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Tradurre poesia: un atto di amore?

Un’intervista a Bianca Tarozzi, a cura di Vassilina Avramidi e Elena Strappato

Mentre i countdown per le feste natalizie sono già iniziati, e tante finestrine dei calendari dell’avvento sono già state aperte, anche noi dell’Almanacco ritorniamo su alcuni dei momenti più belli che abbiamo condiviso durante il 2024. Ritorniamo alle giornate calde di giugno, quando abbiamo organizzato il Grisù Festival de Lo Spazio Letterario, in collaborazione con Porta Pratello e con la libreria indipendente Confraternita dell’Uva.

Con l’intervista a Bianca Tarozzi avvenuta durante il Grisù, si è chiuso un anno di lavori e collaborazioni sulla traduzione, e in particolare sul rapporto tra poesia e traduzione. Durante il 2024 abbiamo desiderato di incontrare traduttori e traduttrici per diversi motivi: certamente, per conoscere il punto di vista di chi traduce, considerandolo un punto di vista privilegiato, critico sul testo, ma anche per valorizzare il lavoro di chi traduce e per rivendicare il lavoro di traduzione come una forma di scrittura contemporanea.

Bianca Tarozzi è nata a Bologna e vive a Venezia. Ha insegnato letterature inglesi e angloamericane tra Verona, Venezia e Milano, e come traduttrice ha abitato la poesia americana, in particolar modo quella confessionale e i suoi nomi più rappresentativi come Robert Lowell, Sylvia Plath e Elizabeth Bishop. Ha tradotto anche la poesia di Emily Dickinson, A. E. Hausmann e Louise Glück, vincitrice del Premio Nobel del 2020. Come autrice e poeta, l’esordio di Bianca Tarozzi avviene con Nessuno vince il leone (Arsenale, 1988), una raccolta di riscritture al femminile dove ritroviamo, tra altre, figure note dalla mitologia greco-romana, come Arianna e Penelope. In questa intervista, Bianca ci racconta la sua esperienza in quanto traduttrice di due tra le opere più rilevanti di Louise Glück, Ararat e Meadowlands, in Italia pubblicate entrambi dal Saggiatore (2021 e 2023 rispettivamente).

Elena: Nel 2021, dopo la vittoria del Nobel di Louise Glück, il Saggiatore pubblica la tua traduzione di Ararat, che in realtà però è precedente; era già stata pubblicata nel 2012, in un numero monografico della rivista In forma di parole, curata da Gianni Scalia. In realtà, fino alla vincita del Nobel, Louise Glück era parecchio sconosciuta nel panorama italiano, a tal punto che giravano articoli dal titolo “Louise Glück chi?”… Considerando che tu provenivi da una poesia contemporanea americana come quella confessionale, e che la voce lirica di Louise Glück in qualche modo sfugge questa categorizzazione, vorremmo che ci racconti com’è avvenuto l’incontro con la poesia di Glück, e in particolare come sei arrivata a tradurre Ararat e Meadowlands?

Bianca: Partiamo dalla mia formazione in quanto americanista. Quando ancora frequentavo l’università a Venezia ho scritto una tesi su Robert Lowell, che penso sia l’unico o, meglio, quasi l’unico poeta americano che si occupi della storia americana, perché sia la Glück che altre importanti poetesse e scrittrici contemporanee nordamericane, come Mary Robinson e Anne Carson, non parlano della storia nella loro poesia. Lo stesso credo vale anche di molti poeti americani contemporanei. Ci sono, certo, alcune eccezioni, ma allora si tratta di newyorkesi, ebrei, che hanno una diversa consapevolezza della storia. Mentre dunque lavoravo su Robert Lowell ed Elizabeth Bishop, ho letto un libro della critica letteraria Helene Vendler, scomparsa recentemente, intitolato Part of Nature, Part of Us (Parte della natura, parte di noi), pubblicato nel 1980.[1] Lì, verso la fine del libro, c’era una parte dedicata sulla poesia di Glück. Allora ho pregato la mia sorella maggiore, filosofa che vive a New York, di farmi avere qualcosa della Glück. Quindi, per le vacanze di Natale del 1980, mi ha mandato proprio quel librino di Glück che Vendler aveva commentato nel suo grosso volume sulla poesia americana. A una prima lettura, mi è sembrato molto facile individuare le influenze di Glück. Già dalla prima poesia sua che ho letto, ho pensato a Silvia Plath, perché il suo verso era libero, drammatico, la tematica era gotica… aveva però un tema suo specifico, ed era quello – se vogliamo chiamarlo così – dell’anoressia. Louise Glück aveva avuto una formazione un po’ particolare: ha studiato alle scuole superiori, dopo però si è ammalata e ha avuto gravi problemi di salute (anoressia), come non ha seguito un curriculum “normale”, studiando, per esempio, in una facoltà di lettere. Quando dunque mi è arrivato questo libro, [n.d.r.: Descending Figure), io lo lessi con molto interesse, e pian piano che uscivano anche le opere successive, me le procuravo. Anni dopo, quando insegnavo letterature angloamericane all’Università di Verona, ho organizzato un convegno su Ulisse e Circe. A quel punto, Meadowlands, il libro in cui Glück riscrive in parte i personaggi di Ulisse, Penelope, Telemaco e Circe, era già uscito e lo conoscevo.

A questo punto occorrerebbe tornare un po’ indietro: già anni prima, quando facevo lezioni di poesia americana alla Ca’ Foscari, per il Novecento partivo da Ezra Pound e dal suo poemetto Hugh Selwyn Mauberley (tradotto in italiano da Giudici), dove Ulisse diventa l’emblema del poeta novecentesco. Dopo Pound, anche Lowell, sul quale io avevo fatto la tesi, ritorna sul personaggio di Ulisse, per rappresentare la sua storia biografica, esistenziale: nella sua poesia Penelope era la maschera per la seconda moglie, Circe per la terza. Bisogna dire di Lowell che tutte le sue mogli sono state scrittrici, romanziere o critiche letterarie – almeno su questo direi che abbia rivelato un certo buon gusto! La sua versione però di Ulisse e Circe è tremenda: la sua era una maga aristocratica, dell’ Atlanta del nord, che si, scriveva romanzi, ma era di una famiglia disastrata, figli, droghe… insomma, succedeva di tutto. Per Lowell, quel periodo è stato un disastro, ed è quello che racconta attraverso questa riscrittura del mito. Ciò che fuori dalla poesia invece è che Lowell decide di ritornare dalla seconda moglie, Elizabeth Hardwick, ma il nostos non avviene: il poeta è morto in taxi, proprio mentre tornava a New York, dalla sua Penelope. La mia traduzione dell’Ulisse di Lowell è stata pubblicata nel 1977, in una rivista di Gianni Scalia, qui a Bologna – dico una perché, ai quei tempi, Scalia si inventava delle riviste in continuazione, appena finiva una ne cominciava un’altra.

Sono partita quindi da Ulisse, ma certo Penelope mi ha sempre molto interessata. Qualche anno dopo, nel 1985, ho scritto le “Variazioni sul tema Penelope”, un poemetto piuttosto lungo di trecento versi, mi fu subito pubblicato – per alcuni, quel poemetto sarebbe la cosa migliore che ho scritto; io non sarei tanto d’accordo su questo, ma ognuno ha i propri gusti. Allora, in quel periodo, sul terzo programma della radio, leggevano l’Odissea nella meravigliosa traduzione di Aurelio Privitera, pubblicato presso la casa editrice Lorenzo Valla. Passavo quindi le mie mattine ascoltando l’Odissea e nel frattempo scrivevo la mia versione di Penelope. L’ho ambientata nella contemporaneità, aggiungendo una buona dose di elementi autobiografici. Telemaco, per esempio, era mia figlia e mi faceva delle domande veramente strane: «tu, mamma, c’eri quando nell’era dei dinosauri?»… Avendo quindi scritto io stessa una Penelope, dai toni in parte comici e in parte drammatici, quando è uscito Meadowlands, mi sono precipitata, l’ho tradotto tutto e Gianni Scalia mi ha subito fatto pubblicare tutto il libro nella rivista In forma di parole. Questa è la storia del mio incontro con Glück.

Vassilina: Come hai ben accennato, in Meadowlands Glück riscrive l’Odissea in chiave lirica. Scrive, sì, in verso libero, ma gioca tanto con la forma e cerca di riportare dentro un genere per eccellenza monologico come la lirica, l’elemento del dialogo. Nei suoi versi, il mito è un velo, e la famiglia di Itaca diventa un’analogia triangolare (Penelope-Ulisse-Telemaco vs Glück-marito-Noah) attraverso cui la poeta racconta la fine del suo matrimonio. Una poesia che trasmette i sentimenti dolceamari del divorzio e della rottura, una poesia piena di lutto non per la morte, bensì per la perdita di una vita matrimoniale che ha segnato la vita della scrittrice e il suo rapporto con il figlio. Come Glück, anche Penelope è una figura che vive nell’assenza dell’altro, che fa esperienza della perdita, e del lutto continuo – del resto, anche la stessa tela di Penelope è un’arma contro i pretendenti, radunati a Itaca a causa dell’assenza del marito, ed è un oggetto del lutto, un che Penelope prepara per la morte eminente del suocero Laerte; una morte che non avverrà all’interno dell’Odissea.

 Sentire il lutto per qualcosa che si è perso è anche un sentimento che ci riporta alla pratica della traduzione; pensiamo anche al termine “resa”, all’ “arrendersi” davanti al testo e ai possibili “intraducibili” della lingua di partenza. Facciamo un esempio: nella tua traduzione di Meadowlands hai scelto di lasciare il titolo uguale nella versione italiana, una decisione che abbiamo visto ripetersi anche nella traduzione in greco moderno, come anche in quella francese. Tale decisione è senz’altro giustificata, visto che Meadowlands è il nome dello stadio della squadra The Giants a New Jersey, un luogo-chiave in questo libro di Glück, che diventa tema centrale nei dialoghi lirici con il marito. Questa scelta però nasconde un altro significato nascosto nel titolo inglese: “meadowlands” sono, infatti, le terre dei “meadows”, parola che traduce il greco antico λειμών (il prato, il pascolo), luogo poetico già dai tempi dell’Odissea dove i «meadows» erano la casa delle Sirene. Questa, per esempio, è una connessione con Omero che il lettore italiano, greco, francese perde quando vede la parola «meadowlands».

Bianca: Allora, parliamo dei titoli e della strutturazione dei libri della Glück. Le sue poesie sono strutturate all’interno dei libri con un senso, con un’unità tematica, non sono poste cronologicamente man mano che le scriveva. Ararat, anche quello lasciato invariato nelle varie lingue, è un altro bel esempio della molteplicità di significati che si nascondono dietro i titoli della Glück: per la maggioranza dei lettori, Ararat è il monte dove si pose l’Arca di Noè, dopo l’alluvione; ma Ararat è anche un nome di un cimitero ebraico di Long Island, dov’è sepolto il padre della Glück, un personaggio centrale di questo libro. «Meadowlands» in inglese significa terreno a pascolo, ma è anche lo stadio. Questo è un punto tematico di scontro tra marito e moglie nel libro: per lui, i calciatori che giocano lì sono persone straordinarie, quasi eroi, mentre per lei, sono quasi dei delinquenti, degli energumeni. Addirittura, il personaggio di Penelope, attenta all’estrema cementificazione della zona, ride del nome dello stadio e lo paragona all’interno di un forno. Quindi i titoli della Glück sono sempre plurivalenti, indicando allo stesso tempo l’unità tematica dei libri.

Vassilina: Infatti, lo stadio dei Giants prende il suo nome proprio dai prati di New Jersey su cui è stato costruito, durante un periodo che ha segnato la zona per l’edificazione intensiva e la perdita di una dimensione più bucolica che la caratterizzava. Ritornando all’idea della perdita vorrei chiederti come ti sei approcciata a questo libro, e anche più generalmente, come ti approcci alla pratica della traduzione? Come riesci a mantenere i molteplici significati che ci sono all’interno dei versi e delle parole straniere, senza sentirti di perdere sempre qualcosa dall’originale?

Bianca: Ho recentemente pubblicato un libro sulla traduzione per Molesini, che si chiama Imitazioni.[3] Il titolo è un termine usato nel Settecento da traduttori inglesi, per es. da Dryden, perché si sono resi conto che una traduzione vera e propria è impossibile – addirittura, alcune volte è proprio impossibile tradurre. Poi la parola è diventata una tradizione, sia in Italia che negli Stati Uniti: un libro di Bertolucci si chiama così, come anche uno di Sinisgalli. Per non parlare poi delle Imitations di Robert Lowell, dove in realtà la voce poetica è tutta sua, non c’è nessuna fedeltà all’originale.[4] Per me, il problema delle traduzioni era dovuto al fatto che traduco poesia da sempre, ho cominciato appena ho potuto, partendo da Baudelaire per divertimento. Tradurre poesia è un atto di amore, perché la poesia interessa pochi. La vera sfida nella traduzione di poesia non è il ritmo, ma la struttura metrica, la rima… quelle non si possono tradurre. Ogni tanto uno può anche riuscirci, ma è raro. Le questioni, quindi, sarebbero due: la fedeltà al testo e il tentativo di costruire un ritmo, che non potrà, certo, essere proprio identico a quello del testo originale, ma che dovrà essere percepito come un ritmo.

Quando facevo le medie, studiavamo l’Iliade, e cioè leggevamo il testo omerico, ovviamente in traduzione. Quando invece mia figlia andava alle medie ha studiato l’epica antica in un modo tutto diverso: rispondevano a delle domande perlopiù teoriche come “cos’è un poema epico” e a imparare varie definizioni, senza fare esperienza diretta del testo omerico. La mia generazione – io sono del ’41 – ha avuto la gioia di leggere l’Iliade nella meravigliosa traduzione di Vincenzo Monti, completamente infedele, più lunga dell’originale, quindi per certi versi disastrosa. Il suo ritmo però è favoloso; del resto, anche Leopardi era apprezzata anche da Leopardi.

Se quindi accettiamo che una delle maggiori sfide nella traduzione di poesia è quella della struttura ritmica, con la Glück questo problema non si pone: il suo è un verso libero. Ciò che costruisce il ritmo nella Glück è la semplicità, la chiarezza, la laconicità della frase e della struttura sintattica. Lei dice addirittura che non adopera nessuna parola che un bambino non potrebbe capire. Si tratta dunque di una poesia comunicativa, non difficile da tradurre salvo che per delle questioni culturali: per es., meadowlands non vuol dire nulla per un italiano, mentre per un americano evoca immediatamente lo stadio. Io non ho trovato delle grandi difficoltà. Ho tradotto prima Ararat perché l’ho trovato più facile, mentre Meadowlands, anche per via della presenza di dialoghi, ha un linguaggio più complicato: da un lato, è un inglese colloquiale, parlato dagli americani, dall’altro è elegante; due cose che sembrano contraddirsi, e invece Glück riesce miracolosamente a costruire un linguaggio conciso, elegante, perfettamente chiaro e comprensibile, con una struttura sintattica interessante, e quindi con una ritmicità. Non ha però né la metrica, né la musica.

Vassilina:La musica è però presente in Meadowlands lungo tutto il libro, attraverso citazioni o invocazioni. Già nell’esergo, la coppia dei protagonisti comincia un gioco: «– Giochiamo a scegliere la musica. La forma preferita. – L’opera lirica. – La tua preferita. – Figaro. No. Figaro e Tannhauser. Ora tocca a te: cantamene una.» Si parte, dunque, dall’opera e si procede con la prima poesia del libro, intitolata «Penelope’s Song», «La canzone di Penelope», dove l’eroina si stacca dalla sua anima, e le chiede di cantare una canzone al marito perché ritorni.

Bianca: Io nel primo verso di questa poesia, «little soul», «piccola anima», vedo un chiaro riferimento all’ «animula vagula blandula» di Adriano. Infatti, avevo tradotto «little soul» con «animula», ma la casa editrice ha scelto diversamente.

Vassilina: E alle perdite si ritorna, quindi… Le referenze musicali in Meadowlands arrivano fino alla musica kletzmer, un genere musicale ebraico proveniente dall’Est Europa, tanto conosciuto a New York e generalmente negli Stati Uniti, che di solito viene scelto per le feste e i matrimoni ebraici durante gli anni in cui Meadowlands viene scritto. La Penelope di Glück, invece, esprime il desiderio di cantare una «accattivante / innaturale canzone – appassionata come Maria Callas» («La Canzone di Penelope»). La tua Penelope, dall’altra parte, fa i conti con l’epica, e anche se trovi che l’endecasillabo sia «una muffa», scrive comunque in endecasillabi, nonostante alcuni siano spezzati, e altri nascosti tra enjambements. Vorrei dunque chiederti: che legami vedi tra Penelope, la musica e la metrica e qual è il tuo rapporto personale metrica e con l’endecasillabo?

