Introduzione e traduzione dal giapponese a cura di Edoardo Occhionero
Sintetizzare in poche righe l’operato poetico di Yoshihara Sachiko 𠮷原幸子 (1932-2002) sembra impresa ardua. In compagnia di poetesse del calibro di Ibaragi Noriko e Shiraishi Kazuko, è stata protagonista attiva nell’affermazione del joseishi (poesia femminile) all’interno del panorama poetico del Giappone del dopoguerra. Il suo debutto è coinciso con la pubblicazione di Yōnen rentō (“Litanie d’infanzia”, 1964), raccolta in cui è percepibile – come suggerisce il titolo – l’amarezza di una gioventù assoggettata dai bombardamenti aerei, e dalle fiamme del primo amore. È ricordata, insieme a Shinkawa Kazue, per aver dato vita alla rivista di poesia femminile Gendaishi La mer (Poesia contemporanea – La mer, 1983-1993).
Tramite l’utilizzo di «bilingual frames»[1] che trasmettono un tono giocoso e informale, i momenti di ironia si alternano a una postura piuttosto esistenzialistica. Yoshihara spesso si rivolge a un anata (tu), che non di rado può essere avvertito come sdoppiamento intimistico del soggetto, cosicché l’avvio del dialogo si riduce a hitorigoto (soliloquio) con la parte più profonda di sé.
Ma un’altra delle marche yoshihariane si realizza a livello grafico, nell’intenzione deliberata di servirsidel kyū-kana zukai (norma ortografica precedente il nuovo sistema di scrittura giapponese): se non sono presenti variazioni sul versante della pronuncia e del significato, il principale effetto si realizza sul piano visivo.[2] Inoltre, con lo scopo di implementare la portata semantica di un termine, un altro divertissement si compie nell’inserimento intenzionale di furigana (guida fonetica degli ideogrammi) – esempio fra tutti la celebre poesia «Mudai» 無題 (“Senza titolo/Nonsense”).
Dal punto di vista tematico, ricorrono inevitabilmente i riferimenti alla solitudine, alla separazione tra mondo esterno e interiorità, alla tensione vita-morte, amore-peccato – come cercano di esporre sommariamente le poesie qui presentate. La vita duole, e l’amore non sopravvive, cadaverico, è «l’ellisse di uno zero splendente», misura costante di un’assenza. In sintesi, per concludere con le parole del poeta e criticoŌoka Makoto, Yoshihara «canta sinceramente l’amore triste e insoddisfatto. E poiché rifiuta volontariamente il perseguimento di tale soddisfazione, essendo costantemente infelice, è in grande misura legata al dramma del mondo delle idee».[3]
[1] Leith Morton, “Translating Japanese Poetry: Reading as Practice”, The Journal of the Association of Teachers of Japanese, vol. 26, 2, American Association of Teachers of Japanese, Pittsburgh, 1992, pp.159-160.
[2] Carol Hayes; Kikuchi Rina, “Untitled Nonsense, She, and Contradictions by Yoshihara Sachiko” Transference, vol. 5, 1, Western Michigan University, 2017, p.59.
[3] Ōoka Makoto, “Yoshihara Sachiko no shi”, in Yoshihara Sachiko, Zoku yoshihara sachiko shishū.In Gendaishi bunko, 169.Tōkyō: Shichōsha, 2021, p.143.
Non c’è fontana che scintilli al sole nell’interstizio tra tetto grigio e tetto grigio è caduto un palloncino di gomma rossa o sono io a essere precipitata? Non c’è via di recuperarlo
Attraverso in sogno segrete strade sotterranee ed esco ripetendo allo sfinimento il nome della medicina per la persona che, smagrita, sta morendo
La medicina non arriva mai in tempo e anche se lo fosse servirebbe a poco la persona morirebbe, malconcia non c’è nessuna tomba per noi…
Per uscire sistemiamo il cappello ASSOCIAZIONE CAPPELLI TŌKYŌ per l’amore, un giuramento per la morte un mazzo di fiori
Quando si sente dire «si sbrighi, per favore» la brava gente inizia a correre e non appena si siede chiude gli occhi questo piccolo sonno stanco è tutto quello che possiamo avere forse
Ah, pure nei giorni di sole predisponiamo l’ombrello per uscire per l’amore, un’amara delusione per la morte, un margine bianco
Eppure nel kotatsu vuoto mi capita certo di toccare i piedi di qualcuno scavalco senza pensarci un fascio di luce sul pavimento
Uccidere l’amore per non morire è legittima difesa la pistola rivolta a te punta sul mio cuore per il calore del peccato e il freddo della punizione mi guasto, da lì farei meglio a rompermi il suono gocciolante del mondo si allontana e poi alla finestra di una lunga, lunghissima cella, forse una morte inquieta, una morte che brucia, vita che brucia sotto la pioggia, bagnati del proprio sudore, s’annidano i ragni oscurano, restringono l’ellisse di uno zero splendente
Introduzione e traduzione dall’arabo a cura di Enrica Fei
Si muove veloce il dolore (titolo originale: Sariʿan iataharrak al-ʿalam) è un poemetto di Ahmed Al ʿAjmii (1958, al Diraz, Bahrein), pubblicato nel 2016 dalla casa editrice omanita al-Ghasham. È un poemetto di 556 versi divisi in 146 brevi strofe di tre, quattro e cinque versi di cui proponiamo in questa traduzione alcuni estratti, corrispondenti ai primi 40 versi, una parte centrale e le ultime strofe. È un componimento dai toni cupi che racconta il dramma esistenziale di un uomo musulmano dinanzi alla guerra dello Stato Islamico dell’Iraq e Siria (ISIS), delle lotte intestine tra Sunniti e Sciiti, dell’autoritarismo dei paesi del Medio Oriente e del Golfo Persico.
L’opera si inserisce nella poetica araba contemporanea per l’irruzione dell’io, il prevalere dell’immagine – che in questo caso sono rappresentazioni del dolore vivide, fisiche, intrise di sangue ed elementi horror –, e il discostarsi dalla tradizione di impegno sociale per dare spazio all’impatto che la realtà ha sull’individuo, più che il ruolo che quest’ultimo può giocare nella società.
Al ʿAjmii, come uomo musulmano, esplora l’impatto doloroso che il tempo in cui si trova a vivere ha su di lui, un impatto che viene descritto come fisico, violento e, soprattutto, trasformante. Il nucleo tematico del poemetto – il tema della metamorfosi, del perturbante, del mostruoso che è dentro di noi e che viene risvegliato dall’inferno del reale – rende possibile definire Si muove veloce il dolore come la storia di un viaggio di (tras)formazione.
Per raccontare la fragilità del suo secolo, infatti, il poeta si fa amico degli esseri del fango e della notte e attraversa le valli del terrore, dentro e fuori di sé. Il cammino da lui intrapreso si traduce in una disintegrazione fisica durante la quale incontra fantasmi che lo scherniscono, entità malvagie e superiori che lo perseguitano, compagni che sembrano aiutarlo ma che si rivelano, anch’essi, corrotti. Per tutto il viaggio, il poeta si interroga sul libro sacro, il Corano, cercandoinvano una risposta al perché delle lotte fratricide. Nel finale, si rivolge direttamente al Cielo, chiedendogli se esiste e rimproverandogli di non aver agito in nessun modo per fermare il male.
Ahmed Al Ajmii
Ahmed Al ʿAjmii ha iniziato i suoi studi in Letteratura Araba nel 1976 presso la Kuwait University. Come segretario della National Union of Bahrain Students, ha scritto poesie di resistenza e lotta studentesca ma, a causa della sua attività politica, è stato espulso dall’università e dal Kuwait. Ha ripreso gli studi presso la Beirut University dove si è laureato in Lingua e Letteratura Araba. Dal 1987 ad oggi ha pubblicato 18 raccolte di poesie, due saggi – uno sulla cultura democratica, e uno sulla poetica araba contemporanea – e un romanzo sulla vita di un detenuto politico (tratto da una storia vera ma in forma di fiction letteraria). Dal 1980 al 2011 è stato membro della “Famiglia di Letterati e Scrittori”, una delle principali istituzioni letterarie e culturali del paese dal 1969, anno della sua fondazione. A seguito della posizione politica assunta dalla Famiglia in occasione delle proteste del 2011 (nel quadro della cosiddetta Primavera Araba che ha riguardato anche il Bahrein), ha dato però le sue dimissioni.
Al ʿAjmii ha infatti preso parte attivamente alle proteste scendendo in piazza contro la famiglia sunnita regnante, gli Al Khalifa, e la loro feroce repressione della comunità sciita, di cui Al Ajmii fa parte, che in Bahrein costituisce, in realtà, la maggioranza della popolazione. Vive a Manama, la capitale, dove continua la sua attività poetica e organizza eventi culturali.
Il Bahrein: tensioni solo apparentemente religiose
Nelle interviste rilasciate in patria, il poeta Ahmed Al ʿAjmii ha indicato nell’ecatombe causata dall’ISIS le ragioni profonde dello smarrimento di cui narra il poema Si muove veloce il dolore il dolore, per un uomo musulmano, di assistere impotente alle stragi causate in nome della sua religione. La sua solitudine, inoltre, indica il non riuscire ad identificarsi con alcun gruppo musulmano attualmente attivo in Medio Oriente. Sono chiari, anche, i riferimenti all’autoritarismo mediorientale, seppur non citati esplicitamente. Considerando la feroce repressione in Bahrein della comunità sciita di cui il poeta fa parte, nominare gli Al Khalifa, la famiglia regnante al momento in carica nel paese, avrebbe sicuramente portato alla censura.
La realtà socio-politica del Bahrein, però, è senza dubbio peculiare e, essendo sconosciuta ai più, merita una breve digressione. Il Bahrein è una piccola isola del Golfo Persico di poco più di 500 kilometri quadrati. Per quanto l’industria petrolifera sia dominante, è più povero e, a livello geopolitico, meno potente delle altre monarchie arabe del Golfo Persico (come gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita o il Kuwait). Inoltre, a differenze di questi altri stati, ha una popolazione indigena che non si può definire tribale.
Fino alla fine del diciottesimo secolo, la piccola isola e i suoi abitanti erano sotto il dominio dell’Impero Persiano (l’odierno Iran). A differenza delle bellicose tribù dell’Arabia centrale (l’odierna Arabia Saudita), la sua popolazione era pacifica, sedentaria, e dedita alla pastorizia e all’agricoltura. Erano i “Baharna”, come si fanno chiamare ancora oggi. Le tribù del Najd, invece, (Arabia centrale), erano nomadi. L’ostilità climatica delle loro terre li portava spesso a spostarsi e, a seguito di invasioni e guerre, a conquistare territori più miti. Nel 1783, secondo la tradizione, la famiglia tribale degli al-Khalifa migrò dall’Arabia centrale e conquistò l’isola. Poco dopo l’insediamento, fu imposto un sistema feudale, che discriminava i Baharna e favoriva le famiglie tribali. Con l’avvento degli al-Khalifa, infatti, molte tribù si erano mosse dal Najd al Bahrein: essendo un’isola, il clima era più mite, le terre più redditizie e la pastorizia possibile. La famiglia degli al-Khalifa è ancora la famiglia regnante. Sarebbero diventati monarchi nel 1820, quando i Britannici (sotto la cui sfera di influenza rientrava il Bahrein), al fine di sigillare un’alleanza che controbilanciasse l’Impero Persiano nella regione, li dichiarò tali.
Molti dei Baharna, già dai tempi della conquista, erano fuggiti in Iran (allora, Impero Persiano). Soggetti a discriminazione, costretti a lavorare la terra e a cederne i frutti alle famiglie tribali alleate degli al-Khalifa, il risentimento nei confronti dei regnanti, percepiti come illegittimi invasori, si sarebbe formato già nel diciannovesimo secolo, per poi incancrenirsi nel corso del secolo successivo. I monarchi e le famiglie alleate, non solo non erano indigene; non solo, a differenza dei Baharna, gli autoctoni, che erano sempre stati sedentari, erano di tradizione tribale e beduina (vale a dire, prima di insediarsi nell’isola, erano nomadi); professavano anche una corrente dell’Islam che non era la loro. Erano, infatti, sunniti; mentre i Baharna, da sempre, sciiti.
Fin dai tempi della scissione tra sunniti e sciiti, la popolazione del Bahrain aveva sposato la causa di ʿAli bin Abi Talib, cugino e genero di Maometto, ed era quindi sciita. Ad oggi, gli sciiti rappresentano la netta minoranza del mondo musulmano (non costituiscono più del 15%). Sono, però, la maggioranza in Iran, Iraq e, appunto, in Bahrein. In quest’ultimo stato, in realtà, ormai non più (si stima un approssimativo 50%). La popolazione dell’isola, infatti, ha subìto varie ondate di “social engineering”: attraverso l’espulsione e la rimozione della cittadinanza di varie figure sciite di spicco, o l’elargizione della doppia cittadinanza a sauditi, pakistani, giordani (presumibilmente sunniti), il regime degli al-Khalifa è riuscito, nel tempo, a cambiare la demografia del Paese. Molti giovani sciiti, inoltre, subendo forti discriminazioni, sono stati costretti all’esilio. Moltissimi lasciano il paese non riuscendo a trovare lavoro a causa, evidentemente, della loro confessione religiosa.
È difficile riuscire a comprendere la natura del conflitto tra sunniti e sciiti, non solo in Bahrein, ma in numerose realtà del Medio Oriente. È facile indulgere nell’assunto orientalista secondo il quale, trattandosi di musulmani, la religione ha un ruolo centrale e, nonostante le differenze tra sciiti e sunniti non siano poi così cruciali, scoppino addirittura guerre guidate da uomini fanatici e barbuti. La realtà è più complessa e non prende le forme di una discriminazione religiosa: in Bahrein ciascuna festività propriamente sciita è consentita e rispettata; il Re, anzi, manderà perfino i suoi migliori auguri. È, semmai, di natura politica: la denominazione “sunniti” o “sciiti” dovrebbe essere intesa come una fra tante altre di natura politica che, in un determinato contesto, si sviluppa attraverso i decenni in un binomio di competizione (“repubblicani” e “democratici” nel contesto americano, ad esempio). Gli sciiti del Bahrein sono politicamente discriminati: il principale partito d’opposizione sciita in Bahrain, al-Wefaq, è stato sciolto nel 2016 e, tramite un decreto che impedisce a membri di ex congregazioni politiche di ricandidarsi alle elezioni, i suoi membri sono stati banditi dall’arena politica. Sarebbe un errore, però, leggere questa discriminazione in termini “identitari”: le ragioni di questa discriminazione sono da individuarsi nel timore che l’Iran – temuto come super potenza rivale dell’Arabia Saudita, potente alleato degli Al-Khalifa – possa foraggiare al-Wefaq al fine di esercitare la sua influenza nel piccolo paese del Bahrein. L’Iran è, sì, una Repubblica Islamica Sciita, ma sarebbe di nuovo un errore vedere in questo possibile supporto militare iraniano (per il quale non ci sono prove) una ragione ultima di natura religiosa (Hamas, partito politico e milizia attiva nella Striscia di Gaza foraggiato dall’Iran, è di stampo sunnita, ad esempio). Si tratta, ancora, di ragioni politiche: gli al-Khalifa, come detto, sono storicamente un forte alleato dell’Arabia Saudita e quest’ultima, possedendo similare peso geopolitico nell’area alla potenza iraniana e avendo simili aspirazioni di influenza regionale, è una forte rivale dell’Iran.
سريعاً يتحرّكُ الألم
ليس هذا هو العالمُ الذي ولدتُ لأجله.
vv. 1-38 / 49-51/ 70-72 / 77-88 / 518-526
زمنٌ آخرُ، غيرُ الذي حلمتُ به، ولم يكنْ جديراً بمهامِه في تحويلي إلى إنسانٍ جديد.
زمنٌ قطعَ لساني بسرعة وأبقى كلماتي محتجزةً، في قاعِه، ككوماتِ خزف.
مازلتُ أصغي إلى بذاءاتِه المكتوبةِ باليقين، وأستمدُّ أفكاري من عظامِه المرقّقة.
فيه انجرفتُ إلى سَفحِ الدّمِ، وصادقتُ يرقاتِ الظلمةِ المحشورةَ وسطَ أكبر كذبة، تُسمّى الطُمأنينةُ والسلام.
هرباً من مراعي الخوف، صنعتُ لنفسي ربّاً متوحّشاً، وصرتُ أخشاه، أرتعبُ من عقلِه، وساديّتِه.
حتى اللحظةِ، لم أرَ أفكاراً للنجوم، في هذا الكتابِ القديمِ، المنسوبِ إلى عصافيرَ طينية.
أصرخُ في ذاتي، فيرجعُ صداي كصوتِ مزمارٍ مُنهك، مُغطى بما يتناثرُ من أحزان، بما يسيلُ من بلعومِ الشمس.
عشتُ دهوراً في حمّى الكآبة، إلى ظهرِ الخواءِ أُسندُ نظراتي دونَ رؤيةِ أثرٍ لابتسامةِ الفجر.
[…] بمصباحٍ أعمى، في غاباتِ البكاءِ، استمرت هرولتي دونَ الابتعادِ عن فوّهةِ العذاب. […] السحرُ سريري، والدجلُ وسادتي، وأرغبُ، كثيراً، في مواصلةِ النوم ورؤيةِ سحابةٍ تُمطرُ التخلّفَ. […] صارَ رأسي بالونةً يملؤها بخارٌ مهزومٌ، وتطفو في فضاءٍ شاحبٍ نسجته يدٌ عطشانةٌ، مقطوعةٌ من الجسد.
في كبسولةٍ خانقةٍ، بحثاً عن الخرس، يتواصلُ دوراني حولَ صخرةِ الغثيان، الشبيهةِ بثدي القداسة.
ما أراه، ليس سوى اشتعالٍ للدموع، وما أسمعُه، ليس أكثرَ من دقةِ ناقوسٍ تدعو إلى إشاعةِ التمزّق، وإهدارِ دمِ النهار. […] جوهري يدورُ في طلاسمِه البعيدة، العدمُ طائرٌ جارحٌ محبوسٌ في قفصِ الصدر.
أين كينونتي، أريدُها في الرمادِ المطلق، لأسمعَ صوتي بلسانِها؟
Si muove veloce il dolore
Questo non è il mondo per cui sono nato
vv. 1-38 / 49-51/ 70-72 / 77-88 / 518-526
Un altro tempo, non è quello che sognai, non era all’altezza, il tempo, del suo compito nel trasformarmi in un uomo nuovo.
Un tempo che, veloce, ha tagliato la mia lingua, sono rimaste in ostaggio, le mie parole come seppellite, nel profondo, sotto a un cumulo di ceramiche intagliate.
Con attenzione ascolto ancora l’oscenità di questo tempo, le sue parole certe, e i miei pensieri nascono dalle sue ossa fini e fragili.
Mi porta via il tempo, fino al limite del sangue. Divento amico delle larve della notte che affollano il cuore della più grande menzogna, chiamata salvezza, pace.
Fuggendo dalle valli del terrore, un Dio mostruoso ho costruito per me. Ho paura, mi spaventa il suo intelletto, il suo piacere per il mio dolore.
Ancora non trovo il pensiero delle stelle in questo libro antico, consegnato al fango, ai suoi uccelli.
Nella tristezza, la mia mente è trafitta dal corno del divino. Con parole sporche, ho lasciato che la mia immaginazione si imbevesse di fragilità.
Della verità il più grande dei fantasmi, dentro di lui la mia anima ho seppellito, e ho dimenticato il mio cuore nel suo petto, per un tempo più lungo della morte, che sbadiglia indifferente.
Ho visto il bagliore delle tenebre nutrire la paura, e spostare il sole sopra un campo posseduto dalla falsità, gli assassinii, le astrazioni della morte.
Urlo entro i confini di me stesso, e la mia eco torna indietro come la voce di un antico flauto, consumato e stanco, avvolto da ciò che sparge il dolore, ciò che scorre dalla faringe del sole.
Ho vissuto ere nella febbre della melanconia, sulle spalle del vuoto ho appoggiato i miei pensieri. Nessuna traccia antica del sorriso dell’aurora.
[…]
Con una lanterna cieca, nelle foreste del pianto, la mia corsa lenta è continuata, senza mai allontanarsi dal cratere del tormento.
