una struttura a cerchi concentrici, artistica, architettonica, ipnotica, nella quale i visitatori (non avendo quindi più lo statuto di «lettori») saranno invitati a passeggiare e a immergervisi. Le 4400 pagine saranno esposte – è enorme. Un oggetto onirico, concreto, posato nel mondo reale da tutti gli autori post-esotici: la firma Infernus Iohannes è collettiva e raggruppa tutte le voci del post-esotismo, anonime e non anonime. Non ci sarà alcun testo firmato all’interno di queste innumerevoli pagine. Infernus Iohannes, lo ricordo, è già esistito editorialmente nel panorama francese con un libro uscito due anni fa, Débrouille-toi avec ton violeur. Ma nel caso di Retour au Goudron, che non vedrà la luce prima del 2026-2027, entreremo tutti in un’altra dimensione.

L.P.: In diverse occasioni, avete spiegato che il post-esotismo è nato a tastoni e intuitivamente, facendosi man mano, dunque senza un progetto ben definito a monte e senza seguire tracciati o costrizioni compositive particolarmente vincolati, del tipo Oulipo. Ora, a un passo dal completamento di tale edificio, in che modo è cambiata, se è cambiata, la vostra visione di questa impresa? Più in generale, qual è la temporalità propria alla letteratura post-esotica? Si tratta di una letteratura immobile o ha al contrario attraversato delle fasi? Come appaiono, retrospettivamente, i vostri primi quattro romanzi editi – tra cui Rituel du mépris, appena apparso in traduzione italiana – e che sono in qualche modo precedenti alla presa di coscienza di sé da parte del post-esotismo? A noi lettori, probabilmente con una bramosia del principio che non vi appartiene, viene senz’altro voglia di leggere Biographie comparée de Jorian Murgrave

A.V.: I primi quattro libri che ho pubblicato non sono i primi quattro libri che ho scritto. Ho scritto moltissimo sin dall’infanzia, come si vede in Scrittori, dove figura l’episodio autobiografico del piccolo ragazzo preso da una trance di scrittura. Ho iniziato a pubblicare solo nel 1985, avevo 35 anni, e ho lasciato dietro di me numerosi manoscritti che non erano affatto destinati alla pubblicazione e che, peraltro, ho praticamente distrutto integralmente, secondo il principio «non lasciare tracce». Già in questi primi scritti c’era una sorta di slancio scritturale, di slancio nei temi, e nel modo di costruire i romanzi a partire da frammenti e da voci incrociate, che si ritrovano poi nei miei quattro primi libri pubblicati. Sono stati pubblicati in una collana di fantascienza, ma, per me, erano soprattutto e prima di tutto, marginali rispetto alla letteratura francese, e non segnati dal marchio della fantascienza. Non sapevo davvero cosa stessi facendo, semplicemente era per me chiaro che non mi collegavo a nessuna tradizione contemporanea ben definita. Avevo in mente molta letteratura sovietica, molta letteratura fantastica, molto surrealismo, molte influenze cinematografiche, ma ero consapevole di iniziare a camminare su un sentiero nuovo. E quindi ho continuato su questa scia, e infatti, è dopo una decina di romanzi, forse anche un po’ prima, che il progetto si è veramente cristallizzato per mostrare questa idea del post-esotismo come letteratura completa, a parte, totalitaria anch’essa, che non guarda né a destra né a sinistra, che non considera ciò che accade nella letteratura contemporanea, ma che si costruisce completamente, senza concessioni, con le proprie esigenze e le proprie regole. E poco a poco, effettivamente, ho camminato su questo sentiero, sempre con piacere, senza costrizioni, guardando indietro, senza rimpiangere ciò che avevo già pubblicato. I miei libri, i nostri libri, sono spesso molto diversi l’uno dall’altro. Nessuno, a mio avviso, deve essere considerato un errore, qualcosa da correggere o da dimenticare. Così, le stranezze narrative si sono completate per costituire un edificio che sta in piedi, e che noi rivendichiamo tutti senza sfumature. E oggi, dove l’edificio sta per essere coronato da questa performance, Retour au Goudron, non ho più quell’angoscia che a lungo ho provato. Avevo paura di non avere il tempo (per motivi fisici, di invecchiamento, medici, ecc. – ma mai per mancanza di ispirazione!) di terminare il progetto: di firmare 49 titoli e di scrivere la famosa frase «Je me tais». Ora, invece, posso tirare un sospiro di sollievo: è fatta!

L.P.: Forse da sempre, ma apparentemente con una centralità via via maggiore, uno dei motivi ricorrenti del post-esotismo è ciò che di recente ha descritto come la volontà o addirittura l’arte di riuscire a sopravvivere in un contesto sempre più sfavorevole e inospitale, rispetto cui ciò che abbiamo appreso non sempre risulta adeguato e sufficiente. Proprio quest’anno è comparso un suo scritto piuttosto atipico, un «racconto morale», le cui conclusioni sono così formulate: «Una volta nel Bardo, non contare troppo sulle Tesi d’aprile per uscirne». Non avete mai smesso di ribadire il vostro rifiuto di una letteratura che voglia imporre una visione del mondo o delle tesi, così come la disillusione degli scrittori post-esotici nei confronti del potenziale politico della letteratura. Ma d’altra parte avete anche sottolineato come, negli anni, la tonalità dei vostri libri sia andata modificandosi, accompagnando a suo modo la storia mondiale, le sue inversioni e i suoi crolli. Così, ad esempio, la fine dell’umanità è divenuta un tema più insistente, e oggi è davvero difficile, leggendovi, non pensare alla catastrofe ecologica e a tutta una serie di crisi conclamate e tra loro incrociate. Se il post-esotismo non vuole proporre niente di utile per confrontarsi con le sfide della contemporaneità, come dobbiamo intendere questo suo intervento inatteso nel dibattito francese che cerca di ripensare il rapporto tra letteratura e politica?

A.V.: Sin dall’inizio delle mie pubblicazioni, i libri che sono stati pubblicati erano caratterizzati da una riflessione politica profondamente rivoluzionaria, ribelle, con una visione del mondo marxista e che rimane tuttora totalmente marxista. Ma devo segnalare comunque che i miei primi libri sono esistiti in un momento in cui l’URSS esisteva e non era affatto pronta a scomparire. C’era nel mondo uno scontro tra, diciamo, una forma di socialismo e il capitalismo. Dopo gli anni di tumulto che hanno segnato la fine del XX secolo, l’alternativa tra socialismo e barbarie è cambiata e solo la barbarie è rimasta. Viviamo – a mio avviso, ma non sono l’unico a pensarla così – viviamo in un mondo barbaro. L’assenza di prospettiva è molto più grande rispetto agli anni ’80, quando uscivano i miei primi libri, in cui l’idea stessa della rivoluzione mondiale esisteva ancora. La rivoluzione mondiale non era un fantasma, un delirio militante, era concretamente davanti a noi. Oggi, siamo entrati in un periodo buio dell’umanità, ecco perché a partire dall’inizio del XXI secolo, si osserva un’evoluzione nel trattamento delle mie storie, dei miei personaggi. Per ogni autore, l’evoluzione è normale, e, anche se le mie opere “giovanili” sono rimaste nell’ombra, anche se, in un certo senso, i miei primi libri appartengono a un periodo di scrittura che si può definire “maturo”, il post-esotismo è evoluto. Non posso riscrivere all’infinito gli stessi libri. Mi sono interessato – dico “mi” per riferirmi a tutti gli autori post-esotici, Lutz Bassmann, Manuela Draeger, Elli Kronauer e Infernus Iohannes come collettivo – ci siamo interessati più spesso a destini individuali segnati da un cammino nell’aldilà. Il Bardo Thödol è il nostro faro poetico, Libro dei morti tibetani racconta che dopo la morte la vita continua. E quindi, se all’inizio nei nostri primi libri le storie già si situavano «dopo il crollo», «dopo la fine», con personaggi che si dibattevano negli incubi che seguono la catastrofe, nei nostri ultimi libri, il più delle volte, i personaggi hanno un altro status. Prima sopravvissuti, combattenti di una realtà amara e terribile nei primi titoli, diventano non viventi negli ultimi. Non si preoccupano più della catastrofe, sono in cammino verso la propria estinzione, sono passati in un aldilà della morte, in un aldilà dell’umanità. Intorno a loro il mondo è molto meno frenetico di quello descritto in Liturgia del disprezzo. L’estinzione del vivente è avvenuta, l’estinzione dell’umanità è quasi totale, come per l’elefante di Gli animali che amiamo, per esempio (o in Terminus radioso, o in Angeli minori, ecc.). Certamente, si può vedere qui non solo un’evoluzione dell’autore, ma anche il cambiamento di prospettiva che si è aperto fin dalla fine del XX secolo: la fine programmata dell’umanità, il suo suicidio inevitabile, la crescente prossimità della guerra nera generalizzata, ecc. Sempre più spesso i nostri personaggi accompagnano la fine e, con l’umorismo del disastro che ci caratterizza, pensano al fallimento di tutto ciò che è venuto prima. E quindi camminano nel buio, nelle ceneri della civiltà. Non combattono più come Moldscher in Liturgia del disprezzo.

L.P.: Da lettore appassionato e simpatizzante del post-esotismo, ho sempre cercato di accettarne le regole, consapevole che «il vero lettore del romanzo post-esotico è uno dei personaggi del post-esotismo». Ho dunque letto i vostri libri senza farmi troppe domande, perché la complicità presupposta tra scrittore e lettore implicava che io dovessi già conoscere le risposte e che i vuoti, le divagazioni, le menzogne contenute nel testo non erano rivolte a me, ma agli inquisitori estranei al nostro patto che a un certo punto, immancabilmente, l’avrebbero maneggiato, ponendogli domande senza risposta poiché, con le vostre parole, «non c’è nessun enigma, il libro sigilla un’alleanza amorosa che la bruttezza della politica e della guerra non può intaccare». Per questo, come probabilmente già saprete, non è un compito facile intervistarvi, bisogna cercare di schivare lo scenario dell’interrogatorio, dell’interpretazione, della spiegazione… Che rapporto avete con la critica, le letture e le interpretazioni più o meno accademiche della vostra opera? È possibile fare un’analisi non inquisitoriale?

A.V.: Ovviamente, non penso che i ricercatori siano degli inquisitori. Questo è scontato. La maggior parte sa che in Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, c’è una descrizione terribile dei critici che vengono in prigione a porre domande sul post-esotismo, sulle forme del post-esotismo, sulle tematiche del post-esotismo. E naturalmente, non possono fare a meno di essere imbarazzati e di dire: «spero di non essere come Niuki e Blotno che pongono queste domande»! Ma in realtà, ho ottimi rapporti con tutta la critica letteraria che, forse perché i miei libri sono abbastanza particolari, abbastanza ricchi, pone diverse questioni che sono interessanti anche per me. Quindi, certo, ho avuto l’occasione di leggere molti lavori accademici, in Francia in particolare, con approcci che non capisco dal punto di vista tecnico – non sono capace di comprendere un certo numero di questioni che si pongono sulla diegesi, sulla focalizzazione interna, ecc… sono cose che mi risultano piuttosto oscure. Perché personalmente non ho questa formazione e perché mi muovo a tentoni, nella mia scrittura, cercando essenzialmente di trasmettere immagini, impressioni, sogni. Ho le mie tecniche, un laboratorio davvero poco definibile, e la pretesa suprema di riuscire a entrare in contatto con il lettore e con la lettrice, di avviare un dialogo «da inconscio a inconscio». Tutto è spontaneo, non teorizzato, con molto lavoro. Non cerco, appunto – poco fa ha parlato di Oulipo – di obbedire rigorosamente a delle costrizioni che degli scrittori accademici potrebbero imporsi, per esempio: nella stesura del mio libro, a quale schema eterodiegetico o non so cosa risponderà questo personaggio?. Sto caricaturando, ma so che questo avvelena tutta la spontaneità di quegli scrittori che sanno sin troppe cose sul processo di scrittura. Questo tipo di questioni mi è estraneo. Ma lo accetto, e mi diverte anche molto essere analizzato. C’è un tipo di analisi che non ho mai visto fare finora ed è la psicoanalisi. E poiché ci sono moltissimi aspetti fantastici e onirici in ciò che scrivo, sono un po’ stupito che non ci sia stato un approccio psicoanalitico al post-esotismo. Ma forse è un bene che al momento non ci sia, perché potrebbe implicare il rischio di bloccarmi completamente sul finale. Di non riuscire a scrivere «Je me tais» e, al contrario, di sdraiarmi su un divano e parlare, parlare, parlare…


Nato in Francia (Chalon-en-Saône) nel 1950, ANTOINE VOLODINE è uno scrittore che sfugge a ogni classificazione. 