Bianca: Mentre nella poesia modernista del Novecento Ulisse è il poeta, nella poesia della Glück il poeta è Penelope – come lo è anche la mia, che scrive e traduce. Per quanto riguarda l’endecasillabo invece, la poesia dell’Ottocento inglese, mi viene in mente in particolare Tennyson, quella era una poesia così cantata, così musicale, che il Novecento ha dovuto reagire contro questa musica del metro. Anche Pound però, che ha preferito il verso libero, dice «there isn’t such a thing as free verse», «non esiste il verso libero», perché anche nel verso libero ci dev’essere un ritmo; se non c’è un ritmo, allora è semplicemente prosa. C’è chi ha molto criticato la Glück, dicendo «come mai quell’articolo su Persefone [n.d.r.: Averno] va sempre a capo»? La risposta è semplice, perché è poesia. Il ritmo della Glück è argomentativo. La poesia di Meadowlands ha come tema, tra altri, la musica, ma non è una raccolta di canzoni. Il suo è un lavoro quasi più simile a un’opera teatrale, con i personaggi che confliggono tra loro. Telemaco, per es., ha un ruolo centrale: è il figlio scisso tra due genitori completamente diversi. Il marito della Glück era un atleta, un professore di ginnastica, non era per caso che gli piaceva il calcio; era forse prevedibile che il matrimonio non potesse funzionare tanto bene. La struttura è dunque drammatica, un pensiero che si snoda ed esamina i pro e i contro di una relazione destinata a finire.

Per parlare del mio rapporto con l’endecasillabo tornerei ancora all’Iliade di Vincenzo Monti e all’influenza che ha avuto su di me – dovremmo anche considerare che allora si imparavano pezzi di poesia a memoria. L’endecasillabo è connaturato nella nostra tradizione, però nel mio caso si tratta di un endecasillabo terremotato: gioco con il verso lungo quello verso breve, endecasillabo e settenario, un’alternanza che troviamo già in Dante, Petrarca, Tasso, e via dicendo. Milton copia dall’Italia, l’endecasillabo influisce sulla poesia inglese del Cinquecento, perché leggono Petrarca e dopo viene creato il pentametro giambico. Il mio endecasillabo cerca di diversificare il ritmo, si spezza, in modo da evitare questa “cantilena” che risulta poco accettabile nella poesia del Novecento.

Elena: Tornando sui due libri della Glück che hai tradotto, Ararat e Meadowlands, noi abbiamo individuato un filo comune: entrambi questi libri sono pervasi dal lutto. Certo, parlando di perdite diverse. In Meadowlands c’è la perdita dell’eros, dell’intimità coniugale tra due sposi; c’è la lontananza di Ulisse da Penelope come anche la crisi, la fine di un matrimonio. In Ararat il lutto è prima di tutto familiare: vi ci troviamo il resoconto poetico di vicende familiari che forma un intreccio quasi narrativo, romanzesco. Allo stesso tempo questi due libri che cantano della perdita, sembra ragionino sul desiderio. Nell’epigrafe di Ararat troviamo una citazione da Platone: «il desiderio è la ricerca per l’intero; si chiama amore». Il tema della perdita in Ararat non è legato solo alla perdita del padre, ma anche all’amore difficilissimo che univa la Glück con la sorella; due sorelle tanto diverse, che ricordano in parte le opposing forces di Ulisse e Penelope in Meadowlands. Il desiderio come portatore di lutto, di perdita, ci ha fatto venire in mente la Canadese classicista, scrittrice e poeta Anne Carson, che definisce l’eros come perdita, mancanza e lutto. Per Carson l’esperienza erotica del desiderio come caratteristica dell’amante, del mancante (colei che non ha) e del sapiente (colei che sa di non sapere?) – un po’ come fa Penelope in Meadowlands. Dalla tua esperienza di questi due testi, c’è qualche riflessione che intreccia in entrambi desiderio, perdita, e ricerca di una voce creativa?

Bianca: Se pensiamo di nuovo al titolo Ararat, c’è una terza connessione che dovremmo aggiungere alle due precedenti, menzionate prima: nella radice ebraica, «ararat» vuol dire salvezza. Sarà dunque l’inevitabile ricerca dell’intero possibile? Dopo, un tema importantissimo di questo libro è vero, è il rapporto complicatissimo tra le due sorelle. Si tratta di una insopportabilità che ha una lunga tradizione: nella scrittura biblica, il primogenito è sempre cattivo; il secondogenito, invece, gode di una maggiore libertà, forse addirittura felicità. Il primogenito è condannato all’invidia. Il personaggio di Glück in Ararat confessa la sua invidia, è onesta ed esplicita. Avendo io stessa una sorella maggiore, ero molto interessata a indagare meglio sul racconto di Glück di questo rapporto tra sorelle.

Per quanto riguarda invece la perdita, questo penso sia il tema di tutta la poesia. Ci tengo a citarvi almeno due casi. Elizabeth Bishop ha scritto una poesia intitolata «The Art of Losing», dove dice: «the art of losing isn’t hard to master», «l’arte di perdere non è difficile da padroneggiare» – del resto, questo è destino comune di tutto il genere umano. La poesia vuole conservare ciò che si perde, fermare l’attimo, congelare l’emozione. Qui ritorno ancora a Pound, che parla della poesia come «frozen emotion», «emozione ghiacciata, fermata, trattenuta». Emily Dickinson, invece, in una sua poesia ci ricorda come «la percezione di un oggetto costa precisamente la perdita dell’oggetto», cioè, se hai l’oggetto, sei contento, non hai bisogno di scrivere dell’oggetto. Sul tema della perdita ho scritto una poesia che si chiama «Orchidee impossibili», che finisce così: «io, invece, al posto della cosa, ho la figura. Non solo una, due. Ciascuna mi sollecita tentare un’arte non banale, una linea sottile. Io, che non so curare una vera orchidea, mi prendo cura delle immagini. Vive nella mente, indugiano, ritornano. Così vivo di niente. È come tessere una tunica di anemoni, con un filo di ragno, con le ortiche, raffigurare quello che non c’è o almeno non è qui. E ti chiedi perché puoi farlo, e poi perché, soprattutto perché non puoi non farlo». Potremmo chiederci, «perché fermare l’attimo?», ma questa è una vocazione, e non si può evadere.


[1] Helen Vendler, Part of Nature, Part of Us: Modern American Poets (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1996).

[2] La turbolente relazione tra Lowell e Hardwick viene rispecchiata nella loro corrispondenza, pubblicata recentemente nel volume The Dolphin Letters 1970-1979: Elizabeth Hardwick and Robert Lowell, The Dolphin Letters 1970-1979, ed. Saskia Hamilton (London: Faber & Faber, 2020).

[3] Bianca Tarozzi, Imitazioni (Venezia: Molesini editore, 2023).

[4] Robert Lowell, Imitations (New York: Noonday Press, 1990).

Crush: poesia e frantumaglia in Richard Siken

Traduzioni a cura di Milo Lamanna, Irene Russo e Elena Strappato

Cosa sia la crush che dà titolo alla raccolta di Richard Siken non è facile da spiegare. Alla più comune accezione di infatuazione, innamoramento ai limiti dell’ossessione, lo scheletro delle poesie che leggete in traduzione, si accompagna quella dell’urto, della pressione violenta sulla materia, umana e non, i cui frantumi sparsi premono per uscire dalla memoria sulla carta. Ha qualcosa a che vedere con il concetto di “frantumaglia” di Elena Ferrante. Definita concretamente come «una folla di materiali incoerenti, di rottami», la frantumaglia è anche suono, «un ronzio in crescendo e uno sfaldamento a vortice di materia viva e materia morta». È «un ancoraggio per la nostra vita» che segue al senso della perdita «quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo» è destinato a unirsi «a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere»; «la parola per un malessere non altrimenti definibile» che rimanda a «una folla di cose eterogenee nella testa, detriti su un’acqua limacciosa del cervello». Dove Ferrante però procede in un costante ritaglio tra chi perde e chi è perduto, Siken dispone questi frammenti in cerchio, murando sé e i ricordi all’interno della propria ossessione, fino alla spettacolarizzazione di questa (complice la parallela attività di filmmaker).

Nella prefazione all’edizione del 2019 di Crush Louise Glück dice della poesia di Siken: «[Crush] è il miglior esempio che si possa dare di profonda selvaticità che è al tempo stesso completamente intelligibile». Glück non fa riferimento a una comprensione intellettuale e razionale delle poesie di Crush, ma a un’identificazione che ha più a che fare col farsi colpire – o trafiggere – da questi versi. Leggere Siken vuol dire esporsi alla violenza che trasuda, sofferta o inflitta, da ogni poesia di questa raccolta. Per quanto sia pervasiva e costante, la violenza non è mai data per scontata, e quando non è nominata apertamente è inflitta a chi legge attraverso una metrica ossessiva e frenetica, che non lascia scampo. L’effetto è immersivo e claustrofobico – una lettura ad alta voce con un microfono troppo alto, un feedback acuto – per Glück: «pura improvvisazione maniacale».

Pur non lasciando spiragli per respirare, Siken concede brevi istanti di chiarezza e trasparenza, dove il terrore e il panico incalzante lasciano spazio a momenti luminosi; per un attimo ci sembra di poter guardare tutto dall’alto, solo per un secondo:

[…] che ci riporta
 alle spalle dell’eroe e alla dolcezza che viene
 non dall’assenza di violenza, ma a discapito
 della sua abbondanza.

Se leggere le poesie di Crush significa esporsi al loro potenziale distruttivo, tradurle significa attivare un processo opposto: raccogliere i frantumi e ricomporli. Abbiamo cercato di mantenerci il più possibile aderenti al testo e di restituire le sensazioni fisiche scatenate dall’andamento sincopato delle poesie che abbiamo scelto. 


Da Crush (yALE university press, 2019) di richard siken

The Torn-Up Road

There is no way to make this story interesting.

A pause, a road, the taste of grave in the mouth. The rocks dig into my skin

        like arrowheads.

And then the sense of being smothered underneath a sack of lentils
                 or potatoes, or of a boat at night slamming into the docks again

                                                        without navigation, without consideration,

heedless of the plank of wood that are the dock,

                                                                        that make up the berth itself.

2

   I want to tell you this story without having to confess anything,

without having to say that I ran out into the street to prove something,

                                                                                that he didn’t love me,

that I wanted to be thrown over, possessed.
                                     I want to tell you this story without having to be in it:

Max in the wrong clothes. Max at the party, drunk again.
Max in the kitchen, in refrigerator light, his hands around the neck of a beer.

                                                       Tell me we’re dead and I’ll love you even more.

I’m surprised that I say it with feeling.
        There’s a thing in my stomach about this. A simple thing. The last rung.

3

Can you see them there, by the side of the road,

                                                                                 not moving, not wrestling,

making a circle out of the space between the circles? Can you see them

     pressed into the gravel, pressed into the dirt, pressing against each other

in an effort to make the minutes stop —

                        headlights shining in all directions, night spilling over them like

gasoline in all directions, and the dark blue over everything, and them

                                                                                           holding their breath –

4

I want to tell you this story without having to say that I ran out into the street

                                             to prove something, that he chased after me

               and threw me into the gravel.
And he knew it wasn’t going to be okay, and he told me

                                                                                    it wasn’t going to be okay.

And he wouldn’t kiss me, but he covered my body with his body

       and held me down until I promised not to run back out into the street again.

But the minutes don’t stop. The prayer of going nowhere

                                                                                                        going nowhere.

5

His shoulder blots out the starts but the minutes don’t stop. He covers my body

                 with his body but the minutes

don’t stop. The smell of him mixed with creosote, exhaust —
                                             There, on the ground, slipping through the minutes,

trying to notch them. Like taking the same picture over and over, the spaces

      in between sealed up —

Knocked hard enough to make the record skip
                                     and change its music, setting the melody on its

forward course again, circling and circling the center hole in the flat black disk.

             And words, little words,

words too small for any hope or promise, not really soothing
                                                                                   but soothing nonetheless.

La strada spezzata

1

Non c’è modo di rendere questa storia interessante.

Una tregua, una strada, il sapore di ghiaia nella bocca. Le pietre mi scavano la pelle

            come punte di freccia.

E poi sentirsi soffocati da un sacco di lenticchie

o di patate, o una barca notturna che sbatte di nuovo contro il molo

                                                           senza navigazione, senza valutazione,     

incurante delle assi di legno che sono il molo

                                                                      che compongono l’ormeggio.

2

Voglio raccontarti questa storia senza dover confessare nulla,

senza dover dire che uscii in strada correndo per dimostrare qualcosa,

                                                                                                    che lui non mi amava,    

che io, posseduto, volevo farmi lasciare.

                        Voglio raccontarti questa storia senza che io ci debba essere:

Max in abiti sbagliati. Max alla festa, di nuovo ubriaco.

Max in cucina, alla luce del frigo, le mani sul collo di una birra.

                                                           Dimmi che eri morto e ti amerò persino di più.

Dirlo con sentimento mi stupisce,

È qualcosa nel mio stomaco. Una cosa semplice. L’ultimo gradino.

3

Li vedi laggiù, sul ciglio della strada,

                                                           non si muovono, non fanno la lotta,

creano un cerchio nello spazio tra i cerchi? Li vedi

            schiacciati nella ghiaia, schiacciati nel fango, schiacciandosi l’uno contro l’altro

nello sforzo di fermare i minuti —

                                   i fari fanno luce in ogni direzione, la notte si rovescia su di loro

simile a benzina in ogni direzione, e il blu scuro sopra ogni cosa, e loro

                                                                                   trattengono il respiro –

4

Voglio raccontarti questa storia senza dover dire che uscii in strada correndo

                                               per dimostrare qualcosa, che lui mi rincorse

e mi spinse nella ghiaia.

E sapeva che non sarebbe finita bene, e mi disse

                                                                             che non sarebbe finita bene.                                

E non mi baciò ma ricoprì il mio corpo con il suo corpo

e mi trattenne fino a quando non promisi di non correre più in strada.

Ma i minuti non si fermano. Non andava da nessuna parte la preghiera

                                              di non andare da nessuna parte.

5

La sua spalla cancella le partenze ma i minuti non si fermano. Copre il mio corpo

                        con il suo corpo ma i minuti

non si fermano. Il suo odore misto al creosoto, vapore di scarico –

                                                            Lì, a terra, scivolando tra i minuti,

provando a intaccarli. Come scattare la stessa foto di continuo,

                                  gli interstizi sigillati –

Un colpo abbastanza forte da far saltare il disco

                                              e cambiargli la musica, riportando la melodia

di nuovo al suo inizio, girando, girando ancora intorno al foro del disco piatto e nero.

                                   E le parole, piccole parole,

parole troppo piccole per ogni speranza o promessa, che non sono davvero di conforto

                                                                                                        ma di conforto comunque. 


Litany in Which Certain Things Are Crossed Out

Every morning the maple leaves.
                              Every morning another chapter where the hero shifts

         from one foot to the other. Every morning the same big

and little words all spelling out desire, all spelling out

                                            You will be alone always and then you will die.

So maybe I wanted to give you something more than a catalog

       of non-definitive acts,

something other than the desperation.
                 Dear So-and-So, I’m sorry I couldn’t come to your party.

Dear So-and-So, I’m sorry I came to your party

        and seduced you

and left you bruised and ruined, you poor sad thing.
                                                         You want a better story. Who wouldn’t?

A forest, then. Beautiful trees. And a lady singing.
                  Love on the water, love underwater, love, love and so on.

What a sweet lady. Sing lady, sing! Of course, she wakes the dragon.

            Love always wakes the dragon and suddenly

                                                                               flames everywhere.

I can tell already you think I’m the dragon,
              that would be so like me, but I’m not. I’m not the dragon.

I’m not the princess either.
                             Who am I? I’m just a writer. I write things down.

I walk through your dreams and invent the future. Sure,
      I sink the boat of love, but that comes later. And yes, I swallow

glass, but that comes later.

                                           And the part where I push you
flush against the wall and every part of your body rubs against the bricks,

           shut up

I’m getting to it.

                                  For a while I thought I was the dragon.
I guess I can tell you that now. And, for a while, I thought I was

                                                                                                the princess,

cotton candy pink, sitting there in my room, in the tower of the castle,

           young and beautiful and in love and waiting for you with

confidence

            but the princess looks into her mirror and only sees the princess,

while I’m out here, slogging through the mud, breathing fire,

                                                             and getting stabbed to death.

                                Okay, so I’m the dragon. Bid deal.

       You still get to be the hero.
You get the magic gloves! A fish that talks! You get eyes like flashlights!

                  What more do you want?
I make you pancakes, I take you hunting, I talk to you as if you’re

            really there.
Are you there, sweetheart? Do you know me? Is this microphone live?

                                                       Let me do it right for once,
               for the record, let me make a thing of cream and stars that becomes,

you know the story, simply heaven.
                 Inside your head you hear a phone ringing

                                                           and when you open your eyes

only a clearing with deer in it. Hello deer.

                               Inside your head the sound of glass,
a car crash sound as the trucks roll over and explode in slow motion.

           Hello darling, sorry about that.
                                                     Sorry about the bony elbows, sorry we

lived here, sorry about the scene at the bottom of the stairwell
                                     and how I ruined everything by saying it out loud.

              Especially that, but I should have known.
You see, I take the parts that I remember and stitch them back together

          to make a creature that will do what I say

or love me back.

                 I’m not really sure why I do it, but in this version you are not

feeding yourself to a bad man

                                      against a black sky prickled with small lights.