[…]
Il maleficio è il mio letto, e l’inganno il mio cuscino. Desidero, tanto, proseguire nel mio sonno, il sogno delle nuvole, da cui piove l’ignoranza.
[…]
La mia testa è diventata un pallone, i fumi della sconfitta lo riempiono. Fluttua nello spazio pallido, tesse le fila una mano esangue, amputata dal corpo.
In una navicella senza aria, alla ricerca del silenzio muto, il mio giro vorticoso continua intorno la roccia della nausea. È simile, nelle forme, ai seni della santità.
Ciò che vedo, non è che l’esplosione infuocata delle stelle, ciò che sento, non è che un solo gong, chiama al diffondersi dello squarcio, lo sperpero del fiume di sangue.
[…]
Fantasmi mi circondano, ridono di me, perché credo nella ragione. I miei compagni sono alberi che rifiutano di restare saldi.
Assenza di vuoto, esisti? Nel freddo pungente, non ho sentito battere i tuoi denti, non una parola tremante è stata versata da te.
Nel periodo delle feste natalizie, si sa, la voracità consumistica raggiunge il suo apice; c’è chi sceglie – più o meno consapevolmente – di assecondarla, e chi invece la rifiuta. Esiste però una cosa della retorica del Natale di cui sembra più difficile liberarsi: il dover essere felici per forza. Le immagini di bambini a bocca aperta davanti ai regali e di famiglie riunite attorno a grandi tavolate permeano i media, proponendo un immaginario di una festa che, più di tutte le altre, bisogna vivere nella gioia e nella condivisione famigliare. Un esempio su tutti: la pubblicità del pandoro Bauli, accompagnata dalla sua sigla che è ormai diventata una hit natalizia, A Natale puoi (… dire ciò che non puoi dire mai / che bello è stare insieme, / che sembra di volare, / che voglia di gridare / quanto ti voglio bene / È Natale e a Natale si può fare di più / È Natale e a Natale si può amare di più).
Ci sono invece infiniti motivi per cui si possono provare emozioni negative a Natale, e fra questi ce n’è uno che mette d’accordo in moltɜ: i parenti. In quantɜ ci siamo trovati a sopportare le loro domande – la laurea? Ma ti pagano? I figli quando? – e le loro opinioni più che discutibili, senza mai aprire bocca per non rovinare il pranzo a tuttɜ?
È proprio per questa occasione che, invece, vogliamo accogliere l’invito di Sara Ahmed e diventare guastafeste, rompere la felicità se quella felicità non fa per noi. Nel suo Manuale della femminista guastafeste Ahmed, attingendo alle sue esperienze di studiosa e attivista femminista queer razzializzata, propone una serie di verità, massime e equazioni che rivendicano il diritto di rovinare la festa altrui, denunciando discriminazioni e storture a cui non ci si vuole adattare. In questo senso ostacolare la felicità diventa un progetto radicale – una teoria e insieme una pratica – per decostruire il mondo e crearne uno nuovo, alla portata di tuttɜ.
Oltre a questo libro, la redazione di Almanacco ne propone altri dieci: libri guastafeste, perfetti per turbare i parenti a Natale.
Fabio Ciancone: Luca Pisapia, Fare gol non serve a niente, Torino, add, 2024.
Siete mai stati in quella posizione scomoda che modella la schiena di tutti coloro che amano il calcio e odiano il capitalismo? Siete, come me, tra le persone che godono alla follia nel vedere un bel gol e vi imbarazza sapere che per i mondiali del 2034 in Arabia Saudita saranno sfruttati e probabilmente moriranno migliaia di operai? Non riuscite a sanare le vostre contraddizioni interne e odiate il modo in cui vostro zio parla con la retorica trita del leleadani di turno? Leggete l’ultimo saggio di Luca Pisapia per andare all’origine coloniale del calcio, per studiare come i flussi internazionali di capitale influenzano le fortune delle vostre squadre del cuore, per distruggere l’immagine dei “bomber”-azienda e continuare serenamente a discutere di tattica tra l’antipasto e il primo.
Diletta D’Angelo: Michel Houellebecq, Serotonina, trad. a cura di Vincenzo Vega, La nave di teseo, 2019.
Il miglior modo per sabotare il Natale? Serotonina di Houellebecq. Un romanzo che ti accompagna nel buio della depressione e del vuoto esistenziale, perfetto per chi si sente già soffocare dal sorriso forzato degli auguri. Con Houellebecq sul tavolo, ogni discussione familiare prenderà una piega strana: “Ma siamo felici davvero? O solo anestetizzati?”. Buona fortuna.
Simone De Lorenzi: Mark Fisher, Realismo capitalista, trad. a cura di Valerio Mattioli, NERO, 2018.
Al cenone di Natale c’è sempre un momento, dopo il dolce e prima della tombola, in cui si arriva a parlare di attualità. Tra i fumi dell’alcool e l’abbiocco post-panettone, archiviata “condanni il 7 ottobre?” come domanda rituale, quest’anno la discussione coi parenti verterà su Luigi Mangione. È a quel punto che tirerete fuori Realismo capitalista.
Fausto Paolo Filograna: George Saunders, Pastoralia, trad. a cura di Cristiana Mennella, Minimum Fax, 2018.
Nessuno può ammettere che faccia abbia per davvero la zia che verrà al cenone di Natale. Nessuno può ammetterlo perché nessuno sa quale sia la sua vera faccia, nessuno dico sa nemmeno riconoscere l’estrema punta del suo naso, e nemmeno con la luce giusta (quella del telefono). Solo George Saunders lo sa, quale sia la sua faccia. È quella che ha la Zia Bernie, quella del racconto Quercia del Mar, a p. 87, e nessun’altra, la sua vera faccia.
Riccardo Frolloni: Anne Boyer, Non morire, trad. a cura di Viola Di Grado, La Nave di Teseo, 2020.
Non c’è malattia che spaventi il Natale più di quella che Anne Boyer racconta in Non morire. Non quella del corpo, intendiamoci: quella della mente, quando scopre che tutto – dai regali al cenone – è costruito per nascondere il dolore. Il dolore di chi non può festeggiare, di chi si consuma per sopravvivere, di chi sa che la vera eredità familiare è il capitalismo terminale. Metti il libro sotto l’albero e osserva il disagio: più che un regalo, un memento mori.
Riccardo Innocenti: Niccolò Bosacchi, Disbrigo degli affari correnti, Sensibili alle foglie, 2024.
Il libro di esordio di Bosacchi racchiude prevalentemente testi in prosa che tentano di tenere insieme esistenzialismo e analisi politica, sforzandosi di proporre una chiave di lettura del presente che banni la retorica. Vediamo interagire il residuo biologico e il cemento del capoluogo lombardo, animati grazie all’incrocio di traiettorie individuali e fenomeni sovrapersonali. Si può essere politici senza fare slideshowactivism 😉 ;).
Graziana Marziliano: Antonia Caruso, Corpi invisibili, illustrazioni di Chiara Mela, Meo e Sonno, Postfazione di Luce Scheggi, Becco Giallo, 2024.
La cena del veglione è uno di quei momenti in cui i grandi argomenti – guerre, migrazioni, carcere, mondo lgbtqia+, lavoro sessuale – vengono puntualmente affrontati e continuamente falliti. Un senso di incomunicabilità oltre a molta rabbia addobba le feste in famiglia (quella che non si sceglie): ho pensato che una buona soluzione a questa impasse festiva sia regalare Corpi invisibili (cioè che non vogliamo vedere). Quali sono questi corpi invisibili? Antonia Caruso ne seleziona otto: (1) Corpo del reato, l3 carcerat3; (2) Corpo al lavoro, operai3; (3) Corpo a corpo, persone in manicomio; (4) Corpo a disposizione, sex worker; (5) Corpo estraneo, persone migranti; (6) Corpo in scena, donne in TV; (7) Corpo in movimento, persone trans; (8) Libertà dei corpi, capitolo dedicato all’aborto. Il testo si sporca le mani con un lavoro tra i più difficili: risultare accessibile a chi sta al di fuori delle bolle politiche, affrontando argomenti infinitamente complicati e profondi senza perdersi per strada o arrendersi per sfinimento, è uno sguardo sui corpi che non contano, quelli che, come scrive Sylvia Wynter, sarebbero definiti come “NHI – No Humans Involved”.
Se magari rimandate le grandi discussioni sui corpi invisibili a dopo la lettura di questo libro l’elefante invisibile che è nella stanza e che non può essere rimandato rimane quello del genocidio del popolo palestinese.
Eleonora Negrisoli: Franny Choi, Soft Science, trad. a cura di Alessandra Bava e Viola Lo Moro, Timeo, 2024.
Da dove vieni? Hai mai messo in discussione la natura della tua realtà? Come facciamo a sapere che non sono solo emozioni simulate? sono alcune delle domande sottoposte durante il test di Turing alla cyborg protagonista di Soft Science di Franny Choi. Le sue risposte allargano i confini tra umano e macchina, interrogando questioni come l’identità e le relazioni. A volte è una ragazza, altre una macchina o una stella marina; i pezzi di metallo si trasformano in fluidi corporei generando poesie postporno e fantascientifiche in cui l’idea di naturale si trasforma: «ricorda / tutti gli umani / sono cyborg». Se vuoi far strabuzzare gli occhi allo zio sessista o alla cugina new age, questo è il libro perfetto.
Lorenzo di Palma: Curzio Malaparte, Tecnica del colpo di stato, Adelphi, 2011.
Cominciamo col dire che consigliare un libro ad una persona che si suppone abbia tra i cinquanta e i settanta anni è, nel 2024, un atto di per sé rivoluzionario. Quanti dei nostri parenti infatti sarebbero in grado di leggere un libro dall’inizio alla fine? Come accade per alcuni batteri parassitari, i nati negli anni ’60 hanno raramente a cuore la salute dell’organismo ospite che infestano, e raramente accettano consigli; altrettanto raramente si cimentano nell’arduo esercizio chiamato “comprensione del testo”.
Meglio dunque se il testo in questione è un breve saggio dal piglio narrativo. Meglio ancora se il saggio è stato pubblicato nel 1931, cioè in un periodo storico che, come sappiamo, va molto di moda tra i nati negli anni ’60. Sto parlando di Tecnica del colpo di stato di Curzio Malaparate, un vademecum completo sulle cause, le modalità, e le conseguenze dei più famosi golpe del ventesimo secolo: dalla nostrana marcia su Roma, al meno conosciuto golpe polacco del maresciallo Pilsudski, passando per la rivoluzione di ottobre.
Ingannati sulle finalità storiche e attratti dalla copertina Adelphi color pastello, i nati negli anni ’60 accetteranno di buon grado di sottrarre 15 euro dalla tredicesima? Ne dubito, meglio spendere quei soldi per un set di bagnoschiuma Pino Silvestre. Ché si sa che le rivoluzioni sono per altri paesi, ché in Italia non succedono queste cose, vero?… Vero??
Elena Strappato: Dorothy Parker, Complete Stories, Penguin Classics 2002.
Se ogni festa ha la sua killjoy, e il consiglio di lettura non deve essere da meno, il mio è un classico che non è un classico. Se hai visto Ragazze Interrotte o Una Mamma per Amica, forse conosci a memoria una sua poesia. Se ti mancano questi riferimenti, non importa. Probabilmente la conosci già, la conosciamo tutti, ma nessuno di noi la legge. Tra poesie e racconti c’è l’imbarazzo della scelta, soprattutto se a Natale vuoi sfoderare battute taglienti con il cugino molesto che non ti lascia in pace. D’altronde era la regina dei salotti (per il suo wit e la sua intelligenza, e non solo per il vino).
Ma se invece a Natale vuoi essere triste e guastare la festa a tutti, mentre il mondo vuole che tu sia felice, leggere Dorothy Parker ti farà bene. Ti sentirai legittimata. Perché pochi, come lei, hanno reso la profonda coscienza dell’ingiustizia che può animare ogni nostra tristezza. Tra le traduzioni un po’ sparse dei racconti di Dorothy Parker ne esiste una di Eugenio Montale con postfazione di Fernanda Pivano, Il mio mondo è qui (Bompiani, 2003); e un’altra per i tipi di Astoria, Tanto Vale Vivere, a cura di Chiara Libero (2021).
Un’intervista a Bianca Tarozzi, a cura di Vassilina Avramidi e Elena Strappato
Mentre i countdown per le feste natalizie sono già iniziati, e tante finestrine dei calendari dell’avvento sono già state aperte, anche noi dell’Almanacco ritorniamo su alcuni dei momenti più belli che abbiamo condiviso durante il 2024. Ritorniamo alle giornate calde di giugno, quando abbiamo organizzato il Grisù Festival de Lo Spazio Letterario, in collaborazione con Porta Pratello e con la libreria indipendente Confraternita dell’Uva.
Con l’intervista a Bianca Tarozzi avvenuta durante il Grisù, si è chiuso un anno di lavori e collaborazioni sulla traduzione, e in particolare sul rapporto tra poesia e traduzione. Durante il 2024 abbiamo desiderato di incontrare traduttori e traduttrici per diversi motivi: certamente, per conoscere il punto di vista di chi traduce, considerandolo un punto di vista privilegiato, critico sul testo, ma anche per valorizzare il lavoro di chi traduce e per rivendicare il lavoro di traduzione come una forma di scrittura contemporanea.
Bianca Tarozzi è nata a Bologna e vive a Venezia. Ha insegnato letterature inglesi e angloamericane tra Verona, Venezia e Milano, e come traduttrice ha abitato la poesia americana, in particolar modo quella confessionale e i suoi nomi più rappresentativi come Robert Lowell, Sylvia Plath e Elizabeth Bishop. Ha tradotto anche la poesia di Emily Dickinson, A. E. Hausmann e Louise Glück, vincitrice del Premio Nobel del 2020. Come autrice e poeta, l’esordio di Bianca Tarozzi avviene con Nessuno vince il leone (Arsenale, 1988), una raccolta di riscritture al femminile dove ritroviamo, tra altre, figure note dalla mitologia greco-romana, come Arianna e Penelope. In questa intervista, Bianca ci racconta la sua esperienza in quanto traduttrice di due tra le opere più rilevanti di Louise Glück, Ararat e Meadowlands, in Italia pubblicate entrambi dal Saggiatore (2021 e 2023 rispettivamente).
Elena: Nel 2021, dopo la vittoria del Nobel di Louise Glück, il Saggiatore pubblica la tua traduzione di Ararat, che in realtà però è precedente; era già stata pubblicata nel 2012, in un numero monografico della rivista In forma di parole, curata da Gianni Scalia. In realtà, fino alla vincita del Nobel, Louise Glück era parecchio sconosciuta nel panorama italiano, a tal punto che giravano articoli dal titolo “Louise Glück chi?”… Considerando che tu provenivi da una poesia contemporanea americana come quella confessionale, e che la voce lirica di Louise Glück in qualche modo sfugge questa categorizzazione, vorremmo che ci racconti com’è avvenuto l’incontro con la poesia di Glück, e in particolare come sei arrivata a tradurre Ararat e Meadowlands?
Bianca: Partiamo dalla mia formazione in quanto americanista. Quando ancora frequentavo l’università a Venezia ho scritto una tesi su Robert Lowell, che penso sia l’unico o, meglio, quasi l’unico poeta americano che si occupi della storia americana, perché sia la Glück che altre importanti poetesse e scrittrici contemporanee nordamericane, come Mary Robinson e Anne Carson, non parlano della storia nella loro poesia. Lo stesso credo vale anche di molti poeti americani contemporanei. Ci sono, certo, alcune eccezioni, ma allora si tratta di newyorkesi, ebrei, che hanno una diversa consapevolezza della storia. Mentre dunque lavoravo su Robert Lowell ed Elizabeth Bishop, ho letto un libro della critica letteraria Helene Vendler, scomparsa recentemente, intitolato Part of Nature, Part of Us (Parte della natura, parte di noi), pubblicato nel 1980.[1] Lì, verso la fine del libro, c’era una parte dedicata sulla poesia di Glück. Allora ho pregato la mia sorella maggiore, filosofa che vive a New York, di farmi avere qualcosa della Glück. Quindi, per le vacanze di Natale del 1980, mi ha mandato proprio quel librino di Glück che Vendler aveva commentato nel suo grosso volume sulla poesia americana. A una prima lettura, mi è sembrato molto facile individuare le influenze di Glück. Già dalla prima poesia sua che ho letto, ho pensato a Silvia Plath, perché il suo verso era libero, drammatico, la tematica era gotica… aveva però un tema suo specifico, ed era quello – se vogliamo chiamarlo così – dell’anoressia. Louise Glück aveva avuto una formazione un po’ particolare: ha studiato alle scuole superiori, dopo però si è ammalata e ha avuto gravi problemi di salute (anoressia), come non ha seguito un curriculum “normale”, studiando, per esempio, in una facoltà di lettere. Quando dunque mi è arrivato questo libro, [n.d.r.: Descending Figure), io lo lessi con molto interesse, e pian piano che uscivano anche le opere successive, me le procuravo. Anni dopo, quando insegnavo letterature angloamericane all’Università di Verona, ho organizzato un convegno su Ulisse e Circe. A quel punto, Meadowlands, il libro in cui Glück riscrive in parte i personaggi di Ulisse, Penelope, Telemaco e Circe, era già uscito e lo conoscevo.
A questo punto occorrerebbe tornare un po’ indietro: già anni prima, quando facevo lezioni di poesia americana alla Ca’ Foscari, per il Novecento partivo da Ezra Pound e dal suo poemetto Hugh Selwyn Mauberley (tradotto in italiano da Giudici), dove Ulisse diventa l’emblema del poeta novecentesco. Dopo Pound, anche Lowell, sul quale io avevo fatto la tesi, ritorna sul personaggio di Ulisse, per rappresentare la sua storia biografica, esistenziale: nella sua poesia Penelope era la maschera per la seconda moglie, Circe per la terza. Bisogna dire di Lowell che tutte le sue mogli sono state scrittrici, romanziere o critiche letterarie – almeno su questo direi che abbia rivelato un certo buon gusto! La sua versione però di Ulisse e Circe è tremenda: la sua era una maga aristocratica, dell’ Atlanta del nord, che si, scriveva romanzi, ma era di una famiglia disastrata, figli, droghe… insomma, succedeva di tutto. Per Lowell, quel periodo è stato un disastro, ed è quello che racconta attraverso questa riscrittura del mito. Ciò che fuori dalla poesia invece è che Lowell decide di ritornare dalla seconda moglie, Elizabeth Hardwick, ma il nostos non avviene: il poeta è morto in taxi, proprio mentre tornava a New York, dalla sua Penelope. La mia traduzione dell’Ulisse di Lowell è stata pubblicata nel 1977, in una rivista di Gianni Scalia, qui a Bologna – dico una perché, ai quei tempi, Scalia si inventava delle riviste in continuazione, appena finiva una ne cominciava un’altra.
Sono partita quindi da Ulisse, ma certo Penelope mi ha sempre molto interessata. Qualche anno dopo, nel 1985, ho scritto le “Variazioni sul tema Penelope”, un poemetto piuttosto lungo di trecento versi, mi fu subito pubblicato – per alcuni, quel poemetto sarebbe la cosa migliore che ho scritto; io non sarei tanto d’accordo su questo, ma ognuno ha i propri gusti. Allora, in quel periodo, sul terzo programma della radio, leggevano l’Odissea nella meravigliosa traduzione di Aurelio Privitera, pubblicato presso la casa editrice Lorenzo Valla. Passavo quindi le mie mattine ascoltando l’Odissea e nel frattempo scrivevo la mia versione di Penelope. L’ho ambientata nella contemporaneità, aggiungendo una buona dose di elementi autobiografici. Telemaco, per esempio, era mia figlia e mi faceva delle domande veramente strane: «tu, mamma, c’eri quando nell’era dei dinosauri?»… Avendo quindi scritto io stessa una Penelope, dai toni in parte comici e in parte drammatici, quando è uscito Meadowlands, mi sono precipitata, l’ho tradotto tutto e Gianni Scalia mi ha subito fatto pubblicare tutto il libro nella rivista In forma di parole. Questa è la storia del mio incontro con Glück.