Dopo un’attiva partecipazione al movimento del ’68, denunciando da allora le derive della «barbarie planetaria», si è dedicato a studi di lingua e letteratura russa. Con il romanzo Biografia comparata di Jorian Murgrave (Biographie comparée de Jorian Murgrave, 1985, nt) ha esordito nel genere della fantascienza, rivisitato con pratiche di sconfinamento linguistico e tematico in direzione dei grandi classici della sua formazione, da Lautréamont a Beckett, da Dostoevskij ai formalisti russi degli anni ’20, alla narrativa latinoamericana degli anni ’70. Nelle sue opere successive (Alto solo, 1991, nt; I nostri animali preferiti, Nos animaux préférés, 2006, nt; il romanzo Scrittori, Écrivains, 2010) ha sviluppato le sue pratiche di attraversamento dei più diversi generi letterari proponendo una concezione della scrittura come «arte marziale», corpo a corpo con gli stereotipi e i limiti della narrazione e del pensiero. I suoi testi hanno ricevuto numerosi premi, compresi i prestigiosi Prix Wepler e Prix du Livre Inter assegnati entrambi ad Angeli minori, edito in Italia da L’Orma Editore nel 2016. Nello stesso anno esce Terminus radioso (66thand2nd), vincitore del Prix Médicis 2014. Nel 2024 esce Liturgia del disprezzo (66thand2nd), dall’originale Rituel de mèpris.

“Se il sole tramonta, qualcosa ne saprà”: Sonderkommando di Yiannis Stiggas

Introduzione e traduzioni dal greco moderno a cura di Vassilina Avramidi.

In Negotiating with the Dead, Margaret Atwood descrive l’esperienza della scrittura come «un rischioso viaggio nell’aldilà», con l’obiettivo orfico di riportare alla luce le voci disperse nel regno dei morti.1 Le sfide, però, non intimoriscono il poeta greco Yiannis Stiggas, che intraprende la discesa agli inferi dei crematori, per dar voce agli incompresi della Shoah. I testi di Sonderkommando (Άγρα, 2023) emanano un male che è tutt’altro che banale: i personaggi principali sono, appunto, i membri delle squadre speciali composte da quei detenuti ebrei che nei campi di concentramento venivano obbligati dai nazisti, sotto minaccia di morte immediata, a collaborare allo sterminio del loro stesso popolo.

Nei versi di Stiggas, i Sonderkommando formano un coro inusuale, e cantano «con la morte adosso»2 le torture che continuano a subire, da uno strano luogo in cui il tempo ha smesso di scorrere. Anzi, sono proprio loro a dover spingere la Ruota del Tempo, costretti forzatamente a lavorare anche post mortem. Alle liriche corali si alternano singole poesie-incontri tra il soggetto poetico e personaggi ben noti del Terzo Reich, o intellettuali sopravvissuti al genocidio. Ne «L’angelo bianco», le memorie di Josef Mengele si intrecciano con quelle universitarie dello stesso Stiggas che, ancora studente, sradica il cuore di una rana, e lo sente fantasmaticamente battere sulle proprie unghie per ore, ancora e ancora.3 Qualche pagina dopo, si palesa Jean Améry, per dare al poeta qualche consiglio di scrittura: «mi manca solo un tuo verso», gli dice, «ciò che scrivevi da piccolo / che il sangue si sparge / sempre in tempo presente» («απλώς μου λείπει ένας στίχος σου / εκείνο που ‘γραφες μικρός / ότι το αίμα χύνεται / πάντα στον ενεστώτα»). Proprio al presente ci parla ancora Adolf Eichmann, che ignaro del suo status attuale cerca disperatamente i prossimi capri espiatori negli elementi naturali.

Dal collage di Soña Spitzová sulla parte anteriore della copertina, al disegno di František Brozan sul retro,4 morti ad Auschwitz all’età di tredici e undici anni rispettivamente, Sonderkommando si configura come «un luogo di lamento» (« τόπος οιμωγής»), e il lettore spesso condivide il sentimento di «imbarazzo» («αμηχανία») del poeta, preannunciato in esergo: «questo Mondo / ho balbettato / è specchio del mio imbarazzo» («αυτός ο Κόσμος / ψέλλισα / είναι φτυστός η αμηχανία μου»). Rimane ancora da capire se, tra i versi di Stiggas, imbottiti di memoria e di storia, riusciremo a trovare anche «calore nei colori».

Yiannis Stiggas, Sonderkommando

Sonderkommando, p. 14-15

Κατά τ’άλλα βαριόμαστε
εδώ κάτω
ο Χρόνος είναι χειροκίνητος
γυρνάμε τον τροχό για τον Τροχό
και συνθλίβουμε
                          τούτη την Άνοιξη
κλείνοντας το μάτι στην επόμενη

κατά τ’άλλα
η εργασία απελευθερώνει
(μισή αλήθεια που σκουριάζει – την ίδια ώρα
που οι ολόκληρες γίνονται λίπασμα)
Ύστερα πέφτει μια ψιλή βροχούλα
και ιδού
              ο ασφόδελος Μιχαήλ
ιδού
              η λυγαριά Μαρία
με τα μακριά ικετευτικά κλαριά
Άααχ
αγαπήσαμε τη φύση
              για τους λάθους λόγους
στις τρεις διδαχές
              οι δυο είναι κάτεργο

– αδυνατώ να το εξηγήσω αυτό –

Αλλά
για να δύει ο ήλιος
κάτι θα ξέρει.

Sonderkommando, p. 14-15

Per il resto ci annoiamo
qui sotto
il Tempo è manuale
giriamo la ruota per la Ruota
e schiacciamo
                          questa Primavera
strizzando l’occhio alla prossima

per il resto
il lavoro rende liberi
(mezza verità che si ossida – mentre
quelle intere si fanno concime)
Dopo cade una pioggerellina
ed ecco
              Michele, l’asfodelo
ecco
              Maria, l’agnocasto
dai rami lunghi, supplicanti
Aaah
amavamo la natura
              per le ragioni sbagliate
sui tre insegnamenti
              due sono torture

– questo non riesco a spiegarmelo –

Però
se il sole tramonta
qualcosa ne saprà.

Sonderkommando, p. 30

Δεν έχω αμφιβολίες πια
η γλώσσα μου θα γίνει βυσσινιά
θα βρούμε θαλπωρή στα χρώματα.
Δυο σαλαμάνδρες καταπράσινες
θα δικαιώσουν – εν αγνοία μου – το κρανίο μου
αργότερα θα ερωτευτούν
           La vita nuova!
La vita nuova, μέσα στ’ατάραχο μυαλό
      του μαυρομπούμπουρα
Φέρνει πέντ’-έξι σβούρες
                      και σωριάζεται
σαν τιποτένιος στις καμέλιες

θα σας ξανάρθω
σύντομα

Εχθές στο συρματόπλεγμα
καθόταν κόκκινο υμενόπτερο,
πλησίασα δειλά
                         δειλά
στιγμούλα δεν πετάρισε –

το φίλησα στο στόμα.

Sonderkommando, p. 30

Non ho più dubbi
avrò la lingua color amarena
troveremo calore nei colori.
Due salamandre verdissime
riabiliteranno – a mia insaputa – le mie ossa
più tardi si innamoreranno
           La vita nova!
La vita nοva, dentro la mente serena
      del calabrone nero
Fa cinque-sei giri
                      e poi crolla
come un nulla sulle camelie

tornerò a trovarvi
presto

Ieri sul filo spinato
si sedeva imenottero rosso,
l’ho avvicinato con timore
                         con pudore
– non ha battuto ciglio

gli ho dato un bacio in bocca.

Η θλιβερή πασιέντζα του Αϊχμαν

Δεν ξέρω τι γυρεύω εδώ

Το Έλεος δεν έχει μηχανή
          δεν έχει
ούτε ένα τόσο δα γρανάζι
κι εγώ ήμουν γραναζάκι πάντοτε
μαθήτευσα να φέρνω
τέλειους κύκλους
            να συμπλέκομαι
μ’ άλλα γρανάζια μεγαλύτερα
με -αν το θες- ιμάντες

Δεν ξέρω τι γυρεύω εδώ

Όταν ζυγίζεις τις ψυχές με την οκά
μοιραία γίνεσαι μπακάλης
-δεν θα ΄χες τύχη στα τεφτέρια μου-
Δεν φταίει ο Βάγκνερ
            φταίει το θρόισμα
δεν φταίν τα τραίνα
           φταιν τα κάρβουνα
-από τι φτιάχνονται τα κάρβουνα;-
φταίνε, σαφώς, τα δέντρα

Οι σοφιστείες μου σκαρφαλώνουν εύκολα
μέχρι τη μεγάλη σοφιστεία:
           τον Θεό
αν θες να τον κρεμάσεις – κρέμασ’ τον

ψευτοφονιά μου,
                          τριτοδεύτερε

το ξέρω θα με χρειαστείς
ίσως σε χίλια χρόνια
όσο βαστά ένα Ράιχ
όσο βαστά το μίσος μου
εγώ θα είμαι εδώ
                          για σένα.

Il triste solitario di Eichmann

Non so che ci faccio qui

La Pietà non ha motore
          non ha
neanche un minimo ingranaggio
ero anch’io ingranaggio minuscolo
ho appreso a tracciare
cerchi perfetti
            ad allacciarmi
con altri ingranaggi più grandi
con -se preferisci- delle cinghie

Non so che ci faccio qui

Quando pesi le anime all’etto
è destino, sarai bottegaio
-non avresti successo nei miei blocchetti-
Non è colpa di Wagner
            è colpa del fruscio
non è colpa dei treni
           è colpa del carbone
-di cos’è fatto il carbone?-
è colpa, certo, degli alberi
I miei sofismi si arrampicano facilmente
fino al grande sofisma:
           Dio
se lo vuoi impiccare – impiccalo

caro finto assassino,
                          farabutto
lo so, ti servirò
forse tra mille anni
per quanto dura un Reich
per quanto dura il mio odio
io sarò qui
                          per te.

  1. Margaret Atwood, Negotiating with the Dead: A Writer on Writing, [Cambridge University Press, 2002] Virago: London, 2009, p. 152. ↩︎
  2. Salmen Gradowski, Sonderkommando. Diario di un crematorio di Auschwitz, 1944, Carlo Saletti, Philippe Mesnard (a cura di), Marsilio: Venezia, 2021. ↩︎
  3. Yiannis Stiggas, Sonderkommando, “Ο λευκός άγγελος”, p. 16-17. ↩︎
  4. Entrambi provenienti da “… I never saw another butterfly…” – Children’s Drawings and Poems from Terezin Concentration Camp 1942-1944, Schocken 1987. ↩︎

Niente di nuovo sul fronte dello Strega

A cura di Lorenzo Di Palma.

Quando il 9 ottobre 2024 mi sono collegato su RaiPlay per seguire la cerimonia finale del Premio Strega Poesia, mi trovavo nello stato d’animo di chi si appresta a partecipare ad una veglia funebre: malinconia, generale disagio e il timore di rivedere amici e conoscenti in uno stato di profonda prostrazione. Non c’è infatti un luogo dal quale un poeta dovrebbe tenersi più alla larga di un palco in diretta nazionale. Le caratteristiche del Premio erano già state ampiamente riassunte nel corso della prima edizione. Sarebbe inutile ora stilare una lista dei pro e dei contro dei singoli libri finalisti; cercare tra loro un minimo comune denominatore; snocciolare le peculiarità dell’opera vincitrice.

Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: il Premio Strega Poesia esiste in quanto perfetto coronamento di un sistema editoriale che, per funzionare a dovere, richiede ingenti investimenti nell’ambito pubblicitario e della promozione. Il meccanismo stesso di selezione, che prevede in una prima fase la pubblicazione di una lista di più di cento libri “candidati”, incarna alla perfezione il desiderio delle case editrici di venire accostate, anche solo con la presenza nel listone, al prestigioso nome dello Strega. In effetti la lista dei candidati pre-dozzina è sempre più coincidente con quella dei libri di poesia pubblicati tout court in Italia.

Una delle caratteristiche che il neonato Strega Poesia ha cooptato dalla sua versione adulta di prosa è quella di nascere già ricoperto da una patina di polvere come tutte le cerimonie nazional-popolari che si svolgono a Roma, dove un tempo il papa consegnava l’alloro al poeta che ne avesse fatto espressa richiesta, e non è superfluo sottolineare che il Premio conserva un suo nucleo coriaceo locale (basti pensare che sette sui dodici membri totali del comitato scientifico sono nati nella Capitale). Da questo punto di vista, nessuna sorpresa per un premio come lo Strega che ha sempre avuto una tradizione familiarista, essendo di fatto legato ad un salotto letterario e ad un gruppo di lettori molto specializzati, uniti da un senso di cameratismo che è proprio delle specie protette.

La sorpresa non è stata molta nemmeno per quanto riguarda la vittoria di Stefano Dal Bianco con il suo Paradiso (Garzanti, 2024), un libro già ampiamente individuato come favorito dal momento della pubblicazione, essendo il Premio Strega Poesia anche una specie di premio alla carriera (si veda la vittoria di Vivian Lamarque nella prima edizione), ma prima di tutto una struttura di promozione solida e rodata per i grandi gruppi editoriali.

Tornando proprio alla questione della promozione, è curioso notare come al giorno d’oggi il tour promozionale di un libro possa impegnare un autore fisicamente e psicologicamente più di quanto non lo tenga impegnato l’esercizio vero e proprio della scrittura. Dirò forse una banalità quando dico che ormai non esiste in Italia una letteratura (e in particolare una poesia) che sopravviva soltanto attraverso la fruizione dei libri. È come se la promozione del libro fosse diventata essa stessa il centro dell’operazione culturale legata a quel libro specifico. Nel caso dei libri di poesia, poi, la faccenda assume spesso inquietanti tratti religiosi: la presentazione è il vero rito; il libro è lo strumento; l’autore il sacerdote. A volte immagino Rainer Maria Rilke a bordo di una Fiat 501 Torpedo partita da Duino che fiancheggia la costa adriatica, raggiungendo a sera la Feltrinelli di Venezia giusto in tempo per presentare le sue Elegie, e questa idea mi provoca un profondo imbarazzo.

Essendo ormai il ciclo vitale di un libro paragonabile a quello di alcuni piccoli molluschi invertebrati, ovvero circa tre mesi, è naturale che il sistema editoriale vigente sia improntato alla pubblicazione di più proposte possibili, lasciando poi alla selezione naturale il compito di scremare gli elementi deboli, facendo risaltare i sopravvissuti.

Il sistema dei premi letterari italiani, tra i quali lo Strega ricopre il ruolo di primus inter pares, sembra insomma aver garantito svariati benefici, tra cui spicca quello di creare un nesso solido tra produzione editoriale, già predisposta internamente verso le “opere da premio”, e il gusto del pubblico, avvalendosi di una fitta rete di mediatori. Uno di loro è Edoardo Prati, presente alla cerimonia di premiazione in quanto rappresentante della giuria dei giovani.

Prati è un ragazzo di 20 anni che conta mezzo milione di follower su Instagram e che svolge un lodevole ruolo nel mondo dell’intrattenimento legato alla letteratura, incarnando quasi fisiognomicamente la parte dello studente di lettere classiche.

Ma benché la principale caratteristica di Prati sia la sua giovinezza, si ha come l’impressione che gran parte del suo pubblico di riferimento sia quello dei quaranta-cinquantenni, ormai troppo lontani anagraficamente per comprendere a pieno la sua gimmick.

Fuoriuscendo dal campo delle ipotesi, è un dato di fatto che ormai gli editori di libri si siano in parte trasformati in editori di personaggi e per quanto riguarda l’Italia sarebbe anche possibile tracciare un’evoluzione di questo fenomeno facendolo partire dall’acquisizione da parte dei Fratelli Treves dei diritti di Gabriele D’Annunzio, ma non è questa la sede adatta.

Il fatto è che non esiste in Italia un pubblico di lettori abbastanza forte e folto da poter sostenere da solo la vitalità di un’opera letteraria sul mercato e spesso i libri di qualità, stando ai dati delle vendite, si fermano a poche centinaia di copie.

Incidentalmente, il giorno seguente la cerimonia dello Strega Poesia, mi sono trovato ad assistere alla proclamazione del Nobel per la letteratura sullo schermo del mio smartphone. La vittoria della coreana Han Kang mi ha portato a fare una di quelle riflessioni peregrine che si fanno di solito davanti al caffè la mattina.

Leggendo La vegetariana (Adelphi, 2016) mi sono chiesto cosa mancasse all’Italia per diventare un paese esportatore di letteratura, e cosa mancasse agli scrittori italiani in termini di internazionalità, carisma e forse qualità. Volendo per un momento attribuire al Nobel un’importanza che forse non riveste, è interessante notare che paesi come la Francia, dotati di un sistema editoriale in salute e di una buona risonanza internazionale, abbiano vinto negli ultimi venti anni ben tre volte il Nobel per la letteratura (in totale quindici volte dalla creazione del premio). Di contro l’Italia non vince il Nobel per la letteratura da ventisette anni; la letteratura italiana pare esprimere timidi tentativi di radicamento all’estero (è il caso di Elena Ferrante negli ultimi anni) e sembra che nessun premio letterario italiano sia improntato ad una libertà dai vincoli di amicizia e contiguità, né che sia capace di selezionare un livello di letteratura in grado di spostarsi all’estero con le proprie gambe, come accade per il premio Goncourt in Francia o per il Premio Pulitzer negli Stati Uniti. E questo qualcosa vorrà pur dire.

Per approfondire sul Premio Strega si consiglia la lettura di Caccia allo Strega di Gianluigi Simonetti (Nottetempo, 2023) e dell’articolo di Alberto Casadei pubblicato su Doppiozero intitolato Cosa manca ai premi letterari?.


In copertina: miniatura da Olao Magno, Historia de gentibus septentrionalibus, Liber XIII. De agricultura et humano victu, Cap. XXXVII. De ritu bibendi Septentrionalium populorum (1555).

Love will tear us apart (again?)

Editoriale #1 

di Elena Strappato 

Questo è il primo editoriale di Almanacco e non sappiamo ancora come raccontarci.

Per scrivere un editoriale non occorre solo la penna di una redattrice. La storia di ogni rivista, come di altri prodotti culturali, ci insegna che è in quello che nessuno vede lo snodo magnetico della sua vicenda. Molto spesso è l’andamento dei rapporti affettivi che attraversa una redazione ad avere l’impatto maggiore sulla qualità delle sue pubblicazioni. Ne può determinare il ritmo, l’armonia e anche le sue pause. Dietro ogni linea di programmazione, esiste un intreccio di esperienze e vite condivise come di incontri casuali, motivati da intenti ed entusiasmi comuni. Di tutto questo, una rivista è poi il riflesso. 

Lo scorso giugno, quando abbiamo concluso le nostre attività annuali con Grisù, il festival di scritture contemporanee dello Spazio Letterario, ci siamo accorte che il ritmo accelerato a cui stavamo abituando calendari, riunioni online e piani di azione era anche lo specchio o la potenziale causa della sua mancata coesione emotiva e artistica. Ci sembra inutile fingere che, per una rivista e per un’associazione, questa dimensione non esista. Ci sembra più sensato prendere atto che l’investimento di tempo e di affetti che il lavoro culturale richiede, soprattutto se questo lavoro è non pagato, non è sempre sostenibile. Tantomeno se la retorica su cui si regge implica il costante reminder che tutta questa fatica la si fa per amore. Motivetto che sentiamo ripetere da sempre e pretesto per lavorare di più di quello che si può, per romanticizzare il burnout e l’esaurimento delle proprie forze. 

Proprio perché ne siamo consapevoli, non siamo qui per avallare questa visione ma per liberarci da ciò che l’ha resa insostenibile. Vorremo ricordarci quale amore ha spinto tre anni fa un gruppo di persone, in alcuni casi strette dall’amicizia, in altri casi a malapena vicine, a dare vita a un progetto di comunità e di legame con la città. Un collettivo di insegnanti, poet3, traduttor3, studios3, aspiranti scrittrici e scrittori, che restituisse a Bologna, per quanto sentimentale possa suonare, quello che Bologna aveva fatto per loro. 

Si trattava, oggi come allora, del desiderio di incontrarci tra di noi a partire dal nostro amore per la letteratura. Si trattava della necessità di leggerci a voce alta, da cui era nato, ad esempio, il Laboratorio di poesia. Si tratta ancora adesso della volontà di prendere sul serio le cose che si scrivono e di non mentire mai su quelle che si leggono. Il nostro scopo, in questo momento, è ricordarci che un libro non è mai qualcosa di astratto e di immateriale, ma un magnete intriso di materia e una ragione sufficiente per uscire di casa, fare rete, allargarla. 

Per farlo però occorre continuare, soffermandosi, ovvero fare leggermente meno per farlo meglio, per accorgerci di quello che davvero ci spinge ancora a uscire di casa per parlarne insieme. Non solo perché ci sembra necessario, ma perché ci diverte, ci unisce e ci rende meno soli. 

Parte del coinvolgimento affettivo ha a che fare con il tempo, lo spazio e le risorse emotive che ogni persona è disposta a condividere con le altre, il che richiede una certa messa a nudo, un parlare a cuore aperto, prima di tutto tra di noi. Senza questo incastro di desideri e di intenti, non ci può essere una redazione unita. Né tantomeno una rivista o un’associazione. 

Per questo nella nostra programmazione immaginiamo una ripartenza che abbia al centro due spinte propulsive, l’amore e l’incontro, pur consapevoli delle difficoltà o delle incoerenze in cui potremmo incappare nel tentativo materiale di realizzare queste promesse.

La prima metà di ottobre vedrà l’uscita della nostra prima call for translators, curata da me, da Marta Wanicka, Vassilina Avramidi, Camilla Marchisotti, Virginia Ciampi e Marta Olivi, referente per la sezione di traduzione poetica dell’Almanacco. Si chiamerà “Pur sempre amore” e nasce dalla stanchezza di alcune redattrici verso una certa poesia amorosa, come dal desiderio di altre di continuare a scriverne, per scoprire i diversi modi in cui il linguaggio poetico può incanalare oggi un’esigenza-ombra dei nostri sensi e dei nostri corpi. In attesa delle risposte della call, continueremo a pubblicare contributi in traduzione che nascono dalla nostra spinta a rendere accessibili poesie che ancora non lo sono, con l’idea di condividere l’innamoramento stesso che ci porta a tradurle. 

L’altro filone che porteremo avanti è quello dell’incontro materiale con la scrittura, con le persone che ci stanno dietro, con quello che le si muove attorno, con chi la traduce e chi la promuove. Per questo, ritroverete le rassegne di eventi con cui abbiamo abitato gli spazi della città insieme a progetti ancora nuovi, perché dirci di essere “sia un libro che un luogo” non si riduca mai solo a una metafora.