            I take it back.
The wooden halls like caskets. These terms from the lower depths.

                                             I take them back.

Here is the repeated image of the lover destroyed.

                                                                                Crossed out.
             Clumsy hands in a dark room. Crossed out. There is something

underneath the floorboards.
                  Crossed out. And here is the tabernacle

                                                                            reconstructed.
Here is the part where everyone was happy all the time and we were all

            forgiven,
even though we didn’t deserve it.

                                                       Inside your head you hear
a phone ringing, and when you open your eyes you’re washing up

         in a stranger’s bathroom,
standing by the window in a yellow towel, only twenty minutes away

                           from the dirtiest thing you know.
All the rooms of the castle except this one, says someone, and suddenly

                                                                             darkness,

                                                                       suddenly only darkness.

In the living room, in the broken yard,
                         in the back of the car as the lights go by. In the airport

    bathroom’s gurgle and flush, bathed in a pharmacy of

unnatural light,

           my hands looking weird, my face weird, my feet too far away.

And the airplane, the window seat over the wing with a view

                                            of the wing and a little foil bag of peanuts.

I arrived in the city and you met me at the station,

         smiling in a way
              that made me frightened. Down the alley, around the arcade,

           up the stairs of the building
to the little room with the broken faucets, your drawings, all your things,

                                               I looked out the window and said

                  This doesn’t look that much different from home,

            because it didn’t,
but then I noticed the black sky and all those lights.

                                    We walked through the house to the elevated train.

            All these buildings, all that glass and the shiny beautiful

                                                                         mechanical wind.
We were inside the train car when I started to cry. You were crying too,

          smiling and crying in a way that made me
even more hysterical. You said I could have anything I wanted, but I

                                                                    just couldn’t say it out loud.

Actually, you said Love, for you,
                             is larger than the usual romantic love. It’s like a religion. It’s

                                                                              terrifying. No one
                                                              will ever want to sleep with you.

Okay, if you’re so great, you do it—
               here’s the pencil, make it work . . .

If the window is on your right, you are in your own bed. If the window

            is over your heart, and it is painted shut, then we are breathing

river water.
          Build me a city and call it Jerusalem. Build me another and call it

                                                                                           Jerusalem.

            We have come back from Jerusalem where we found not

what we sought, so do it over, give me another version,
           a different room, another hallway, the kitchen painted over

and over,
            another bowl of soup.

The entire history of human desire takes about seventy minutes to tell.

              Unfortunately, we don’t have that kind of time.

                                                                              Forget the dragon,

leave the gun on the table, this has nothing to do with happiness.

                                          Let’s jump ahead to the moment of epiphany,

               in gold light, as the camera pans to where

the action is,
                lakeside and backlit, and it all falls into frame, close enough to see

                                              the blue rings of my eyes as I say

                                                                                   something ugly.

I never liked that ending either. More love streaming out the wrong way,

               and I don’t want to be the kind that says the wrong way.
  But it doesn’t work, these erasures, this constant refolding of the pleats.

                                                There were some nice parts, sure,

all lemondrop and melon ball, laughing in silk pajamas

            and the grains of sugar
on the toast, love love or whatever, take a number. I’m sorry

                                               it’s such a lousy story.

Dear Forgiveness, you know that recently
                  we have had our difficulties and there are many things

                                                                         I want to ask you.

I tried that one time, high school, second lunch, and then again,

           years later, in the chlorinated pool.
                              I am still talking to you about help. I still do not have

             these luxuries.
I have told you where I’m coming from, so put it together.

                                            We clutch our bellies and roll on the floor . . .

              When I say this, it should mean laughter,

not poison.

                  I want more applesauce. I want more seats reserved for heroes.

Dear Forgiveness, I saved a plate for you.

                                          Quit milling around the yard and come inside.

Litania di alcune cose con una croce sopra

Ogni mattina le foglie d’acero. 

                        Ogni mattina un altro capitolo dove l’eroe si sposta

            da un piede all’altro. Ogni mattina le stesse grandi

e piccole parole tutte a scandire desiderio, tutte a scandire

                                                     Sarai solo sempre e dopo morirai.

Per questo forse volevo darti qualcosa di più che un catalogo

di atti non definitivi,

qualcosa di diverso dalla disperazione.

          Caro Tal dei Tali, mi dispiace non essere venuto alla tua festa.

Caro Tal dei Tali, mi dispiace essere venuto alla tua festa

   e averti sedotto

e abbandonato, livido e malridotto, tu, povera triste creatura.

                                    Vuoi una storia migliore. Chi non la vorrebbe?

Una foresta, allora. Alberi bellissimi. E una dama che canta.

  Amore sull’acqua, amore sott’acqua, amore, amore eccetera.

Che dolce dama! Canta, dama, canta! Certo, sveglia il drago.

L’amore sveglia sempre il drago e a un tratto

                                                                               fiamme dappertutto.

So già che pensi che il drago sono io, 

 che sarebbe proprio da me, ma non lo sono. Non sono io il drago.

Non sono nemmeno la principessa.

                             Chi sono? Sono solo uno scrittore. Scrivo le cose.

Cammino attraverso i tuoi sogni e invento il futuro. Senza dubbio

   affondo la barca dell’amore, ma quello viene dopo. E sì, ingoio

vetro, ma questo viene dopo.

                                               E la parte dove ti spingo

dritto contro il muro e ogni parte del tuo corpo sfrega sui mattoni,

            zitto

ci sto arrivando.

                        Per un po’ ho creduto di essere io il drago.

Forse ora posso dirlo. E per un po’ ho creduto di essere io

                                                                                   la principessa,

rosa confetto, seduta lì nella mia stanza, nella torre del castello,

        giovane e bella e innamorata e aspettandoti con

      sicurezza

ma la principessa guarda nello specchio e vede solo la principessa,

mentre io sono qui fuori, mentre mi trascino nel fango, respiro fuoco,                                                                                            

                                                                      e sono pugnalato a morte.

            Okay, così io sono il drago. Che grande affare.

   Puoi comunque essere l’eroe.

Avrai i guanti magici! Un pesce parlante! Avrai due occhi come torce!

                        Cosa vuoi di più?

Ti faccio i pancake, ti porto a caccia, ti parlo come se ci fossi

            davvero.

Ci sei, tesoro? Mi conosci? Questo microfono funziona?

                                    Lasciami fare la cosa giusta per una volta,

per la cronaca, lasciami creare una cosa di panna e stelle che sia,

la sai la storia, semplicemente divina.

            Dentro la tua testa senti squillare un telefono

                                               e quando apri i tuoi occhi

solo una radura con un cervo. Ciao cervo.

                        Dentro la tua testa il suono del vetro,

il suono dello schianto mentre i camion si ribaltano ed esplodono

[al rallentatore.

Ciao caro, mi dispiace.

                                   Mi dispiace per i gomiti ossuti, mi dispiace

se abbiamo vissuto qui, mi dispiace per la scena sulla tromba delle scale

                    e di come ho rovinato tutto dicendo quella cosa a voce alta.

Di questo in particolare, ma avrei dovuto sapere.

                        Vedi, prendo le parti che ricordo e le ricucio insieme

                        per fare una creatura che farà quello che le dico

o che ricambierà il mio amore.

            Non capisco bene perché, ma in questa versione non sei tu

a darti in pasto a un uomo cattivo

                                      contro un cielo nero pizzicato da piccole luci.

            Me la rimangio.

Sale in legno simili a bare. Termini dagli abissi più profondi.

                                               Me li rimangio.

Ecco l’immagine ripetuta dell’amante distrutto.

                                                                                   Una croce sopra.

                        Mani goffe in una stanza buia. Una croce sopra. C’è qualcosa

sotto al pavimento di legno.

                      Una croce sopra. E qui è la nicchia                                                                               

                                                                  ricostruita.

Ecco la parte dove tutti erano felici tutto il tempo e noi eravamo tutti

                        perdonati,

anche se non lo abbiamo meritato.

                                               Puoi sentire nella testa

un telefono che squilla, e quando riapri gli occhi ti stai lavando

            nel bagno di uno sconosciuto

appoggiato alla finestra in un asciugamano giallo, a soli venti minuti

           dalla cosa più sporca che conosci.

Tutte le stanze del castello a parte questa, dice qualcuno, e a un tratto

                                               il buio,

                                   a un tratto solo il buio.

Nel salone, nel cortile sconnesso,

             dietro una macchina mentre passano le luci. Nel borboglio

               dello scarico del bagno all’aeroporto, immersi in una farmacia

di luce innaturale,

      le mie mani sembrano strane, la mia faccia strana, i miei piedi troppo distanti.

E l’aeroplano, il posto al finestrino sopra l’ala, vista

                              ala e un pacchetto di noccioline in alluminio.

Sono arrivato in città e ti ho incontrato alla stazione,

            sorridevi in un modo

            che mi ha intimorito. In fondo al vicolo, intorno al portico,

 in cima alle scale del palazzo

fino alla piccola stanza coi rubinetti rotti, i tuoi disegni, tutte le tue cose,

                                               ho guardato fuori alla finestra e ho detto

                        Non sembra così diverso da casa

   perché davvero non lo era,

poi però ho notato il cielo nero e tutte quelle luci.

                          Siamo passati attraverso la casa fino alla sopraelevata.

Tutti questi palazzi, tutto quel vetro e quello splendido

                                                                             vento meccanico.

Eravamo al vagone quando ho iniziato a piangere. Piangevi anche tu,

            sorridendo e piangendo così da farmi diventare

ancora più isterico. Hai detto che potevo avere tutto quello che volevo, ma io

                                                proprio non riuscivo a dirlo ad alta voce.

In verità hai detto, L’amore, per te,

                   è più grande del solito amore romantico. È una religione. È

                                                                       terrificante. Nessuno

                                                            vorrà mai venire a letto con te.

Ok, se tu sei così bravo, fallo tu –

ecco la matita, fallo funzionare…

Se hai la finestra sulla destra, sei nel tuo letto. Se la finestra

                   è sul tuo cuore, sigillato, allora respiriamo

acqua di fiume.

             Fai per me una città e chiamala Gerusalemme. Fanne un’altra e chiamala

                                                                                           Gerusalemme.

                 Torniamo da Gerusalemme dove non abbiamo trovato

quello che cercavamo, quindi falla da capo, dammi un’altra versione,

                  una stanza diversa, un altro corridoio, la cucina ridipinta

e così via,

                        un altro piatto di zuppa.

Occorrono settanta minuti per raccontare l’intera storia del desiderio umano.

                        Purtroppo, non abbiamo tutto questo tempo.

                                                                       Dimentica il drago,

lascia il fucile sul tavolo, questo non ha nulla a che fare con la felicità.

                                Buttiamoci a capofitto nel momento dell’epifania,

nella luca dorata, mentre la videocamera segue dove si muove

l’azione

           sulla sponda del lago e in controluce, e tutto ricade dentro l’inquadratura, abbastanza vicino per [vedere

               gli anelli blu dei miei occhi mentre dico

                                                     qualcosa di brutto.

Non mi è mai piaciuto nemmeno quel finale. Altro amore che scorre nel verso sbagliato

                        senza essere il tipo che dice nel verso sbagliato.

Ma non funziona, queste cancellature, questo costante ripiegarsi delle pieghe.

                                   Le parti belle non sono certo mancate,

tutte caramelle al limone e succo di melone, ridendo nel pigiama di seta

            e i granelli di zucchero

   sul toast, amore amore o non importa, prendi un numero. Mi dispiace

                                                                           è una storia così triste.

Caro Perdono, sai che di recente

                 abbiamo avuto le nostre difficoltà e ci sono molte cose

                                                                che vorrei chiederti.

Ci ho provato quella volta, a scuola, la seconda colazione, e poi ancora,

            anni dopo, nella piscina di cloro.

                        Ti parlo ancora di aiuto. Non ho ancora

questi lussi.

Ti ho detto da dove provengo, fai due più due.

                        Stringiamo i nostri ventri e rotoliamo sul pavimento

Quando lo dico, dovrebbe suscitare una risata,

non avvelenare.

                     Ne voglio ancora di salsa alle mele. Voglio più posti riservati agli eroi.

Caro Perdono, ho messo da parte un piatto per te.

                        Smettila di girare intorno al giardino e vieni dentro.


“Albino” di Pedriali Dino
1950/
fotografia
stampa su carta
1982
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Via Don Giovanni Minzoni, 14
Bologna (BO)
Snow and Dirty Rain

Close your eyes. A lover is standing too close
to focus on. Leave me blurry and fall toward me
with your entire body. Lie under the covers, pretending
to sleep, while I’m in the other room. Imagine
my legs crossed, my hair combed, the shine of my boots
in the slatted light. I’m thinking My plant, his chair,
the ashtray that we bought together. 
I’m thinking This is where
we live. 
When we were little we made houses out of
cardboard boxes. We can do anything. It’s not because
our hearts are large, they’re not, it’s what we
struggle with. The attempt to say Come over. Bring
your friends. It’s a potluck, I’m making pork chops, I’m making
those long noodles you love so much. 
My dragonfly,
my black-eyed fire, the knives in the kitchen are singing
for blood, but we are the crossroads, my little outlaw,
and this is the map of my heart, the landscape
after cruelty which is, of course, a garden, which is
a tenderness, which is a room, a lover saying Hold me
tight, it’s getting cold.
 We have not touched the stars,
nor are we forgiven, which brings us back
to the hero’s shoulders and the gentleness that comes,
not from the absence of violence, but despite
the abundance of it. The lawn drowned, the sky on fire,
the gold light falling backward through the glass
of every room. I’ll give you my heart to make a place
for it to happen, evidence of a love that transcends hunger.
Is that too much to expect? That I would name the stars
for you? That I would take you there? The splash
of my tongue melting you like a sugar cube? We’ve read
the back of the book, we know what’s going to happen.
The fields burned, the land destroyed, the lovers left
broken in the brown dirt. And then it’s gone.
Makes you sad. All your friends are gone. Goodbye
Goodbye. No more tears. I would like to meet you all
in Heaven. But there’s a litany of dreams that happens
somewhere in the middle. Moonlight spilling
on the bathroom floor. A page of the book where we
transcend the story of our lives, past the taco stands
and record stores. Moonlight making crosses
on your body, and me putting my mouth on every one.
We have been very brave, we have wanted to know
the worst, wanted the curtain to be lifted from our eyes.
This dream going on with all of us in it. Penciling in
the bighearted slob. Penciling in his outstretched arms.
Our father who art in Heaven. Our father who art buried
in the yard. 
Someone is digging your grave right now.
Someone is drawing a bath to wash you clean, he said,
so think of the wind, so happy, so warm. It’s a fairy tale,
the story underneath the story, sliding down the polished
halls, lightning here and gone. We make these
ridiculous idols so we can to what’s behind them,
but what happens after we get up the ladder?
Do we simply stare at what’s horrible and forgive it?
Here is the river, and here is the box, and here are
the monsters we put in the box to test our strength
against. Here is the cake, and here is the fork, and here’s
the desire to put it inside us, and then the question
behind every question: What happens next?
The way you slam your body into mine reminds me
I’m alive, but monsters are always hungry, darling,
and they’re only a few steps behind you, finding
the flaw, the poor weld, the place where we weren’t
stitched up quite right, the place they could almost
slip right into through if the skin wasn’t trying to
keep them out, to keep them here, on the other side
of the theater where the curtain keeps rising.
I crawled out the window and ran into the woods.
I had to make up all the words myself. The way
they taste, the way they sound in the air. I passed
through the narrow gate, stumbled in, stumbled
around for a while, and stumbled back out. I made
this place for you. A place for to love me.
If this isn’t a kingdom then I don’t know what is.
So how would you catalog it? Dawn in the fields?
Snow and dirty rain? Light brought in in buckets?
I was trying to describe the kingdom, but the letters
kept smudging as I wrote them: the hunter’s heart,
the hunter’s mouth, the trees and the trees and the
space between the trees, swimming in gold. The words
frozen. The creatures frozen. The plum sauce
leaking out of the bag. Explaining will get us nowhere.
I was away, I don’t know where, lying on the floor,
pretending I was dead. I wanted to hurt you
but the victory is that I could not stomach it. We have
swallowed him up, 
they said. It’s beautiful. It really is.
I had a dream about you. We were in the gold room
where everyone finally gets what they want.
You said Tell me about your books, your visions made
of flesh and light 
and I said This is the Moon. This is
the Sun. Let me name the stars for you. Let me take you
there. The splash of my tongue melting you like a sugar
cube… 
We were in the gold room where everyone
finally gets what they want, so I said What do you
want, sweetheart? 
and you said Kiss me. Here I am
leaving you clues. I am singing now while Rome
burns. We are all just trying to be holy. My applejack,
my silent night, just mash your lips against me.
We are all going forward. None of us are going back.