Vassilina: Come hai ben accennato, in Meadowlands Glück riscrive l’Odissea in chiave lirica. Scrive, sì, in verso libero, ma gioca tanto con la forma e cerca di riportare dentro un genere per eccellenza monologico come la lirica, l’elemento del dialogo. Nei suoi versi, il mito è un velo, e la famiglia di Itaca diventa un’analogia triangolare (Penelope-Ulisse-Telemaco vs Glück-marito-Noah) attraverso cui la poeta racconta la fine del suo matrimonio. Una poesia che trasmette i sentimenti dolceamari del divorzio e della rottura, una poesia piena di lutto non per la morte, bensì per la perdita di una vita matrimoniale che ha segnato la vita della scrittrice e il suo rapporto con il figlio. Come Glück, anche Penelope è una figura che vive nell’assenza dell’altro, che fa esperienza della perdita, e del lutto continuo – del resto, anche la stessa tela di Penelope è un’arma contro i pretendenti, radunati a Itaca a causa dell’assenza del marito, ed è un oggetto del lutto, un che Penelope prepara per la morte eminente del suocero Laerte; una morte che non avverrà all’interno dell’Odissea.
Sentire il lutto per qualcosa che si è perso è anche un sentimento che ci riporta alla pratica della traduzione; pensiamo anche al termine “resa”, all’ “arrendersi” davanti al testo e ai possibili “intraducibili” della lingua di partenza. Facciamo un esempio: nella tua traduzione di Meadowlands hai scelto di lasciare il titolo uguale nella versione italiana, una decisione che abbiamo visto ripetersi anche nella traduzione in greco moderno, come anche in quella francese. Tale decisione è senz’altro giustificata, visto che Meadowlands è il nome dello stadio della squadra The Giants a New Jersey, un luogo-chiave in questo libro di Glück, che diventa tema centrale nei dialoghi lirici con il marito. Questa scelta però nasconde un altro significato nascosto nel titolo inglese: “meadowlands” sono, infatti, le terre dei “meadows”, parola che traduce il greco antico λειμών (il prato, il pascolo), luogo poetico già dai tempi dell’Odissea dove i «meadows» erano la casa delle Sirene. Questa, per esempio, è una connessione con Omero che il lettore italiano, greco, francese perde quando vede la parola «meadowlands».
Bianca: Allora, parliamo dei titoli e della strutturazione dei libri della Glück. Le sue poesie sono strutturate all’interno dei libri con un senso, con un’unità tematica, non sono poste cronologicamente man mano che le scriveva. Ararat, anche quello lasciato invariato nelle varie lingue, è un altro bel esempio della molteplicità di significati che si nascondono dietro i titoli della Glück: per la maggioranza dei lettori, Ararat è il monte dove si pose l’Arca di Noè, dopo l’alluvione; ma Ararat è anche un nome di un cimitero ebraico di Long Island, dov’è sepolto il padre della Glück, un personaggio centrale di questo libro. «Meadowlands» in inglese significa terreno a pascolo, ma è anche lo stadio. Questo è un punto tematico di scontro tra marito e moglie nel libro: per lui, i calciatori che giocano lì sono persone straordinarie, quasi eroi, mentre per lei, sono quasi dei delinquenti, degli energumeni. Addirittura, il personaggio di Penelope, attenta all’estrema cementificazione della zona, ride del nome dello stadio e lo paragona all’interno di un forno. Quindi i titoli della Glück sono sempre plurivalenti, indicando allo stesso tempo l’unità tematica dei libri.
Vassilina: Infatti, lo stadio dei Giants prende il suo nome proprio dai prati di New Jersey su cui è stato costruito, durante un periodo che ha segnato la zona per l’edificazione intensiva e la perdita di una dimensione più bucolica che la caratterizzava. Ritornando all’idea della perdita vorrei chiederti come ti sei approcciata a questo libro, e anche più generalmente, come ti approcci alla pratica della traduzione? Come riesci a mantenere i molteplici significati che ci sono all’interno dei versi e delle parole straniere, senza sentirti di perdere sempre qualcosa dall’originale?
Bianca: Ho recentemente pubblicato un libro sulla traduzione per Molesini, che si chiama Imitazioni.[3] Il titolo è un termine usato nel Settecento da traduttori inglesi, per es. da Dryden, perché si sono resi conto che una traduzione vera e propria è impossibile – addirittura, alcune volte è proprio impossibile tradurre. Poi la parola è diventata una tradizione, sia in Italia che negli Stati Uniti: un libro di Bertolucci si chiama così, come anche uno di Sinisgalli. Per non parlare poi delle Imitations di Robert Lowell, dove in realtà la voce poetica è tutta sua, non c’è nessuna fedeltà all’originale.[4] Per me, il problema delle traduzioni era dovuto al fatto che traduco poesia da sempre, ho cominciato appena ho potuto, partendo da Baudelaire per divertimento. Tradurre poesia è un atto di amore, perché la poesia interessa pochi. La vera sfida nella traduzione di poesia non è il ritmo, ma la struttura metrica, la rima… quelle non si possono tradurre. Ogni tanto uno può anche riuscirci, ma è raro. Le questioni, quindi, sarebbero due: la fedeltà al testo e il tentativo di costruire un ritmo, che non potrà, certo, essere proprio identico a quello del testo originale, ma che dovrà essere percepito come un ritmo.
Quando facevo le medie, studiavamo l’Iliade, e cioè leggevamo il testo omerico, ovviamente in traduzione. Quando invece mia figlia andava alle medie ha studiato l’epica antica in un modo tutto diverso: rispondevano a delle domande perlopiù teoriche come “cos’è un poema epico” e a imparare varie definizioni, senza fare esperienza diretta del testo omerico. La mia generazione – io sono del ’41 – ha avuto la gioia di leggere l’Iliade nella meravigliosa traduzione di Vincenzo Monti, completamente infedele, più lunga dell’originale, quindi per certi versi disastrosa. Il suo ritmo però è favoloso; del resto, anche Leopardi era apprezzata anche da Leopardi.
Se quindi accettiamo che una delle maggiori sfide nella traduzione di poesia è quella della struttura ritmica, con la Glück questo problema non si pone: il suo è un verso libero. Ciò che costruisce il ritmo nella Glück è la semplicità, la chiarezza, la laconicità della frase e della struttura sintattica. Lei dice addirittura che non adopera nessuna parola che un bambino non potrebbe capire. Si tratta dunque di una poesia comunicativa, non difficile da tradurre salvo che per delle questioni culturali: per es., meadowlands non vuol dire nulla per un italiano, mentre per un americano evoca immediatamente lo stadio. Io non ho trovato delle grandi difficoltà. Ho tradotto prima Ararat perché l’ho trovato più facile, mentre Meadowlands, anche per via della presenza di dialoghi, ha un linguaggio più complicato: da un lato, è un inglese colloquiale, parlato dagli americani, dall’altro è elegante; due cose che sembrano contraddirsi, e invece Glück riesce miracolosamente a costruire un linguaggio conciso, elegante, perfettamente chiaro e comprensibile, con una struttura sintattica interessante, e quindi con una ritmicità. Non ha però né la metrica, né la musica.
Vassilina:La musica è però presente in Meadowlands lungo tutto il libro, attraverso citazioni o invocazioni. Già nell’esergo, la coppia dei protagonisti comincia un gioco: «– Giochiamo a scegliere la musica. La forma preferita. – L’opera lirica. – La tua preferita. – Figaro. No. Figaro e Tannhauser. Ora tocca a te: cantamene una.» Si parte, dunque, dall’opera e si procede con la prima poesia del libro, intitolata «Penelope’s Song», «La canzone di Penelope», dove l’eroina si stacca dalla sua anima, e le chiede di cantare una canzone al marito perché ritorni.
Bianca: Io nel primo verso di questa poesia, «little soul», «piccola anima», vedo un chiaro riferimento all’ «animula vagula blandula» di Adriano. Infatti, avevo tradotto «little soul» con «animula», ma la casa editrice ha scelto diversamente.
Vassilina: E alle perdite si ritorna, quindi… Le referenze musicali in Meadowlands arrivano fino alla musica kletzmer, un genere musicale ebraico proveniente dall’Est Europa, tanto conosciuto a New York e generalmente negli Stati Uniti, che di solito viene scelto per le feste e i matrimoni ebraici durante gli anni in cui Meadowlands viene scritto. La Penelope di Glück, invece, esprime il desiderio di cantare una «accattivante / innaturale canzone – appassionata come Maria Callas» («La Canzone di Penelope»). La tua Penelope, dall’altra parte, fa i conti con l’epica, e anche se trovi che l’endecasillabo sia «una muffa», scrive comunque in endecasillabi, nonostante alcuni siano spezzati, e altri nascosti tra enjambements. Vorrei dunque chiederti: che legami vedi tra Penelope, la musica e la metrica e qual è il tuo rapporto personale metrica e con l’endecasillabo?
Bianca: Mentre nella poesia modernista del Novecento Ulisse è il poeta, nella poesia della Glück il poeta è Penelope – come lo è anche la mia, che scrive e traduce. Per quanto riguarda l’endecasillabo invece, la poesia dell’Ottocento inglese, mi viene in mente in particolare Tennyson, quella era una poesia così cantata, così musicale, che il Novecento ha dovuto reagire contro questa musica del metro. Anche Pound però, che ha preferito il verso libero, dice «there isn’t such a thing as free verse», «non esiste il verso libero», perché anche nel verso libero ci dev’essere un ritmo; se non c’è un ritmo, allora è semplicemente prosa. C’è chi ha molto criticato la Glück, dicendo «come mai quell’articolo su Persefone [n.d.r.: Averno] va sempre a capo»? La risposta è semplice, perché è poesia. Il ritmo della Glück è argomentativo. La poesia di Meadowlands ha come tema, tra altri, la musica, ma non è una raccolta di canzoni. Il suo è un lavoro quasi più simile a un’opera teatrale, con i personaggi che confliggono tra loro. Telemaco, per es., ha un ruolo centrale: è il figlio scisso tra due genitori completamente diversi. Il marito della Glück era un atleta, un professore di ginnastica, non era per caso che gli piaceva il calcio; era forse prevedibile che il matrimonio non potesse funzionare tanto bene. La struttura è dunque drammatica, un pensiero che si snoda ed esamina i pro e i contro di una relazione destinata a finire.
Per parlare del mio rapporto con l’endecasillabo tornerei ancora all’Iliade di Vincenzo Monti e all’influenza che ha avuto su di me – dovremmo anche considerare che allora si imparavano pezzi di poesia a memoria. L’endecasillabo è connaturato nella nostra tradizione, però nel mio caso si tratta di un endecasillabo terremotato: gioco con il verso lungo quello verso breve, endecasillabo e settenario, un’alternanza che troviamo già in Dante, Petrarca, Tasso, e via dicendo. Milton copia dall’Italia, l’endecasillabo influisce sulla poesia inglese del Cinquecento, perché leggono Petrarca e dopo viene creato il pentametro giambico. Il mio endecasillabo cerca di diversificare il ritmo, si spezza, in modo da evitare questa “cantilena” che risulta poco accettabile nella poesia del Novecento.
Elena: Tornando sui due libri della Glück che hai tradotto, Ararat e Meadowlands, noi abbiamo individuato un filo comune: entrambi questi libri sono pervasi dal lutto. Certo, parlando di perdite diverse. In Meadowlands c’è la perdita dell’eros, dell’intimità coniugale tra due sposi; c’è la lontananza di Ulisse da Penelope come anche la crisi, la fine di un matrimonio. In Ararat il lutto è prima di tutto familiare: vi ci troviamo il resoconto poetico di vicende familiari che forma un intreccio quasi narrativo, romanzesco. Allo stesso tempo questi due libri che cantano della perdita, sembra ragionino sul desiderio. Nell’epigrafe di Ararat troviamo una citazione da Platone: «il desiderio è la ricerca per l’intero; si chiama amore». Il tema della perdita in Ararat non è legato solo alla perdita del padre, ma anche all’amore difficilissimo che univa la Glück con la sorella; due sorelle tanto diverse, che ricordano in parte le opposing forces di Ulisse e Penelope in Meadowlands. Il desiderio come portatore di lutto, di perdita, ci ha fatto venire in mente la Canadese classicista, scrittrice e poeta Anne Carson, che definisce l’eros come perdita, mancanza e lutto. Per Carson l’esperienza erotica del desiderio come caratteristica dell’amante, del mancante (colei che non ha) e del sapiente (colei che sa di non sapere?) – un po’ come fa Penelope in Meadowlands. Dalla tua esperienza di questi due testi, c’è qualche riflessione che intreccia in entrambi desiderio, perdita, e ricerca di una voce creativa?
Bianca: Se pensiamo di nuovo al titolo Ararat, c’è una terza connessione che dovremmo aggiungere alle due precedenti, menzionate prima: nella radice ebraica, «ararat» vuol dire salvezza. Sarà dunque l’inevitabile ricerca dell’intero possibile? Dopo, un tema importantissimo di questo libro è vero, è il rapporto complicatissimo tra le due sorelle. Si tratta di una insopportabilità che ha una lunga tradizione: nella scrittura biblica, il primogenito è sempre cattivo; il secondogenito, invece, gode di una maggiore libertà, forse addirittura felicità. Il primogenito è condannato all’invidia. Il personaggio di Glück in Ararat confessa la sua invidia, è onesta ed esplicita. Avendo io stessa una sorella maggiore, ero molto interessata a indagare meglio sul racconto di Glück di questo rapporto tra sorelle.
Per quanto riguarda invece la perdita, questo penso sia il tema di tutta la poesia. Ci tengo a citarvi almeno due casi. Elizabeth Bishop ha scritto una poesia intitolata «The Art of Losing», dove dice: «the art of losing isn’t hard to master», «l’arte di perdere non è difficile da padroneggiare» – del resto, questo è destino comune di tutto il genere umano. La poesia vuole conservare ciò che si perde, fermare l’attimo, congelare l’emozione. Qui ritorno ancora a Pound, che parla della poesia come «frozen emotion», «emozione ghiacciata, fermata, trattenuta». Emily Dickinson, invece, in una sua poesia ci ricorda come «la percezione di un oggetto costa precisamente la perdita dell’oggetto», cioè, se hai l’oggetto, sei contento, non hai bisogno di scrivere dell’oggetto. Sul tema della perdita ho scritto una poesia che si chiama «Orchidee impossibili», che finisce così: «io, invece, al posto della cosa, ho la figura. Non solo una, due. Ciascuna mi sollecita tentare un’arte non banale, una linea sottile. Io, che non so curare una vera orchidea, mi prendo cura delle immagini. Vive nella mente, indugiano, ritornano. Così vivo di niente. È come tessere una tunica di anemoni, con un filo di ragno, con le ortiche, raffigurare quello che non c’è o almeno non è qui. E ti chiedi perché puoi farlo, e poi perché, soprattutto perché non puoi non farlo». Potremmo chiederci, «perché fermare l’attimo?», ma questa è una vocazione, e non si può evadere.
[1] Helen Vendler, Part of Nature, Part of Us: Modern American Poets (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1996).
[2] La turbolente relazione tra Lowell e Hardwick viene rispecchiata nella loro corrispondenza, pubblicata recentemente nel volume The Dolphin Letters 1970-1979: Elizabeth Hardwick and Robert Lowell, The Dolphin Letters 1970-1979, ed. Saskia Hamilton (London: Faber & Faber, 2020).
Traduzioni a cura di Milo Lamanna, Irene Russo e Elena Strappato
Cosa sia la crushche dà titolo alla raccolta di Richard Siken non è facile da spiegare. Alla più comune accezione di infatuazione, innamoramento ai limiti dell’ossessione, lo scheletro delle poesie che leggete in traduzione, si accompagna quella dell’urto, della pressione violenta sulla materia, umana e non, i cui frantumi sparsi premono per uscire dalla memoria sulla carta. Ha qualcosa a che vedere con il concetto di “frantumaglia” di Elena Ferrante. Definita concretamente come «una folla di materiali incoerenti, di rottami», la frantumaglia è anche suono, «un ronzio in crescendo e uno sfaldamento a vortice di materia viva e materia morta». È «un ancoraggio per la nostra vita» che segue al senso della perdita «quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo» è destinato a unirsi «a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere»; «la parola per un malessere non altrimenti definibile» che rimanda a «una folla di cose eterogenee nella testa, detriti su un’acqua limacciosa del cervello». Dove Ferrante però procede in un costante ritaglio tra chi perde e chi è perduto, Siken dispone questi frammenti in cerchio, murando sé e i ricordi all’interno della propria ossessione, fino alla spettacolarizzazione di questa (complice la parallela attività di filmmaker).
Nella prefazione all’edizione del 2019di CrushLouise Glück dice della poesia di Siken: «[Crush] è il miglior esempio che si possa dare di profonda selvaticità che è al tempo stesso completamente intelligibile». Glück non fa riferimento a una comprensione intellettuale e razionale delle poesie di Crush, ma a un’identificazione che ha più a che fare col farsi colpire – o trafiggere – da questi versi. Leggere Siken vuol dire esporsi alla violenza che trasuda, sofferta o inflitta, da ogni poesia di questa raccolta. Per quanto sia pervasiva e costante, la violenza non è mai data per scontata, e quando non è nominata apertamente è inflitta a chi legge attraverso una metrica ossessiva e frenetica, che non lascia scampo. L’effetto è immersivo e claustrofobico – una lettura ad alta voce con un microfono troppo alto, un feedback acuto – per Glück: «pura improvvisazione maniacale».
Pur non lasciando spiragli per respirare, Siken concede brevi istanti di chiarezza e trasparenza, dove il terrore e il panico incalzante lasciano spazio a momenti luminosi; per un attimo ci sembra di poter guardare tutto dall’alto, solo per un secondo:
[…] che ci riporta alle spalle dell’eroe e alla dolcezza che viene non dall’assenza di violenza, ma a discapito della sua abbondanza.
Se leggere le poesie di Crush significa esporsi al loro potenziale distruttivo, tradurle significa attivare un processo opposto: raccogliere i frantumi e ricomporli. Abbiamo cercato di mantenerci il più possibile aderenti al testo e di restituire le sensazioni fisiche scatenate dall’andamento sincopato delle poesie che abbiamo scelto.
Da Crush (yALE university press, 2019) di richard siken
The Torn-Up Road
There is no way to make this story interesting.
A pause, a road, the taste of grave in the mouth. The rocks dig into my skin
like arrowheads.
And then the sense of being smothered underneath a sack of lentils or potatoes, or of a boat at night slamming into the docks again
without navigation, without consideration,
heedless of the plank of wood that are the dock,
that make up the berth itself.
2
I want to tell you this story without having to confess anything,
without having to say that I ran out into the street to prove something,
that he didn’t love me,
that I wanted to be thrown over, possessed. I want to tell you this story without having to be in it:
Max in the wrong clothes. Max at the party, drunk again. Max in the kitchen, in refrigerator light, his hands around the neck of a beer.
Tell me we’re dead and I’ll love you even more.
I’m surprised that I say it with feeling. There’s a thing in my stomach about this. A simple thing. The last rung.
3
Can you see them there, by the side of the road,
not moving, not wrestling,
making a circle out of the space between the circles? Can you see them
pressed into the gravel, pressed into the dirt, pressing against each other
in an effort to make the minutes stop —
headlights shining in all directions, night spilling over them like
gasoline in all directions, and the dark blue over everything, and them
holding their breath –
4
I want to tell you this story without having to say that I ran out into the street
to prove something, that he chased after me
and threw me into the gravel. And he knew it wasn’t going to be okay, and he told me
it wasn’t going to be okay.
And he wouldn’t kiss me, but he covered my body with his body
and held me down until I promised not to run back out into the street again.
But the minutes don’t stop. The prayer of going nowhere
going nowhere.
5
His shoulder blots out the starts but the minutes don’t stop. He covers my body
with his body but the minutes
don’t stop. The smell of him mixed with creosote, exhaust — There, on the ground, slipping through the minutes,
trying to notch them. Like taking the same picture over and over, the spaces
in between sealed up —
Knocked hard enough to make the record skip and change its music, setting the melody on its
forward course again, circling and circling the center hole in the flat black disk.
And words, little words,
words too small for any hope or promise, not really soothing but soothing nonetheless.
La strada spezzata
1
Non c’è modo di rendere questa storia interessante.