Abbiamo già iniziato a settembre, partecipando al progetto “serra madre – a place for ecological imagination”, ideato da Kilowatt, perché crediamo non possa esserci né libro né luogo di incontro se non re-immaginiamo il nostro rapporto con lo spazio e con l’ambiente. Continueremo con i progetti di Isole”, “Raggi Gamma” e “Quasi La Stessa Cosa, per contribuire a una riflessione sull’arte che non sia solo “una vendetta dell’intelletto sul mondo”, direbbe Susan Sontag, ma un’occasione di ricerca seria, collettiva e orizzontale. 

Non cesserà nemmeno il lavoro di ricerca nelle letterature e pratiche transfemministe e queer di “String Figures” perché non crediamo nei binarismi della critica letteraria né tantomeno in una teoria scollata dalla pratica, ma in un punto di vista critico e incarnato, situato e molteplice. Sempre motivati a incontrarci e a incontrarvi, organizzeremo, come ogni anno, il Laboratorio di poesia, nuove residenze artistiche, nuovi workshop di traduzione e di scrittura visuale per imparare insieme quello che desideriamo sapere e sentirci meno sole in questo desiderio.

Quello che vorremmo fare quest’anno, con tutto questo fuori, è portarlo dentro, farlo entrare nella rivista e trasformarlo in un sapere circolare che non si esaurisca nel tempo e nello spazio di una cena, di un talk o di una presentazione. Non riusciremo a farlo sempre e non lo faremo con tutti i nostri incontri, ma ci sembra un primo tentativo per creare una continuità tra la pagina e le comunità che già esistono all’esterno, unite alla comunità che proviamo da due anni e mezzo a costruire. Questa è la postura che intendiamo assumere in questo primo periodo di ripartenza, prendendo seriamente i nostri intenti ma senza attribuire loro un carattere assoluto, consapevoli della continua evoluzione della rivista e dall’associazione.

All’interno della redazione, e per adesso, ci siamo io, Vassilina Avramidi, Virginia Ciampi, Fabio Ciancone, Simone De Lorenzi, Fausto Filograna, Camilla Marchisotti, Federico di Mauro, Eleonora Negrisoli, Marta Olivi, Lorenzo di Palma, Marta Wanicka.

L’incontro di cui parliamo non smetterà di realizzarsi anche con quello che tutt3 noi leggiamo, ascoltiamo e sentiamo. E in continuità con quello che è stato fatto negli ultimi anni, condivideremo i nostri dubbi o i nostri entusiasmi sulle produzioni artistiche che ancora una volta decidiamo di prendere sul serio e su cui non vogliamo mentire, cercando di restituire il rumore delle nostre letture critiche, convinti che nessuna lettura sia davvero un atto silenzioso e separato dal mondo. Perché, e ormai lo sappiamo, il silenzio vero non esiste.


In copertina: miniatura da un manoscritto francese del Decameron di Boccaccio (XV sec.) conservato alla Bibliothèque de l’Arsenal – Bibliothèque nationale de France [documento digitalizzato su Gallica].

Presto mi staccherò da terra

Racconto di Caterina Villa, secondo classificato al Premio Lo Spazio Letterario 2024.

Pubblichiamo di seguito il testo terzo classificato per la sezione “Racconti” della terza edizione del Premio Lo Spazio Letterario: Presto mi staccherò da terra di Caterina Villa.


Un cappellino color panna, una tutina gialla e bianca, una verde. Due body di cotone così piccoli che non mi entrerebbe nemmeno un braccio. Aggiungo due mutande comode per me, di quelle senza cuciture, e un paio di calze elastiche. Mi servono per contenere l’esplosione dei capillari e delle vene che si sono dilatate negli anni, come fiori che non sanno smettere di sbocciare. Per ultime prendo le scarpette fatte all’uncinetto. Le ho ordinate su internet, dentro il pacco di cartone sembravano ancora più piccole, affogate in un mare di pezzi di polistirolo. Poso una mano sulla pancia, dove sento il peso della mia creatura, anche se lei non si muove mai. Immagino di toccare le sue dita minuscole. Le ho viste all’ultima ecografia, mentre sopra di me mio marito e la dottoressa confabulavano a bassa voce. Ho chiesto, le vedete. Non mi hanno risposto ma io le ho distinte chiaramente, tremolavano sullo schermo in bianco e nero come un ricordo mai morto.

Chiudo la zip. La borsa è color tortora, compatta. Me l’ha consigliata una commessa giovane con le labbra cariche di lucidalabbra. Ho passato la mano sul tessuto impermeabile, nelle infinite tasche e taschine. La prendo, ho detto alla fine e le unghie rosse con cui ha battuto il prezzo mi hanno fatto pensare alla bocca della mia creatura quando piangerà per chiamarmi. Cammino per la stanza mentre aspetto che mio marito venga a prendermi. Apro di nuovo l’armadio, è enorme e ricoperto di specchi; ricordo vagamente di averlo tanto desiderato in un tempo che adesso mi sembra appartenuto a un’altra donna. Abbiamo degli scomparti separati, io e mio marito. Qui i suoi completi, lì i miei vestiti. Uno scaffale è mio, uno è suo, uno mio e uno suo. Mi piego per raggiungere quello più basso. La pancia mi schiaccia la vescica, ma non è una sensazione spiacevole. Mi ricorda che finalmente sono piena fino all’orlo. Infilo le mani dietro i miei golf e afferro le tute, le magliette, le felpe. Le tiro fuori e le sparpaglio sul pavimento. Sono tutte piccolissime. In ginocchio, circondata dai vestiti che indosserà la mia creatura, sento che sto per schiudermi.

Se li vedesse mio marito li getterebbe via. Per questo li ho acquistati di nascosto e ho fatto a pezzi le loro buste grandi e colorate prima di farle sparire nei secchi in strada. Esito, poi li ripongo in fondo allo scaffale e chiudo l’armadio. Manca un’ultima cosa e per recuperarla devo andare nel ripostiglio e tirare fuori la scala. Faccio attenzione a mantenere i movimenti lenti, regolari. La serratura è vecchia, scatta a fatica. È quassù che ho relegato i vecchi album di fotografie, il cappotto blu che mia madre ha portato fino a che ha potuto, l’astuccio di stoffa in cui ho nascosto gli assorbenti inutili da quando ho smesso di sanguinare, ma che non volevo buttare. La scatola è lunga e stretta, sul coperchio il nome in lettere dorate di un negozio che non esiste più. Mi sento come se il mio corpo fosse troppo stretto per contenermi. Riscendo piano, i talloni nudi contro gli scalini gelati.

Apro la scatola e resto ferma a osservarla, acquattata sul suo letto di carta velina, le righe bianche e rosa strette come tagli di lametta. L’ho portata con me in ogni trasloco e l’ho riposta nei luoghi più bui che ho trovato. L’ho vista nei miei sogni e nelle mie preghiere così tante volte che non so contarle. Non l’ho mai indossata.

Mi sono sposata d’inverno come mia madre. Lei non ha voluto accompagnarmi all’altare, anche se mio padre non c’era più. Si era vestita a lutto, un buco nero spalancato nella navata, che risucchiava l’aria e lo spazio. Inghiottiva le note dell’organo. Mi son fissata le mani tutto il tempo. Il bouquet era di gigli. Sentivo freddo. La chiesa era enorme, le parole del sacerdote salivano verso l’alto e svanivano. Le ho dimenticate.

La camicia da notte me l’ha regalata qualche giorno dopo. È entrata nell’appartamento in cui ci eravamo appena trasferiti con la scatola davanti a sé, come uno scudo. Era mia, adesso è tua, mi ha detto, il cappotto ancora addosso. Ero la sua unica figlia femmina e da quando sono nata mi ha cresciuta con un amore impastato di ferocia che non aveva riservato ai miei fratelli. Mi aveva guardato sollevare il coperchio. Il fruscio della seta aveva riempito la stanza come un respiro. Poi si era mossa con uno scatto, le sue dita sulla mia pancia erano ghiacciate anche attraverso la lana del maglione. La camicia da notte mi era scivolata dalle mani, era caduta a terra. Devi riempirti o finirai col volare via, dai retta a me, ha detto, gli occhi azzurri e duri come le biglie per cui i miei fratelli litigavano da bambini.

Una fitta mi taglia il basso ventre. La voglia di ripiegarmi su me stessa fino a diventare un quadratino di carne è intatta, anche se il tempo ha invecchiato me e si è portato via lei. Mia madre ha indossato questa camicia da notte quando ha partorito me e i miei fratelli, e oggi finalmente sarò io a riempirla. La poso sopra le scarpette e richiudo la borsa.

Non me ne sono accorta subito. È cominciata con un gonfiore e una pesantezza che non sapevo definire. Poi hanno iniziato a stringermi troppo le calze, non sono più riuscita a entrare nei miei pantaloni preferiti. La consapevolezza mi si è posata sul fondo dei pensieri, come sabbia. Non ho avuto bisogno di test o di analisi e non mi è mai interessato sapere se fosse un maschio o una femmina. Non cambiava l’amore che già provavo. Ricordavo i racconti di amiche che avevano partorito ormai decenni prima, ma sentivo che la mia situazione era diversa. Si meritava delle regole nuove. Per esempio, non ho mai avuto la nausea. Qualche volta, la mattina dopo colazione, ho infilato due dita in gola per provare anche quello, ma poi mi ero sentita sporca, come se stessi sgualcendo un miracolo. Un pomeriggio ho guidato fino a un capannone in periferia. L’insegna diceva “vestiti per taglie forti”, e ho comprato di tutto: pantaloni, casacche, maglioni. Ci ho nascosto dentro il tesoro che mi dilatava. Non volevo che mio marito lo sapesse, non subito almeno. Siamo sposati da quarant’anni, ma non ha mai capito la mia paura di volare via. Non ha mai avvertito il terremoto che mi squassava con ogni perdita, con ogni test di gravidanza negativo. Non le ha mai sentite lui, le urla dei fantasmi che infestavano il mio utero vuoto. Ho custodito il mistero della mia creatura finché ho potuto. L’ho tenuta al riparo, anche quando faceva male, anche quando potevo sentirla scansare e schiacciare i miei organi. Non erano importanti. Non come lei. Le ho fatto ascoltare le mie canzoni preferite, le ho parlato di me; delle mani di mia madre sulle mie spalle, di come tiravano per farmi stare dritta; delle sue unghie perfette quando mi mostrava le foto del suo matrimonio. Ancora e ancora. Lei nel suo abito bianchissimo, il sorriso di mio padre come una ferita. Ho promesso alla mia creatura che non sarei stata come mia madre. Che l’avrei solo amata. Che non me ne sarei andata prima del tempo e con una manciata di parole amare in bocca. Due giorni fa sono andata al cimitero. C’era vento, nei vasi davanti alla tomba i fiori erano secchi, scricchiolavano. Lei mi ha guardato dalla foto di porcellana con il viso che aveva prima della malattia, gli occhi accesi. Non ho detto nulla, mi sono solo sbottonata il cappotto. Ho ruotato piano prima a sinistra e poi piano a destra per farle vedere bene cosa ero diventata.

Quando arriva, mio marito guarda sia me che la borsa. Hai preso una vestaglia, chiede. Io mi stringo nelle spalle. Ti servirà, insiste lui, hai sentito il dottore, rimarrai ricoverata per qualche giorno. Mi fissa dritto negli occhi. Dopo l’ultima visita mi ha detto: adesso ti devi operare. Io ho paura dell’anestesia, di cadere in un luogo da cui potrei non risalire, ma se è l’unico modo per far venire al mondo la mia creatura sono disposta anche a farmi tagliare a pezzi. Lui, figli, non ne ha mai veramente voluti. Non capisci, vorrei dirgli. Così rispondeva mia madre ogni volta che mettevo in discussione il modo in cui mi demoliva. Non capisci cosa vuol dire essere una madre, sibilava e le sue parole tagliavano e sigillavano insieme. Sono convinta che lo abbia pensato anche alla fine, quando me ne stavo in piedi accanto al suo letto, i miei fantasmi che ridevano. Seduta in macchina mi sento come se dentro di me tutto stesse prendendo una rincorsa; mi chiedo quanto sarà lungo il salto e dove atterrerò.