Neve e Pioggia Sporca

Chiudi gli occhi. Un amante in piedi troppo vicino
per metterlo a fuoco. Lasciami sfuocato e cadi su di me
con tutto il tuo corpo. Stai sotto le coperte, fai finta
di dormire, mentre io sono nell’altra stanza. Immagina
le mie gambe accavallate, i miei capelli pettinati, il brillare dei miei stivali
nella luce filtrata dalle assi. Sto pensando La mia pianta, la sua sedia,
il posacenere che abbiamo comprato insieme. Penso Qui è dove
viviamo. Quando eravamo piccoli costruivamo case
da scatole di cartone. Possiamo fare tutto. Non perché
i nostri cuori siano grandi, non lo sono, è quello
contro cui combattiamo. Il tentativo di dire vieni, porta
i tuoi amici. È un potluck, faccio le costolette, sto preparando
quei noodles lunghi che ti piacciono tanto. Mia libellula,
mio fuoco dagli occhi neri, i coltelli in cucina cantano
per il sangue, ma noi siamo i crocevia, mio piccolo fuorilegge,
e questa è la mappa del mio cuore, il paesaggio
dopo la crudeltà che è, ovviamente, un giardino, che è
una tenerezza, che è una stanza, un amante che dice Stringimi
forte, si sta facendo freddo. Non abbiamo toccato le stelle,
né siamo stati perdonati, che ci riporta
alle spalle dell’eroe e alla dolcezza che viene,
non dall’assenza di violenza, ma a discapito
la sua abbondanza. Il campo annegato, il cielo in fiamme,
la luce dorata che cade all’indietro attraverso i vetri
di tutte le stanze. Ti darò il mio cuore per farne un posto
dove possa accadere, prova di un amore che trascende la fame.
è aspettarsi troppo? Dare i nomi alle stelle
per te? Portarti là? Lo schizzo
della mia lingua che ti scioglie come una zolletta di zucchero? Abbiamo letto
la trama del libro, sappiamo cosa succederà.
I campi bruciati, la terra distrutta, gli amanti
spezzati nella polvere marrone. E poi è finita.
Ti rende triste. Tutti i tuoi amici se ne sono andati. Addio
Addio. Niente più lacrime. Vorrei incontrarvi tutti
in Paradiso. Ma c’è una litania di sogni che accade
da qualche parte nel mezzo. Luce di luna che si rovescia
sul pavimento del bagno. Una pagina del libro dove
trascendiamo la storia delle nostre vite, oltre i chioschi di tacos
e i negozi di dischi. Luce di luna che fa delle croci
sul tuo corpo, e io che metto la mia bocca su di ognuna.
Siamo stati molto coraggiosi, abbiamo voluto sapere
il peggio, abbiamo voluto che il velo fosse sollevato dai nostri occhi.
Questo sogno continua con tutti noi dentro. Scarabocchiandoci
lo sciattone dal cuore grande. Scarabocchiandoci le sue braccia spalancate.
Padre nostro che sei nei cieli. Padre nostro che sei sepolto
nel cortile. Qualcuno ti sta scavando la tomba proprio adesso.
Qualcuno ti sta preparando un bagno per lavarti, ha detto,
quindi pensa al vento, così felice, così caldo. È una fiaba,
la storia sotto la storia, che scivola lungo i corridoi lucidati,
un lampo arriva e poi sparisce. Creiamo questi
idoli ridicoli così da poter vedere cosa c’è dietro
ma cosa succede una volta salita la scala?
restiamo semplicemente a guardare ciò che è orribile e lo perdoniamo?
ecco il fiume, ed ecco la scatola, e qui ci sono
i mostri che mettiamo nella scatola, per testare contro di loro
la nostra forza. Ecco la torta, qui la forchetta, e qui
il desiderio di metterla dentro di noi, e poi la domanda
dietro ogni domanda: Cosa succede dopo?
Il modo in cui sbatti il tuo corpo sul mio mi ricorda
che sono vivo, ma i mostri hanno sempre fame, caro,
e sono solo qualche passo dietro di te, alla ricerca
della falla, della saldatura lenta, del punto dove non siamo stati
ricuciti bene, il punto da cui possono quasi
scivolare dentro se la pelle non stesse cercando di
tenerli fuori, di tenerli là, dall’altra parte
del teatro dove il sipario continua ad alzarsi.
Sono strisciato fuori dalla finestra e sono corso nel bosco.
Mi sono dovuto inventare io tutte le parole. Il loro
sapore, il modo in cui risuonano nell’aria. Ho attraversato
lo stretto varco, sono entrato barcollando, barcollato
in giro per un po’, e mi sono trascinato fuori. Ho creato
questo posto per te. Un posto dove tu possa amarmi.
Se non è questo un regno, allora non so cosa lo sia.
Quindi come lo catalogheresti? Alba nei campi?
Neve e pioggia sporca? Luce che cade a secchiate?
Cercavo di descrivere il regno, ma le lettere
continuavano a sbavarsi mentre le scrivevo: il cuore del cacciatore,
la bocca del cacciatore, gli alberi e gli alberi e lo
spazio tra gli alberi, che nuotano nell’oro. Le parole
congelate. Le creature congelate. La salsa di prugne
che cola dalla busta. Spiegare non ci porterà da nessuna parte.
Ero lontano, non so dove, sdraiato sul pavimento,
facevo finta di essere morto. Volevo farti del male
ma la vittoria è non essere riuscito a sopportarlo. L’abbiamo
ingoiato, hanno detto. È bello, è davvero bello.
Ti ho sognato. Eravamo nella stanza dorata
Dove ognuno finalmente ottiene ciò che vuole.
Mi hai detto parlami dei tuoi libri, delle tue visioni
di carne e luce e io ho detto Questa è la Luna. Questo è
il Sole. Fammi dare nomi alle stelle per te. Lascia che ti ci porti.
Lo schizzo della mia lingua che ti scioglie come una zolletta
di zucchero… Eravamo nella stanza dorata dove ognuno
finalmente ottiene ciò che vuole, quindi ho detto Cosa vuoi,
tesoro? E tu hai detto Baciami. Eccomi,
ti lascio degli indizi. Sto cantando mentre Roma
brucia. Stiamo solo cercando di essere tutti santi. Mio applejack,
mia notte quieta, schiaccia solo le tue labbra contro di me.
Stiamo tutti andando avanti. Nessuno di noi torna indietro.


Boot Theory

A man walks into a bar and says:
                                                Take my wife–please.
                                                                                    So you do.
            You take her out into the rain and you fall in love with her
                                                and she leaves you and you’re desolate.
You’re on your back in your undershirt, a broken man
                        on an ugly bedspread, staring at the water stains
                                                                                                on the ceiling.
                  And you can hear the man in the apartment above you
                                    taking off his shoes.
You hear the first boot hit the floor and you’re looking up,
                                                                                    you’re waiting
            because you thought it would follow, you thought there would be
                        some logic, perhaps, something to pull it all together
                  but here we are in the weeds again,
                                                                                         here we are
in the bowels of the thing: your world doesn’t make sense.
                        And then the second boot falls.
                                                            And then a third, a fourth, a fifth.

            A man walks into a bar and says:
                                                Take my wife–please.
                                                                        But you take him instead.
You take him home, and you make him a cheese sandwich,
            and you try to get his shoes off, but he kicks you
                                                                              and he keeps kicking you.
            You swallow a bottle of sleeping pills but they don’t work.
                        Boots continue to fall to the floor
                                                                        in the apartment above you.
You go to work the next day pretending nothing happened.
            Your co-workers ask
                                    if everything’s okay and you tell them
                                                                                    you’re just tired.
            And you’re trying to smile. And they’re trying to smile.

A man walks into a bar, you this time, and says:
                                    Make it a double.
            A man walks into a bar, you this time, and says:
                                                                                 Walk a mile in my shoes.
A man walks into a convenience store, still you, saying:
                                    I only wanted something simple, something generic…
            But the clerk tells you to buy something or get out.
A man takes his sadness down to the river and throws it in the river
                        but then he’s still left
with the river. A man takes his sadness and throws it away
                                                      but then he’s still left with his hands.

Teoria dello Stivale

Un uomo entra in un bar e dice:

prendi mia moglie – per favore. 

quindi esegui. 

La porti fuori nella pioggia e ti innamori di lei

e lei ti lascia e tu sei disperato.

Sei sdraiato sulla schiena in canottiera, un uomo spezzato

su un brutto copriletto, a fissare le macchie di umidità

                                                                       sul soffitto. 

E puoi sentire l’uomo nell’appartamento di sopra 

                 che si toglie le scarpe. 

Senti il primo stivale cadere al suolo e guardi in alto, 

                                                                       attendi 

perchè pensavi che avrebbe continuato, pensavi che ci sarebbe stata 

     una qualche logica, magari, qualcosa che tenesse tutto insieme

ma siamo di nuovo tra le ortiche, 

                                                                   eccoci

nelle viscere della cosa: il tuo mondo non ha senso. 

                 E poi cade il secondo stivale. 

                                                            e poi un terzo, un quarto, un quinto. 

Un uomo entra in un bar e dice: 

                                            prendi mia moglie – per favore. 

                                                                      Ma tu prendi lui invece. 

Lo porti a casa e gli prepari un panino al formaggio, 

            e cerchi di togliergli le scarpe, ma lui scalcia 

                                                                                   e continua a scalciare. 

Mandi giù un’intera bottiglia di sonniferi ma non fanno effetto. 

            Gli stivali continuano a cadere al suolo

                                                           nell’appartamento di sopra.

Vai al lavoro il giorno dopo fingendo che non sia successo niente.

            Il tuo collega chiede 

                                   se è tutto okay e gli dici 

                                                                                   che sei solo stanco. 

            E cerchi di sorridere e anche lui cerca di sorridere.

Un uomo entra in un bar, sei tu stavolta, e dice: 

                                               fammene uno doppio. 

            Un uomo entra in un bar, sei tu stavolta, e dice: 

                                                                       Mettiti nei miei panni. 

Un uomo entra in un minimarket, sempre tu, dicendo: 

                                   Io volevo solo qualcosa di semplice, qualcosa di generico… 

            Ma il commesso ti dice di comprare qualcosa o di uscire. 

Un uomo porta la sua tristezza al fiume e la getta nel fiume

            ma poi gli rimane 

il fiume. Un uomo prende la sua tristezza e la butta via

                                                           ma poi gli rimangono le sue mani. 


I Had a Dream About You

All the cows were falling out of the sky and landing in the mud.
You were drinking sangria and I was throwing oranges at you,
but it didn’t matter.
I said my arms are very long and your head’s on fire.
I said kiss me here and here and here
and you did.
Then you wanted pasta,
so we trampled out into the tomatoes and rolled around to make the sauce.
You were very beautiful.
We were in the Safeway parking lot. I couldn’t find my cigarettes.
You said Hurry up! but I was worried there would be a holdup
and we would be stuck in a hostage situation, hiding behind
the frozen meats, with nothing to smoke for hours.
You said Don’t be silly,
so I followed you into the store.
We were thumping the melons when I heard somebody say Nobody move!
I leaned over and whispered in your ear I told you so.
There was a show on the television about buried treasure.
You were trying to convince me that we should buy shovels
and go out into the yard
and I was trying to convince you that I was a vampire.
On the way to the hardware store I kept biting your arm
and you said if I really was a vampire I would be biting your neck,
so I started biting your neck
and you said Cut it out!
and you bought me an ice cream, and then we saw the UFO.
These are the dreams we should be having. I shouldn’t have to
clean them up like this.
You were lying in the middle of the empty highway.
The sky was red and the sand was red and you were wearing a brown coat.
There were flecks of foam in the corners of your mouth.
The birds were watching you.
Your eyes were closed and you were listening to the road and I could
hear your breathing, I could hear your heart beating.
I carried you to the car and drove you home but you
weren’t making any sense
I took a shower and tried to catch my breath.
You were lying on top of the bedspread
in boxer shorts, watching cartoons and laughing but not making any sound.
Your skin looked blue in the television light.
Your teeth looked yellow.
Still wet, I lay down next to you. Your arms, your legs, your naked chest,
your ribs delineated like a junkyard dog.
There’s nowhere to go, I thought. There’s nowhere to go.
You were sitting in a bathtub at the hospital and you were crying.
You said it hurt.
I mean the buildings that were not the hospital.
I shouldn’t have mentioned the hospital.
I don’t think I can take this much longer.
In the dream I don’t tell anyone, you put your head in my lap.
Let’s say you’re driving down the road with your eyes closed
but my eyes are also closed.
You’re by the side of the road.
You’re by the side of the road and you’re doing all the talking
while I stare at my shoes.
They’re nice shoes, brown and comfortable, and I like your voice.
In the dream I don’t tell anyone, I’m afraid to wake you up.
In these dreams it’s always you:
the boy in the sweatshirt,
the boy on the bridge, the boy who always keeps me
from jumping off the bridge.
Oh, the things we invent when we are scared
and want to be rescued.
Your jeep. Your teeth. The coffee that you bought me.
The sandwich cut in half on the plate.
I woke up and ate ice cream in the dark,
hunched over on the wooden chair in the kitchen,
listening to the rain.
I borrowed your shoes and didn’t put them away.
You were crying and eating rice.
The surface of the water was still and bright.
Your feet were burning so I put my hands on them, but my hands
were burning too.
You had a bottle of pills but I wouldn’t let you swallow them.
You said Will you love me even more when I’m dead?
And I said No, and I threw the pills on the sand.
Look at them, you said. They look like emeralds.
I put you in the cage with the ocelots. I was trying to fatten you up
with sausage and bacon.
Somehow you escaped and climbed up the branches of a pear tree.
I chopped it down but there was no one in it.
I went to the riverbed to wait for you to show up.
You didn’t show up.
I kept waiting.

Ti ho sognato

Tutte le vacche cadevano dal cielo e atterravano nel fango
Tu bevevi sangria e io ti lanciavo addosso delle arance,
ma non aveva alcuna importanza.
Ho detto le mie braccia sono davvero lunghe e la tua testa va a fuoco.
Ho detto baciami qui, e qui, e qui
E tu hai eseguito.
Dopo volevi mangiare la pasta,
Così abbiamo pestato i pomodori e ci siamo rotolati per farne la salsa.
Eri stupendo.
Ci trovavamo nel parcheggio di Safeway. Non riuscivo a trovare le mie sigarette.
Mi dicevi Sbrigati! ma mi preoccupava l’idea di una rapina
E che saremmo rimasti bloccati, come ostaggi, nascosti dietro
La carne surgelata, con niente da fumare per ore.
Mi hai detto Non fare l’idiota,
Così ti ho seguito dentro il negozio.
Stavamo tamburellando sui cocomeri quando abbiamo sentito qualcuno dire Nessuno si muova!
Mi sono piegato e ti ho sussurrato all’orecchio: te l’avevo detto.
In televisione mandavano in onda uno show sui tesori sepolti.
Stavi cercando di convincermi a comprare delle vanghe
e andare fuori in giardino
e io provavo a convincerti di essere un vampiro.
Sulla strada per il ferramenta continuavo a morderti il braccio
E tu mi hai detto che se fossi stato davvero un vampiro avrei puntato alla gola,
così ho iniziato a morderti il collo
e tu hai detto: dacci un taglio!
e mi hai comprato un gelato, e poi abbiamo visto l’UFO.
Questi sono i sogni che dovremmo fare. Non dovrei doverli ripulire così.
Tu eri sdraiato nel bel mezzo della strada vuota.
Il cielo era rosso, la sabbia era rossa e tu portavi un cappotto marrone.
C’erano rivoli di bava agli angoli della tua bocca.
Gli uccelli ti fissavano.
I tuoi occhi erano chiusi e stavi ascoltando la strada e riuscivo a
sentirti respirare, riuscivo a sentire il tuo cuore battere.
Ti ho portato alla macchina e accompagnato a casa ma tu
non avevi alcun senso
Ho fatto una doccia e ho provato a riprendere fiato.
Tu eri sdraiato in sul copriletto
in boxer, a guardare cartoni animati e a ridere ma senza fare alcun suono.
La tua pelle sembrava blu alla luce del televisore.
I tuoi denti sembravano gialli.
Ancora fradicio, mi sono sdraiato accanto a te. Le tue braccia, le tue gambe, il tuo petto nudo, le tue costole marcate come un cane randagio.
Non c’è dove andare, ho pensato. Non c’è dove andare.
Tu sedevi in una vasca da bagno all’ospedale e piangevi.
Dicevi che ti faceva male.
Intendo gli edifici che non erano l’ospedale.
Non avrei dovuto nominare l’ospedale.
Non penso di poter continuare a lungo.
Nel sogno che non racconto a nessuno, tu poggi la testa sul mio grembo.
Diciamo che guidi lungo la strada tenendo gli occhi chiusi
ma anche i miei occhi sono chiusi.
Tu sei sul ciglio della strada.
Tu sei sul ciglio della strada e parli solo tu
mentre io mi fisso le scarpe.
Sono delle belle scarpe, marroni e comode, e la tua voce mi piace.
Nel sogno che non racconto a nessuno, ho paura di svegliarti.
In questi sogni sei sempre tu:
il ragazzo con la felpa,
il ragazzo sul ponte, il ragazzo che mi salva
dal saltare giù dal ponte.
Ah, le cose che inventiamo quando abbiamo paura
e desideriamo essere salvati.
La tua jeep. I tuoi denti. Il caffè che mi hai comprato.
Il sandwich tagliato a metà sul piatto.
Mi sono svegliato e ho mangiato il gelato al buio,
Curvo sulla sedia di legno della cucina,
Ascoltando la pioggia.
Ho preso in prestito le tue scarpe e non le ho tolte.
Tu piangevi mangiando riso.
La superficie dell’acqua era ferma e luminosa.
I tuoi piedi andavano a fuoco, così ho messo le mie mani su di loro, ma le mie mani
pure andavano a fuoco.
Avevi una boccetta di pillole, ma non le ingoiavi.
Mi dicevi Mi amerai ancora di più quando sarò morto?
E io rispondevo No, e lasciavo le pillole sulla sabbia.
Guardale, mi dicevi. Sembrano smeraldi.
Ti mettevo in gabbia con i leopardi. Provavo a ingrassarti
Con salsiccia e bacon.
In un qualche modo scappavi e ti arrampicavi sui rami di un pero.
Lo abbattevo, ma non c’era nessuno dentro.
Andavo sul letto del fiume ad aspettarti.
Non ti sei presentato.
Ho continuato ad aspettare.