Una tregua, una strada, il sapore di ghiaia nella bocca. Le pietre mi scavano la pelle
come punte di freccia.
E poi sentirsi soffocati da un sacco di lenticchie
o di patate, o una barca notturna che sbatte di nuovo contro il molo
senza navigazione, senza valutazione,
incurante delle assi di legno che sono il molo
che compongono l’ormeggio.
2
Voglio raccontarti questa storia senza dover confessare nulla,
senza dover dire che uscii in strada correndo per dimostrare qualcosa,
che lui non mi amava,
che io, posseduto, volevo farmi lasciare.
Voglio raccontarti questa storia senza che io ci debba essere:
Max in abiti sbagliati. Max alla festa, di nuovo ubriaco.
Max in cucina, alla luce del frigo, le mani sul collo di una birra.
Dimmi che eri morto e ti amerò persino di più.
Dirlo con sentimento mi stupisce,
È qualcosa nel mio stomaco. Una cosa semplice. L’ultimo gradino.
3
Li vedi laggiù, sul ciglio della strada,
non si muovono, non fanno la lotta,
creano un cerchio nello spazio tra i cerchi? Li vedi
schiacciati nella ghiaia, schiacciati nel fango, schiacciandosi l’uno contro l’altro
nello sforzo di fermare i minuti —
i fari fanno luce in ogni direzione, la notte si rovescia su di loro
simile a benzina in ogni direzione, e il blu scuro sopra ogni cosa, e loro
trattengono il respiro –
4
Voglio raccontarti questa storia senza dover dire che uscii in strada correndo
per dimostrare qualcosa, che lui mi rincorse
e mi spinse nella ghiaia.
E sapeva che non sarebbe finita bene, e mi disse
che non sarebbe finita bene.
E non mi baciò ma ricoprì il mio corpo con il suo corpo
e mi trattenne fino a quando non promisi di non correre più in strada.
Ma i minuti non si fermano. Non andava da nessuna parte la preghiera
di non andare da nessuna parte.
5
La sua spalla cancella le partenze ma i minuti non si fermano. Copre il mio corpo
con il suo corpo ma i minuti
non si fermano. Il suo odore misto al creosoto, vapore di scarico –
Lì, a terra, scivolando tra i minuti,
provando a intaccarli. Come scattare la stessa foto di continuo,
gli interstizi sigillati –
Un colpo abbastanza forte da far saltare il disco
e cambiargli la musica, riportando la melodia
di nuovo al suo inizio, girando, girando ancora intorno al foro del disco piatto e nero.
E le parole, piccole parole,
parole troppo piccole per ogni speranza o promessa, che non sono davvero di conforto
ma di conforto comunque.
Litany in Which Certain Things Are Crossed Out
Every morning the maple leaves. Every morning another chapter where the hero shifts
from one foot to the other. Every morning the same big
and little words all spelling out desire, all spelling out
You will be alone always and then you will die.
So maybe I wanted to give you something more than a catalog
of non-definitive acts,
something other than the desperation. Dear So-and-So, I’m sorry I couldn’t come to your party.
Dear So-and-So, I’m sorry I came to your party
and seduced you
and left you bruised and ruined, you poor sad thing. You want a better story. Who wouldn’t?
A forest, then. Beautiful trees. And a lady singing. Love on the water, love underwater, love, love and so on.
What a sweet lady. Sing lady, sing! Of course, she wakes the dragon.
Love always wakes the dragon and suddenly
flames everywhere.
I can tell already you think I’m the dragon, that would be so like me, but I’m not. I’m not the dragon.
I’m not the princess either. Who am I? I’m just a writer. I write things down.
I walk through your dreams and invent the future. Sure, I sink the boat of love, but that comes later. And yes, I swallow
glass, but that comes later.
And the part where I push you flush against the wall and every part of your body rubs against the bricks,
shut up
I’m getting to it.
For a while I thought I was the dragon. I guess I can tell you that now. And, for a while, I thought I was
the princess,
cotton candy pink, sitting there in my room, in the tower of the castle,
young and beautiful and in love and waiting for you with
confidence
but the princess looks into her mirror and only sees the princess,
while I’m out here, slogging through the mud, breathing fire,
and getting stabbed to death.
Okay, so I’m the dragon. Bid deal.
You still get to be the hero. You get the magic gloves! A fish that talks! You get eyes like flashlights!
What more do you want? I make you pancakes, I take you hunting, I talk to you as if you’re
really there. Are you there, sweetheart? Do you know me? Is this microphone live?
Let me do it right for once, for the record, let me make a thing of cream and stars that becomes,
you know the story, simply heaven. Inside your head you hear a phone ringing
and when you open your eyes
only a clearing with deer in it. Hello deer.
Inside your head the sound of glass, a car crash sound as the trucks roll over and explode in slow motion.
Hello darling, sorry about that. Sorry about the bony elbows, sorry we
lived here, sorry about the scene at the bottom of the stairwell and how I ruined everything by saying it out loud.
Especially that, but I should have known. You see, I take the parts that I remember and stitch them back together
to make a creature that will do what I say
or love me back.
I’m not really sure why I do it, but in this version you are not
feeding yourself to a bad man
against a black sky prickled with small lights.
I take it back. The wooden halls like caskets. These terms from the lower depths.
I take them back.
Here is the repeated image of the lover destroyed.
Crossed out. Clumsy hands in a dark room. Crossed out. There is something
underneath the floorboards. Crossed out. And here is the tabernacle
reconstructed. Here is the part where everyone was happy all the time and we were all
forgiven, even though we didn’t deserve it.
Inside your head you hear a phone ringing, and when you open your eyes you’re washing up
in a stranger’s bathroom, standing by the window in a yellow towel, only twenty minutes away
from the dirtiest thing you know. All the rooms of the castle except this one, says someone, and suddenly
darkness,
suddenly only darkness.
In the living room, in the broken yard, in the back of the car as the lights go by. In the airport
bathroom’s gurgle and flush, bathed in a pharmacy of
unnatural light,
my hands looking weird, my face weird, my feet too far away.
And the airplane, the window seat over the wing with a view
of the wing and a little foil bag of peanuts.
I arrived in the city and you met me at the station,
smiling in a way that made me frightened. Down the alley, around the arcade,
up the stairs of the building to the little room with the broken faucets, your drawings, all your things,
I looked out the window and said
This doesn’t look that much different from home,
because it didn’t, but then I noticed the black sky and all those lights.
We walked through the house to the elevated train.
All these buildings, all that glass and the shiny beautiful
mechanical wind. We were inside the train car when I started to cry. You were crying too,
smiling and crying in a way that made me even more hysterical. You said I could have anything I wanted, but I
just couldn’t say it out loud.
Actually, you said Love, for you, is larger than the usual romantic love. It’s like a religion. It’s
terrifying. No one will ever want to sleep with you.
Okay, if you’re so great, you do it— here’s the pencil, make it work . . .
If the window is on your right, you are in your own bed. If the window
is over your heart, and it is painted shut, then we are breathing
river water. Build me a city and call it Jerusalem. Build me another and call it
Jerusalem.
We have come back from Jerusalem where we found not
what we sought, so do it over, give me another version, a different room, another hallway, the kitchen painted over
and over, another bowl of soup.
The entire history of human desire takes about seventy minutes to tell.
Unfortunately, we don’t have that kind of time.
Forget the dragon,
leave the gun on the table, this has nothing to do with happiness.
Let’s jump ahead to the moment of epiphany,
in gold light, as the camera pans to where
the action is, lakeside and backlit, and it all falls into frame, close enough to see
the blue rings of my eyes as I say
something ugly.
I never liked that ending either. More love streaming out the wrong way,
and I don’t want to be the kind that says the wrong way. But it doesn’t work, these erasures, this constant refolding of the pleats.
There were some nice parts, sure,
all lemondrop and melon ball, laughing in silk pajamas
and the grains of sugar on the toast, love love or whatever, take a number. I’m sorry
it’s such a lousy story.
Dear Forgiveness, you know that recently we have had our difficulties and there are many things
I want to ask you.
I tried that one time, high school, second lunch, and then again,
years later, in the chlorinated pool. I am still talking to you about help. I still do not have
these luxuries. I have told you where I’m coming from, so put it together.
We clutch our bellies and roll on the floor . . .
When I say this, it should mean laughter,
not poison.
I want more applesauce. I want more seats reserved for heroes.
Dear Forgiveness, I saved a plate for you.
Quit milling around the yard and come inside.
Litania di alcune cose con una croce sopra
Ogni mattina le foglie d’acero.
Ogni mattina un altro capitolo dove l’eroe si sposta
da un piede all’altro. Ogni mattina le stesse grandi
e piccole parole tutte a scandire desiderio, tutte a scandire
Sarai solo sempre e dopo morirai.
Per questo forse volevo darti qualcosa di più che un catalogo
di atti non definitivi,
qualcosa di diverso dalla disperazione.
Caro Tal dei Tali, mi dispiace non essere venuto alla tua festa.
Caro Tal dei Tali, mi dispiace essere venuto alla tua festa
e averti sedotto
e abbandonato, livido e malridotto, tu, povera triste creatura.
Vuoi una storia migliore. Chi non la vorrebbe?
Una foresta, allora. Alberi bellissimi. E una dama che canta.
Che dolce dama! Canta, dama, canta! Certo, sveglia il drago.
L’amore sveglia sempre il drago e a un tratto
fiamme dappertutto.
So già che pensi che il drago sono io,
che sarebbe proprio da me, ma non lo sono. Non sono io il drago.
Non sono nemmeno la principessa.
Chi sono? Sono solo uno scrittore. Scrivo le cose.
Cammino attraverso i tuoi sogni e invento il futuro. Senza dubbio
affondo la barca dell’amore, ma quello viene dopo. E sì, ingoio
vetro, ma questo viene dopo.
E la parte dove ti spingo
dritto contro il muro e ogni parte del tuo corpo sfrega sui mattoni,
zitto
ci sto arrivando.
Per un po’ ho creduto di essere io il drago.
Forse ora posso dirlo. E per un po’ ho creduto di essere io
la principessa,
rosa confetto, seduta lì nella mia stanza, nella torre del castello,
giovane e bella e innamorata e aspettandoti con
sicurezza
ma la principessa guarda nello specchio e vede solo la principessa,
mentre io sono qui fuori, mentre mi trascino nel fango, respiro fuoco,
e sono pugnalato a morte.
Okay, così io sono il drago. Che grande affare.
Puoi comunque essere l’eroe.
Avrai i guanti magici! Un pesce parlante! Avrai due occhi come torce!
Cosa vuoi di più?
Ti faccio i pancake, ti porto a caccia, ti parlo come se ci fossi
davvero.
Ci sei, tesoro? Mi conosci? Questo microfono funziona?
Lasciami fare la cosa giusta per una volta,
per la cronaca, lasciami creare una cosa di panna e stelle che sia,
la sai la storia, semplicemente divina.
Dentro la tua testa senti squillare un telefono
e quando apri i tuoi occhi
solo una radura con un cervo. Ciao cervo.
Dentro la tua testa il suono del vetro,
il suono dello schianto mentre i camion si ribaltano ed esplodono
[al rallentatore.
Ciao caro, mi dispiace.
Mi dispiace per i gomiti ossuti, mi dispiace
se abbiamo vissuto qui, mi dispiace per la scena sulla tromba delle scale
e di come ho rovinato tutto dicendo quella cosa a voce alta.
Di questo in particolare, ma avrei dovuto sapere.
Vedi, prendo le parti che ricordo e le ricucio insieme
per fare una creatura che farà quello che le dico
o che ricambierà il mio amore.
Non capisco bene perché, ma in questa versione non sei tu
a darti in pasto a un uomo cattivo
contro un cielo nero pizzicato da piccole luci.
Me la rimangio.
Sale in legno simili a bare. Termini dagli abissi più profondi.
Me li rimangio.
Ecco l’immagine ripetuta dell’amante distrutto.
Una croce sopra.
Mani goffe in una stanza buia. Una croce sopra. C’è qualcosa
sotto al pavimento di legno.
Una croce sopra. E qui è la nicchia
ricostruita.
Ecco la parte dove tutti erano felici tutto il tempo e noi eravamo tutti
perdonati,
anche se non lo abbiamo meritato.
Puoi sentire nella testa
un telefono che squilla, e quando riapri gli occhi ti stai lavando
nel bagno di uno sconosciuto
appoggiato alla finestra in un asciugamano giallo, a soli venti minuti
dalla cosa più sporca che conosci.
Tutte le stanze del castello a parte questa, dice qualcuno, e a un tratto
il buio,
a un tratto solo il buio.
Nel salone, nel cortile sconnesso,
dietro una macchina mentre passano le luci. Nel borboglio
dello scarico del bagno all’aeroporto, immersi in una farmacia
di luce innaturale,
le mie mani sembrano strane, la mia faccia strana, i miei piedi troppo distanti.
E l’aeroplano, il posto al finestrino sopra l’ala, vista
ala e un pacchetto di noccioline in alluminio.
Sono arrivato in città e ti ho incontrato alla stazione,
sorridevi in un modo
che mi ha intimorito. In fondo al vicolo, intorno al portico,
in cima alle scale del palazzo
fino alla piccola stanza coi rubinetti rotti, i tuoi disegni, tutte le tue cose,
ho guardato fuori alla finestra e ho detto
Non sembra così diverso da casa
perché davvero non lo era,
poi però ho notato il cielo nero e tutte quelle luci.
Siamo passati attraverso la casa fino alla sopraelevata.
Tutti questi palazzi, tutto quel vetro e quello splendido
vento meccanico.
Eravamo al vagone quando ho iniziato a piangere. Piangevi anche tu,
sorridendo e piangendo così da farmi diventare
ancora più isterico. Hai detto che potevo avere tutto quello che volevo, ma io
proprio non riuscivo a dirlo ad alta voce.
In verità hai detto, L’amore, per te,
è più grande del solito amore romantico. È una religione. È
terrificante. Nessuno
vorrà mai venire a letto con te.
Ok, se tu sei così bravo, fallo tu –
ecco la matita, fallo funzionare…
Se hai la finestra sulla destra, sei nel tuo letto. Se la finestra
è sul tuo cuore, sigillato, allora respiriamo
acqua di fiume.
Fai per me una città e chiamala Gerusalemme. Fanne un’altra e chiamala
Gerusalemme.
Torniamo da Gerusalemme dove non abbiamo trovato
quello che cercavamo, quindi falla da capo, dammi un’altra versione,
una stanza diversa, un altro corridoio, la cucina ridipinta
e così via,
un altro piatto di zuppa.
Occorrono settanta minuti per raccontare l’intera storia del desiderio umano.
Purtroppo, non abbiamo tutto questo tempo.
Dimentica il drago,
lascia il fucile sul tavolo, questo non ha nulla a che fare con la felicità.
Buttiamoci a capofitto nel momento dell’epifania,
nella luca dorata, mentre la videocamera segue dove si muove
l’azione
sulla sponda del lago e in controluce, e tutto ricade dentro l’inquadratura, abbastanza vicino per [vedere
gli anelli blu dei miei occhi mentre dico
qualcosa di brutto.
Non mi è mai piaciuto nemmeno quel finale. Altro amore che scorre nel verso sbagliato
senza essere il tipo che dice nel verso sbagliato.
Ma non funziona, queste cancellature, questo costante ripiegarsi delle pieghe.
Le parti belle non sono certo mancate,
tutte caramelle al limone e succo di melone, ridendo nel pigiama di seta
e i granelli di zucchero
sul toast, amore amore o non importa, prendi un numero. Mi dispiace
è una storia così triste.
Caro Perdono, sai che di recente
abbiamo avuto le nostre difficoltà e ci sono molte cose
che vorrei chiederti.
Ci ho provato quella volta, a scuola, la seconda colazione, e poi ancora,
anni dopo, nella piscina di cloro.
Ti parlo ancora di aiuto. Non ho ancora
questi lussi.
Ti ho detto da dove provengo, fai due più due.
Stringiamo i nostri ventri e rotoliamo sul pavimento…
Quando lo dico, dovrebbe suscitare una risata,
non avvelenare.
Ne voglio ancora di salsa alle mele. Voglio più posti riservati agli eroi.
Caro Perdono, ho messo da parte un piatto per te.
Smettila di girare intorno al giardino e vieni dentro.
Snow and Dirty Rain
Close your eyes. A lover is standing too close to focus on. Leave me blurry and fall toward me with your entire body. Lie under the covers, pretending to sleep, while I’m in the other room. Imagine my legs crossed, my hair combed, the shine of my boots in the slatted light. I’m thinking My plant, his chair, the ashtray that we bought together. I’m thinking This is where we live. When we were little we made houses out of cardboard boxes. We can do anything. It’s not because our hearts are large, they’re not, it’s what we struggle with. The attempt to say Come over.Bring your friends. It’s a potluck, I’m making pork chops, I’m making those long noodles you love so much. My dragonfly, my black-eyed fire, the knives in the kitchen are singing for blood, but we are the crossroads, my little outlaw, and this is the map of my heart, the landscape after cruelty which is, of course, a garden, which is a tenderness, which is a room, a lover saying Hold me tight, it’s getting cold. We have not touched the stars, nor are we forgiven, which brings us back to the hero’s shoulders and the gentleness that comes, not from the absence of violence, but despite the abundance of it. The lawn drowned, the sky on fire, the gold light falling backward through the glass of every room. I’ll give you my heart to make a place for it to happen, evidence of a love that transcends hunger. Is that too much to expect? That I would name the stars for you? That I would take you there? The splash of my tongue melting you like a sugar cube? We’ve read the back of the book, we know what’s going to happen. The fields burned, the land destroyed, the lovers left broken in the brown dirt. And then it’s gone. Makes you sad. All your friends are gone. Goodbye Goodbye. No more tears. I would like to meet you all in Heaven. But there’s a litany of dreams that happens somewhere in the middle. Moonlight spilling on the bathroom floor. A page of the book where we transcend the story of our lives, past the taco stands and record stores. Moonlight making crosses on your body, and me putting my mouth on every one. We have been very brave, we have wanted to know the worst, wanted the curtain to be lifted from our eyes. This dream going on with all of us in it. Penciling in the bighearted slob. Penciling in his outstretched arms. Our father who art in Heaven. Our father who art buried in the yard. Someone is digging your grave right now. Someone is drawing a bath to wash you clean, he said, so think of the wind, so happy, so warm. It’s a fairy tale, the story underneath the story, sliding down the polished halls, lightning here and gone. We make these ridiculous idols so we can to what’s behind them, but what happens after we get up the ladder? Do we simply stare at what’s horrible and forgive it? Here is the river, and here is the box, and here are the monsters we put in the box to test our strength against. Here is the cake, and here is the fork, and here’s the desire to put it inside us, and then the question behind every question: What happens next? The way you slam your body into mine reminds me I’m alive, but monsters are always hungry, darling, and they’re only a few steps behind you, finding the flaw, the poor weld, the place where we weren’t stitched up quite right, the place they could almost slip right into through if the skin wasn’t trying to keep them out, to keep them here, on the other side of the theater where the curtain keeps rising. I crawled out the window and ran into the woods. I had to make up all the words myself. The way they taste, the way they sound in the air. I passed through the narrow gate, stumbled in, stumbled around for a while, and stumbled back out. I made this place for you. A place for to love me. If this isn’t a kingdom then I don’t know what is. So how would you catalog it? Dawn in the fields? Snow and dirty rain? Light brought in in buckets? I was trying to describe the kingdom, but the letters kept smudging as I wrote them: the hunter’s heart, the hunter’s mouth, the trees and the trees and the space between the trees, swimming in gold. The words frozen. The creatures frozen. The plum sauce leaking out of the bag. Explaining will get us nowhere. I was away, I don’t know where, lying on the floor, pretending I was dead. I wanted to hurt you but the victory is that I could not stomach it. We have swallowed him up, they said. It’s beautiful. It really is. I had a dream about you. We were in the gold room where everyone finally gets what they want. You said Tell me about your books, your visions made of flesh and light and I said This is the Moon. This is the Sun. Let me name the stars for you. Let me take you there. The splash of my tongue melting you like a sugar cube… We were in the gold room where everyone finally gets what they want, so I said What do you want, sweetheart? and you said Kiss me. Here I am leaving you clues. I am singing now while Rome burns. We are all just trying to be holy. My applejack, my silent night, just mash your lips against me. We are all going forward. None of us are going back.