In ospedale mi fanno accomodare in camera. Ripongo nell’armadio la borsa e la vestaglia che mio marito mi ha costretto a portare. Mi siedo sul letto. Proprio davanti a me c’è un crocifisso. Ha le braccia sottili, allungate fino all’impossibile. Sento freddo anche se fuori c’è il sole. Mio marito entra ed esce dalla stanza. Oltre la porta socchiusa intravedo brandelli di camici. È sera quando mi portano dei fogli da firmare. La penna ha uno strano peso tra le mie dita. Cade, la raccolgono, me la rimettono in mano. Firmo e mi sembra che le spalle di mio marito tremino un po’. Corro in bagno e ho paura che, se non sto attenta, la mia creatura potrebbe scivolare giù con un tonfo. Passo la notte sveglia. La stanza mi sembra piena d’acqua densa, sporca e grigia. Cammino davanti alla finestra, il cielo è nero e senza fondo. Non so che ore sono ma a un certo punto tutto esplode di luci bianche e rosse, pulsano oltre il vetro. Lentamente realizzo che è un aereo, vicinissimo, seguo il suo cammino notturno verso l’aeroporto. Ne vedevo tanti da ragazzina, in spiaggia. Brillavano bianchi e azzurri come promesse mentre la sabbia mi cuoceva le piante dei piedi. Ricordo la pelle abbronzata di mio padre. Sei proprio una signorina, diceva, e io sedevo più dritta sulla sdraio, il seno che cominciava a spuntare e a farmi male sotto il costume. L’acqua si agita, poi recede. Mi sdraio a letto e penso agli aerei fino a che non arriva l’alba. Poi mi alzo, mi spoglio, nella luce bluastra la mia pelle è bianca e fredda come il ventre di un pesce. Indosso la camicia da notte e mi sembra che la seta bisbigli qualcosa, ma non afferro le parole. Mio marito arriva poco prima dei medici, mi abbraccia, inclina il corpo in modo da toccare la mia pancia il meno possibile.

Il letto scivola per i corridoi. Vorrei poter spiegare all’infermiere che mi accompagna che questo è il giorno in cui finalmente la mia vita avrà un senso, ma ho paura di dirlo ad alta voce. Resto sdraiata mentre il soffitto scorre veloce e poi piano sopra la mia testa.

Non so più aprire gli occhi, le palpebre sono come appiccicate. Mi prudono il naso, le guance, il collo, i polmoni, il cuore. Le mie mani sono lente e non riescono a grattare dappertutto. Le passo sulle labbra. Sento il rumore che fanno quando si spaccano. Una specie di sibilo. La bocca è un grosso sasso al centro del mio cranio. Dal seno in giù è come se mi avessero scavato dentro. In spiaggia io e i miei fratelli facevamo delle buche profondissime. Certi giorni immaginavo mia madre che inciampava e cadeva e cadeva, fino al centro della terra e oltre. Le mie palpebre si scollano piano. Una fessura grigia. Una macchia. Una parete. Il crocifisso. Vorrei girare la testa per non guardarlo ma ho il collo bloccato. In compenso, la pietra che avevo in bocca si è sciolta, è salata sulla lingua. Provo a muovere le gambe e le dita dei piedi, sono avvolte da qualcosa di fresco e di ruvido. In mezzo alle cosce ho un tizzone che brucia. Penso: la mia creatura. Ma le parole sono cadute nella buca sulla spiaggia. Dal fondo sale l’acqua di mare. Mio fratello minore urlava sempre quando iniziava a sgorgare.

Tengo la mano sospesa in aria davanti al mio viso. È viola e gialla e l’ago al centro sembra un insetto. Con un dito tocco la pelle, non fa male. Il mio collo si muove di nuovo, mi guardo intorno. Sono sola, sulla sedia c’è la giacca di mio marito, ma lui non è qui. Tiro su con il naso, non sento il suo odore. C’è solo un sentore di sangue e di qualcosa di denso, mi ricorda la pomata che spalmavo sulle piaghe di mia madre. Negli anni avevo perso il ricordo del suo corpo e l’ho ritrovato nel modo sbagliato. Infilo una mano sotto il lenzuolo. Il braccio si porta dietro dei tubi che fanno un suono di campanelle. I miei polpastrelli sono impacciati, si impigliano nella garza. È tutto piatto, non c’è più niente. Aiuto, penso, ma non so come dirlo. Le unghie grattano sul cerotto. Il dolore è secondario. Tasto e schiaccio. Stringo i denti. Mi sembra che dondolino nelle gengive.

Come si sente, chiede un’infermiera, avrà sì e no vent’anni. La pelle liscia e pallida, gli occhi grandi. Dov’è, chiedo io. Le sue sopracciglia sono molto folte, disordinate. Si torcono. Suo marito è al telefono, risponde. Non lui, ribatto io. Lei si affaccenda intorno alla flebo, si piega a terra, non riesco a vedere cosa fa. Tra poco passeranno a cambiare la sacca del drenaggio, dice. Parla troppo veloce. Vorrei afferrare le parole e rimettergliele in bocca. Insegnarle come si fa a parlare a modo, forse sua madre non l’ha fatto. Fosse stata figlia mia… Dov’è, chiedo di nuovo. Lei si stringe nelle spalle. Stia tranquilla, signora, l’anestesia lascia qualche strascico ma presto sarà come nuova, risponde, un sorriso le deforma la bocca. Non voglio essere nuova, voglio la mia creatura. È maschio o femmina? Forse questo non lo dico ad alta voce perché lei si gira, esce. Io infilo di nuovo le mani sotto il lenzuolo, gratto ma il cerotto tiene, sembra che l’abbiano fuso con la mia pelle. Mi chiedo come dirò al mio bambino che per farlo uscire mi hanno spaccata in due. Voglio chiamare il suo nome, ma non lo conosco. Ho tanto insistito con mio marito, lui, però, non mi ha mai dato retta. Eccolo che rientra. Voglio alzarmi, dico. Lui sospira. È presto, risponde. Dove lo hanno portato, chiedo e già sento sotto le dita la sua pelle. Ha i capelli, domando, perché mi sembra importante saperlo. Mio marito si passa una mano sulla faccia, le dita scendono e sembra che gli portino via gli occhi, le guance, i baffi. Devo chiamare qualcuno, chiede, la voce bassissima come il sibilo di una bestia nascosta. Sono la madre, devo vederlo, mormoro. Non c’è nessun bambino, dice e non guarda me ma il crocifisso con le sue braccia lunghissime, da mantide. L’ho pregato così tanto, così forte. È morto, chiedo a lui che però resta muto. Non c’è mai stato, dice mio marito e si alza, esce di nuovo dalla stanza. Mi sembra di essere rinchiusa in una capsula che mi sta portando più lontano dalla Terra ogni secondo che passa. Oltrepasso l’orbita del pianeta, ecco che è tutto spento e freddo.

Qualche ora più tardi arriva un dottore. Ha il camice immacolato. Socchiudo gli occhi perché tutto quel bianco graffia qualcosa dentro di me. Tutto bene signora, la massa era piuttosto importante ma l’abbiamo asportata integralmente, scandisce bene le parole che mi cadono addosso una dopo l’altra come sassi. Dov’è, chiedo. Lui si aggiusta gli occhiali sul naso, lancia un’occhiata a mio marito. So che l’ha portato dalla sua parte, chissà cosa gli ha raccontato. Al laboratorio del reparto di anatomia patologica, risponde e mi guarda come se fossi una cosa molto sbagliata da chiudere in un posto buio. Mio marito annuisce, mi fissa e allarga le braccia. Un gesto che chiede che vuoi di più, adesso ci credi. Ma io non ci credo. L’ho sentito. L’ho riconosciuto dopo una vita intera.

È notte. Cammino piano, curva in avanti. In una mano ho la busta del catetere e nell’altra quella del drenaggio. È piena di un liquido color marmellata di fragole. Il corridoio è in penombra. Mi appoggio al muro, alle porte chiuse delle altre stanze. Il dolore mi assale a ondate, come il mare della mia infanzia, ma non posso fermarmi. Entro nell’ascensore che inizia a scendere verso il piano interrato. Le porte si aprono su un silenzio denso. Niente pianti, né disegni o fiocchi sulle pareti. Ogni porta è contrassegnata da un cartellino, mi fermo davanti a tutti. Leggo con il naso appiccicato alla carta, le lettere mi si intrecciano davanti gli occhi. Le buste di sangue e di pipì mi pesano come macigni in fondo alle braccia. Accanto alla porta con su scritto “laboratorio di anatomia patologica” c’è una vetrata. Nella stanza hanno lasciato delle lampade accese, mandano una luce tenue che illumina lunghi tavoli. Un grumo bollente mi pesa in petto. Abbasso la maniglia. C’è un odore aspro nell’aria. Tutto è pulito e in ordine. In fondo alla stanza c’è un frigorifero. Mi sembra di essere precipitata in un luogo che non è di questo mondo, in una sacca silenziosa dove vengono esiliati quelli come me. Vuoti o svuotati. Tiro lo sportello del frigo, si apre con uno scatto. Al centro del secondo ripiano, dentro una vaschetta, c’è una massa rossa e marrone. Attaccata alla plastica c’è un’etichetta con il mio nome. Le buste mi scivolano via dalle dita. Il dolore è un tamburo che mi suona nelle ossa. Allungo le braccia, le mani mi tremano. Sollevo il coperchio. È gelido. Schiaccio la carne, la sposto. Cerco un occhio, un orecchio, una mano. So che ci sono, che li ho portati dentro. Le mie dita affondano. Non esce nemmeno il sangue. Voglio urlare ma non ci riesco. Stringo la massa che doveva essere il mio bambino. Il vuoto si dilata di nuovo nelle mie viscere. Presto mi staccherò da terra.

Lazzaro

Racconto di Alberto Bartolo Varsalona, secondo classificato al Premio Lo Spazio Letterario 2024.

Pubblichiamo di seguito il testo secondo classificato e con menzione speciale della giuria per la sezione “Racconti” della terza edizione del Premio Lo Spazio Letterario: Lazzaro di Alberto Bartolo Varsalona.


“εἶπαν οὖν οἱ µαθηταὶ αὐτῷ · Κύριε, εἰ κεκοίµηται σωθήσεται”
Gv 11,12

Fuoco era la statale, che amici e parenti s’erano portati botti e contro-botti da mezza Palermo: bombe, tuoni che facevano tremare le celle, sbarre e catene al Pagliarelli. Era da poco iniziato lo spettacolo d’artifici, di sbummichiate in su per il buio cielo, fuoco su fuochi, e lampi, e tagli come di tempesta, di malotempo verticale sull’immondo fiume Oreto, ove scorre non acqua, ma melma.

Gli ospiti dello stato si godevano, aggrappati alle sbarre delle finestre, la loro ospitata a intermittenza: per lo più la sua monotonia, fatta di mangiate e dormite e grascia e corpi uno sull’altro che non c’era più spazio, non ce n’era più di spazio – e che ci liberassero, pensavano, se non lo sanno manco loro dove infilarci. Ma l’ospitata statale era cosa sacra e non poteva essere negata, né rifiutata: solo nelle angustie, ristrettezze fisiche e morali, gli ospitati statali si educavano, s’affinavano a lima le animuzze penitenti: sottovoce s’inquisivano sul ferro del letto a castello – mi scusasse se ho fatto questo, se ho fatto quest’altro, mi scusasse: vero dico, non per finta, vero.

In questa cupa noia da confessionale, tra i rosari che il parroco aveva dato loro in pasto, come se avessero dovuto masticare le perline a mo’ di scaccio e semenza, la sorpresa era cosa assai gradita, fosse anche dilaniante e furiosa come quel gioco di fuoco. E durante lo spettacolo protratto di schizzi tambureggianti e astrali, d’immensi ventagli, pioggie d’oro e girasoli, i parenti davanti ai cancelli sul viale regione manco se li guardavano più, manco rivolgevano loro mezzo saluto, mezzo bacio schioccante, che avevano la testa rivolta al cielo, fattosi ora non di aria, ma di fuoco, e in quel cielo scorgevano strane cose e segni: facce, colpe: forse memorie.