In teoria e in pratica | Matteo Tasca

Le risposte di Matteo Tasca all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Devo dire che nel libro che ho scritto la riflessione sulla struttura interna ha avuto un peso minimo: fondamentalmente ho iniziato a pensarci dopo che due miei carissimi amici mi hanno fatto venire voglia di mettere insieme i testi per vedere quello che sarebbe successo, ma prima di quel momento non ho mai pensato a come sarebbe stata una mia eventuale raccolta. Questa cosa un po’ me la rivendico: sono contento che la struttura del mio libro non abbia seguito un progetto a monte, ma sia stata improvvisata partendo dal materiale che avevo raccolto negli anni. Questo modo di fare le cose ‘a cazzo di cane’ è stata per me una pratica preziosa, perché mi ha permesso di scoprire delle rispondenze, diciamo delle geometrie o delle ossessioni che non sapevo di avere. Ad esempio, la prima sezione della raccolta ha come tema centrale la morte, ma io non ero assolutamente consapevole di questa cosa, non pensavo di aver scritto tutte queste poesie sulla morte, perché francamente non pensavo (e in effetti continuo a non pensare) che la morte sia un tema rilevante per me. In un certo senso non ho deciso che la prima sezione fosse così, ho solo dovuto prenderne atto, e personalmente mi sento sempre al sicuro quando è qualcun altro a decidere per me, mi sembra di star andando nella direzione giusta solo quando non sono io a sceglierla. Oltre questo, ho un po’ assemblato del materiale a caso (appunti, trascrizioni di sogni, pagine di diario) che mi sembrava avesse delle risonanze con le poesie, e che fosse utile per aggiungere dei piani di lettura. Alla fine dei conti a me torna tutto, ma penso (e spero) che il risultato sia un libro storto, perché io mi sento una persona storta, e voglio che la struttura del mio libro mi rispecchi. Vorrei dire che considero questo un atto d’onestà, ma temo che ci sia qualcosa di più meschino dell’onestà, un’ansia di ritrovare sé stessi nelle cose che non è bella quanto l’onestà.

Da questo punto di vista i miei modelli sono libri che non concludono, ‘aperti’ e che stanno meravigliosamente in piedi anche se non capisci bene come fanno. In poesia penso soprattutto a Sereni o Anne Carson, in prosa a Bolaño e Faulkner. Non so se il mio approccio cambierà nel tempo, ma francamente spero (e credo) di no. Non riesco a non pensare che la costruzione del libro sia un momento secondario rispetto alla scrittura, per cui è importante non avere progetti troppo rigidi in modo che la scrittura resti il più possibile libera di andare dove vuole. Mi sembra giusto che la ‘raccolta’ si limiti a frugare con intelligenza nell’esistente (ovvero in quello che uno ha scritto), influenzandolo il meno possibile. 

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di una persona. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Se penso alla mia esperienza di scrittura ho un po’ di difficoltà a rispondere perché non riesco a pensare a «finzione» e «espressione» come due categorie in contrapposizione. Mi sembra piuttosto ovvio che l’espressione ha bisogno di una componente finzionale per prendere corpo, così come la finzione ha bisogno di una parte di espressione per avere forza e essere interessante. Senza il desiderio di esprimersi (cioè di proiettare fuori qualcosa di sé) non ha senso scrivere, senza finzione (cioè senza selezionare e plasmare un qualche materiale) sarebbe impossibile esprimere qualcosa di comprensibile non solo agli altri, ma anche a noi stessi. Se invece si parla di fedeltà autobiografica, io più o meno faccio così: spesso racconto cose che mi sono veramente accadute, ma altre volte invento dei fatti o delle vicende o anche delle sensazioni, ma quell’invenzione mi serve per dire una verità, o comunque per dire qualcosa che per me è importante, per cui anche in questo caso ‘fingere’ – inteso proprio nel senso di mentire, inventare di sana pianta – mi è servito per esprimermi. Secondo me se l’opposizione tra espressione e finzione è utile in qualche modo è semplicemente perché denota due diverse posizioni del soggetto nell’atto della scrittura. Nell’espressione infatti la persona (diciamo l’io) è più o meno passiva, c’è qualcuno che gli detta le cose da dire, i contenuti non vengono scelti né organizzati ma semplicemente si presentano e ‘urgono’ («I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando»). Nella finzione invece chi scrive è più cosciente, pianifica, ritaglia, compone, riflette sul senso di quello che sta facendo. Io penso che nella scrittura questi momenti siano entrambi importanti, e penso anche che gli autori e le autrici della mia generazione abbiano paura dell’inconscio, o meglio di ammettere a sé stessi che hanno un inconscio e che ci sono delle cose che non controllano, e quindi la ‘finzione’ sembra una dimensione più rassicurante, forse anche un po’ più adulta. Però secondo me è bello non essere padroni, lasciare spazio all’espressione, perdersi nelle fantasie, farsi attraversare dalle cose, e non per un qualche gusto regressivo, ma perché se uno vuole arrivare in fondo a certe questioni, sia personali che storiche, è proprio nelle fantasie, nelle zone oscure – nell’inconscio – che si scopre la merda, quella che ci inchioda al di là di ogni sforzo volontaristico di andarle contro, ma anche la gioia, una felicità che non conosce i limiti del principio di realtà.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Ho iniziato a scrivere alle medie, a seguito di un evento traumatico ma ambiguo – cioè un po’ bello un po’ brutto – che mi era successo, e scrivevo solo per buttare fuori l’angoscia che questa ambiguità aveva generato in me. A un certo punto ho iniziato a leggere i simbolisti e ho iniziato a scrivere poesie terribili che nella mia testa avevano a che fare con la ricerca di assoluto, ma in realtà avendole rilette da più grande mi sono reso conto che parlavano semplicemente d’amore, del mio desiderio di perdermi nell’amore. Poi mi ero scocciato di tutto quel sentimentalismo e allora sono passato a poesie narrative, quasi interamente ‘finzionali’, in cui cercavo di parlare il meno possibile di me e il più possibile del mondo. In questo momento direi che mi sento più vicino a quel ragazzino delle medie che scriveva per neutralizzare l’angoscia, anche se purtroppo senza quell’ingenuità e quella soddisfazione. Se questo percorso (che forse si intravede un po’ nella raccolta, almeno nella parte iniziale) ha un valore, penso sia semplicemente perché mi rendo conto di essere cresciuto nella scrittura quando sono andato contro me stesso, mi sono rotto di quello che stavo facendo e ho cercato di cambiare postura, stili, modi. In questi momenti di cambiamento inizialmente sono super entusiasta e scrivo cose imprecise, poi trovo la giusta misura, poi c’è una fase che oscilla tra la maturità e la senescenza, infine rischio di assumere delle pose, o comunque di camminare per una strada in discesa in cui tutto sembra facile e a portata di mano. Ecco, io mi rendo conto che la mia scrittura è più produttiva quando mi sento scomodo, non nel senso che i testi escono più belli – di questo francamente non ne ho idea, e forse in realtà anche no – ma nel senso che esce fuori più roba, riesco a spurgare meglio.

Sulle altre domande non ho molta idea: non sento di aver propriamente preso parola in quanto autore, mi sembra solo di aver pubblicato delle poesie che spero siano belle e facciano passare qualche ora piacevole ai miei quattro o cinque lettori. Non mi sento particolarmente influenzato dal fuori, se non un pochino per contrasto: mi sono fatto un’idea del senso comune diffuso nella ‘bolla’, di quali posizioni ‘teoriche’ sono più diffuse o comunque trovano facilmente consenso, e mi piace pensare che quello che scrivo mi faccia apparire un po’ antico, una ‘forza del passato’, uno che riesce a mediare tra la tradizione e il presente, ma tutto questo è un giochetto che si attiva adesso che rispondo a queste domande, mi invento un pubblico mentale un po’ caricaturale che può lasciarsi colpire dalle mie risposte. Penso che il pubblico reale sia molto più intelligente, distratto e indifferente di questa mia proiezione mentale, per cui so bene che questa farsa esiste solo nel teatro della mia fantasia.

4) Tutti non sopportano qualcosa di ciò che scrivono. Tu cosa odi della tua scrittura? Che rapporto hai con i tuoi automatismi?

Della mia scrittura penso di non odiare niente, però odio certe regole minime di variatio che mi impediscono di ripetere all’infinito parole che mi piacciono un sacco e che già uso tantissimo e che per decoro devo tenere sotto controllo. Penso agli aggettivi determinativi, a ‘luce’, ‘gioia’, ‘dolore’, ‘tutti’, ‘tutto’, ‘come’, ‘assolato’, ‘disperazione’, ‘sempre’; e poi anche le coordinate (‘e…e…e…’), le relative e gli infiniti. Se ripetere in continuazione le stesse parole non fosse vietato, i miei testi credo che sarebbero simili alle icone ortodosse: quasi identiche una all’altra, con un sacco di oro come sfondo, e delle figure stereotipate e un po’ brutte in primo piano. Purtroppo il mio retroterra è cattolico e questo piacere non posso concedermelo.

Altre cose automatiche per fortuna le posso fare perché non violano nessuna regola, anzi penso siano stilisticamente interessanti, tipo questa cosa che mi viene di cambiare continuamente pronome (io, tu, noi) anche se sto parlando sempre di me. È una cosa che è uscita a caso, ma mi sembra importante per movimentare il discorso e far slittare sottilmente il punto di vista sul personaggio (cioè l’io), assumendo posizioni differenti nei suoi confronti. Poi come dicevo non mi piace quando assumo delle pose e ripeto degli impianti, delle situazioni, delle cadenze, però per fortuna sono una persona abbastanza insofferente e quindi di questo tipo di automatismi mi stufo abbastanza in fretta perché mi annoio da solo.

5) Nel programma radiofonico Le interviste impossibili, andato in onda tra il 1974-1975, alcune voci della cultura italiana contemporanea immaginavano di intervistare dei personaggi storici (Ponzio Pilato, Uomo di Neanderthal, Jack lo Squartatore etc…) inscenando un botta e risposta. Se avessi la possibilità di intervistare un personaggio famoso della storia, chi sceglieresti? Scrivi le tre domande che gli vorresti fare.

Ci ho pensato un po’, ma personaggi famosi non mi viene in mente nessuno con cui mi interesserebbe particolarmente parlare, credo perché se sono famosi vuol dire che hanno lasciato delle testimonianze, o comunque qualcuno si è impegnato a raccontare le loro storie, e quindi in qualche maniera posso già avere un dialogo con loro. Sarei invece molto curioso di trovarmi a Uruk nel IV millennio avanti Cristo. Per quello che ne sanno gli archeologi, a Uruk c’erano questi grandi templi che in quel periodo hanno cominciato a funzionare come delle banche, immagazzinavano enormi quantità di grano che i contadini erano costretti a versare, e per organizzare tutti i loro affari hanno inventato le prime forme di contabilità, hanno cominciato a emettere cambiali, e soprattutto hanno introdotto per la prima volta l’idea di moneta, non tanto come oggetto fisico circolante, quanto come unità astratta per misurare il valore, cioè più o meno come il metro serve a misurare le distanze. Questo passaggio storico in cui le persone hanno cominciato a riporre fiducia nel fatto che un’unità di misura scelta praticamente a caso, per registrare il grano che entrava e usciva da un magazzino, fosse in grado di determinare se un uomo o una donna potessero essere vivi o morti, liberi o schiavi – questa roba qui mi interessa molto. Vorrei sapere che gli è saltato in mente, cosa li faceva sentire in diritto (o in dovere) di fare quello che facevano, grazie a quali poteri e quali discorsi questa idea è entrata nelle menti delle persone, sembrando ragionevole e vantaggiosa, o forse non sembrandolo mai, ma imponendosi semplicemente prima con la forza e poi con l’abitudine. Oltre a chiedere però mi piacerebbe vederli vivere, osservarli mentre entravano in questa nuova forma di patto, capire come questa cosa ha stravolto i rapporti tra umani. Insomma, più che degli individui mi piacerebbe interrogare la specie per comprendere meglio come abbiamo fatto a rovinarci così, cercando nel passato i segni che le cose possono essere diverse da come sono.

Sulla rotta balcanica. Intervista a Elisa Attanasio

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Eleonora Negrisoli

Fotografia di Andrea Savorani Neri.

La rotta balcanica è il più importante corridoio migratorio per giungere in Europa dalla Grecia via terra. Mettersi su questo cammino, fatto di strade e tappe in continuo mutamento, significa correre molti rischi, dalla mancanza di cibo e riparo fino a violenze e abusi. Attraversare le frontiere è molto difficile, ci si prova e riprova infinite volte: se la polizia ti respinge, devi tornare indietro, accamparti dove puoi e tentare di nuovo. Proprio a causa dei tentativi ripetuti e dei pericoli continui, la rotta balcanica viene chiamata game da coloro che la percorrono. Elisa Attanasio, ricercatrice dell’Università di Bologna e attivista, tra il 2022 e il 2023 ha condotto alcuni viaggi su questo tragitto e ne ha scritto un reportage intitolato Sulla rotta balcanica. L’ho incontrata per parlarne.


Eleonora Negrisoli: Con il tuo reportage rendi visibile un fenomeno di cui non si parla abbastanza, racconti la quotidianità atroce delle persone che tentano di attraversare i confini e allo stesso tempo sono costrette ad abitarli. I migranti sono invisibili non solo perché sono obbligati a nascondersi per evitare il pericolo, ma anche perché la società non vuole vederli. Le persone ferite e malate che dormono in strada sono considerate indecorose, ci si lava le mani di coloro che soffrono per un sistema politico-sociale in cui siamo tutti invischiati . Il tuo libro è una testimonianza importante di quello che accade ai margini e non si può, o non si vuole, sapere. Leggendolo si sente continuamente una tensione tra il voler guardare e il non riuscire a farlo: gli occhi ora si concentrano, ora distolgono lo sguardo; la macchina fotografica ora punta l’obiettivo, ora si nasconde. Come hai scelto cosa e come dirlo? Hai dei modelli letterari di riferimento?

Elisa Attanasio: Sì, come dici tu, è messa in atto – da parte dei governi nazionali ed europei – una precisa tecnica di invisibilizzazione dei migranti, a cui si aggiunge una strategia di criminalizzazione: le persone in movimento sono abbandonate e rese estremamente vulnerabili, proprio a causa del loro statuto di ‘criminali’, ‘illegali’, ‘clandestini’. Dopo un primo, lungo, periodo passato come volontaria ad Atene nel 2022, ho continuato ad andare e tornare sui confini della rotta balcanica, su quelle frontiere che sono filtri dove le persone vengono classificate: ci sono corpi che contano e corpi che non contano. È molto difficile parlarne, perché a ogni viaggio torno con più domande, più frustrazione, più rabbia per decisioni politiche insensate e assassine, e con più vergogna “davanti al dolore degli altri”, come scriveva Susan Sontag. La mia posizione poi è sempre ibrida: sono attivista e volontaria, ma al tempo stesso “reporter” (fra virgolette perché non mi sento tale, ma non saprei quale altro termine utilizzare). Di giorno porto aiuti, faccio il ‘palo’, monto docce dove le persone in movimento possono lavarsi per poi darsi il trattamento per la scabbia; la sera scarico le foto (se ne ho), e scrivo almeno una pagina da caricare sul blog. E il giorno seguente da capo; per ogni viaggio (nel blog e nel libro ne ho raccolti quattro importanti) mi sono imposta questa routine, e forse è l’unico modo per riuscire a scriverne, come un atto meccanico, da fare. Probabilmente, se prendessi appunti da rielaborare al ritorno, non avrei il coraggio di pubblicare nulla e sarei presa da mille ripensamenti. Perché il rischio della retorica e della spettacolarizzazione è sempre molto alto, specialmente a distanza. Un’ulteriore difficoltà sta nell’accettare – per quanto possibile – la posizione di privilegiata che racconta: mi sembra, a momenti, di reiterare una sopraffazione, come ci ricorda Spivak. Già provengo da un paese colonialista, e in più mi ritrovo a narrare le storie dei migranti, rendendoli “oggetti” una seconda volta. Non so come si possa stare in questa situazione – dato che uscirne è impossibile -; io credo di aver trovato una sorta di compromesso nel modo in cui scrivo. Anche qui, come nella concretezza delle situazioni che vivo durante i periodi passati sulla rotta, cerco di occupare meno spazio possibile, di ridurre la mia voce. Ne esce uno stile asciutto, secco e distillato, perché non trovo altri modi per raccontare quello che vivo e vedo: se nella scrittura la riduzione del giudizio diventa assenza di aggettivi, e il tentativo di calmare i pensieri si concretizza in una sintassi scarna, paratattica ed essenziale, nelle immagini non fotografo mai persone (salvo rari casi in cui mi viene esplicitamente chiesto), bensì i luoghi attraversati, le tracce lasciate dai passaggi, alcuni dettagli. Una scrittrice che mi tocca molto, e mi piace pensare come modello, è sicuramente Ágota Kristóf.