Neve e Pioggia Sporca
Chiudi gli occhi. Un amante in piedi troppo vicino per metterlo a fuoco. Lasciami sfuocato e cadi su di me con tutto il tuo corpo. Stai sotto le coperte, fai finta di dormire, mentre io sono nell’altra stanza. Immagina le mie gambe accavallate, i miei capelli pettinati, il brillare dei miei stivali nella luce filtrata dalle assi. Sto pensando La mia pianta, la sua sedia, il posacenere che abbiamo comprato insieme. Penso Qui è dove viviamo. Quando eravamo piccoli costruivamo case da scatole di cartone. Possiamo fare tutto. Non perché i nostri cuori siano grandi, non lo sono, è quello contro cui combattiamo. Il tentativo di dire vieni, porta i tuoi amici. È un potluck, faccio le costolette, sto preparando quei noodles lunghi che ti piacciono tanto. Mia libellula, mio fuoco dagli occhi neri, i coltelli in cucina cantano per il sangue, ma noi siamo i crocevia, mio piccolo fuorilegge, e questa è la mappa del mio cuore, il paesaggio dopo la crudeltà che è, ovviamente, un giardino, che è una tenerezza, che è una stanza, un amante che dice Stringimi forte, si sta facendo freddo. Non abbiamo toccato le stelle, né siamo stati perdonati, che ci riporta alle spalle dell’eroe e alla dolcezza che viene, non dall’assenza di violenza, ma a discapito la sua abbondanza. Il campo annegato, il cielo in fiamme, la luce dorata che cade all’indietro attraverso i vetri di tutte le stanze. Ti darò il mio cuore per farne un posto dove possa accadere, prova di un amore che trascende la fame. è aspettarsi troppo? Dare i nomi alle stelle per te? Portarti là? Lo schizzo della mia lingua che ti scioglie come una zolletta di zucchero? Abbiamo letto la trama del libro, sappiamo cosa succederà. I campi bruciati, la terra distrutta, gli amanti spezzati nella polvere marrone. E poi è finita. Ti rende triste. Tutti i tuoi amici se ne sono andati. Addio Addio. Niente più lacrime. Vorrei incontrarvi tutti in Paradiso. Ma c’è una litania di sogni che accade da qualche parte nel mezzo. Luce di luna che si rovescia sul pavimento del bagno. Una pagina del libro dove trascendiamo la storia delle nostre vite, oltre i chioschi di tacos e i negozi di dischi. Luce di luna che fa delle croci sul tuo corpo, e io che metto la mia bocca su di ognuna. Siamo stati molto coraggiosi, abbiamo voluto sapere il peggio, abbiamo voluto che il velo fosse sollevato dai nostri occhi. Questo sogno continua con tutti noi dentro. Scarabocchiandoci lo sciattone dal cuore grande. Scarabocchiandoci le sue braccia spalancate. Padre nostro che sei nei cieli. Padre nostro che sei sepolto nel cortile. Qualcuno ti sta scavando la tomba proprio adesso. Qualcuno ti sta preparando un bagno per lavarti, ha detto, quindi pensa al vento, così felice, così caldo. È una fiaba, la storia sotto la storia, che scivola lungo i corridoi lucidati, un lampo arriva e poi sparisce. Creiamo questi idoli ridicoli così da poter vedere cosa c’è dietro ma cosa succede una volta salita la scala? restiamo semplicemente a guardare ciò che è orribile e lo perdoniamo? ecco il fiume, ed ecco la scatola, e qui ci sono i mostri che mettiamo nella scatola, per testare contro di loro la nostra forza. Ecco la torta, qui la forchetta, e qui il desiderio di metterla dentro di noi, e poi la domanda dietro ogni domanda: Cosa succede dopo? Il modo in cui sbatti il tuo corpo sul mio mi ricorda che sono vivo, ma i mostri hanno sempre fame, caro, e sono solo qualche passo dietro di te, alla ricerca della falla, della saldatura lenta, del punto dove non siamo stati ricuciti bene, il punto da cui possono quasi scivolare dentro se la pelle non stesse cercando di tenerli fuori, di tenerli là, dall’altra parte del teatro dove il sipario continua ad alzarsi. Sono strisciato fuori dalla finestra e sono corso nel bosco. Mi sono dovuto inventare io tutte le parole. Il loro sapore, il modo in cui risuonano nell’aria. Ho attraversato lo stretto varco, sono entrato barcollando, barcollato in giro per un po’, e mi sono trascinato fuori. Ho creato questo posto per te. Un posto dove tu possa amarmi. Se non è questo un regno, allora non so cosa lo sia. Quindi come lo catalogheresti? Alba nei campi? Neve e pioggia sporca? Luce che cade a secchiate? Cercavo di descrivere il regno, ma le lettere continuavano a sbavarsi mentre le scrivevo: il cuore del cacciatore, la bocca del cacciatore, gli alberi e gli alberi e lo spazio tra gli alberi, che nuotano nell’oro. Le parole congelate. Le creature congelate. La salsa di prugne che cola dalla busta. Spiegare non ci porterà da nessuna parte. Ero lontano, non so dove, sdraiato sul pavimento, facevo finta di essere morto. Volevo farti del male ma la vittoria è non essere riuscito a sopportarlo. L’abbiamo ingoiato, hanno detto. È bello, è davvero bello. Ti ho sognato. Eravamo nella stanza dorata Dove ognuno finalmente ottiene ciò che vuole. Mi hai detto parlami dei tuoi libri, delle tue visioni di carne e luce e io ho detto Questa è la Luna. Questo è il Sole. Fammi dare nomi alle stelle per te. Lascia che ti ci porti. Lo schizzo della mia lingua che ti scioglie come una zolletta di zucchero… Eravamo nella stanza dorata dove ognuno finalmente ottiene ciò che vuole, quindi ho detto Cosa vuoi, tesoro? E tu hai detto Baciami. Eccomi, ti lascio degli indizi. Sto cantando mentre Roma brucia. Stiamo solo cercando di essere tutti santi. Mio applejack, mia notte quieta, schiaccia solo le tue labbra contro di me. Stiamo tutti andando avanti. Nessuno di noi torna indietro.
Boot Theory
A man walks into a bar and says: Take my wife–please. So you do. You take her out into the rain and you fall in love with her and she leaves you and you’re desolate. You’re on your back in your undershirt, a broken man on an ugly bedspread, staring at the water stains on the ceiling. And you can hear the man in the apartment above you taking off his shoes. You hear the first boot hit the floor and you’re looking up, you’re waiting because you thought it would follow, you thought there would be some logic, perhaps, something to pull it all together but here we are in the weeds again, here we are in the bowels of the thing: your world doesn’t make sense. And then the second boot falls. And then a third, a fourth, a fifth.
A man walks into a bar and says: Take my wife–please. But you take him instead. You take him home, and you make him a cheese sandwich, and you try to get his shoes off, but he kicks you and he keeps kicking you. You swallow a bottle of sleeping pills but they don’t work. Boots continue to fall to the floor in the apartment above you. You go to work the next day pretending nothing happened. Your co-workers ask if everything’s okay and you tell them you’re just tired. And you’re trying to smile. And they’re trying to smile.
A man walks into a bar, you this time, and says: Make it a double. A man walks into a bar, you this time, and says: Walk a mile in my shoes. A man walks into a convenience store, still you, saying: I only wanted something simple, something generic… But the clerk tells you to buy something or get out. A man takes his sadness down to the river and throws it in the river but then he’s still left with the river. A man takes his sadness and throws it away but then he’s still left with his hands.
Teoria dello Stivale
Un uomo entra in un bar e dice:
prendi mia moglie – per favore.
quindi esegui.
La porti fuori nella pioggia e ti innamori di lei
e lei ti lascia e tu sei disperato.
Sei sdraiato sulla schiena in canottiera, un uomo spezzato
su un brutto copriletto, a fissare le macchie di umidità
sul soffitto.
E puoi sentire l’uomo nell’appartamento di sopra
che si toglie le scarpe.
Senti il primo stivale cadere al suolo e guardi in alto,
attendi
perchè pensavi che avrebbe continuato, pensavi che ci sarebbe stata
una qualche logica, magari, qualcosa che tenesse tutto insieme
ma siamo di nuovo tra le ortiche,
eccoci
nelle viscere della cosa: il tuo mondo non ha senso.
E poi cade il secondo stivale.
e poi un terzo, un quarto, un quinto.
Un uomo entra in un bar e dice:
prendi mia moglie – per favore.
Ma tu prendi lui invece.
Lo porti a casa e gli prepari un panino al formaggio,
e cerchi di togliergli le scarpe, ma lui scalcia
e continua a scalciare.
Mandi giù un’intera bottiglia di sonniferi ma non fanno effetto.
Gli stivali continuano a cadere al suolo
nell’appartamento di sopra.
Vai al lavoro il giorno dopo fingendo che non sia successo niente.
Il tuo collega chiede
se è tutto okay e gli dici
che sei solo stanco.
E cerchi di sorridere e anche lui cerca di sorridere.
Un uomo entra in un bar, sei tu stavolta, e dice:
fammene uno doppio.
Un uomo entra in un bar, sei tu stavolta, e dice:
Mettiti nei miei panni.
Un uomo entra in un minimarket, sempre tu, dicendo:
Io volevo solo qualcosa di semplice, qualcosa di generico…
Ma il commesso ti dice di comprare qualcosa o di uscire.
Un uomo porta la sua tristezza al fiume e la getta nel fiume
ma poi gli rimane
il fiume. Un uomo prende la sua tristezza e la butta via
ma poi gli rimangono le sue mani.
I Had a Dream About You
All the cows were falling out of the sky and landing in the mud. You were drinking sangria and I was throwing oranges at you, but it didn’t matter. I said my arms are very long and your head’s on fire. I said kiss me here and here and here and you did. Then you wanted pasta, so we trampled out into the tomatoes and rolled around to make the sauce. You were very beautiful. We were in the Safeway parking lot. I couldn’t find my cigarettes. You said Hurry up! but I was worried there would be a holdup and we would be stuck in a hostage situation, hiding behind the frozen meats, with nothing to smoke for hours. You said Don’t be silly, so I followed you into the store. We were thumping the melons when I heard somebody say Nobody move! I leaned over and whispered in your ear I told you so. There was a show on the television about buried treasure. You were trying to convince me that we should buy shovels and go out into the yard and I was trying to convince you that I was a vampire. On the way to the hardware store I kept biting your arm and you said if I really was a vampire I would be biting your neck, so I started biting your neck and you said Cut it out! and you bought me an ice cream, and then we saw the UFO. These are the dreams we should be having. I shouldn’t have to clean them up like this. You were lying in the middle of the empty highway. The sky was red and the sand was red and you were wearing a brown coat. There were flecks of foam in the corners of your mouth. The birds were watching you. Your eyes were closed and you were listening to the road and I could hear your breathing, I could hear your heart beating. I carried you to the car and drove you home but you weren’t making any sense I took a shower and tried to catch my breath. You were lying on top of the bedspread in boxer shorts, watching cartoons and laughing but not making any sound. Your skin looked blue in the television light. Your teeth looked yellow. Still wet, I lay down next to you. Your arms, your legs, your naked chest, your ribs delineated like a junkyard dog. There’s nowhere to go, I thought. There’s nowhere to go. You were sitting in a bathtub at the hospital and you were crying. You said it hurt. I mean the buildings that were not the hospital. I shouldn’t have mentioned the hospital. I don’t think I can take this much longer. In the dream I don’t tell anyone, you put your head in my lap. Let’s say you’re driving down the road with your eyes closed but my eyes are also closed. You’re by the side of the road. You’re by the side of the road and you’re doing all the talking while I stare at my shoes. They’re nice shoes, brown and comfortable, and I like your voice. In the dream I don’t tell anyone, I’m afraid to wake you up. In these dreams it’s always you: the boy in the sweatshirt, the boy on the bridge, the boy who always keeps me from jumping off the bridge. Oh, the things we invent when we are scared and want to be rescued. Your jeep. Your teeth. The coffee that you bought me. The sandwich cut in half on the plate. I woke up and ate ice cream in the dark, hunched over on the wooden chair in the kitchen, listening to the rain. I borrowed your shoes and didn’t put them away. You were crying and eating rice. The surface of the water was still and bright. Your feet were burning so I put my hands on them, but my hands were burning too. You had a bottle of pills but I wouldn’t let you swallow them. You said Will you love me even more when I’m dead? And I said No, and I threw the pills on the sand. Look at them, you said. They look like emeralds. I put you in the cage with the ocelots. I was trying to fatten you up with sausage and bacon. Somehow you escaped and climbed up the branches of a pear tree. I chopped it down but there was no one in it. I went to the riverbed to wait for you to show up. You didn’t show up. I kept waiting.
Ti ho sognato
Tutte le vacche cadevano dal cielo e atterravano nel fango Tu bevevi sangria e io ti lanciavo addosso delle arance, ma non aveva alcuna importanza. Ho detto le mie braccia sono davvero lunghe e la tua testa va a fuoco. Ho detto baciami qui, e qui, e qui E tu hai eseguito. Dopo volevi mangiare la pasta, Così abbiamo pestato i pomodori e ci siamo rotolati per farne la salsa. Eri stupendo. Ci trovavamo nel parcheggio di Safeway. Non riuscivo a trovare le mie sigarette. Mi dicevi Sbrigati! ma mi preoccupava l’idea di una rapina E che saremmo rimasti bloccati, come ostaggi, nascosti dietro La carne surgelata, con niente da fumare per ore. Mi hai detto Non fare l’idiota, Così ti ho seguito dentro il negozio. Stavamo tamburellando sui cocomeri quando abbiamo sentito qualcuno dire Nessuno si muova! Mi sono piegato e ti ho sussurrato all’orecchio: te l’avevo detto. In televisione mandavano in onda uno show sui tesori sepolti. Stavi cercando di convincermi a comprare delle vanghe e andare fuori in giardino e io provavo a convincerti di essere un vampiro. Sulla strada per il ferramenta continuavo a morderti il braccio E tu mi hai detto che se fossi stato davvero un vampiro avrei puntato alla gola, così ho iniziato a morderti il collo e tu hai detto: dacci un taglio! e mi hai comprato un gelato, e poi abbiamo visto l’UFO. Questi sono i sogni che dovremmo fare. Non dovrei doverli ripulire così. Tu eri sdraiato nel bel mezzo della strada vuota. Il cielo era rosso, la sabbia era rossa e tu portavi un cappotto marrone. C’erano rivoli di bava agli angoli della tua bocca. Gli uccelli ti fissavano. I tuoi occhi erano chiusi e stavi ascoltando la strada e riuscivo a sentirti respirare, riuscivo a sentire il tuo cuore battere. Ti ho portato alla macchina e accompagnato a casa ma tu non avevi alcun senso Ho fatto una doccia e ho provato a riprendere fiato. Tu eri sdraiato in sul copriletto in boxer, a guardare cartoni animati e a ridere ma senza fare alcun suono. La tua pelle sembrava blu alla luce del televisore. I tuoi denti sembravano gialli. Ancora fradicio, mi sono sdraiato accanto a te. Le tue braccia, le tue gambe, il tuo petto nudo, le tue costole marcate come un cane randagio. Non c’è dove andare, ho pensato. Non c’è dove andare. Tu sedevi in una vasca da bagno all’ospedale e piangevi. Dicevi che ti faceva male. Intendo gli edifici che non erano l’ospedale. Non avrei dovuto nominare l’ospedale. Non penso di poter continuare a lungo. Nel sogno che non racconto a nessuno, tu poggi la testa sul mio grembo. Diciamo che guidi lungo la strada tenendo gli occhi chiusi ma anche i miei occhi sono chiusi. Tu sei sul ciglio della strada. Tu sei sul ciglio della strada e parli solo tu mentre io mi fisso le scarpe. Sono delle belle scarpe, marroni e comode, e la tua voce mi piace. Nel sogno che non racconto a nessuno, ho paura di svegliarti. In questi sogni sei sempre tu: il ragazzo con la felpa, il ragazzo sul ponte, il ragazzo che mi salva dal saltare giù dal ponte. Ah, le cose che inventiamo quando abbiamo paura e desideriamo essere salvati. La tua jeep. I tuoi denti. Il caffè che mi hai comprato. Il sandwich tagliato a metà sul piatto. Mi sono svegliato e ho mangiato il gelato al buio, Curvo sulla sedia di legno della cucina, Ascoltando la pioggia. Ho preso in prestito le tue scarpe e non le ho tolte. Tu piangevi mangiando riso. La superficie dell’acqua era ferma e luminosa. I tuoi piedi andavano a fuoco, così ho messo le mie mani su di loro, ma le mie mani pure andavano a fuoco. Avevi una boccetta di pillole, ma non le ingoiavi. Mi dicevi Mi amerai ancora di più quando sarò morto? E io rispondevo No, e lasciavo le pillole sulla sabbia. Guardale, mi dicevi. Sembrano smeraldi. Ti mettevo in gabbia con i leopardi. Provavo a ingrassarti Con salsiccia e bacon. In un qualche modo scappavi e ti arrampicavi sui rami di un pero. Lo abbattevo, ma non c’era nessuno dentro. Andavo sul letto del fiume ad aspettarti. Non ti sei presentato. Ho continuato ad aspettare.
Le risposte di Matteo Tasca all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.
1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera.
Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?
Devo dire che nel libro che ho scritto la riflessione sulla struttura interna ha avuto un peso minimo: fondamentalmente ho iniziato a pensarci dopo che due miei carissimi amici mi hanno fatto venire voglia di mettere insieme i testi per vedere quello che sarebbe successo, ma prima di quel momento non ho mai pensato a come sarebbe stata una mia eventuale raccolta. Questa cosa un po’ me la rivendico: sono contento che la struttura del mio libro non abbia seguito un progetto a monte, ma sia stata improvvisata partendo dal materiale che avevo raccolto negli anni. Questo modo di fare le cose ‘a cazzo di cane’ è stata per me una pratica preziosa, perché mi ha permesso di scoprire delle rispondenze, diciamo delle geometrie o delle ossessioni che non sapevo di avere. Ad esempio, la prima sezione della raccolta ha come tema centrale la morte, ma io non ero assolutamente consapevole di questa cosa, non pensavo di aver scritto tutte queste poesie sulla morte, perché francamente non pensavo (e in effetti continuo a non pensare) che la morte sia un tema rilevante per me. In un certo senso non ho deciso che la prima sezione fosse così, ho solo dovuto prenderne atto, e personalmente mi sento sempre al sicuro quando è qualcun altro a decidere per me, mi sembra di star andando nella direzione giusta solo quando non sono io a sceglierla. Oltre questo, ho un po’ assemblato del materiale a caso (appunti, trascrizioni di sogni, pagine di diario) che mi sembrava avesse delle risonanze con le poesie, e che fosse utile per aggiungere dei piani di lettura. Alla fine dei conti a me torna tutto, ma penso (e spero) che il risultato sia un libro storto, perché io mi sento una persona storta, e voglio che la struttura del mio libro mi rispecchi. Vorrei dire che considero questo un atto d’onestà, ma temo che ci sia qualcosa di più meschino dell’onestà, un’ansia di ritrovare sé stessi nelle cose che non è bella quanto l’onestà.
Da questo punto di vista i miei modelli sono libri che non concludono, ‘aperti’ e che stanno meravigliosamente in piedi anche se non capisci bene come fanno. In poesia penso soprattutto a Sereni o Anne Carson, in prosa a Bolaño e Faulkner. Non so se il mio approccio cambierà nel tempo, ma francamente spero (e credo) di no. Non riesco a non pensare che la costruzione del libro sia un momento secondario rispetto alla scrittura, per cui è importante non avere progetti troppo rigidi in modo che la scrittura resti il più possibile libera di andare dove vuole. Mi sembra giusto che la ‘raccolta’ si limiti a frugare con intelligenza nell’esistente (ovvero in quello che uno ha scritto), influenzandolo il meno possibile.
2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di una persona. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?