Avevano fatto le cose per bene: era già passata una buona mezzora di botti, ma l’attesa masculiata, il rimbombo definitivo e assoluto, tardava ad alzarsi per l’aria. E sebbene lo spettacolo proseguisse, coi suoi frastuoni laceranti, quello se ne stava immobile e rannicchiato nel suo angolo di cella, che non ne voleva sapere niente di svegliarsi. Tutte le avevano provate e niente ci poteva: il picciotto dormiva di un sonno profondo, non di creatura morta, ma di entità in stallo: come se avesse spento, d’un tratto, il lumino della vita sua, fuocherello pentecostale sul cervello. Passava il giorno così, smuovendo la sua obliosa letargia a colpi di runfuliate, ora silenti e caute, ora graffianti, capaci di provocare trasalimenti ai compagni di cella, o alle guardie del corridoio. Non era un sonno tranquillo e pacificato, di lavoratore che si arricampa dopo aver buttato il sangue, ma dormita schifiata e umiliata, scaricata in brevi spasmi sulla faccia. Siciliano o maghrebino, nessuno sapeva da quale antro recondito del mondo fosse uscito fuori, che mica si ci poteva parlare, faccia a faccia, quattr’occhi, a chiedergli come ti chiami, da dove vieni: nessuno sapeva niente, né dentro né fuori dal carcere, come se fosse sfuggito per miracolo a qualunque autorità burocratica, infallibile domanda istituzionale, e pareva quasi che lo stato se lo tenesse sotto custodia giusto per fargliela scottare la strafottenza sua. Aveva la faccia smorfiosa e la pelle olivastra dei morti di fame, solo questo sapevano, che quello dormiva, runfuliava di bella.

«Lazzaro manco con le bombe si sveglia! Vai a sapere che si fumò…»

Divertito gridava agli altri Cusimano, sempre guardando l’aria infuocata, ed era come se parlasse alla notte. Il Pagliarelli scoppiava di gente, che a poco si dormiva uno sull’altro e le sezioni del carcere, i luoghi separati per reati, s’erano mescolati in un’oscena promiscuità di diversissime detenzioni: lo spaccino di borgata chiacchierava a lungo con l’ergastolano, il cravattaro col pluriomicida, tessendo una sapiente e fittissima rete di conoscenze che sempre s’andava slargando, di maestranze antiche e tecniche incrociate per eludere il braccio smorto della legge, della giustizia bendata con la bilancetta per pasta o pane – bracci obliqui, piatti dispari.

«Crack sarà stato, che per ora ai mercati scorre manco fosse acqua.» Rispose, fattosi serio, Gambino, che se li era visti morire tra le mani, tra spasmi e sussulti, alcuni picciotti, mentre a Lazzaro gli era finita di lusso, che dormiva beato. Non polvere bianchissima per nasi delicati di gente composta e incravattata, ma surrogato nauseabondo a sfasare ogni connessione, ogni recettore: lo scarto dello scarto svenduto, botta violenta che al primo scoppio di plastica salisse veloce, per poi stroncarsi, offuscando il mondo.

«Ma quando mai… Non ha niente il tunisino: sta meglio di tutti noialtri messi insieme, fresco e pettinato. Non lo vedete che ci sta prendendo per il culo? Se la ride, e ci scommette…»

Disse Spina seduto al tavolo da gioco dall’angolo più interno della cella, lì dove non arrivavano i lampi di colore, e Ferrante gli diede manforte, calando pesante briscola e pigliandosi ogni carta.

«L’abbiamo capita la pensata sua, che si fa ‘sta scenata, ‘sta farsa da teatro per farsi trasferire: all’Ucciardone si respira meglio che gira l’aria di mare. Viene il cuore che ce l’hanno a portata di mano, e s’arrifrescano anche solo col pensiero d’averla vicina. Per questo fa il teatrante…»

E nelle pause dilatate lasciavano intendere oscuri interessi e spietati tornaconti.

«Non gli fa giustizia ‘sta ‘ngiuria al malandrino. L’attore lo dobbiamo chiamare – altro che Lazzaro – grande e famoso attorone, che qualche volta ce lo vediamo spuntare in tivvù mentre si fa la sua parte, e runfulìa…»

«E magari la gente gli batte pure le mani!»

Era più forte di lui: ricercatissima scenata portava avanti il siciliano-maghrebino, coi suoi tratti di razza indistinta, che dormendo dormendo manco mangiava, tanto che si era disposto di far venire – quotidie – assistenti statali, convocati direttamente dal Palazzo della giustizia: sacerdoti di culti indicibili sulla vita, che d’urgenza con le loro pipette, coi loro sali minerali tentavano di alimentare quel corpicino olivastro che sul letto andava scomparendo, come se le ossa già prendessero curve forme, pieghe di lenzuola. Lazzaro aveva le vene già sfaldate sotto la pelle, infrante in sbocchi di sangue, rami bluverdi sul braccio, che gli assistenti manco potevano attaccare mezza flebo, mezza farfallina, e quindi si limitavano a bagnargli le labbra che la bocca l’aveva sigillata, e la vita sua pareva trascinarsi lungo la patina umida che varcava le gengive.

«Talè, talè che bravo: non ci può niente… non s’arrende…»

«Bella vita da magnaccio si fa Lazzaro, che non dà conto a nessuno e si fa le meglio dormite: servito e riverito che pare un barone. Scaltro è… scaltrissimo…»

Rinforzò Spina, ed ebbe un sussulto, un conato improvviso di vomito che gli fece salire la brodaglia della cena, quando per incerte e stranissime correnti la cella fu travolta da una zaffata stomachevole, e ciascuno smorfiando si tappò il naso, che il tanfo era insopportabile e li svuotava d’aria.

«Che è cretino Lazzaro che vuole il trasferimento? Da dove minchia parte ‘sto fiume disgraziato non si può capire…»

L’Oreto, il laido corso d’inafferrabili natali, scorreva col passo di una colata lavica, densissimo e melmoso, come se a monte fosse stato animato da soli scarti, soli detriti, o come se il medesimo fosse stato un arto incancrenito della campagna – Conca Ossidata. Di giorno in giorno si faceva sempre più lento, scrutando le forme delle rive, dei clivi che su di esso s’annegavano: s’ancorava alla terra per farsi terra; o quantomeno palude. Svogliato voleva forse arrestarsi definitivamente, e scontare la sua intossicazione di viscere, rigettando ogni cosa.

«Una volta pure un cavallo ci ho visto: mi taliò col muso locco e gli incisivi lunghi lunghi. All’inizio ci ridevo, poi no, che era morto e manco se ne scendeva: il fiume pareva tenerselo a galla per farmelo guardare. Tutto sminchiato… non aveva pace: sarà in mare adesso…»

Disse sottovoce Gambino, quasi a non volere rievocare – forma e colore – la morte violenta e animale, e ricevette prontissima la risposta di Spina, che pure logorandosi sempre nell’angolo più interno della cella, conosceva ogni movimento, in entrata e in uscita, ogni spiffero, parola detta o magari pensata dentro al carcere.

«Tutte cose là vanno a buttare; mica solo i cavalli: che fa, magari deve profumare? Pure le carte nostre, tutte quelle cose stampate – lo sanno loro, lo sanno, quello che c’è scritto – manco le guardano più, e le vanno a vurricare là sotto… come tanti cavalli…»

Se n’erano accorti subito i più acuti, che il fiume negli ultimi tempi s’era incartato, attuppato da stracci e cartacce: geroglifici consunti, alfabeti cifrati dai quali spiccavano nomi, e articoli, e commi, e anni. Raccolte le inutili carte, giornalmente, piccoli cortei di guardie giunti alle sue rive, gliele davano in pasto, come a volergli dare un contraccolpo micidiale, un’indigestione fatale: rutto inespresso alla divinità fluviale.

Scorrevano, incartapecoriti, anche i loro fantasmi anagrafici: Cusimano, e Gambino, e Spina, e Ferrante lambivano l’alveo in una poltiglia di dati improcessabili, ammuffiti lungo i fumi pestiferi che loro stessi dovevano sorbirsi, chiusi e stipati nelle loro celle – e soli brevi respiri tiravano, sui palmi della mani a serrare naso e bocca, come a voler sfuggire dalla frustata finale e cadaverosa.

«Questa giustizia me la chiamate? I giudici la ripassata delle nostre azioni se la possono fare al fiume, con qualche retino…»

Solo le generalità del dormiente, che mai s’erano indovinate, erano sfuggite del tutto a quella parola bendata, o forse il fiume le aveva da sempre occultate nel suo ventre di carcassa, intorno al suo cuore nervoso e affaticato che aveva precorso lo Stato; che aveva previsto Lazzaro stesso.

Tardava, tardava ancora il colpo definitivo, quasi non fosse stato nemmeno calcolato dai masculari, quasi non dovesse mai arrivare. E ogni rimbombo faceva tremare il busto da uccellino dei pelleliscia, figli e nipoti degli ospitati che i giochi d’artificio se li sentivano sul petto, sul cuore, e dovevano scaricare nella corsa quella energia trasmessa, imprevista e vigorosa, come volessero ripercorrere, in terra, quelle traiettorie colorate. Parevano ingestibili, che nessuno riusciva a farli stare composti, magari pigliandoseli mano e manuzza – saluta a papà, saluta al nonno e al bisnonno, allo zio, al trisavolo – invano ordinavano a strattoni i parenti maturi e maturati.

Pure loro lo conoscevano Lazzaro. Non l’avevano mai visto, eppure l’avevano scolpito in testa, tale e quale a com’era: così indistinto, così vago. Agli incontri con gli ospitati parentati, nei silenzi che a loro spettavano in quei momenti, quel nome avventuroso usciva sempre, sparlato e umiliato. Era un grande attore che le provava tutte per uscire, o quantomeno per farsi trasferire, e per lui facevano il tifo, chiedendo novità ai parenti, sperando di vederselo fuori e baciargli la mano: pure loro volevano scapparsene dalle zaffate dell’Oreto, dal malovento rifiutato, e sempre lo chiamavano da fuori, quasi servisse proprio lui per la loro fuga. Restavano i più sicuri, sempre saldissimi nelle loro opinioni: Lazzaro sarebbe uscito fuori, camminando fresco e profumato, senza alcuna benda.

«È mago e prestigiatore, mica se ne poteva scappare muto muto.

Vuole fare una cosa sistemata per noialtri che siamo il suo pubblico.» Disse un pelleliscia, parente diretto di un ospitato, che dei colloqui dentro al carcere ricordava solo il nome straniero del dormiente.

«Il nome suo, gridiamo il nome suo che esce!»

Suggerì un’altra pelleliscia, gracile gracile, con una voce squillante e luminosa: attendeva insieme a tutti gli altri un evento inesorabile, babbiando col mezzo sorriso sulle labbra.

Nei loro moti furiosi avevano occhi solo per il settore che s’era già fatto luogo di miti e di conti, di gesta straordinarie e prodigi: sapevano, sapevano bene che come arrivava la masculiata Lazzaro se ne usciva, magari volando, e con la pace della previsione guardavano dilatarsi, alimentarsi da sé, quel trionfo di miscele chimiche, di zinco arsenico antimonio rame in fiammate azzurre violette carminie, e anche se passavano i minuti, e le ore, e i mesi, mai volevano dormire, che il sangue gli bolliva, e pensando a Lazzaro, gli ribolliva, violento e smisurato: come se la vita, in lui inarcata, verticale s’alzasse in loro. Venivano colpiti in pieno dalle luci di nitrati, quasi che l’oro e l’argento potessero stendersi solo in quelle pelli lisce, e parevano dei lumini, sul lato degli orti infecondi, davanti i cancelli: un tappeto fitto di lumi smaniosi.