Squats, Velika Kladuša, Bosnia. Foto di Elisa Attanasio.

E. N.: Sempre a proposito di sguardo, Sulla rotta balcanica è un libro – e un blog – composto da parole e fotografie. Che rapporto c’è stato tra questi due mezzi durante il lavoro di documentazione e la sua composizione narrativa? 

E. A.: Si tratta di un rapporto che definirei molto semplice e diretto, quasi funzionale. Come dicevo, le giornate sono sempre molto piene, scandite da tempi rapidi; bisogna essere operative e lucide, anche nelle attese. Non avendo possibilità di prendere appunti, le foto fungono per me da note e promemoria; la sera, osservando le immagini, ricostruisco un racconto all’interno del quale cerco di far dialogare i due mezzi. 

Patrasso. Foto di Elisa Attanasio.

E. N.: Squat pieni di divani squarciati, materassi marci, pezzi di carta, brandelli, macchie, buchi, finestre rotte; sentieri nel bosco fatti di tende improvvisate, lattine vuote, vestiti accartocciati, avanzi di oggetti: è il lunghissimo inventario di un paesaggio spaccato, quello che si attraversa durante la rotta balcanica. Un paesaggio che è anche un corpo, o meglio, i corpi martoriati delle persone che quel paesaggio lo attraversano. Vesciche, mal di denti, tosse, ossa rotte, lesioni, ferite infette, scabbia, ematomi: l’impossibilità di nutrirsi e riposarsi adeguatamente, i chilometri percorsi a piedi, le scarse condizioni igieniche e gli incontri con la polizia alle frontiere producono danni fisici e psicologici, deformano i corpi, li sfiniscono. 

E. A.: Sì, i corpi delle persone che percorrono la rotta portano, a più livelli, i segni della violenza incontrata. Alla violenza subita nel proprio paese d’origine (guerra, detenzione, fame, discriminazione) si aggiunge la violenza della polizia di confine: si tratta di respingimenti (illegali), durante i quali alle persone viene impedito fisicamente di attraversare la frontiera. Ma non solo: i telefoni (unico mezzo per comunicare e orientarsi) vengono rotti, i vestiti presi, le tende distrutte, i pochi averi bruciati. A volte, i cani della polizia mordono e staccano falangi di dita e piedi, i poliziotti rompono ossa, provocano fratture e traumi cranici. Ci sono poi le ferite della frontiera stessa, come le lacerazioni e i tagli del filo spinato e le infezioni che ne seguono. I corpi sono resi vulnerabili dal deperimento fisico e mentale, dalla mancanza di sonno, cibo e acqua, dalla permanenza in luoghi malsani (sia nei campi formali che informali), dalle malattie come la scabbia, dall’inaccessibilità alle cure. Anche nei campi profughi le persone in movimento subiscono violenze, legate ad esempio al razzismo e al sessismo; e c’è ancora una violenza che potremmo chiamare “sistemica”, che fa parte di quella strategia di criminalizzazione di cui parlavamo prima. Per fare solo un esempio: ultimamente, i campi dentro le città vengono chiusi e spostati lontano, come è stato per quello di Eleonas ad Atene, sgomberato per fare spazio al nuovo stadio del Panathinaikos e al suo enorme parcheggio.

Trieste, il Silos. Foto di Elisa Attanasio.

E. N.: Il tuo ultimo viaggio parte e arriva in Italia, a Trieste, dove giungono molte persone che hanno percorso l’intera rotta balcanica. Il gioco è finito, ma ne ricomincia un altro, crudele quasi quanto il primo. Il vuoto istituzionale provoca la mancata accoglienza di chi arriva, che si ritrova così ad aspettare giorni, mesi o anni senza un posto dove stare; molti, allora, sono costretti a trovare riparo dove capita. Quando hai scritto il tuo reportage la principale fonte di rifugio per i migranti arrivati a Trieste era il Silos, un edificio abbandonato accanto alla stazione ferroviaria tra le cui pareti centinaia di persone tentavano di sopravvivere in accampamenti di fortuna. A giugno di quest’anno, però, il Silos è stato sgomberato: le condizioni abitative erano totalmente inadeguate e gli occupanti sono stati trasferiti altrove, ma dove potranno trovare adesso riparo le persone che arrivano dalla rotta? Questo pensiero mi fa tornare in mente una delle fotografie che più mi ha colpito del tuo reportage: una scritta a bomboletta sul muro di uno squat in Bosnia, humans need bread but they need roses too. In un sistema che mette in discussione persino il diritto alla vita delle persone migranti, di certo non si discute del loro diritto a una vita bella. Nel tuo libro, invece, mi sembra che questo desiderio si manifesti in piccoli dettagli, come una moschea di mattoni appoggiati al pavimento di un capannone o il bastone della scopa riparato per pulire meglio le stanze di una casa abbandonata.

E. A.: Sì, a giugno il Silos è stato chiuso e la promessa di aumentare i posti nella struttura di Campo Sacro non è stata mantenuta. Le persone continuano ad arrivare: al momento si accampano per strada e negli edifici abbandonati attorno alla stazione e al porto, perché le strutture non hanno la capacità per accoglierle. Come dici, il diritto alla vita delle persone in movimento è continuamente negato, e ciononostante continuo a vedere resistenza, che si manifesta in modi diversi, ma che potrei riassumere descrivendo due direzioni: da una parte, una resistenza “esterna”, che vede ad esempio una lotta contro determinate scelte politiche (ad esempio, la chiusura del campo di Eleonas ad Atene è stata rimandata e ostacolata da parte degli/delle abitanti campo attraverso una lunga e in parte efficace resistenza, che ha costretto l’altra parte a continui cambi di strategia); dall’altra, una resistenza “interna”, che consiste in quegli atti di cura per sé e per gli altri che non ho mai smesso di vedere. Le persone in movimento sono vittime (di scelte politiche, delle situazioni tragiche che vivono, degli abusi della polizia…), ma dimostrano quotidianamente una potente agentività. Anche i soggetti più vulnerabili (penso ad alcune donne congolesi arrivate ad Atene senza nessuna conoscenza, analfabete, senza telefono, incinte o con figli piccoli) hanno l’incredibile capacità di trovare soluzioni, perché bisogna andare avanti. Questo mi ha molto colpito. Inoltre, come dicevo, ho incontrato un’attenzione e una cura che forse erano l’unico modo per opporre una voce e una presenza alle logiche di invisibilizzazione. Penso ancora al Silos di Trieste, dove, in mezzo ai ratti, gli escrementi e il fango, un ragazzo tagliava con lentezza ed estrema precisione i capelli ad un altro (dopo averlo avvolto con un lenzuolo bianco), mentre un altro ancora preparava con cura un chapati da cuocere sul fuoco. Tutto questo (la cura di sé e dell’altro, la ritualità, l’ascolto, il tempo preso per preparare un chapati o un tè, tagliare i capelli) lo leggo come strategia di resistenza. E funziona anche da parte delle attiviste. Essere solidali non significa solo (per quanto sia fondamentale) rispondere a un’emergenza immediata (di cure mediche, o di cibo, o di vestiti): è anche la messa in pratica di una concezione più ampia che desidera smantellare le logiche di criminalizzazione razziale che lasciano le persone in movimento in una condizione di abbandono strategico. Le politiche di confine europee producono vulnerabilità e morte come condizione stessa del loro funzionamento, ed è proprio contro questa logica che si pongono le pratiche di cura, soccorso e assistenza messe in atto dalle persone solidali.

Trieste, il Silos. Foto di Elisa Attanasio. 

E. N.: Tornerai sulla rotta balcanica come attivista e reporter? Hai altri progetti in mente?

E. A.: Sì, ho in programma altre tappe: a fine dicembre dovrei tornare in Bulgaria (Sofia, Harmanli), dove la situazione è molto critica, e in primavera probabilmente sul confine fra Polonia e Bielorussia. Nel frattempo, vorrei tornare a Trieste e andare a Ventimiglia, continuando a scriverne (con testi e fotografie) sul blog. 

Squats, Velika Kladuša, Bosnia. Foto di Elisa Attanasio.

Quando ho scoperto Kathy Acker

Restituzione dell’incontro “Tradurre genealogie femministe: da Kathy Acker a Lidia Yuknavitch” a cura della rassegna di letteratura e traduzione Quasi La Stessa Cosa.

Introduzione a cura di Elena Strappato, contributi a cura di Guia Cortassa, Alessandra Castellazzi e Arianna Preite

Se è vero, come ricorda un narratore da L’Impulso (Nottetempo, 2024) di Lidia Yuknavitch, che le storie sono «quanti», particelle elementari che connettono esistenze, da quale interazione, da quale groviglio di vita e di materia si generano a loro volta le storie? Quali incontri materiali le precedono? Quali nuovi incontri riproducono?

Il 12 ottobre, insieme alle traduttrici Guia Cortassa e Alessandra Castellazzi, e alla dottoranda Arianna Preite, ci siamo trovate alla Biblioteca delle donne per raccontare un libro e un incontro. Quell’innesto di materia esplosa, violenza e tenerezza che è L’Impero dei non sensi di Kathy Acker (NERO Editions, 2024) con un occhio aperto su una sua lettrice, e poi scrittrice, privilegiata: Lidia Yuknavitch. Un incontro, quello tra Kathy Acker e Lidia Yuknavitch, fuori e dentro il testo; un incontro, il nostro, con le loro voci.

Abbiamo tentato di leggere Acker con Yuknavitch e Yuknavitch con Acker per ricreare una genealogia delle nostre letture. Non solo perché queste autrici si sono incontrate, e l’influenza di una è stata fondamentale per la seconda. Ma anche perché la voce dell’una scopre e riscopre quella dell’altra, senza gerarchie o ordine che tenga, ma in un gioco di echi e reti nate fuori dal testo, cause ed effetti di un incontro incanalato dalla parola scritta e poi condivisa.

In una, è il desiderio di lacerare tutto, fare della pagina la ferita e la cassa di risonanza della ferita, nell’altra, la voglia di cucire insieme i tagli, ricreare una mappa con le suture. Nelle loro differenze abbiamo cercato uno spazio per raccontare i loro testi senza addomesticarne suoni e sensi.

Riportiamo qui una traccia dell’incontro nei contributi di Guia Cortassa, Alessandra Castellazzi e Arianna Preite.

PRENDERE. DISTRUGGERE. RICOSTRUIRE.

[Kathy] Acker racconta ripetutamente la stessa storia: la madre è incinta della figlia e il padre se ne va. La madre incolpa la figlia e cerca di abortirla. Il corpo della figlia sopravvive, ma non il suo sé unificato… È vero? Ha importanza?… Acker libera la libido dal mondo sotterraneo represso di Freud.[1]

Ma poi, ancora, non ha fatto quello che tutti gli scrittori devono fare? Creare una posizione da cui scrivere?

La vita di Acker era una favola, e descrivere la confusione, l’amore e gli obiettivi contrastanti dietro questi memoriali sarebbe come abbozzare un’allegoria apocrifa di una vita artistica alla fine del ventesimo secolo.[2]

Si è parlato molto della sperimentazione formale di Yuknavitch, in particolare dell’uso di forme ibride nel testo… Ma l’aspetto genuinamente sovversivo e stimolante dell’opera di Yuknavitch è la sua messa in primo piano del corpo, e in particolare la sua presentazione del sesso. Yuknavitch ci costringe a vedere il corpo in tutta la sua fisicità, la sua carne, i suoi fluidi e le sue escrezioni, e raffigura scene di sesso, tra cui sesso feticista e sadomasochistico, che sono brutalmente viscerali. Le scene di sesso di Yuknavitch sono famose tra le scrittrici americane contemporanee, non solo per la loro esplicitezza, ma per il modo in cui le usa per perseguire questioni di intenzione, individualità e implicazioni etiche del fare arte.[3]

Se un lavoro è abbastanza immediato, abbastanza vivo, la risposta più adeguata non è essere accademiche, scriverne, ma usarlo, per andare avanti. Usandoci l’un l’altra, usando i testi delle altre, continuiamo a vivere, immaginare, fare, scopare, e combattiamo a morte questa società.[4]

Allora non limitarti a leggere questo testo. Usalo – come un attrezzo, un martello, una pietra per infrangere qualsiasi barriera ti impedisca di immaginare un posto altro e migliore. I testi letterari partecipano alle conseguenze nel mondo reale.[5]

Non è vero che non sei niente. Sei vitale per la tua cultura. Noi disadattati siamo quelli capaci di entrare nel dolore. Nella morte. Nel trauma. Ed emergerne. Ma dobbiamo continuare a raccontare le nostre storie, ad affidarle l’uno all’altra, o ci mangeranno vive. La nostra sofferenza non è la storia di Cristo. La nostra sofferenza genera un significato secolare. Mettiamo al mondo delle forme ordinarie di speranza così che gli altri, trasandati o raffinati che siano, possano andare avanti.[6]

di Guia Cortassa

Kathy Acker + Lidia Yuknavitch

Ho deciso che volevo saperne di più di Kathy Acker quando l’ho incontrata per la seconda volta, nel giro di pochi mesi, in un libro che stavo traducendo. Il primo era Everybody di Olivia Laing (Saggiatore,2022), un saggio sui corpi e sulla libertà. A partire dal potentissimo “The Gift of Disease”, un articolo in cui Acker descrive il proprio rapporto con la malattia, Laing rifletteva sulla sua scelta di rifiutare le cure convenzionali per il cancro, di cui morì nel 1997. L’altro era La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch (Nottetempo, 2022), un memoir in cui Acker appare in compagnia di George Bataille e il Marchese de Sade, Dennis Cooper e William Burroughs, a formare il «ventre molle della letteratura» (e in carne e ossa, a nuotare con l’autrice).

«Ho trovato una progenitrice letteraria in Kathy Acker» conclude Yuknavitch. E in effetti tra le due c’è più di un’affinità. Per cominciare, c’è la voglia di sbattere in faccia a chi legge il dolore e la violenza del mondo, e il modo in cui ricadono sul corpo di una donna o di una bambina, senza mai edulcorare il racconto. «Una caratteristica notevole dei romanzi di Acker è che sono popolati da alter ego» scrive Laing, «che a prescindere dall’età restano povere bambine abbandonate, trascurate, precocemente sessualizzate, perse in un paesaggio psichico sudicio, pericoloso, spesso letale». Ci sono figure ricorrenti nei suoi romanzi: pirati, motociclisti, tatuatori – bambine stuprate dai padri. In L’impero dei non sensi queste figure deflagrano nel viaggio allucinato di Thivai (un pirata) e Abhor (mezza donna e mezza robot), due amanti che si odiano, nelle strade di una Parigi messa a ferro e fuoco da una rivolta algerina, alla ricerca di un farmaco salvavita. Esplode tutto: la città simbolo dei lumi europei, i corpi che – come figurine di pongo – sopravvivono a ogni brutalità immaginabile. Salta in aria l’ordine patriarcale, occidentale, del capitale. Restano le macerie in cui continua a formicolare ostinata, mutilata, la vita.

Anche i romanzi di Yuknavitch sono pieni di alter ego. C’è sempre una bambina – la bambina che è stata, la figlia che ha perso. In L’impulso è una ragazzina che viaggia nel tempo tuffandosi in acqua; in Lasciarsi cadere (Nottetempo, 2023) è l’unica superstite di una famiglia annientata dalla guerra. C’è sempre una donna che insegna a purificare il dolore nel sesso: a volte assume i connotati di una fotografa, altre della maitresse di un bordello. Sempre, è l’artefice di una catarsi. Il suo intervento sprigiona il desiderio nella scrittura di Yuknavitch, una fame di piacere, di dissoluzione, che racchiude in sé gli opposti della distruzione e della speranza. Serpeggia nei romanzi, asseconda il fluire del racconto: la speranza intima e feroce è il motore che muove la scrittura di Yuknavitch. «È il mio fuoco» spiega. «Le storie nascono dal luogo dove in me sono avvenute la vita e la morte». 

Di Alessandra Castellazzi

Giochi della matassa collettivi dentro e fuori dall’opera di Kathy Acker

Parlare di Kathy Acker a quattro voci ha creato un momento di riflessione e comprensione nuova della sua scrittura, attraverso quello che mi è sempre sembrato chiedere la sua opera: un gesto attivo di ingaggio con i suoi testi, molto più che una lettura solitaria, silenziosa e attenta. Le sue pagine hanno più spesso evocato l’idea che il modo migliore per comprenderle fosse quello di saper creare dei momenti condivisi a partire da queste, dei rituali che si riverberassero nel mondo, che uscissero in maniera radicale dall’oggetto-libro.