Se penso alla mia esperienza di scrittura ho un po’ di difficoltà a rispondere perché non riesco a pensare a «finzione» e «espressione» come due categorie in contrapposizione. Mi sembra piuttosto ovvio che l’espressione ha bisogno di una componente finzionale per prendere corpo, così come la finzione ha bisogno di una parte di espressione per avere forza e essere interessante. Senza il desiderio di esprimersi (cioè di proiettare fuori qualcosa di sé) non ha senso scrivere, senza finzione (cioè senza selezionare e plasmare un qualche materiale) sarebbe impossibile esprimere qualcosa di comprensibile non solo agli altri, ma anche a noi stessi. Se invece si parla di fedeltà autobiografica, io più o meno faccio così: spesso racconto cose che mi sono veramente accadute, ma altre volte invento dei fatti o delle vicende o anche delle sensazioni, ma quell’invenzione mi serve per dire una verità, o comunque per dire qualcosa che per me è importante, per cui anche in questo caso ‘fingere’ – inteso proprio nel senso di mentire, inventare di sana pianta – mi è servito per esprimermi. Secondo me se l’opposizione tra espressione e finzione è utile in qualche modo è semplicemente perché denota due diverse posizioni del soggetto nell’atto della scrittura. Nell’espressione infatti la persona (diciamo l’io) è più o meno passiva, c’è qualcuno che gli detta le cose da dire, i contenuti non vengono scelti né organizzati ma semplicemente si presentano e ‘urgono’ («I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando»). Nella finzione invece chi scrive è più cosciente, pianifica, ritaglia, compone, riflette sul senso di quello che sta facendo. Io penso che nella scrittura questi momenti siano entrambi importanti, e penso anche che gli autori e le autrici della mia generazione abbiano paura dell’inconscio, o meglio di ammettere a sé stessi che hanno un inconscio e che ci sono delle cose che non controllano, e quindi la ‘finzione’ sembra una dimensione più rassicurante, forse anche un po’ più adulta. Però secondo me è bello non essere padroni, lasciare spazio all’espressione, perdersi nelle fantasie, farsi attraversare dalle cose, e non per un qualche gusto regressivo, ma perché se uno vuole arrivare in fondo a certe questioni, sia personali che storiche, è proprio nelle fantasie, nelle zone oscure – nell’inconscio – che si scopre la merda, quella che ci inchioda al di là di ogni sforzo volontaristico di andarle contro, ma anche la gioia, una felicità che non conosce i limiti del principio di realtà.
3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?
Ho iniziato a scrivere alle medie, a seguito di un evento traumatico ma ambiguo – cioè un po’ bello un po’ brutto – che mi era successo, e scrivevo solo per buttare fuori l’angoscia che questa ambiguità aveva generato in me. A un certo punto ho iniziato a leggere i simbolisti e ho iniziato a scrivere poesie terribili che nella mia testa avevano a che fare con la ricerca di assoluto, ma in realtà avendole rilette da più grande mi sono reso conto che parlavano semplicemente d’amore, del mio desiderio di perdermi nell’amore. Poi mi ero scocciato di tutto quel sentimentalismo e allora sono passato a poesie narrative, quasi interamente ‘finzionali’, in cui cercavo di parlare il meno possibile di me e il più possibile del mondo. In questo momento direi che mi sento più vicino a quel ragazzino delle medie che scriveva per neutralizzare l’angoscia, anche se purtroppo senza quell’ingenuità e quella soddisfazione. Se questo percorso (che forse si intravede un po’ nella raccolta, almeno nella parte iniziale) ha un valore, penso sia semplicemente perché mi rendo conto di essere cresciuto nella scrittura quando sono andato contro me stesso, mi sono rotto di quello che stavo facendo e ho cercato di cambiare postura, stili, modi. In questi momenti di cambiamento inizialmente sono super entusiasta e scrivo cose imprecise, poi trovo la giusta misura, poi c’è una fase che oscilla tra la maturità e la senescenza, infine rischio di assumere delle pose, o comunque di camminare per una strada in discesa in cui tutto sembra facile e a portata di mano. Ecco, io mi rendo conto che la mia scrittura è più produttiva quando mi sento scomodo, non nel senso che i testi escono più belli – di questo francamente non ne ho idea, e forse in realtà anche no – ma nel senso che esce fuori più roba, riesco a spurgare meglio.
Sulle altre domande non ho molta idea: non sento di aver propriamente preso parola in quanto autore, mi sembra solo di aver pubblicato delle poesie che spero siano belle e facciano passare qualche ora piacevole ai miei quattro o cinque lettori. Non mi sento particolarmente influenzato dal fuori, se non un pochino per contrasto: mi sono fatto un’idea del senso comune diffuso nella ‘bolla’, di quali posizioni ‘teoriche’ sono più diffuse o comunque trovano facilmente consenso, e mi piace pensare che quello che scrivo mi faccia apparire un po’ antico, una ‘forza del passato’, uno che riesce a mediare tra la tradizione e il presente, ma tutto questo è un giochetto che si attiva adesso che rispondo a queste domande, mi invento un pubblico mentale un po’ caricaturale che può lasciarsi colpire dalle mie risposte. Penso che il pubblico reale sia molto più intelligente, distratto e indifferente di questa mia proiezione mentale, per cui so bene che questa farsa esiste solo nel teatro della mia fantasia.
4) Tutti non sopportano qualcosa di ciò che scrivono. Tu cosa odi della tua scrittura? Che rapporto hai con i tuoi automatismi?
Della mia scrittura penso di non odiare niente, però odio certe regole minime di variatio che mi impediscono di ripetere all’infinito parole che mi piacciono un sacco e che già uso tantissimo e che per decoro devo tenere sotto controllo. Penso agli aggettivi determinativi, a ‘luce’, ‘gioia’, ‘dolore’, ‘tutti’, ‘tutto’, ‘come’, ‘assolato’, ‘disperazione’, ‘sempre’; e poi anche le coordinate (‘e…e…e…’), le relative e gli infiniti. Se ripetere in continuazione le stesse parole non fosse vietato, i miei testi credo che sarebbero simili alle icone ortodosse: quasi identiche una all’altra, con un sacco di oro come sfondo, e delle figure stereotipate e un po’ brutte in primo piano. Purtroppo il mio retroterra è cattolico e questo piacere non posso concedermelo.
Altre cose automatiche per fortuna le posso fare perché non violano nessuna regola, anzi penso siano stilisticamente interessanti, tipo questa cosa che mi viene di cambiare continuamente pronome (io, tu, noi) anche se sto parlando sempre di me. È una cosa che è uscita a caso, ma mi sembra importante per movimentare il discorso e far slittare sottilmente il punto di vista sul personaggio (cioè l’io), assumendo posizioni differenti nei suoi confronti. Poi come dicevo non mi piace quando assumo delle pose e ripeto degli impianti, delle situazioni, delle cadenze, però per fortuna sono una persona abbastanza insofferente e quindi di questo tipo di automatismi mi stufo abbastanza in fretta perché mi annoio da solo.
5) Nel programma radiofonico Le interviste impossibili, andato in onda tra il 1974-1975, alcune voci della cultura italiana contemporanea immaginavano di intervistare dei personaggi storici (Ponzio Pilato, Uomo di Neanderthal, Jack lo Squartatore etc…) inscenando un botta e risposta. Se avessi la possibilità di intervistare un personaggio famoso della storia, chi sceglieresti? Scrivi le tre domande che gli vorresti fare.
Ci ho pensato un po’, ma personaggi famosi non mi viene in mente nessuno con cui mi interesserebbe particolarmente parlare, credo perché se sono famosi vuol dire che hanno lasciato delle testimonianze, o comunque qualcuno si è impegnato a raccontare le loro storie, e quindi in qualche maniera posso già avere un dialogo con loro. Sarei invece molto curioso di trovarmi a Uruk nel IV millennio avanti Cristo. Per quello che ne sanno gli archeologi, a Uruk c’erano questi grandi templi che in quel periodo hanno cominciato a funzionare come delle banche, immagazzinavano enormi quantità di grano che i contadini erano costretti a versare, e per organizzare tutti i loro affari hanno inventato le prime forme di contabilità, hanno cominciato a emettere cambiali, e soprattutto hanno introdotto per la prima volta l’idea di moneta, non tanto come oggetto fisico circolante, quanto come unità astratta per misurare il valore, cioè più o meno come il metro serve a misurare le distanze. Questo passaggio storico in cui le persone hanno cominciato a riporre fiducia nel fatto che un’unità di misura scelta praticamente a caso, per registrare il grano che entrava e usciva da un magazzino, fosse in grado di determinare se un uomo o una donna potessero essere vivi o morti, liberi o schiavi – questa roba qui mi interessa molto. Vorrei sapere che gli è saltato in mente, cosa li faceva sentire in diritto (o in dovere) di fare quello che facevano, grazie a quali poteri e quali discorsi questa idea è entrata nelle menti delle persone, sembrando ragionevole e vantaggiosa, o forse non sembrandolo mai, ma imponendosi semplicemente prima con la forza e poi con l’abitudine. Oltre a chiedere però mi piacerebbe vederli vivere, osservarli mentre entravano in questa nuova forma di patto, capire come questa cosa ha stravolto i rapporti tra umani. Insomma, più che degli individui mi piacerebbe interrogare la specie per comprendere meglio come abbiamo fatto a rovinarci così, cercando nel passato i segni che le cose possono essere diverse da come sono.
Silvia Gola e Fabio Ciancone dialogano sul rapporto tra amore e classe sociale a partire da La rosa più rossa si schiude di Liv Strömquist.
Di amore si parla troppo e si scrive troppo poco. È nello spazio d’ombra tra l’eccesso e il difetto di discorso teorico, però, che le nostre relazioni prendono forma, ci riempiono il corpo, ci accendono la testa. Ed è nel campo sterminato di lemmi e immaginari che ci siamo voluti muovere affinché una lunga sessione di chiacchiere assumesse le sembianze di una teoria dell’amore. Impropria, sfilacciata – ma fa quello che fa una teoria: campiona l’esistente e prova a osservarlo. Abbiamo discusso di dating app a partire dalla variabile ‘tempo’; della sanificazione procedurale delle relazioni; della scomodità del desiderio, argomento così in vista sulle bocche di tutti che mostra facilmente il suo lato di tabù. Il nostro punto di partenza è La rosa più rossa si schiude, la graphic novel di Liv Strömquist uscita in Italia per Fandango nel 2021. Il testo è l’insieme di una serie di teorie sull’amore che, prendendo a riferimento principalmente Byung-Chul Han, Eva Illouz e Slavoj Žižek, si interrogano su come la società contemporanea rimuova l’idea dell’amore come sentimento assoluto, pervasivo, a volte distruttivo, e su come alcune dinamiche imposte dal nostro sistema sociale ed economico contribuiscano a questa rimozione.
App di incontri, economia del tempo
Fabio: Non ho mai usato le dating app perché ho sempre pensato che comportino un grande investimento di tempo che perlopiù non conduce a nulla. Mi sembra una continua ricerca come se fossi dentro un supermercato. Tu, quando le hai usate, cosa cercavi?
Silvia: Un incontro di natura non predeterminata – e con questo intendo dire che è possibile che non sia aprioristicamente nitido ciò che si cerca.
F: Al contrario, alcuni amici che vivono negli USA mi hanno raccontato che lì l’uso delle app è finalizzato al sesso, qui rimane come più diagonale. Sarà che negli USA il capitalismo è più compiuto e hanno introiettato lo scopo originario delle app, ovvero fare economia delle relazioni…
S: È anche un’economia del tempo, per la verità un po’ paradossale: venendo meno molte occasioni di interazione sociale, le app incanalano il desiderio e massimizzano il tempo dedicato agli incontri; d’altra parte, è necessaria molta attività sull’app prima che tu abbia un appuntamento.
F: Mi chiedo, allora, come le usano persone che hanno una routine di lavoro scandita. Immagino si manifesti quasi un obbligo, per far sì che l’attività sull’app funzioni, a dedicare delle sessioni predeterminate per cercare un appuntamento. Mi sembra che sia lo strumento stesso che utilizziamo per cercare le relazioni a determinare il modo in cui lo facciamo.
S: E tuttavia è uno strumento che, in qualche modo, ti lascia credere di poter sconfiggere l’entropia degli incontri casuali: quante serate fuori con gli amici devo fare, quante cene da single, quanti corsi di ceramica per trovare qualcuno? Una volta finita l’università, le possibilità di incontro si diradano, i corpi sociali intermedi sono scomparsi; da parte sua, la app ti dice: “Spendi pure del tempo su di me e qualcosa succederà per forza”. Mi sembra che Strömquist colpevolizzi chi entra nel mercato delle app senza tenere in conto i reali modi di produzione dell’amore oggi, le condizioni materiali per cui le app fanno presa: non tutti abbiamo le occasioni, le attitudini, le realtà da vivere che ci facciano incontrare persone in modo autentico e inaspettato. L’idea di amore puro che ha lei – fulminante, estremo, assoluto – ha i suoi tempi, che possono essere a lenta ebollizione. Io direi che, proprio per il modo in cui viviamo, il tempo è la cosa che più in assoluto ci manca ma è anche quello che serve per conoscere l’altro.
F: Paradossalmente, l’unico modo per evitare le controindicazioni delle dating app – ad esempio un incontro sgradevole – sembra sia rimanere dentro la logica delle app stesse: dare un tempo predeterminato all’altro, fuggire se necessario. Sono d’accordo con te quando dici che Strömquist ignora le condizioni materiali che determinano le “leggi sociali” del sentimento amoroso: nel libro leggo una teoria assoluta dell’amore, ma non sono sicuro che l’amore sia ascrivibile a delle categorie eterne, astoriche. Una volta si impazziva per amore, oggi ci si deprime – abbiamo canoni relazionali diversi e quindi anche patologie diverse connesse a questi canoni.
S: È facile tracciare una serie di motivi per cui oggi possiamo amarci diversamente rispetto al passato: la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, l’emancipazione femminile. Cioè, queste cose le sappiamo già, sono assodate. Invece, mi incuriosisce molto di più la questione della patologizzazione dell’amore: ad oggi, si può impazzire per amore o, come dicevi tu, è più probabile che ci si deprima?
F: Se ci pensi, oggi rifiutiamo di stare così male. Se io ti dicessi che sono depresso per amore, tu mi consiglieresti di andare in terapia. Mi chiedo quanto accettiamo socialmente la degradazione d’amore. A leggere razionalmente certi romanzi di Walter Siti, ad esempio, alcune persone penserebbero che il protagonista dei suoi romanzi, come persona desiderante, è un caso clinico da manuale, ad esempio nel modo in cui annulla sé stesso per assecondare le ambizioni e le dipendenze di Marcello in Troppi paradisi.
Amore sano, sanificazione dell’amore
S: Questo è il secondo nodo: la sanificazione dell’amore. Tornando a Strömquist: questa visione dell’amore come elemento dirompente, che sovverte l’ordine e sconquassa l’ego, forse mi piace proprio perché è in netto contrasto con il discorso pubblico sull’amore sano e non tossico. Mi sento a disagio, ovviamente, con l’amore pericoloso che ti ammazza ma anche con quello per forza sano, dove si verbalizza tutto.
F: Da una parte mi sembra che clinicizzare i rapporti ci inserisca in delle dinamiche che non hanno a che fare con la vita reale. D’altro canto, esiste ancora oggi un modo di amare possessivo che alcune persone rivendicano: mi viene da pensare alla romanticizzazione del malessere – inteso come appellativo per una persona possessiva, tossica e che, più in generale, adotta comportamenti disfunzionali in una coppia – che si contrappone alla rimozione della gelosia e del possesso da parte della classe media riflessiva. C’è una canzone di Fabiana, un’artista pop napoletana, che recita: «Troppo educato non mi interessa/ ca port ‘e rose nun ce vaco appriess/ Voglio che viene con la motocicletta/ sott’ o balcone pure all’una ‘e notte/ ca fa ‘o geluso pure annanz a gente se n’ato me vo guardà/ mi piace ‘o malessere». Possiamo davvero eliminare il dolore e clinicizzare l’amore per stare bene? E quando questo non succede, dobbiamo sentirci in colpa?
S: Non credo che sia possibile sanificare completamente l’amore. Mi chiedo però: qual è un dolore costruttivo per cui sia sensato rimanere dentro la coppia, e quale uno che dovrebbe funzionare come una spia, un allarme per allontanarci da una data situazione? Quali sono i dolori sopportabili e abbracciabili, e quali no?
F: Non so quale sia il confine, so solo che alcune persone dicono di non volere una relazione perché non vogliono stare male: non lo capisco, il dolore mi sembra consustanziale all’amore. Mi sembra che la sanificazione dell’amore sia diventata anche content per chi lavora con i social. Siamo bombardati da post, reel e video – non di rado finalizzati a vendere qualcosa – che promuovono un’idea specifica di amore “sano”, che mi sembra il contenuto masticato e digerito di teorie femministe ben più radicali e complesse. Riceviamo costantemente messaggi di influencer e influattivist* che ci spiegano come amare e come desiderare, ma mi sembrano discorsi slegati dalla realtà: da una parte proprio perché hanno spesso un secondo fine; dall’altra nella misura in cui le teorie del ceto medio riflessivo, spesso, non sono espandibili perché, al di fuori del proprio contesto di classe, pure le condizioni materiali in cui ci si ama vengono a essere diverse.
S: E se dicessimo quasi una bestialità – ovvero che forse che le dating app e le influencer finiscono con l’igienizzare i rapporti in modo similare, dando alla relazione un assetto di linearità e di proceduralità che sottrae dall’incontro ciò che di bello c’è? C’è un aggettivo greco che secondo me simboleggia bene cosa sia un incontro amoroso, e questo è un termine polisemico: δεινός (deinos) che si traduce con ‘tremendo’ ma anche ‘fascinoso’, ‘terribile’, ‘travolgente’… ? Se abbiamo in mente un concetto forte di amore – e cioè che in qualche modo il suo senso cada nei pressi della parola δεινός –, le procedure delle influencer di Instagram e le dating app sono agli antipodi di uno stesso spettro dei modi in cui non vogliamo parlare di amore – e dei modi in cui non vogliamo amare.
Ciò che è sano, ciò che è desiderabile
F: Qui tornerei alla questione originaria, ovvero: quanto e come cambia nel tempo il modo di amare. Mi sembra che, tra le righe, Strömquist suggerisca qualcosa di più incisivo di quanto riesca a esprimere apertamente: e cioè che l’amore assoluto, potente e annichilente non è una cosa brutta.
S: Su questo, idealmente mi piace pensare di essere pronta per l’amore disordinato che mette a repentaglio il proprio ordine ma nel commentare le storie d’amore mi ingabbio da sola nella lingua rimasticata della diade sano-tossico. Forse il discrimine è tra soffrire a causa dell’altro o soffrire perché la relazione, per motivazioni esogene/endogene ma che fanno capo alla relazione stessa, non funziona? O già questo distinguo mi fa ricadere in quella grammatica di sanificazione? Quand’è che il dolore è giusto? Mi rendo conto che messa così è quasi una domanda puritana…
F: Secondo me quando rientra in dei codici prestabiliti. Mi sembra evidente che non esista un dolore “giusto”, ma credo che possa esistere un dolore, in qualche modo, non dannoso. Per portare questo discorso su un piano individuale, credo sia sempre necessario distinguere tra un comportamento abusante e uno che non lo è per capire se una relazione sia o meno “sana” al di là del dolore che ci provoca: quando nessuno dei due si comporta male in una coppia ma comunque si soffre, tendiamo fin troppo spesso a dire che quel rapporto deve concludersi – ma io non la penso così. Non so quanto spesso accettiamo di abitare il dolore che ogni relazione comporta.
S: Per me è anche una questione delle parole che usiamo. Possiamo stare fuori dalla grammatica psicoterapeutica, ad esempio? Se le parole che continuiamo a usare influenzano, anche in minima parte, le nostre strutture mentali, quali termini alternativi possiamo adottare per parlare di relazioni, considerando che “sano” e “tossico” stanno diventando sempre più usurati e polarizzanti?