Non sapevano, non sapevano ancora delle botte e dei cappi, dei tagli sulle vene e dei ricoveri, delle cinture stese e legate al collo, giù come serpi. Non sapevano; e giocavano, inseguendosi sul largo viale, facendo vibrare l’immenso recinto di grate, quasi volessero violarlo: Lazzaro svegliati, gridavano al buio loro soli, Lazzaro vieni fuori.

Case in prossimità del raccordo anulare

Racconto di Alessandro Tesetti, primo classificato al Premio Lo Spazio Letterario 2024.

Pubblichiamo di seguito il testo vincitore per la sezione “Racconti” della terza edizione del Premio Lo Spazio Letterario: Case in prossimità del raccordo anulare di Alessandro Tesetti.


L’Istat rileva un’importante e non trascurabile congestione di case lungo il raccordo anulare che abbraccia la capitale. Le case si susseguono pochi metri di distanza l’una dall’altra, sono piuttosto simili: forma rettangolare, un’ottantina di metri quadri ogni appartamento, massimo tre piani.

Gli agenti immobiliari dichiarano che i tabagisti cercano case in prossimità delle strade ad alta velocità, dei balconi non gliene fotte proprio, nemmeno dei colori spenti o dell’intonaco ceduto, gli importa solo dell’adiacenza alle strade ad alta velocità, di ampie finestre dove affacciarsi. Io confermo, sono un fumatore immattito dal vizio, e mi piace vedere le macchine che scorrono e corrono sotto casa mia, però mi piace vederle più dal balcone che da un buco nel muro. Ho in affitto un appartamento al terzo piano, pago poco perché affaccia esattamente all’uscita dell’autostrada A1 Tor Vergata direzione Napoli. Le pareti non sono spesse, i vetri vibrano al soffio di vento poco incazzato, quando passano grossi tir o auto prestanti, la casa trema da far paura, la polvere pullula nei fasci di luce. Non ho mai pulito casa, ci pensano le macchine che passano, velocità che alza la polvere sbattendola flaccida e caotica e serpentina nei vari antri. Così come le sigarette mezzesbucciate collezionate in bilico sul davanzale, con le vibrazioni crollano giù, nel balcone al piano di sotto, e poi è compito dell’inquilino buttarle. Curiosità mia è verificare dove le butta, se di sotto con una scopa o le raccoglie in un sacchetto: quasi sempre di sotto con una scopa.

Siamo tutti diffidenti qui, ci salutiamo malamente quando affacciati, ognuno dai propri antri, ci mettiamo a fumare. Uno vorrebbe un po’ di intimità, mettersi a fumare senza altri cristiani, solo col raccordo anulare che abbiamo davanti e contare le macchine, le moto, i tir. L’inquilino di sotto sembra farlo apposta, appena mi sente, subito esce fuori a fumare. Non so che orecchie abbia, sente la rotella dell’accendino e s’affaccia, che dici, tutt’apposto? (solito esordio) io rispondo con un grugnito o con un sì. Lo so che vorrebbe parlare ma io non ne ho voglia, lui può parlare se vuole, sono io che non ho voglia di sentire la mia voce, di ascoltare la sua sì, può capitare. Ogni tanto si mette a raccontare dei suoi cazzi e scazzi: l’ex moglie che lo tradiva con suo fratello, lui che la tradiva con la cugina, il figlio che lavora a Mestre, le puttane che frequenta in Portonaccio, se ho voglia di farmi un giro pure io.

Ma io consumo la sigaretta, s’accumula la cenere all’estremità, faccio con la saliva una lunga stalattite e miro con l’intenzione di prenderlo in testa per poi risucchiare quand’è al limite. Mi parla senza guardarmi, e perciò non s’è mai accorto della stalattite, dovrebbe contorcere il collo, invece inchioda i gomiti sul parapetto e guarda dritto a sé: conta le macchina, le moto, i tir.

Gli psicologi studiano il motivo per il quale i residenti attorno al raccordo anulare pratichino con gran ferocia, delle volte unicamente, ossessivamemte, il sesso anale: ricevuto o donato.

Il mio caso non è, non stringo un corpo da anni. La notte prendo la macchina, faccio un giro completo del raccordo a centoventi, poi esco all’uscita Prenestina. Rallento e cerco le cosce che fanno per me, giro in fretta quando trovo quelle giuste. Accendo una sigaretta e gioco tra prima e seconda marcia, le puttane mi mandano a fanculo quando faccio le finte, perché rallento e pensano che mi stia per fermare, invece ci ripenso e vado via. Capita di voler ascoltare la loro voce, capita e non voglio altro. Allora mi fermo e abbasso il finestrino, cinquanta dicono, ed io non rispondo, cinquanta dicono, ed io non rispondo ancora una volta, non mi va di sentire la mia voce, ma la loro sì. Imprecano e mi danno dell’idiota, cazzo vuoi sei venuto a rompere i coglioni, noi qui stiamo lavorando, vattene via idiota. L’idioma è spesso dell’Europa del nordest o misto tra francese e inglese tipico di Lagos e Nigeria in generale, frasi scarne e rituali masticate in quel italiano-dialetto non imparato ma assorbito, udito e perciò ripetuto senza sede né sedimentazione: metto la prima e vado. Nello specchietto vedo un braccio alzarsi e una bocca spalancata senza voce. Non ho soldi, esco sempre senza soldi così da non avere il mezzo. La tentazione ce l’ho, non ho il mezzo, il fine sta a un passo da me con cosce che fanno per me e la bocca arrossettata, il mezzo è rimasto coscientemente a casa, in tasca non ho un centesimo. Una volta ad una di loro ho risposto, dopo il solito esordio (sempre soliti esordi, tutti noi parliamo per repertori), della bestemmia e dell’idiota: culo, dico, culo chiedo. Cento, fa lei, ma lo dice per meccanismo, l’espressione è incredula, sa di star perdendo tempo. Sorrido e non rispondo, metto la prima e un braccio alzato che fa sciò sciò stronzo. L’unica volta che ho ascoltato un’altra parola da quelle bocche arrossettate, il secondo step di quelle frasi rituali e scarne, emanate e non custodite.

Tre anni fa quando stringevo il corpo, non abitavo ancora qui e non ho mai avuto il desiderio di praticare sesso anale. Vorrei chiedere all’inquilino di sotto se ogni volta spende una piotta, perchè così dicono gli psicologi: vivere vicino al raccordo anulare provoca un aumento del desiderio rettale, ricevuto o donato; e magari è vero, perciò indago, ma non c’è questa confidenza, forse la prenderebbe a ridere, ma non mi va di sentirlo più amico ogni volta che ci affacciamo a fumare, gli uomini hanno questa cosa che si sentono più amici quando parlano di sesso, si sentono più amici quando parlano di violenza e aggressioni e bande e gruppi e misure e superiorità. Contorcebbe il collo per guardarmi e sarei costretto a guardarlo, nella verticalità che ci separa, non formare le stalattiti, perlomeno notare le fibre cutanee, le rughe faticose, la

contorsione. Quando poi gliel’ho chiesto, lui s’è fatto una bella risata, una risata talmente scenica che gli è caduta la cicca dalle mani, poi com’è suo solito s’è contorto dicendo ma quelle fanno così, tu ci devi giocare, quelle fanno così, ci provano, devono pur incassare, ti direi di venire con me, andiamo insieme, ti mostro come si fa, non più di venti per quello e cinquanta per l’altro, sennò come ci arrivo a fine mese, quando si rigira mirando e conteggiando le vetture, accende un’altra sigaretta e continua a ridere, di una risata davvero plateale. Provo a formare la bava ma non ho saliva.

Gli psicologi verificano un netto numero di onirismo notturno da parte dei residenti in prossimità del raccordo anulare preoccupante: nel sogno c’è il proprio corpo che gira su stesso senza fermarsi mai soffrendo di nausea sfibrante e poi una perdita d’equilibrio, la caduta e la morte.

Io come ho detto prima, la notte prendo la macchina e giro, il più delle volte fin quando non mi viene sonno e mi addormento alla guida. Allora cerco un parcheggio spoglio e dormo o continuo a guidare per vedere quello che succede. Non mi piace tornare a casa e provare a dormire, mi fa sentire solo e gli uomini hanno questa cosa che non sopportano sentirsi soli, e poi non dormo, che senso ha tornare a casa se poi non dormo. In macchina di sogni non ne faccio, il mio psicologo dice sia l’assopimento furioso imposto a sassate, quindi è normale non sognare; a non essere normale, dice, ma io non sono molto d’accordo, è addormentarsi in macchina.

Vado dallo psicologo che saranno dieci anni, ma lo frequento da molti anni addietro. Eravamo pischelli quando ci siamo conosciuti alla scuola di recitazione, il venerdì pomeriggio a Garbatella. Io facevo la parte del tossico e lui del matto, portavamo in scena Caligari, e nessuno capiva, eravamo davvero bravi ma nessuno capiva. Poi con l’università abbiamo smesso di recitare, io mi sono trasferito a Bologna per fare il Dams e lui è rimasto a Roma. Ha iniziato Medicina con l’idea di fare psicoanalisi poi, neanche un anno che s’è scocciato e ha virato in Psicologia, non gli interessava studiare il corpo umano ma solo la coccia, non più i matti ma gli stati dell’umore, le persone alle prese con le oscillazioni.

Essendo amici si prende meno soldi, quando le cose gli vanno bene non si prende niente. Evitiamo di uscire come una volta, non ci prendiamo una birra da anni, l’ultima volta è stata per confidarmi la morte di sua madre, e lo doveva fare evidentemente fuori da dove ci vediamo di solito e cioè fuori dal luogo di lavoro per non confondere o peggio scambiare i ruoli in cui siamo finiti e invischiati, non più amici ma medico e paziente. Ci incontriamo nel suo studio, un paio di domande di transizione, poi iniziamo. La mia disperazione è sempre più o meno la stessa[1], lui mi dà degli spunti ma non ho mai capito se è bravo. Di rivolgermi a qualcun altro non se ne parla, non ho soldi e poi vederlo è un modo per non perderlo. Forse sto meglio quando prendo la macchina e vado da lui, sto meglio nell’attesa dell’incontro che dura giorni e non arriva, mentre quell’oretta di monologo e breve dialogo a volte aiuta a volte no. Esco da lì e mi sento svuotato ma è la stessa sensazione del post coito, dura un attimo, la stessa sensazione di quando cerco quelle donne e interazione con esse ma poi mi mandano via. Ed io che continuo a dire al mio migliore amico, nonché disgraziatamente, psicologo, che mi voglio ammazzare quasi ad avvertirlo, e lui che mi dice: il motivo è l’oppressione artistica, devi scrivere cazzo, perché non scrivi, concentrati cazzo. Il turpiloquio è la linea sottile che smentisce i nostri ruoli, da medico-paziente ad amici, mi fa stare meglio. Ma forse non siamo più nemmeno amici, dovrei cambiare psicologo per tornare ad essere quello che eravamo, io il tossico e lui il matto in un teatro della Garbatella, io quello andato via, lui quello rimasto, a vederci finita la sessione, recuperare il tempo perduto. Allora provo a scrivere di notte in macchina l’inverno sui vetri appannati, come se il problema fosse il mezzo, il supporto: non la carta, non il computer, servono i vetri. Ci sono due personaggi che mi ossessionano, due ventenni sfaccendati che girano e girano, indaffarati dalla scimmia e dal morbo, li conosco benissimo, li ho perfettamente in testa come per ricordo, ma perché non mi parlano non lo so. Appena gli chiedo di aprire bocca non mi parlano. Poi il consiglio è stato scrivere di sesso, ma esce roba frettolosa e schematica, non possedere un corpo ma possedere il linguaggio, applicare il desiderio nel diverso e affine luogo-del-desiderio: devi desiderare, mi dice, tu non desideri, aspiri, vuoi, ambisci, rosichi ma non desideri diocane, corteggia e esci da questa situazione, desiderare un corpo, desiderare il linguaggio: tu non hai né l’uno né l’altro, è tutta qui la tua dispersione, poi perde la pazienza e non scaccia sillaba. Io so che reputa patetico tutto questo, facile da diradare espellere rimuovere disperdere, e anch’io m’incazzo e non scaccio sillaba, fargli capire che non è affatto facile non riuscire a scrivere più, patetico che continuiamo a vederci in questo studio solo per non abbandonarci: l’ora finisce e me ne torno a casa, quindi chiudo gli occhi e vedo quello che succede. Il raccordo anulare è deserto stasera e di cercare corpi proprio non ne ho voglia. Vedere le case in prossimità della strada è una sorta di uscita. Qualcuno è affacciato e mi chiedo chi, dal proprio veicolo, nota me che sto per sputare all’inquilino del piano di sotto. Ma non ne vale la pena pensarci, soprattutto a questa velocità, con gli occhi chiusi: questa non è un’uscita.