Quando questo accade, quello che mi colpisce sempre è vedere come ogni persona segua il proprio filo rosso, tra i molteplici che possono condurre a questa autrice, e lo percorra religiosamente sulla base della sua genealogia di Acker alla quale i propri personalissimi giochi della matassa nel tempo hanno condotto. Questo ovviamente genera a sua volta delle letture che moltiplicano la percezione che si ha della sua scrittura: il fatto di averla scoperta tramite una certa altra autrice, che ha nascosto un pezzo di lei in un suo testo, spalanca le porte a una specifica visione della sua narrativa, basata sulla fonte della scoperta, sulla sorgente che ne ha consentito la rivelazione. Lo scambio collettivo fa incontrare tutte queste diverse versioni di lei, e scoprire quante ne esistono e come si relazionano tra loro consente di osservare quello che ha visto qualcun’altra e di confrontarlo con quello che hai visto tu.

Lo facciamo con tutte le scrittrici? Lo facciamo con tutte le opere letterarie? In qualche modo sì, ma forse in una maniera diversa quando i testi in questione, e soprattutto la loro autrice, hanno molte voci e una narrativa fondata sulla liberazione di tutte queste contemporaneamente, sull’intersezione di medium diversissimi, che chiedono a chi legge di approcciarsi a ogni pagina in modo nuovo: di girare il libro al contrario, di guardare le parole diventare immagini, di decifrare una lingua inconoscibile. Forse da questo possiamo riconoscere una grande scrittrice, e non da quanto i burocrati del canone ritengano valido o meno inserire il suo nome nei loro registri, ma dalla sua capacità di rifiutare così radicalmente ogni confine da portarci fuori dal testo, e anche se in qualche modo insieme, ognuna in una direzione diversa.

di Arianna Preite

Note

1] Dodie Bellamy, Digging Through Kathy Acker’s Stuff, citato in Chris Kraus, “Littoral Madness: On Kathy Acker”, the Paris Review, 22 agosto 2017, https://www.theparisreview.org/blog/2017/08/22/littoral-madness/

[2] Chris Kraus, “Littoral Madness: On Kathy Acker”, the Paris Review, 22 agosto 2017, https://www.theparisreview.org/blog/2017/08/22/littoral-madness/

[3] Garth Greenwell “The Wild, Remarkable Sex Scenes of Lydia Yuknavitch” in the New Yorker, 25 agosto 2015,​​https://www.newyorker.com/books/page-turner/the-wild-remarkable-sex-scenes-of-lidia-yuknavitch

[4] Kathy Acker citata in Alexandra Kleeman “The Future Is a Struggle: On Kathy Acker’s Empire of the Senseless”, the Paris Review, 12 giugno 2018, https://www.theparisreview.org/blog/2018/06/12/the-future-is-a-struggle-on-kathy-ackers-empire-of-the-senseless/

[5] Alexandra Kleeman “The Future Is a Struggle: On Kathy Acker’s Empire of the Senseless”, the Paris Review, 12 giugno 2018, https://www.theparisreview.org/blog/2018/06/12/the-future-is-a-struggle-on-kathy-ackers-empire-of-the-senseless/

[6] Lydia Yuknavitch “It’s a myth that suffering makes you stronger”, Ideas.Ted.Com, 24 ottobre 2017, https://ideas.ted.com/its-a-myth-that-suffering-makes-you-stronger/


In copertina, una fotografia di Kathy Acker scattata nel 1996 (Creative Commons Licence)

All of Us Lovers: gli amori tradotti della redazione

In attesa delle vostre proposte per la Call for Translators su poesia e amore, la sezione Traduzioni di Almanacco si mette a nudo con le sue editors’ picks.

Si chiama ‘Pur sempre amore’, l’abbiamo lanciata qualche settimana fa, è una Call for translators in cui vi invitiamo a esplorare, con le vostre traduzioni poetiche, le forme, i modi e le funzioni della scrittura d’amore contemporanea. Come l’odore del cibo fa venire fame, come chi è innamorato innamora, con queste editors’ picks vogliamo farvi venire l’acquolina in bocca. Vi offriamo una specie di Satura lanx, un piatto di primizie in cui troverete un po’ di tutto: l’inglese, il francese e lo spagnolo, ma anche il greco moderno e il polacco; il verso, il verso che va verso la prosa, e la prosa; amori mortiferi esagerati erotici sconsolati bizzarri materni. Eppure, per quanto diversificata, la nostra è una selezione di testi che non vuole esaurire, quanto piuttosto suggerire, provocare, invitare ad aggiungere…

Aliquot lineae desiderantur, ‘mancano alcune linee’, è la formula che i filologi utilizzavano per segnalare la presenza di una lacuna in un testo. “Desiderantur…desiderantur…desiderantur”, insiste anaforicamente Sanguineti nel primo tassello del suo Laborintus, lasciando intuire come la lacuna in questione non sia più soltanto testuale, ma si apra nel ventaglio di una polisemica mancanza.

Donne desideranti (e non solo desiderate), donne scriventi (e non solo scritte), donne amanti (e non solo amate), donne osservanti (e non solo osservate), per esempio: una lacuna nella storia ufficiale della letteratura occidentale. Così, tradurre le voci contemporanee di Sara Torres, Bronka Nowicka, Phoebe Giannisi, ma anche le meno contemporanee di Louise Bogan e Catherine Pozzi, è il nostro tentativo parziale di colmare questa mancanza, ma è anche un modo per farvi venire voglia di tradurre, un invito ad aggiungere i vostri amori ai nostri, le vostre voci alle nostre. Perchè “solo nel coro”, diceva Kafka, “può esserci una certa verità”.

Da Phantasmagoria (La Bella Varsovia, 2019) di Sara Torres, traduzione di Camilla Marchisotti

has construido un escritorio en tu habitación nueva. la única en la qué me acuesto sabiendo que será necesario desaparecer a la mañana siguiente. hay flores secas en jarrones de cristal distinto. otras no tan muertas todavía en violáceo. verde oscuro. copa con agua. segunda fotografía de alguien que podría ser tú. tu figura y la suya son similares. vuelvo a mirar atenta. debo entenderlo todo. he de ser certera afilada contemplar todas las pistas en el mapa del dolor. seguir hasta la extenuación hasta la extenuación. busco y me encuentro también en los objetos. deseo trazar la jerarquía. más restos que lleven a mí. adherida con cinta a la pared una moneda de cinco peniques con la que codiciamos en tiempos de derrumbe. solo unos días atrás.  vamos a intentarlo ―y entonces la respuesta es no. será heroico y tozudo o no será. será grandilocuente ostentado burdeos o no será. no será si no basa su entereza en la creencia de la gran mentira. la ciega. la fe. la ciega. la fe. voy abajo hasta el poso naranja de las huellas frescas. voy al compost buceando palmas palas de arcilla rota. será caprichoso y hambriento. irrrumpiente y trastornado como el carro que desborda la velocidad de las bestias que iban tirando de él y las empuja a las esquinas del camino. flancos hacia arriba. mirando perplejas. será como el gesto de sorpresa en los ojos redondos y oscuros de las bestias súbitamente arremetidas o no será  

hai costruito una scrivania nella tua stanza nuova. l’unica in cui dormo sapendo che dovrò sparire la mattina dopo. ci sono fiori secchi in vasi di diversi vetri. alcuni non ancora così morti in viola intenso. verde scuro. acqua nel bicchiere. seconda foto di qualcuno che potresti essere tu. la tua e la sua figura sono simili. guardo di nuovo attenta. devo capire tutto. devo essere precisa affilata contemplare ogni indizio sulla mappa del dolore. continuare fino all’estenuazione fino all’estenuazione. cerco e mi ritrovo anche negli oggetti. voglio tracciare la gerarchia. altri resti che conducano a me. appiccicata con il nastro alla parete una moneta da cinque pence con cui tanto abbiamo desiderato  in tempi di rovina. appena qualche giorno fa. proviamoci ―allora la risposta è no. sarà eroico e ostinato o non sarà. sarà grandiloquente ostentato porpora o non sarà. non sarà se non basato interamente sulla credenza nella gran menzogna. quella cieca. la fede. quella cieca. la fede. scendo fino al residuo arancio delle tracce fresche. scavando verso il compost i palmi pale di argilla rotta. sarà capriccioso e affamato. dirompente e frastornato come il carro che sorpassa in velocità le bestie che lo tirano e le spinge ai lati della strada. pancia in su. sguardo perplesso. sarà come il gesto di sorpresa negli occhi tondi e oscuri delle bestie d’improvviso soggiogate o non sarà

Da Kodeks pomylonych (Biuro Literackie, 2020) di Bronka Nowicka, traduzione di Marta Wanicka

SERCE
Serce im prostsze, tym lepsze. Nie wydziwiaj przy nim. Uszyj mieszek. Nie za słaby, bo pęknie, zbyt mocny stwardnieje. Skrój go z płótna, które kurczy się i oddycha. Uchwyć właściwą pojemność. Serce ma pomieścić najcenniejsze rzeczy. Po odłożeniu igły weź coś ulotnego. Jednym dmuchnięciem tchnij płochliwość w środek. Dorzuć głośno chodzący zegarek.

CUORE
Il cuore più è semplice, meglio è. Non sbizzarrirti troppo. Cuci un borsellino. Non troppo debole, così scoppia, troppo forte poi diventa duro. Ritaglialo dal telo che si stringe e respira. Cogli la capienza giusta. Il cuore è fatto per tenere le più care cose. Dopo aver riposto l’ago prendi qualcosa di effimero. Con un soffio inspiragli l’istinto della fuga. Buttaci l’orologio che ticchetta forte.

OKO
Kulkę kwiatu bawełny nasącz wodą. Już z tego możesz uzyskać nie najgorsze oko. O ile nada się do czułego opatrzenia rany, zachowaj je jako udane. Jeżeli będzie mogło tylko widzieć – wyrzuć. 

OCCHIO
Bagna una pallina di fiore di cotone. Già così può uscirne un occhio niente male. Se si presta a fasciare con cura una ferita, tienilo per buono. Se può solo vedere – buttalo.

USTA
Usta wykop w ciele. Lej mleko w ten dół. Jeżeli płyn wsiąknie, to znaczy, że się przyjęły. Sprawdzaj, czy zamieszkał tam czerwony robak. Jeśli tak, uwiąż go do nory, by nie wyszedł dalej niż za krawędź. Codziennie pobudzaj obleńca do ruchu. Jeżeli okaże się leniwy, zrobiłeś paszczę. Lecz gdy robak zacznie się uwijać i otwór przemówi, dokonałeś ust ludzkich.

BOCCA
Scava la bocca nel corpo. Versa del latte nella fossa. Se assorbe il liquido, vuol dire che ha attecchito. Controlla regolarmente se ci è andato a vivere un lombrico rosso. Se sì, legalo alla tana, in modo che non vada oltre il bordo. Ogni giorno stimola il verme a muoversi. Se viene fuori pigro, hai creato delle fauci. Ma se il lombrico comincia a dimenarsi e il buco parla, hai realizzato una bocca umana.

SZEPT
Opakuj głos mówiący w aksamit, w którym ukryłeś listek celofanu. Podawaj zawiniątko przez wąską szczelinę.

SUSSURRO
Avvolgi la voce parlante nel velluto in cui hai nascosto un foglietto di cellofan. Il pacchettino va servito da una fessura stretta.

SŁOWO
Mowa jest niczym pokarm. Zawiera treść. Może krzepić jak cukier lub palić jak pieprz. Truje bądź odżywia. Dlatego tak wyrabiaj słowa, żeby podawane z ust do ust były jak świeże ryby, winne jabłka, miód.

PAROLA
Il parlare assomiglia all’alimentazione. Contiene sostanza. Può rinvigorire come lo zucchero o bruciare come il pepe. Avvelena o nutre. Per questo, lavora le parole in modo che servite da labbra a labbra siano fresche come pesci, mele succose, miele.

SKŁADNIA
Sztukę scalania słów poprzedzaj praktyką dotyku. Nim wypowiesz „miękka sierść”, długo trzymaj rękę na psim łbie.

SINTASSI
All’arte di assemblare le parole fai precedere la pratica del tocco. Prima di dire “pelo morbido” tieni una mano poggiata a lungo sulla testa di un cane.

WIERSZ
Uszyj brzuch. Umieść w nim embrion – zwitek czystej kartki. Przywiąż ciążę trokami i noś. Chodząc, kołysz. Kiedy poczujesz, że to już, przykucnij, przyj. W pęknięciu błyśnie główka, zmarszczone papierzątko. Przytul kukiełkę ze znamieniem pisma. Odczytaj z jej czoła pierworodny wiersz.

POESIA
Cuci un ventre. Piazzaci un embrione – foglio bianco arrotolato. Allaccia la gravidanza con le cinghie e portala. Nel camminare, ondeggia. Quando senti che è arrivato il momento, accovacciati, spingi. Nella fessura risplenderà una testolina, un pezzetto di carta sgualcito. Abbraccia il pupazzetto macchiato di scrittura. Leggi dalla sua fronte la poesia primogenita. 

Da Très Haut Amour. Poèmes et autres textes di Catherine Pozzi (ed. di Claire Paulhan e Lawrence Joseph, Gallimard, 2002), traduzione di Elena Strappato

N’ayant absolument plus aucun espoir
Ne comptant, même plus, sur l’intelligence
Comprenant que la gloire est pour les heureux ;
Empêchée de vivre de ce corps foudroyé,
Les amis étant morts,
La science utile étant pour les vivants ;
Objet d’étonnement à ceux qui passent,
Scandale à ceux qui se contentent,
Assise sans presque respirer,
Elle travaille,
Une rose au cœur.

Non avendo assolutamente più nessuna speranza
Non contando più nemmeno sull’intelligenza,
Preso atto che la gloria è per i felici;
Impedita a vivere da questo corpo fulminato,
Gli amici ormai morti,
La scienza utile riservata ai vivi;
Oggetto di stupore per i passanti,
Scandalo per chi si accontenta,
Seduta quasi senza respirare,
Lei lavora,
Una rosa al cuore.

Da Body of this Death: Poems (Robert M. McBride, 1923) di Louise Bogan, traduzione di Elena Strappato

“Epitaph for a Romantic Woman”

She has attained the permanence
She dreamed of, where old stones lie sunning.
Untended stalks blow over her
Even and swift, like young men running.

Always in the heart she loved
Others had lived,—she heard their laughter.
She lies where none has lain before,
Where certainly none will follow after.

“Epitaffio per una donna romantica”

Ha raggiunto la permanenza
che sognava, dove vecchie pietre stanno al sole.
Steli negletti le respirano accanto
rapidi e compatti, simili a giovani in corsa.

Sempre nel cuore ha amato
altri hanno vissuto – li ha sentiti ridere.
Sta dove nessuno è mai stato
dove è certo che nessuno seguirà.

Da ομηρικά (οmeriche, Kedros, 2007) di Phoebe Giannisi, traduzione di Vassilina Avramidi

“(Πηνελόπη ΙΙΙ)”

λατρεύει τα παιδιά της
όταν ήταν μικρά από το πιάτο τελείωνε αυτή το φαγητό τους
ακόμα τρώει τα υπολείμματα
και τώρα πλέον
φορά τα ρούχα της κόρης της από εκείνης ψηλότερης
όταν τα έχει βρωμίσει και στο καλάθι τα αφήνει για πλύσιμο
φορά τα καλτσάκια
και πάει μ αυτά στη δουλειά
τα λερωμένα δανείζεται
άραγε κάνει οικονομία στις πλύσεις ή
το φυλαχτό είναι ενεργό

μονάχα
όταν κρατά από το σώμα
το πιο δικό μας
ίχνος
των εκκρίσεων τη μυρωδιά;

“(Penelope III)”

adora i suoi figli
quando erano piccoli lei stessa dal piatto finiva il loro cibo
ancora mangia gli avanzi
e adesso ormai
porta i vestiti della figlia, più alta di lei
quando sporchi li lascia nel cesto del bucato
si mette i calzini
e con questi va al lavoro
prende in prestito quelli sudici
sarà per risparmiare sui bucati oppure
l’incantesimo rimane attivo

soltanto
quando mantiene dal corpo
traccia
quella più nostra
l’odore delle secrezioni?