F: Secondo me, il discrimine risiede nel concetto di desiderabilità – e qui arriviamo al terzo nodo. Pensando alle relazioni di altre persone, mi capita chiedermi se, per me, quel rapporto sia o meno desiderabile. Ma è possibile desiderare una relazione senza desiderare quella persona? Come molte cose che ci fanno male sono assolutamente desiderabili, ci sono amori assolutamente indesiderabili (noiosi, svilenti, degradanti) che a qualcuno fanno bene. Immagina una coppia di amici che, da quando stanno insieme, smettono di frequentare tutti. Per me quella relazione è assolutamente indesiderabile, ma non posso dire che non è sana se loro sono felici. Se la dicotomia sano/tossico riguarda lo Zeitgeist in cui siamo immersi – mettiamola così –, desiderabile/non desiderabile sono invece categorie assolute ed estremamente soggettive. Mi sembra che, a volte, sovrapponiamo ‘sanità’ e desiderio. L’estrema individualizzazione dei rapporti amorosi, che va dall’autoprofilazione – citando Strömquist – a una serie di teorie e metodi per sanificare ogni relazione, si riflette su ciò che è desiderabile, e questo ha anche un riflesso di classe. Il ceto medio riflessivo ha stabilito benissimo per sé come classe ciò che è desiderabile e mi sembra voglia allargarlo anche a tutto ciò che non è sé stesso. Ma è davvero possibile farlo se esci dal tuo contesto? Inoltre, il puro desiderio spesso non è incasellabile, soprattutto quando è casuale, non canonizzato, disordinato.
S: Molte e molti di noi – credo – sono in una fase di stallo tra non volere l’amore tragico che ti fa a pezzi ma nemmeno l’amore totalmente sanificato. Esiste questa ambivalenza, secondo te?
F: Credo che in tante la viviamo, ma non so quanto la rendiamo un’azione trasformativa delle relazioni oggi. Siamo ancora nello stallo – è come se stessimo andando nella direzione sbagliata in questo momento e non possiamo fermarci, perché la nuova codificazione delle relazioni è troppo nuova per avversarla…
S: …Ovvero, non possiamo ancora dire realmente che non auspichiamo né relazioni di stampo patriarcale né quelle sottoposte alle procedure sanitarie – non possiamo, a meno di apparire almeno un po’ reazionari.
Le parole dei vivi | Intervista a cura di Eleonora Negrisoli
Fotografia di Andrea Savorani Neri.
La rotta balcanica è il più importante corridoio migratorio per giungere in Europa dalla Grecia via terra. Mettersi su questo cammino, fatto di strade e tappe in continuo mutamento, significa correre molti rischi, dalla mancanza di cibo e riparo fino a violenze e abusi. Attraversare le frontiere è molto difficile, ci si prova e riprova infinite volte: se la polizia ti respinge, devi tornare indietro, accamparti dove puoi e tentare di nuovo. Proprio a causa dei tentativi ripetuti e dei pericoli continui, la rotta balcanica viene chiamata game da coloro che la percorrono. Elisa Attanasio, ricercatrice dell’Università di Bologna e attivista, tra il 2022 e il 2023 ha condotto alcuni viaggi su questo tragitto e ne ha scritto un reportage intitolato Sulla rotta balcanica. L’ho incontrata per parlarne.
Eleonora Negrisoli: Con il tuo reportage rendi visibile un fenomeno di cui non si parla abbastanza, racconti la quotidianità atroce delle persone che tentano di attraversare i confini e allo stesso tempo sono costrette ad abitarli. I migranti sono invisibili non solo perché sono obbligati a nascondersi per evitare il pericolo, ma anche perché la società non vuole vederli. Le persone ferite e malate che dormono in strada sono considerate indecorose, ci si lava le mani di coloro che soffrono per un sistema politico-sociale in cui siamo tutti invischiati . Il tuo libro è una testimonianza importante di quello che accade ai margini e non si può, o non si vuole, sapere. Leggendolo si sente continuamente una tensione tra il voler guardare e il non riuscire a farlo: gli occhi ora si concentrano, ora distolgono lo sguardo; la macchina fotografica ora punta l’obiettivo, ora si nasconde. Come hai scelto cosa e come dirlo? Hai dei modelli letterari di riferimento?
Elisa Attanasio: Sì, come dici tu, è messa in atto – da parte dei governi nazionali ed europei – una precisa tecnica di invisibilizzazione dei migranti, a cui si aggiunge una strategia di criminalizzazione: le persone in movimento sono abbandonate e rese estremamente vulnerabili, proprio a causa del loro statuto di ‘criminali’, ‘illegali’, ‘clandestini’. Dopo un primo, lungo, periodo passato come volontaria ad Atene nel 2022, ho continuato ad andare e tornare sui confini della rotta balcanica, su quelle frontiere che sono filtri dove le persone vengono classificate: ci sono corpi che contano e corpi che non contano. È molto difficile parlarne, perché a ogni viaggio torno con più domande, più frustrazione, più rabbia per decisioni politiche insensate e assassine, e con più vergogna “davanti al dolore degli altri”, come scriveva Susan Sontag. La mia posizione poi è sempre ibrida: sono attivista e volontaria, ma al tempo stesso “reporter” (fra virgolette perché non mi sento tale, ma non saprei quale altro termine utilizzare). Di giorno porto aiuti, faccio il ‘palo’, monto docce dove le persone in movimento possono lavarsi per poi darsi il trattamento per la scabbia; la sera scarico le foto (se ne ho), e scrivo almeno una pagina da caricare sul blog. E il giorno seguente da capo; per ogni viaggio (nel blog e nel libro ne ho raccolti quattro importanti) mi sono imposta questa routine, e forse è l’unico modo per riuscire a scriverne, come un atto meccanico, da fare. Probabilmente, se prendessi appunti da rielaborare al ritorno, non avrei il coraggio di pubblicare nulla e sarei presa da mille ripensamenti. Perché il rischio della retorica e della spettacolarizzazione è sempre molto alto, specialmente a distanza. Un’ulteriore difficoltà sta nell’accettare – per quanto possibile – la posizione di privilegiata che racconta: mi sembra, a momenti, di reiterare una sopraffazione, come ci ricorda Spivak. Già provengo da un paese colonialista, e in più mi ritrovo a narrare le storie dei migranti, rendendoli “oggetti” una seconda volta. Non so come si possa stare in questa situazione – dato che uscirne è impossibile -; io credo di aver trovato una sorta di compromesso nel modo in cui scrivo. Anche qui, come nella concretezza delle situazioni che vivo durante i periodi passati sulla rotta, cerco di occupare meno spazio possibile, di ridurre la mia voce. Ne esce uno stile asciutto, secco e distillato, perché non trovo altri modi per raccontare quello che vivo e vedo: se nella scrittura la riduzione del giudizio diventa assenza di aggettivi, e il tentativo di calmare i pensieri si concretizza in una sintassi scarna, paratattica ed essenziale, nelle immagini non fotografo mai persone (salvo rari casi in cui mi viene esplicitamente chiesto), bensì i luoghi attraversati, le tracce lasciate dai passaggi, alcuni dettagli. Una scrittrice che mi tocca molto, e mi piace pensare come modello, è sicuramente Ágota Kristóf.
Squats, Velika Kladuša, Bosnia. Foto di Elisa Attanasio.
E. N.: Sempre a proposito di sguardo, Sulla rotta balcanica è un libro – e un blog – composto da parole e fotografie. Che rapporto c’è stato tra questi due mezzi durante il lavoro di documentazione e la sua composizione narrativa?
E. A.: Si tratta di un rapporto che definirei molto semplice e diretto, quasi funzionale. Come dicevo, le giornate sono sempre molto piene, scandite da tempi rapidi; bisogna essere operative e lucide, anche nelle attese. Non avendo possibilità di prendere appunti, le foto fungono per me da note e promemoria; la sera, osservando le immagini, ricostruisco un racconto all’interno del quale cerco di far dialogare i due mezzi.
Patrasso. Foto di Elisa Attanasio.
E. N.: Squat pieni di divani squarciati, materassi marci, pezzi di carta, brandelli, macchie, buchi, finestre rotte; sentieri nel bosco fatti di tende improvvisate, lattine vuote, vestiti accartocciati, avanzi di oggetti: è il lunghissimo inventario di un paesaggio spaccato, quello che si attraversa durante la rotta balcanica. Un paesaggio che è anche un corpo, o meglio, i corpi martoriati delle persone che quel paesaggio lo attraversano. Vesciche, mal di denti, tosse, ossa rotte, lesioni, ferite infette, scabbia, ematomi: l’impossibilità di nutrirsi e riposarsi adeguatamente, i chilometri percorsi a piedi, le scarse condizioni igieniche e gli incontri con la polizia alle frontiere producono danni fisici e psicologici, deformano i corpi, li sfiniscono.
E. A.: Sì, i corpi delle persone che percorrono la rotta portano, a più livelli, i segni della violenza incontrata. Alla violenza subita nel proprio paese d’origine (guerra, detenzione, fame, discriminazione) si aggiunge la violenza della polizia di confine: si tratta di respingimenti (illegali), durante i quali alle persone viene impedito fisicamente di attraversare la frontiera. Ma non solo: i telefoni (unico mezzo per comunicare e orientarsi) vengono rotti, i vestiti presi, le tende distrutte, i pochi averi bruciati. A volte, i cani della polizia mordono e staccano falangi di dita e piedi, i poliziotti rompono ossa, provocano fratture e traumi cranici. Ci sono poi le ferite della frontiera stessa, come le lacerazioni e i tagli del filo spinato e le infezioni che ne seguono. I corpi sono resi vulnerabili dal deperimento fisico e mentale, dalla mancanza di sonno, cibo e acqua, dalla permanenza in luoghi malsani (sia nei campi formali che informali), dalle malattie come la scabbia, dall’inaccessibilità alle cure. Anche nei campi profughi le persone in movimento subiscono violenze, legate ad esempio al razzismo e al sessismo; e c’è ancora una violenza che potremmo chiamare “sistemica”, che fa parte di quella strategia di criminalizzazione di cui parlavamo prima. Per fare solo un esempio: ultimamente, i campi dentro le città vengono chiusi e spostati lontano, come è stato per quello di Eleonas ad Atene, sgomberato per fare spazio al nuovo stadio del Panathinaikos e al suo enorme parcheggio.
Trieste, il Silos. Foto di Elisa Attanasio.
E. N.: Il tuo ultimo viaggio parte e arriva in Italia, a Trieste, dove giungono molte persone che hanno percorso l’intera rotta balcanica. Il gioco è finito, ma ne ricomincia un altro, crudele quasi quanto il primo. Il vuoto istituzionale provoca la mancata accoglienza di chi arriva, che si ritrova così ad aspettare giorni, mesi o anni senza un posto dove stare; molti, allora, sono costretti a trovare riparo dove capita. Quando hai scritto il tuo reportage la principale fonte di rifugio per i migranti arrivati a Trieste era il Silos, un edificio abbandonato accanto alla stazione ferroviaria tra le cui pareti centinaia di persone tentavano di sopravvivere in accampamenti di fortuna. A giugno di quest’anno, però, il Silos è stato sgomberato: le condizioni abitative erano totalmente inadeguate e gli occupanti sono stati trasferiti altrove, ma dove potranno trovare adesso riparo le persone che arrivano dalla rotta? Questo pensiero mi fa tornare in mente una delle fotografie che più mi ha colpito del tuo reportage: una scritta a bomboletta sul muro di uno squat in Bosnia, humans need bread but they need roses too. In un sistema che mette in discussione persino il diritto alla vita delle persone migranti, di certo non si discute del loro diritto a una vita bella. Nel tuo libro, invece, mi sembra che questo desiderio si manifesti in piccoli dettagli, come una moschea di mattoni appoggiati al pavimento di un capannone o il bastone della scopa riparato per pulire meglio le stanze di una casa abbandonata.
E. A.: Sì, a giugno il Silos è stato chiuso e la promessa di aumentare i posti nella struttura di Campo Sacro non è stata mantenuta. Le persone continuano ad arrivare: al momento si accampano per strada e negli edifici abbandonati attorno alla stazione e al porto, perché le strutture non hanno la capacità per accoglierle. Come dici, il diritto alla vita delle persone in movimento è continuamente negato, e ciononostante continuo a vedere resistenza, che si manifesta in modi diversi, ma che potrei riassumere descrivendo due direzioni: da una parte, una resistenza “esterna”, che vede ad esempio una lotta contro determinate scelte politiche (ad esempio, la chiusura del campo di Eleonas ad Atene è stata rimandata e ostacolata da parte degli/delle abitanti campo attraverso una lunga e in parte efficace resistenza, che ha costretto l’altra parte a continui cambi di strategia); dall’altra, una resistenza “interna”, che consiste in quegli atti di cura per sé e per gli altri che non ho mai smesso di vedere. Le persone in movimento sono vittime (di scelte politiche, delle situazioni tragiche che vivono, degli abusi della polizia…), ma dimostrano quotidianamente una potente agentività. Anche i soggetti più vulnerabili (penso ad alcune donne congolesi arrivate ad Atene senza nessuna conoscenza, analfabete, senza telefono, incinte o con figli piccoli) hanno l’incredibile capacità di trovare soluzioni, perché bisogna andare avanti. Questo mi ha molto colpito. Inoltre, come dicevo, ho incontrato un’attenzione e una cura che forse erano l’unico modo per opporre una voce e una presenza alle logiche di invisibilizzazione. Penso ancora al Silos di Trieste, dove, in mezzo ai ratti, gli escrementi e il fango, un ragazzo tagliava con lentezza ed estrema precisione i capelli ad un altro (dopo averlo avvolto con un lenzuolo bianco), mentre un altro ancora preparava con cura un chapati da cuocere sul fuoco. Tutto questo (la cura di sé e dell’altro, la ritualità, l’ascolto, il tempo preso per preparare un chapati o un tè, tagliare i capelli) lo leggo come strategia di resistenza. E funziona anche da parte delle attiviste. Essere solidali non significa solo (per quanto sia fondamentale) rispondere a un’emergenza immediata (di cure mediche, o di cibo, o di vestiti): è anche la messa in pratica di una concezione più ampia che desidera smantellare le logiche di criminalizzazione razziale che lasciano le persone in movimento in una condizione di abbandono strategico. Le politiche di confine europee producono vulnerabilità e morte come condizione stessa del loro funzionamento, ed è proprio contro questa logica che si pongono le pratiche di cura, soccorso e assistenza messe in atto dalle persone solidali.
Trieste, il Silos. Foto di Elisa Attanasio.
E. N.: Tornerai sulla rotta balcanica come attivista e reporter? Hai altri progetti in mente?
E. A.: Sì, ho in programma altre tappe: a fine dicembre dovrei tornare in Bulgaria (Sofia, Harmanli), dove la situazione è molto critica, e in primavera probabilmente sul confine fra Polonia e Bielorussia. Nel frattempo, vorrei tornare a Trieste e andare a Ventimiglia, continuando a scriverne (con testi e fotografie) sul blog.
Squats, Velika Kladuša, Bosnia. Foto di Elisa Attanasio.
Restituzione dell’incontro “Tradurre genealogie femministe: da Kathy Acker a Lidia Yuknavitch” a cura della rassegna di letteratura e traduzione Quasi La Stessa Cosa.
Introduzione a cura di Elena Strappato, contributi a cura di Guia Cortassa, Alessandra Castellazzi e Arianna Preite
Se è vero, come ricorda un narratore da L’Impulso (Nottetempo, 2024) di Lidia Yuknavitch, che le storie sono «quanti», particelle elementari che connettono esistenze, da quale interazione, da quale groviglio di vita e di materia si generano a loro volta le storie? Quali incontri materiali le precedono? Quali nuovi incontri riproducono?
Il 12 ottobre, insieme alle traduttrici Guia Cortassa e Alessandra Castellazzi, e alla dottoranda Arianna Preite, ci siamo trovate alla Biblioteca delle donne per raccontare un libro e un incontro. Quell’innesto di materia esplosa, violenza e tenerezza che è L’Impero dei non sensi di Kathy Acker (NERO Editions, 2024) con un occhio aperto su una sua lettrice, e poi scrittrice, privilegiata: Lidia Yuknavitch. Un incontro, quello tra Kathy Acker e Lidia Yuknavitch, fuori e dentro il testo; un incontro, il nostro, con le loro voci.
Abbiamo tentato di leggere Acker con Yuknavitch e Yuknavitch con Acker per ricreare una genealogia delle nostre letture. Non solo perché queste autrici si sono incontrate, e l’influenza di una è stata fondamentale per la seconda. Ma anche perché la voce dell’una scopre e riscopre quella dell’altra, senza gerarchie o ordine che tenga, ma in un gioco di echi e reti nate fuori dal testo, cause ed effetti di un incontro incanalato dalla parola scritta e poi condivisa.
In una, è il desiderio di lacerare tutto, fare della pagina la ferita e la cassa di risonanza della ferita, nell’altra, la voglia di cucire insieme i tagli, ricreare una mappa con le suture. Nelle loro differenze abbiamo cercato uno spazio per raccontare i loro testi senza addomesticarne suoni e sensi.
Riportiamo qui una traccia dell’incontro nei contributi di Guia Cortassa, Alessandra Castellazzi e Arianna Preite.
PRENDERE. DISTRUGGERE. RICOSTRUIRE.
[Kathy] Acker racconta ripetutamente la stessa storia: la madre è incinta della figlia e il padre se ne va. La madre incolpa la figlia e cerca di abortirla. Il corpo della figlia sopravvive, ma non il suo sé unificato… È vero? Ha importanza?… Acker libera la libido dal mondo sotterraneo represso di Freud.[1]
Ma poi, ancora, non ha fatto quello che tutti gli scrittori devono fare? Creare una posizione da cui scrivere?
La vita di Acker era una favola, e descrivere la confusione, l’amore e gli obiettivi contrastanti dietro questi memoriali sarebbe come abbozzare un’allegoria apocrifa di una vita artistica alla fine del ventesimo secolo.[2]
Si è parlato molto della sperimentazione formale di Yuknavitch, in particolare dell’uso di forme ibride nel testo… Ma l’aspetto genuinamente sovversivo e stimolante dell’opera di Yuknavitch è la sua messa in primo piano del corpo, e in particolare la sua presentazione del sesso. Yuknavitch ci costringe a vedere il corpo in tutta la sua fisicità, la sua carne, i suoi fluidi e le sue escrezioni, e raffigura scene di sesso, tra cui sesso feticista e sadomasochistico, che sono brutalmente viscerali. Le scene di sesso di Yuknavitch sono famose tra le scrittrici americane contemporanee, non solo per la loro esplicitezza, ma per il modo in cui le usa per perseguire questioni di intenzione, individualità e implicazioni etiche del fare arte.[3]
Se un lavoro è abbastanza immediato, abbastanza vivo, la risposta più adeguata non è essere accademiche, scriverne, ma usarlo, per andare avanti. Usandoci l’un l’altra, usando i testi delle altre, continuiamo a vivere, immaginare, fare, scopare, e combattiamo a morte questa società.[4]
Allora non limitarti a leggere questo testo. Usalo – come un attrezzo, un martello, una pietra per infrangere qualsiasi barriera ti impedisca di immaginare un posto altro e migliore. I testi letterari partecipano alle conseguenze nel mondo reale.[5]
Non è vero che non sei niente. Sei vitale per la tua cultura. Noi disadattati siamo quelli capaci di entrare nel dolore. Nella morte. Nel trauma. Ed emergerne. Ma dobbiamo continuare a raccontare le nostre storie, ad affidarle l’uno all’altra, o ci mangeranno vive. La nostra sofferenza non è la storia di Cristo. La nostra sofferenza genera un significato secolare. Mettiamo al mondo delle forme ordinarie di speranza così che gli altri, trasandati o raffinati che siano, possano andare avanti.[6]
di Guia Cortassa
Kathy Acker + Lidia Yuknavitch
Ho deciso che volevo saperne di più di Kathy Acker quando l’ho incontrata per la seconda volta, nel giro di pochi mesi, in un libro che stavo traducendo. Il primo era Everybody di Olivia Laing (Saggiatore,2022), un saggio sui corpi e sulla libertà. A partire dal potentissimo “The Gift of Disease”, un articolo in cui Acker descrive il proprio rapporto con la malattia, Laing rifletteva sulla sua scelta di rifiutare le cure convenzionali per il cancro, di cui morì nel 1997. L’altro era La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch (Nottetempo, 2022), un memoir in cui Acker appare in compagnia di George Bataille e il Marchese de Sade, Dennis Cooper e William Burroughs, a formare il «ventre molle della letteratura» (e in carne e ossa, a nuotare con l’autrice).