[1]  Il mio schifo di lavoro al catasto; voler scrivere sceneggiature la notte ma non stendere nemmeno un rigo; l’ossessione per il sesso senza praticarlo; il fascino del suicidio automobilistico.

“If I knew the house would fall but would not hear”: tre poesie di Jan Verberkmoes

Introduzione e traduzione dall’inglese a cura di Federico Rosati, secondo vincitore della Call for translators “Poesia e Lutto”.

Jan Verberkmoes è una poetessa, editor e ricercatrice statunitense. Originaria dell’Oregon, ha studiato all’Università del Mississippi, alla Bucknell University e in Germania. Ora vive in Colorado, dove frequenta un corso di dottorato in English and Creative Writing presso l’Università di Denver. Le sue poesie sono apparse in diverse riviste, tra cui  Lana Turner: a Journal of Poetry and Opinion, Nashville Review, The Adroit Journal, 32 poems, Ecotone e The Poetry Foundation. Nel 2021 ha pubblicato la sua prima raccolta poetica, Firewatch (Fonograf Editions), da cui sono tratti i testi qui tradotti. 

La lettura delle poesie di Verberkmoes conduce a un intenso confronto con i recessi più porosi della memoria e dell’incertezza, che si manifestano quando ci si avventura in territori psicologici e fisici segnati dal trauma. Gli spazi bianchi permeano l’intera raccolta, come se cercassero di esprimere una repressione verbale, ma anche un rispettoso intervallo nel silenzio naturale della pagina di fronte a concetti indicibili. I termini in corsivo, come “now“, “then” e “the stars”, impostano un rapporto in continua evoluzione del narratore con il tempo e l’universo, mentre viene narrato il quotidiano e violento deterioramento della vita terrestre. Si delinea un tentativo di comprensione in un paesaggio fisico e mentale che è sia minaccioso che minacciato, e che si trasforma in un’elegia per un mondo e un sé che non sono ancora scomparsi, ma in pericolo di sparire.

Il termine ‘elegia’, che ricorre nel titolo delle tre poesie, non è da intendersi solamente nel senso di un componimento legato al congedo dalla vita materiale o al suo disfacimento, occasione per l’io lirico di sancire la propria presa di coscienza di fronte a una realtà in rovina.  È importante osservare che il simbolismo delle due immagini naturalistiche presenti in Elegy as Conditionality: Hornets Building e Elegy as Hypothesis: Burning the boat (l’alveare e i calabroni; la balena e la barca) porta anche a una riflessione su dinamiche di tipo relazionale. Nel primo caso l’alveare è il risultato del duro lavoro e della sinergia tra le parti coinvolte; tuttavia, la sua distruzione, anche solo ipotetica, rappresenta un sogno infranto sia dalle circostanze esterne (“se l’alveare si disfa e la pera fa breccia nella carta grigia”) sia dalla negligenza dell’io lirico e del suo destinatario verso il pericolo imminente (“se avessi saputo che la casa sarebbe caduta    ma avessi scelto di non / sentire”; “se io sospiro        se tu non puoi sentire”; “se nessuno parla della breccia”). Nel secondo caso, viene sottolineata l’incapacità dell’io lirico e del destinatario di trasportare la barca in mare (“perché incapaci di risollevarla / in acqua”; “perché non sapevamo     reggere il corpo”), l’incapacità di assistere alla sua disgregazione per poi darla alle fiamme, decretando così la sua fine in modo prematuro, pur di superare il dolore prima del tempo (“così bruciammo sulla pira il suo scheletro di legno perché / non sapevamo vederla marcire”).

In Elegy as Insistence: Bulls in a Field l’inquietudine delle prime due poesie e la loro disperata ricerca di significato sembrano invece placarsi. La soluzione pare emergere dal gesto solenne e definitivo del fratello anonimo che libera in un ruscello le ceneri della sorella , ultima traccia materiale e ricordo di lei. I tori che prima correvano senza sosta nel ‘campo’ della mente, turbandone la quiete, ora rimangono “bassi dietro i suoi occhi”, mentre egli si congeda definitivamente da quel che resta della sorella e trova pace in una fusione con lo spazio naturale circostante (“e i tori gemono cupi dalle loro teste d’incudine / mentre lui si immerge fino alle ginocchia nella corrente”). Se nei primi due componimenti il mondo naturale è associato a simboli di disgregazione e rimpianto, nel terzo si intravede la possibilità di ritrovare in esso un “luogo in cui poter dormire”. La soluzione sembra risiedere allora nel ricongiungimento panico con la natura, un cammino che permette di superare l’inquietudine esistenziale in favore di un progressivo riconoscimento della propria esistenza come parte di un’essenza cosmica che trascende le vicende umane.


Da Firewatch, 2021

Elegy as Hypothesis: Burning the boat

If there is a now     this must be it     which I think is why
this sand-matted tuft of kelp     crisps in the winter sun
just like the varnish curling from the side of the boat
we burned on the beach          because we could not lift it
back to the water          because the tide     would not carry it
but the boat     more than anything          was a whale
when it held us      in the dark piano of its fat and wood
cords and padded bones that rang the water
once      and over and over
and so we lit the pyre of its planked frame because
we could not bear to watch it rot
because we could not     bear the body     and the ocean
reaching and receding          would not hold
and only then did I see there is nothing more grand
than an animal burning
the hull of its belly falling open to a blackened spindle
and when I say animal      that includes you too
which must be my way of suggesting          weren’t you
in flames          fighting your way     out of your own skin
until you fell into the sound      where the whale ripped the seam
between water and sky          a sky that now dims
as I search it for a then     that will show me our boat again
on a water that ripples when the whale clenches
the way the skin of the face rides the muscle underneath     but never splits

Elegia come Ipotesi: Bruciare la barca

Se c’è un ora    deve essere questo   ragione per cui
questo ciuffo di alghe insabbiato     si increspa al sole invernale
come i riccioli della vernice sul fianco della barca
che bruciammo sulla spiaggia          perché incapaci di risollevarla
in acqua          perché la marea     non l’avrebbe sostenuta
ma la barca     più d’ogni altra cosa          era una balena
quando ci teneva      nel suo scuro piano di cordegrasse e lignee, di ossa piene che battevano sull’acqua
un tempo      e ancora e ancora
così bruciammo sulla pira il suo scheletro di legno perché
non sapevamo vederla marcire
perché non sapevamo     reggere il corpo    e l’oceano
che avanzava e si ritirava          non avrebbe retto
e solo allora vidi che non c’era nulla di più grandioso
di un animale in fiamme
lo scafo del suo ventre che si apre su un fuso annerito
e quando dico animale      parlo anche di te
e deve essere il mio modo di suggerire che          forse eri tu
in fiamme          a lottare per uscire     dalla tua pelle
fino a sprofondare nel suono      dove la balena strappò la cucitura
tra acqua e cielo          un cielo che ora si oscura
mentre lo scruto per trovare un allora     che mi mostri la nostra barca ancora
su un’acqua che s’increspa quando la balena si contrae
così come la pelle del viso scorre sul muscolo sottostante     ma non si stacca.


Elegy as Insistence: Bulls in a Field

There is only morning     it shimmers
and shifts into bodies     into beasts
into the man sleeping     now waking     in the damp grass
a jar of ashes at his side     and the bulls still running loose     though tired
inside his skull     they ram here and there against its walls
as last night’s star-smeared sky     spreads clean now     and flat over him
jar in hand     he walks toward the spring creek
its water draws a cold thrill through the meadow
and the bulls groan dark     from their anvil heads
as he wades knee-deep into the current
he remembers the ashes back into his sister     when she told him
loss     is no more one thing than the sky is one thing
the pasture behind her eyes     lay wide and empty
and looked like a place he could sleep
he tips the jar and lets the ash fall into the stream     and the cold
rolls over in its bed     over     over
until she’s neither ash     nor water
the stars the stars the bulls low behind his eyes
he forgets about the stream     and the meadow
and nothing could be so empty     as the jar in his hands

Elegia come Insistenza: Tori in un campo

C’è solo il mattino     brilla
e si trasforma in corpi     in bestie
nell’uomo che dorme     e ora si sveglia     nell’erba umida
un’urna di ceneri al suo fianco     e i tori che corrono ancora liberi     anche se stanchi
dentro il suo cranio     si scagliano qua e là contro le pareti
mentre il cielo stellato della scorsa notte     ora si stende terso    e piatto su di lui
con l’urna in mano     cammina verso la sorgente del ruscello
la cui acqua trascina un brivido freddo attraverso il prato
e i tori gemono cupi    dalle loro teste d’incudine
mentre lui si immerge fino alle ginocchia nella corrente
rimembra le ceneri di sua sorella     quando gli disse
la perdita     non è una cosa sola più di quanto non lo sia il cielo
il pascolo dietro gli occhi di lei     si stendeva ampio e vuoto
e sembrava un luogo in cui poter dormire
inclina l’urna e lascia che le ceneri cadano nel ruscello     e il freddo
si rigira nel suo letto     ancora     ancora
finché lei non è più cenere     né acqua
le stelle le stelle i tori bassi dietro i suoi occhi
lui dimentica il ruscello     e il prato
e niente potrebbe essere più vuoto     dell’urna che porta.


Elegy as Conditionality: Hornets Building

when a hornet nest swells in the pear tree
with a pear at the hive’s green center
if the hornets swaddle the pear in grey paper over paper
until it cannot see        and cannot hear for the humming
if the pear begins to rot        before it can say
when the hive grows heavy with quiver and grit
and the tree begins to fall    patiently    like a house going to ruin
if the pear is the last door to the house
if I fall inside the house    as it sighs and kneels
if I sigh        if you cannot hear
when the house is ruined    and you cannot say
if the hive unravels    and the pear breaches the grey paper
if no one speaks of the breach
if the hive was made by hundreds of mouths
when the hornets knew the pear would rot in the hive
but could not see to leave
if I knew the house would fall    but would not hear
if you pull the pear from its limb       if I go dark
when it is so dark I can only see    how it could have been
if you hum as you leave        when I fall
if I was made by your mouth

Elegia come Condizionalità: I calabroni costruiscono

quando un nido di calabroni si gonfia nel pero
con una pera al centro verde dell’alveare
se i calabroni avvolgono la pera in carta grigia su carta
finché quella non può vedere        né udire per il ronzio
se la pera inizia a marcire        prima di poterlo dire
quando l’alveare si fa pesante di fremito e sabbia
e l’albero inizia a cadere    paziente    come una casa in rovina
se la pera è l’ultima porta di casa
se io cado dentro la casa    mentre sospira e si inginocchia
se io sospiro        se tu non puoi sentire
quando la casa è distrutta    e non lo puoi dire
se l’alveare si disfa    e la pera fa breccia nella carta grigia
se nessuno parla della breccia
se l’alveare fosse fatto da centinaia di bocche
quando i calabroni sapevano che la pera sarebbe marcita nell’alveare
ma non riuscivano ad andarsene
se avessi saputo che la casa sarebbe caduta    ma avessi scelto di non sentire
se stacchi la pera dal suo ramo     se mi spengo
quando è così buio che posso vedere solo   come sarebbe potuto essere
se tu ronzi mentre te ne vai        quando cado
se fossi fatta dalla tua bocca