«Ho trovato una progenitrice letteraria in Kathy Acker» conclude Yuknavitch. E in effetti tra le due c’è più di un’affinità. Per cominciare, c’è la voglia di sbattere in faccia a chi legge il dolore e la violenza del mondo, e il modo in cui ricadono sul corpo di una donna o di una bambina, senza mai edulcorare il racconto. «Una caratteristica notevole dei romanzi di Acker è che sono popolati da alter ego» scrive Laing, «che a prescindere dall’età restano povere bambine abbandonate, trascurate, precocemente sessualizzate, perse in un paesaggio psichico sudicio, pericoloso, spesso letale». Ci sono figure ricorrenti nei suoi romanzi: pirati, motociclisti, tatuatori – bambine stuprate dai padri. In L’impero dei non sensi queste figure deflagrano nel viaggio allucinato di Thivai (un pirata) e Abhor (mezza donna e mezza robot), due amanti che si odiano, nelle strade di una Parigi messa a ferro e fuoco da una rivolta algerina, alla ricerca di un farmaco salvavita. Esplode tutto: la città simbolo dei lumi europei, i corpi che – come figurine di pongo – sopravvivono a ogni brutalità immaginabile. Salta in aria l’ordine patriarcale, occidentale, del capitale. Restano le macerie in cui continua a formicolare ostinata, mutilata, la vita.
Anche i romanzi di Yuknavitch sono pieni di alter ego. C’è sempre una bambina – la bambina che è stata, la figlia che ha perso. In L’impulso è una ragazzina che viaggia nel tempo tuffandosi in acqua; inLasciarsi cadere (Nottetempo, 2023) è l’unica superstite di una famiglia annientata dalla guerra. C’è sempre una donna che insegna a purificare il dolore nel sesso: a volte assume i connotati di una fotografa, altre della maitresse di un bordello. Sempre, è l’artefice di una catarsi. Il suo intervento sprigiona il desiderio nella scrittura di Yuknavitch, una fame di piacere, di dissoluzione, che racchiude in sé gli opposti della distruzione e della speranza. Serpeggia nei romanzi, asseconda il fluire del racconto: la speranza intima e feroce è il motore che muove la scrittura di Yuknavitch. «È il mio fuoco» spiega. «Le storie nascono dal luogo dove in me sono avvenute la vita e la morte».
Di Alessandra Castellazzi
Giochi della matassa collettivi dentro e fuori dall’opera di Kathy Acker
Parlare di Kathy Acker a quattro voci ha creato un momento di riflessione e comprensione nuova della sua scrittura, attraverso quello che mi è sempre sembrato chiedere la sua opera: un gesto attivo di ingaggio con i suoi testi, molto più che una lettura solitaria, silenziosa e attenta. Le sue pagine hanno più spesso evocato l’idea che il modo migliore per comprenderle fosse quello di saper creare dei momenti condivisi a partire da queste, dei rituali che si riverberassero nel mondo, che uscissero in maniera radicale dall’oggetto-libro.
Quando questo accade, quello che mi colpisce sempre è vedere come ogni persona segua il proprio filo rosso, tra i molteplici che possono condurre a questa autrice, e lo percorra religiosamente sulla base della sua genealogia di Acker alla quale i propri personalissimi giochi della matassa nel tempo hanno condotto. Questo ovviamente genera a sua volta delle letture che moltiplicano la percezione che si ha della sua scrittura: il fatto di averla scoperta tramite una certa altra autrice, che ha nascosto un pezzo di lei in un suo testo, spalanca le porte a una specifica visione della sua narrativa, basata sulla fonte della scoperta, sulla sorgente che ne ha consentito la rivelazione. Lo scambio collettivo fa incontrare tutte queste diverse versioni di lei, e scoprire quante ne esistono e come si relazionano tra loro consente di osservare quello che ha visto qualcun’altra e di confrontarlo con quello che hai visto tu.
Lo facciamo con tutte le scrittrici? Lo facciamo con tutte le opere letterarie? In qualche modo sì, ma forse in una maniera diversa quando i testi in questione, e soprattutto la loro autrice, hanno molte voci e una narrativa fondata sulla liberazione di tutte queste contemporaneamente, sull’intersezione di medium diversissimi, che chiedono a chi legge di approcciarsi a ogni pagina in modo nuovo: di girare il libro al contrario, di guardare le parole diventare immagini, di decifrare una lingua inconoscibile. Forse da questo possiamo riconoscere una grande scrittrice, e non da quanto i burocrati del canone ritengano valido o meno inserire il suo nome nei loro registri, ma dalla sua capacità di rifiutare così radicalmente ogni confine da portarci fuori dal testo, e anche se in qualche modo insieme, ognuna in una direzione diversa.
di Arianna Preite
Note
1] Dodie Bellamy, Digging Through Kathy Acker’s Stuff, citato in Chris Kraus, “Littoral Madness: On Kathy Acker”, the Paris Review, 22 agosto 2017, https://www.theparisreview.org/blog/2017/08/22/littoral-madness/
[2] Chris Kraus, “Littoral Madness: On Kathy Acker”, the Paris Review, 22 agosto 2017, https://www.theparisreview.org/blog/2017/08/22/littoral-madness/
[3] Garth Greenwell “The Wild, Remarkable Sex Scenes of Lydia Yuknavitch” in the New Yorker, 25 agosto 2015,https://www.newyorker.com/books/page-turner/the-wild-remarkable-sex-scenes-of-lidia-yuknavitch
[4] Kathy Acker citata in Alexandra Kleeman “The Future Is a Struggle: On Kathy Acker’s Empire of the Senseless”, the Paris Review, 12 giugno 2018, https://www.theparisreview.org/blog/2018/06/12/the-future-is-a-struggle-on-kathy-ackers-empire-of-the-senseless/
[5] Alexandra Kleeman “The Future Is a Struggle: On Kathy Acker’s Empire of the Senseless”, the Paris Review, 12 giugno 2018, https://www.theparisreview.org/blog/2018/06/12/the-future-is-a-struggle-on-kathy-ackers-empire-of-the-senseless/
[6] Lydia Yuknavitch “It’s a myth that suffering makes you stronger”, Ideas.Ted.Com, 24 ottobre 2017, https://ideas.ted.com/its-a-myth-that-suffering-makes-you-stronger/
In copertina, una fotografia di Kathy Acker scattata nel 1996 (Creative Commons Licence)
Si chiama ‘Pur sempre amore’, l’abbiamo lanciata qualche settimana fa, è unaCall for translators in cui vi invitiamo a esplorare, con le vostre traduzioni poetiche, le forme, i modi e le funzioni della scrittura d’amore contemporanea. Come l’odore del cibo fa venire fame, come chi è innamorato innamora, con queste editors’ picks vogliamo farvi venire l’acquolina in bocca. Vi offriamo una specie di Satura lanx, un piatto di primizie in cui troverete un po’ di tutto: l’inglese, il francese e lo spagnolo, ma anche il greco moderno e il polacco; il verso, il verso che va verso la prosa, e la prosa; amori mortiferi esagerati erotici sconsolati bizzarri materni. Eppure, per quanto diversificata, la nostra è una selezione di testi che non vuole esaurire, quanto piuttosto suggerire, provocare, invitare ad aggiungere…
Aliquot lineae desiderantur, ‘mancano alcune linee’, è la formula che i filologi utilizzavano per segnalare la presenza di una lacuna in un testo. “Desiderantur…desiderantur…desiderantur”, insiste anaforicamente Sanguineti nel primo tassello del suo Laborintus, lasciando intuire come la lacuna in questione non sia più soltanto testuale, ma si apra nel ventaglio di una polisemica mancanza.
Donne desideranti (e non solo desiderate), donne scriventi (e non solo scritte), donne amanti (e non solo amate), donne osservanti (e non solo osservate), per esempio: una lacuna nella storia ufficiale della letteratura occidentale. Così, tradurre le voci contemporanee di Sara Torres, Bronka Nowicka, Phoebe Giannisi, ma anche le meno contemporanee di Louise Bogan e Catherine Pozzi, è il nostro tentativo parziale di colmare questa mancanza, ma è anche un modo per farvi venire voglia di tradurre, un invito ad aggiungere i vostri amori ai nostri, le vostre voci alle nostre. Perchè “solo nel coro”, diceva Kafka, “può esserci una certa verità”.
Da Phantasmagoria (La Bella Varsovia, 2019) di Sara Torres, traduzione di Camilla Marchisotti
has construido un escritorio en tu habitación nueva. la única en la qué me acuesto sabiendo que será necesario desaparecer a la mañana siguiente. hay flores secas en jarrones de cristal distinto. otras no tan muertas todavía en violáceo. verde oscuro. copa con agua. segunda fotografía de alguien que podría ser tú. tu figura y la suya son similares. vuelvo a mirar atenta. debo entenderlo todo. he de ser certera afilada contemplar todas las pistas en el mapa del dolor. seguir hasta la extenuación hasta la extenuación. busco y me encuentro también en los objetos. deseo trazar la jerarquía. más restos que lleven a mí. adherida con cinta a la pared una moneda de cinco peniques con la que codiciamos en tiempos de derrumbe. solo unos días atrás. vamos a intentarlo ―y entonces la respuesta es no. será heroico y tozudo o no será. será grandilocuente ostentado burdeos o no será. no será si no basa su entereza en la creencia de la gran mentira. la ciega. la fe. la ciega. la fe. voy abajo hasta el poso naranja de las huellas frescas. voy al compost buceando palmas palas de arcilla rota. será caprichoso y hambriento. irrrumpiente y trastornado como el carro que desborda la velocidad de las bestias que iban tirando de él y las empuja a las esquinas del camino. flancos hacia arriba. mirando perplejas. será como el gesto de sorpresa en los ojos redondos y oscuros de las bestias súbitamente arremetidas o no será
hai costruito una scrivania nella tua stanza nuova. l’unica in cui dormo sapendo che dovrò sparire la mattina dopo. ci sono fiori secchi in vasi di diversi vetri. alcuni non ancora così morti in viola intenso. verde scuro. acqua nel bicchiere. seconda foto di qualcuno che potresti essere tu. la tua e la sua figura sono simili. guardo di nuovo attenta. devo capire tutto. devo essere precisa affilata contemplare ogni indizio sulla mappa del dolore. continuare fino all’estenuazione fino all’estenuazione. cerco e mi ritrovo anche negli oggetti. voglio tracciare la gerarchia. altri resti che conducano a me. appiccicata con il nastro alla parete una moneta da cinque pence con cui tanto abbiamo desiderato in tempi di rovina. appena qualche giorno fa. proviamoci ―allora la risposta è no. sarà eroico e ostinato o non sarà. sarà grandiloquente ostentato porpora o non sarà. non sarà se non basato interamente sulla credenza nella gran menzogna. quella cieca. la fede. quella cieca. la fede. scendo fino al residuo arancio delle tracce fresche. scavando verso il compost i palmi pale di argilla rotta. sarà capriccioso e affamato. dirompente e frastornato come il carro che sorpassa in velocità le bestie che lo tirano e le spinge ai lati della strada. pancia in su. sguardo perplesso. sarà come il gesto di sorpresa negli occhi tondi e oscuri delle bestie d’improvviso soggiogate o non sarà
Da Kodeks pomylonych (Biuro Literackie, 2020) di Bronka Nowicka, traduzione di Marta Wanicka
SERCE Serce im prostsze, tym lepsze. Nie wydziwiaj przy nim. Uszyj mieszek. Nie za słaby, bo pęknie, zbyt mocny stwardnieje. Skrój go z płótna, które kurczy się i oddycha. Uchwyć właściwą pojemność. Serce ma pomieścić najcenniejsze rzeczy. Po odłożeniu igły weź coś ulotnego. Jednym dmuchnięciem tchnij płochliwość w środek. Dorzuć głośno chodzący zegarek.
CUORE Il cuore più è semplice, meglio è. Non sbizzarrirti troppo. Cuci un borsellino. Non troppo debole, così scoppia, troppo forte poi diventa duro. Ritaglialo dal telo che si stringe e respira. Cogli la capienza giusta. Il cuore è fatto per tenere le più care cose. Dopo aver riposto l’ago prendi qualcosa di effimero. Con un soffio inspiragli l’istinto della fuga. Buttaci l’orologio che ticchetta forte.
OKO Kulkę kwiatu bawełny nasącz wodą. Już z tego możesz uzyskać nie najgorsze oko. O ile nada się do czułego opatrzenia rany, zachowaj je jako udane. Jeżeli będzie mogło tylko widzieć – wyrzuć.
OCCHIO Bagna una pallina di fiore di cotone. Già così può uscirne un occhio niente male. Se si presta a fasciare con cura una ferita, tienilo per buono. Se può solo vedere – buttalo.
USTA Usta wykop w ciele. Lej mleko w ten dół. Jeżeli płyn wsiąknie, to znaczy, że się przyjęły. Sprawdzaj, czy zamieszkał tam czerwony robak. Jeśli tak, uwiąż go do nory, by nie wyszedł dalej niż za krawędź. Codziennie pobudzaj obleńca do ruchu. Jeżeli okaże się leniwy, zrobiłeś paszczę. Lecz gdy robak zacznie się uwijać i otwór przemówi, dokonałeś ust ludzkich.
BOCCA Scava la bocca nel corpo. Versa del latte nella fossa. Se assorbe il liquido, vuol dire che ha attecchito. Controlla regolarmente se ci è andato a vivere un lombrico rosso. Se sì, legalo alla tana, in modo che non vada oltre il bordo. Ogni giorno stimola il verme a muoversi. Se viene fuori pigro, hai creato delle fauci. Ma se il lombrico comincia a dimenarsi e il buco parla, hai realizzato una bocca umana.
SZEPT Opakuj głos mówiący w aksamit, w którym ukryłeś listek celofanu. Podawaj zawiniątko przez wąską szczelinę.
SUSSURRO Avvolgi la voce parlante nel velluto in cui hai nascosto un foglietto di cellofan. Il pacchettino va servito da una fessura stretta.
SŁOWO Mowa jest niczym pokarm. Zawiera treść. Może krzepić jak cukier lub palić jak pieprz. Truje bądź odżywia. Dlatego tak wyrabiaj słowa, żeby podawane z ust do ust były jak świeże ryby, winne jabłka, miód.
PAROLA Il parlare assomiglia all’alimentazione. Contiene sostanza. Può rinvigorire come lo zucchero o bruciare come il pepe. Avvelena o nutre. Per questo, lavora le parole in modo che servite da labbra a labbra siano fresche come pesci, mele succose, miele.
SKŁADNIA Sztukę scalania słów poprzedzaj praktyką dotyku. Nim wypowiesz „miękka sierść”, długo trzymaj rękę na psim łbie.
SINTASSI All’arte di assemblare le parole fai precedere la pratica del tocco. Prima di dire “pelo morbido” tieni una mano poggiata a lungo sulla testa di un cane.
WIERSZ Uszyj brzuch. Umieść w nim embrion – zwitek czystej kartki. Przywiąż ciążę trokami i noś. Chodząc, kołysz. Kiedy poczujesz, że to już, przykucnij, przyj. W pęknięciu błyśnie główka, zmarszczone papierzątko. Przytul kukiełkę ze znamieniem pisma. Odczytaj z jej czoła pierworodny wiersz.
POESIA Cuci un ventre. Piazzaci un embrione – foglio bianco arrotolato. Allaccia la gravidanza con le cinghie e portala. Nel camminare, ondeggia. Quando senti che è arrivato il momento, accovacciati, spingi. Nella fessura risplenderà una testolina, un pezzetto di carta sgualcito. Abbraccia il pupazzetto macchiato di scrittura. Leggi dalla sua fronte la poesia primogenita.
Da Très Haut Amour. Poèmes et autres textes di Catherine Pozzi (ed. di Claire Paulhan e Lawrence Joseph, Gallimard, 2002), traduzione di Elena Strappato
N’ayant absolument plus aucun espoir Ne comptant, même plus, sur l’intelligence Comprenant que la gloire est pour les heureux ; Empêchée de vivre de ce corps foudroyé, Les amis étant morts, La science utile étant pour les vivants ; Objet d’étonnement à ceux qui passent, Scandale à ceux qui se contentent, Assise sans presque respirer, Elle travaille, Une rose au cœur.
Non avendo assolutamente più nessuna speranza Non contando più nemmeno sull’intelligenza, Preso atto che la gloria è per i felici; Impedita a vivere da questo corpo fulminato, Gli amici ormai morti, La scienza utile riservata ai vivi; Oggetto di stupore per i passanti, Scandalo per chi si accontenta, Seduta quasi senza respirare, Lei lavora, Una rosa al cuore.
Da Body of this Death: Poems (Robert M. McBride, 1923) di Louise Bogan, traduzione di Elena Strappato
“Epitaph for a Romantic Woman”
She has attained the permanence She dreamed of, where old stones lie sunning. Untended stalks blow over her Even and swift, like young men running.
Always in the heart she loved Others had lived,—she heard their laughter. She lies where none has lain before, Where certainly none will follow after.
“Epitaffio per una donna romantica”
Ha raggiunto la permanenza che sognava, dove vecchie pietre stanno al sole. Steli negletti le respirano accanto rapidi e compatti, simili a giovani in corsa.
Sempre nel cuore ha amato altri hanno vissuto – li ha sentiti ridere. Sta dove nessuno è mai stato dove è certo che nessuno seguirà.
Da ομηρικά (οmeriche, Kedros, 2007) di Phoebe Giannisi, traduzione di Vassilina Avramidi
“(Πηνελόπη ΙΙΙ)”
λατρεύει τα παιδιά της όταν ήταν μικρά από το πιάτο τελείωνε αυτή το φαγητό τους ακόμα τρώει τα υπολείμματα και τώρα πλέον φορά τα ρούχα της κόρης της από εκείνης ψηλότερης όταν τα έχει βρωμίσει και στο καλάθι τα αφήνει για πλύσιμο φορά τα καλτσάκια και πάει μ αυτά στη δουλειά τα λερωμένα δανείζεται άραγε κάνει οικονομία στις πλύσεις ή το φυλαχτό είναι ενεργό
μονάχα όταν κρατά από το σώμα το πιο δικό μας ίχνος των εκκρίσεων τη μυρωδιά;
“(Penelope III)”
adora i suoi figli quando erano piccoli lei stessa dal piatto finiva il loro cibo ancora mangia gli avanzi e adesso ormai porta i vestiti della figlia, più alta di lei quando sporchi li lascia nel cesto del bucato si mette i calzini e con questi va al lavoro prende in prestito quelli sudici sarà per risparmiare sui bucati oppure l’incantesimo rimane attivo
soltanto quando mantiene dal corpo traccia quella più nostra l’odore delle secrezioni?
“(Πηνελόπη IV)”
όταν γεννιέται ένα παιδί η τρυφερότητα ρέει όπως το γάλα απ’ τις ρώγες ο ουρανός καθαρός όπως τα μάτια του που θολά βλέπουν γεννιέται μεγάλο μέσα στο τόσο μικρό
ανοιχτό και κλειστό κάθε νεογέννητο ο Δίας στο άντρο του θηλάζει απ’ την κατσίκα το γάλα ανίσχυρο και για αυτό δυνατότερο όλων έτοιμο έχει στα χέρια του τον κόσμο
ξύπνησα μέσα στη νύχτα να μουρμουρίσω την αγάπη μου για αυτό τον αγώνα τη δύναμή του για ζωή
τις κάλτσες τα ρούχα του την δική μας ανίκητη μυρωδιά τον ήσυχο ύπνο του ένα απέραντο δώρο έπεσε πάλι από τα αστέρια
“(Penelope IV)”
quando nasce un bimbo la tenerezza cola come il latte dai capezzoli il cielo chiaro come i suoi occhi che guardano sfocati nasce grande dentro quel tanto piccolo
aperto e chiuso ogni neonato è Zeus nel suo antro prende il latte dalla capra impotente e perciò più forte di tutti pronto tiene nelle mani il mondo
mi sono svegliata nella notte a mormorare il mio amore per lui la sua gara la forza per la vita
i suoi calzini i vestiti il nostro invincibile odore il suo sonno quieto un altro regalo infinito caduto dalle stelle
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