“(Πηνελόπη IV)”

όταν γεννιέται ένα παιδί
η τρυφερότητα ρέει
όπως το γάλα απ’ τις ρώγες
ο ουρανός καθαρός
όπως τα μάτια του που θολά βλέπουν
γεννιέται μεγάλο μέσα στο τόσο μικρό

ανοιχτό και κλειστό
κάθε νεογέννητο ο Δίας στο άντρο του
θηλάζει απ’ την κατσίκα το γάλα
ανίσχυρο και για αυτό
δυνατότερο όλων
έτοιμο
έχει στα χέρια του τον κόσμο

ξύπνησα μέσα στη νύχτα
να μουρμουρίσω την αγάπη μου για αυτό
τον αγώνα τη δύναμή του για ζωή

τις κάλτσες τα ρούχα του
την δική μας ανίκητη μυρωδιά
τον ήσυχο ύπνο του
ένα απέραντο δώρο έπεσε πάλι από τα αστέρια

“(Penelope IV)”

quando nasce un bimbo
la tenerezza cola
come il latte dai capezzoli
il cielo chiaro
come i suoi occhi che guardano sfocati
nasce grande dentro quel tanto piccolo

aperto e chiuso
ogni neonato è Zeus nel suo antro
prende il latte dalla capra
impotente e perciò
più forte di tutti
pronto
tiene nelle mani il mondo

mi sono svegliata nella notte
a mormorare il mio amore per lui
la sua gara la forza per la vita

i suoi calzini i vestiti
il nostro invincibile odore
il suo sonno quieto
un altro regalo infinito caduto dalle stelle

Sette domande sul post-esotismo. Intervista ad Antoine Volodine

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Lorenzo Petrachi (Università di Bergamo; Dalla Ridda)

L’utilizzo del “noi” e del “voi”, in quest’intervista del 7 ottobre 2024, è dovuto allo statuto peculiare della funzione autore nella letteratura post-esotica, statuto accomunabile per certi versi all’eteronimia. Antoine Volodine si vuole infatti unico “portavoce” di una letteratura scritta altrove, composta da una molteplicità di voci autoriali che, nella finzione post-esotica, abitano un universo concentrazionario e prendono il nome di “surnarratori”. Tra questi, Manuela Draeger, Elli Kronauer, Lutz Bassmann e lo stesso Antoine Volodine, eteronimo sui generis del solo individuo in carne ed ossa che congegna e dà alle stampe il post-esotismo. “Essere un collettivo”, scrive, “è qualcosa di molto delicato”. Si ringraziano Anna D’Elia, traduttrice del volume Liturgia del disprezzo, e la casa editrice 66thand2nd.


Lorenzo Petrachi: Il rapporto della letteratura post-esotica con l’attività di traduzione è tutt’altro che esteriore, al contrario, si potrebbe dire che è particolarmente stretto, forse persino costitutivo. In primo luogo, perché lei, Antoine Volodine, oltre che portaparola e delegato degli scrittori post-esotici – quanto a loro morti, imprigionati, impazziti, comunque sia impossibilitati a parlare da sé fuori dalle mura del loro universo concentrazionario –, è traduttore dal russo e dal portoghese di una letteratura che non appartiene agli orizzonti del post-esotismo (con l’eccezione degli Slogans di Maria Soudaïeva). Poi, e più fondamentalmente, perché i volumi che compaiono in libreria accompagnati dalle vostre firme costituiscono le prove materiali dell’esistenza di un altrove, rappresentano e veicolano una cultura non solo relativamente, ma assolutamente straniera. Nelle vostre parole, il post-esotismo è «una letteratura straniera scritta in francese», pensata in una lingua estranea al francese, indistinta quanto alla sua nazionalità. Per questo motivo, i vostri libri prendono forma in una «lingua di traduzione» da situare a valle rispetto a un originale inaccessibile, spurio e dall’esistenza comunque incerta. Qual è il rapporto tra questa traduzione primaria e quelle che ne derivano, come ad esempio quelle in lingua italiana? In che modo gli scrittori post-esotici affrontano la traduzione dei loro libri in più lingue, tutte estranee a diverso titolo al loro mondo e alle loro abitudini?

Antoine Volodine: È un grande piacere per me essere tradotto in una lingua straniera, e in particolare – siamo in Italia – in particolare in italiano, perché ciò che adesso è disponibile in traduzione non è un piccolo libro isolato, ma già una parte dell’edificio post-esotico. Infatti, Isabella Ferretti, che dirige 66thand2nd, ha in progetto di pubblicare tutto il post-esotismo, e sono davvero molto felice di vedere questo progetto prendere forma. Si sta concretizzando rapidamente e con costanza. Inoltre, ho una traduttrice straordinaria, Anna D’Elia, che ha recentemente tradotto – ma non era il primo libro che traduceva – Liturgia del disprezzo, ed è davvero molto piacevole sapere che questi testi, che hanno all’origine un’esistenza in lingua francese, riprendono vita in Italia in altro modo, grazie alla magia della traduzione. Per me, è un vero piacere sapere che i libri esistono in un altrove vicino o lontano e toccano un pubblico non francese, dialogando con un pubblico non francofono. È magico. E infatti, come lei ha sottolineato, il fatto che il post-esotismo esista in lingue diverse, comprese lingue poco abituali, come il coreano, il cinese, lo sloveno, fa parte di questa costruzione senza bandiera che è il post-esotismo. È un’estensione del nostro progetto, un superamento degli ostacoli che esistevano all’inizio, quando la nostra «letteratura straniera scritta in francese» restava meno accessibile, meno internazionalista. Oggi questa proclamazione internazionalista è meno astratta. In Italia, diventa profonda. Questo non cambia in nulla le nostre abitudini di scrittura, i nostri fondamenti ideologici, ma rafforza il nostro progetto. Molte lingue mancano all’appello, anche in Europa. Speriamo che la situazione evolva!

L.P.: Leggendo i vostri libri e le vostre interviste ciò che risalta immediatamente è il valore che attribuite a ciò che chiamerei l’autonomia di questo universo letterario. Un’autonomia che non si illude certo di essere assoluta e che forse non è ostentata, ma che risulta inaggirabile, dacché indica precisamente l’alterità propria al post-esotismo. Avete più volte sottolineato come questo enorme edificio letterario si sia formato senza tenere conto dei gusti, delle tendenze, delle tradizioni del mondo editoriale, senza badare a eredità e filiazioni nella «letteratura ufficiale», avendo cura soltanto di produrre qualcosa che vi piacesse – cioè che piacesse a voi e al vostro pubblico immaginario, caratterizzato significativamente dalla condivisione pressoché totale della vostra sensibilità, della vostra visione del mondo, delle vostre ribellioni. Nel concreto, questa alterità si è prodotta sistematicamente, lavorando con metodo affinché nomi, luoghi ed eventi non portassero alcuna traccia che potesse ricondurli a un territorio culturale preciso, impegnandovi in una ginnastica traduttiva operante tramite l’auto-censura, la sovrapposizione di filtri onirici e la proliferazione di generi letterari inediti (narrats, entrevoûtes, Shaggäs…). Forse è anche per questo che avete descritto la vostra scrittura come non tanto schizofrenica quanto «ostinata», come una scrittura che procede, incurante, per la sua strada. Cos’è in gioco in questa questione dell’autonomia? Si tratta con ogni evidenza di un nodo cruciale della vostra poetica, dal momento che riguarda la centralità quasi fondativa del piacere dello scrittore-lettore, il metodo teorizzato e messo in opera dai surnarratori post-esotici e, di conseguenza, il procedimento di scrittura che costituisce la letteratura post-esotica in quanto tale.

A.V.: Uno dei miei obiettivi, l’unico obiettivo, è scrivere per i lettori. Includere lettori e lettrici nelle opere post-esotiche che hanno tra le mani, condividere le nostre emozioni, le nostre avventure, i nostri percorsi, e, prima di tutto, le nostre immagini. I lettori sono, in una prima cerchia, in un primo tempo, lettori immaginari, che sono prigionieri e prigioniere in una prigione immaginaria, e che forniscono anche dei frammenti di testo sui quali lavorano gli eteronimi per creare libri che appaiono all’esterno, al di fuori dei muri della prigione. Questo è il principio. Una letteratura puramente carceraria che funziona a circuito chiuso, in cui tutte le ricerche formali e le immagini, le allusioni storiche, i segreti, i falsi segreti, i giochi, l’umorismo, sono composti in un’atmosfera estremamente complice, e che, una volta pubblicata, diventerà una sorta di letteratura di poetica e di cultura testimoniale, offerta ai simpatizzanti e ai lettori e alle lettrici delle librerie. Una sequenza letteraria strana, offerta a un pubblico vasto, un pubblico che è chiamato a unirsi, simpatizzando, ai fantasmi, alle storie filmate o teatralizzate, alle ruminazioni di autori immaginari, la cui creazione è molto diversa da ciò che chiamiamo «la letteratura ufficiale». Ma, ben inteso, si può anche mettere tra parentesi questo sfondo carcerario, questa presenza genetica di un coro immaginario di voci imprigionate. Scrivo, come anche lei ha sottolineato, per il piacere di creare qualcosa che è sì marginale nella letteratura, ma che al contempo cerca di avere una propria estetica, una propria bellezza. Non nascondo che per me scrivere è un piacere, mi fa stare bene. Anche quando i passaggi che attraversano i libri sono dolorosi o inquietanti. Per la mia primissima opera, Biographie comparée de Jorian Murgrave, scrivevo soprattutto per me stesso, come avevo fatto fin dall’infanzia. Non avevo ancora pubblicato e scrivere era un piacere solitario. Ma, dal secondo libro in poi, ho preso coscienza che scrivevo per lettori concreti. E, da quel momento, ho saputo di avere il compito di coinvolgere uomini e donne concreti in sequenze di immagini, di farli entrare nelle storie e, se possibile, di renderli parte dei mondi onirici che mi perseguitavano, che ci perseguitavano.

L.P.: Alcune immagini post-esotiche portano con sé un alone piuttosto caratteristico di indefinitezza e indecidibilità. Penso ad esempio a quei personaggi che vengono descritti come uccelli, senza altre specificazioni, e che vengono poi visti compiere gesti che richiedono evidentemente una costituzione e una postura antropomorfe, senza che per questo smettano di essere degli uccelli. Si sarebbe tentati di dire che queste immagini facciano parte del funzionamento della complicità post-esotica tra scrittori e lettori, i quali, avendo una cultura, una memoria, una sensibilità comuni e condividendo la stessa necessità di eludere lo sguardo onnipresente del nemico, non hanno bisogno di esplicitarle ulteriormente, temendo anzi di venir troppo compresi da chi è estraneo alla loro solidarietà tramante e sediziosa. Queste immagini ambigue sono tali anche nel braccio di massima sicurezza o scaturiscono al contrario quali effetti di traduzione?

A.V.: Non si tratta di una questione di traduzione. Si tratta di costruire effettivamente una cultura, come ha detto anche lei, una cultura condivisa tra lettori, narratori, surnarratori. Si tratta di fare in modo che i lettori si approprino di questa cultura durante la lettura e non siano disorientati da ciò che hanno sotto gli occhi e da ciò che, consapevolmente o inconsapevolmente, emerge nei loro stessi sistemi di immagini. È nostra responsabilità, in quanto autori (parlo a nome di tutti noi, Lutz Bassmann, Elli Kronauer, Manuela Draeger e altri), riuscire in questa immersione accompagnata del pubblico nei nostri libri. Ciò significa che alcune nozioni stabilite dal “senso comune” vadano alla deriva verso un mondo più onirico, senza che ciò disturbi la lettura. Lei ha infatti segnalato una porosità completa tra l’animale e l’umano, che non è decisa, non è decidibile, e che consente, penso, al lettore di sognare a modo suo, di introdursi in personaggi totalmente marginali, estremamente mal posizionati nel mondo. Nei nostri romanzi più recenti, questa porosità si estende anche tra viventi e non viventi. Molti dei nostri personaggi non appartengono al mondo dei viventi, ma agiscono con normalità (con una normalità relativa), sebbene ciò avvenga dopo la morte, in mondi oscuri (come in Black village) o luminosi (come in Terminus radioso). In generale, si potrebbe dire che tutti questi mondi sono «magici», un aggettivo che uso con cautela, poiché troppo utilizzato, a torto e a ragione. Ci organizziamo affinché lettori e lettrici siano trasportati là dentro e ammettano questa nuova normalità che offriamo loro…

L.P.: L’edificio post-esotico sta per completarsi con la pubblicazione del quarantanovesimo volume, il ciclopico Retour au Goudron, cui lavorate ormai da molto tempo e che verrà firmato col nome collettivo di Infernus Iohannes. Antoine Volodine ha recentemente pubblicato il suo ultimo romanzo, Vivre dans le feu, congedandosi in maniera tutt’altro che mesta dal mondo editoriale, mentre Manuela Draeger ha annunciato Arrêt sur enfance, quarantottesimo e dunque penultimo tassello del mosaico. Come hanno preso il ritiro Elli Kronauer e Lutz Bassman? E Volodine, cos’ha intenzione di fare adesso, raggiungerà «finalmente» gli altri nel braccio di massima sicurezza? Come immaginate, una volta stampata l’ultima frase, quel «mi taccio» [Je me tais] che chiuderà Retour au Goudron, la posterità di questo strano oggetto letterario che è il post-esotismo?

A.V.: Innanzitutto, è molto difficile immaginare una posterità. E d’altra parte, l’ultima frase – l’ho detto e ridetto – sarà proprio «Je me tais», taccio, e, dopo essermi taciuto, non farò più apparizioni pubbliche né pubblicazioni. Vedo che è molto informato sugli ultimi titoli. Effettivamente, Manuela Draeger pubblicherà tra qualche mese, nella primavera del 2025, Arrêt sur enfance, che sarà l’ultimo titolo dell’edificio post-esotico romanzesco propriamente detto. Abbiamo dato grande importanza alle voci femminili in tutte le nostre opere (qualunque ne sia stato l’autore) e Manuela Draeger ha firmato moltissimi testi dell’edificio: è normale che dopo «l’ultimo di Volodine» esca «l’ultimo di Manuela Draeger» per chiudere il ciclo. Poi ci sarà un’ultima performance. Se vogliamo considerare la scrittura del post-esotismo come una performance letteraria che si è svolta per quarant’anni, allora questo ciclopico Retour au Goudron è una performance nella performance. Firmato Infernus Iohannes, 4000 pagine e anche più, 4400 pagine, 343 brochure «bardiche», con fotografie, testi e rubriche regolari: un oggetto gigantesco che non può avere una sua esistenza editoriale e si presenterà quindi (almeno in un primo momento) come una scultura labirintica, posta nello spazio di un’esposizione. Una struttura a cerchi concentrici, artistica, architettonica, ipnotica, nella quale i visitatori (non avendo quindi più lo statuto di «lettori») saranno invitati a passeggiare e a immergervisi. Le 4400 pagine saranno esposte – è enorme. Un oggetto onirico, concreto, posato nel mondo reale da tutti gli autori post-esotici: la firma Infernus Iohannes è collettiva e raggruppa tutte le voci del post-esotismo, anonime e non anonime. Non ci sarà alcun testo firmato all’interno di queste innumerevoli pagine. Infernus Iohannes, lo ricordo, è già esistito editorialmente nel panorama francese con un libro uscito due anni fa, Débrouille-toi avec ton violeur. Ma nel caso di Retour au Goudron, che non vedrà la luce prima del 2026-2027, entreremo tutti in un’altra dimensione.

L.P.: In diverse occasioni, avete spiegato che il post-esotismo è nato a tastoni e intuitivamente, facendosi man mano, dunque senza un progetto ben definito a monte e senza seguire tracciati o costrizioni compositive particolarmente vincolati, del tipo Oulipo. Ora, a un passo dal completamento di tale edificio, in che modo è cambiata, se è cambiata, la vostra visione di questa impresa? Più in generale, qual è la temporalità propria alla letteratura post-esotica? Si tratta di una letteratura immobile o ha al contrario attraversato delle fasi? Come appaiono, retrospettivamente, i vostri primi quattro romanzi editi – tra cui Rituel du mépris, appena apparso in traduzione italiana – e che sono in qualche modo precedenti alla presa di coscienza di sé da parte del post-esotismo? A noi lettori, probabilmente con una bramosia del principio che non vi appartiene, viene senz’altro voglia di leggere Biographie comparée de Jorian Murgrave

A.V.: I primi quattro libri che ho pubblicato non sono i primi quattro libri che ho scritto. Ho scritto moltissimo sin dall’infanzia, come si vede in Scrittori, dove figura l’episodio autobiografico del piccolo ragazzo preso da una trance di scrittura. Ho iniziato a pubblicare solo nel 1985, avevo 35 anni, e ho lasciato dietro di me numerosi manoscritti che non erano affatto destinati alla pubblicazione e che, peraltro, ho praticamente distrutto integralmente, secondo il principio «non lasciare tracce». Già in questi primi scritti c’era una sorta di slancio scritturale, di slancio nei temi, e nel modo di costruire i romanzi a partire da frammenti e da voci incrociate, che si ritrovano poi nei miei quattro primi libri pubblicati. Sono stati pubblicati in una collana di fantascienza, ma, per me, erano soprattutto e prima di tutto, marginali rispetto alla letteratura francese, e non segnati dal marchio della fantascienza. Non sapevo davvero cosa stessi facendo, semplicemente era per me chiaro che non mi collegavo a nessuna tradizione contemporanea ben definita. Avevo in mente molta letteratura sovietica, molta letteratura fantastica, molto surrealismo, molte influenze cinematografiche, ma ero consapevole di iniziare a camminare su un sentiero nuovo. E quindi ho continuato su questa scia, e infatti, è dopo una decina di romanzi, forse anche un po’ prima, che il progetto si è veramente cristallizzato per mostrare questa idea del post-esotismo come letteratura completa, a parte, totalitaria anch’essa, che non guarda né a destra né a sinistra, che non considera ciò che accade nella letteratura contemporanea, ma che si costruisce completamente, senza concessioni, con le proprie esigenze e le proprie regole. E poco a poco, effettivamente, ho camminato su questo sentiero, sempre con piacere, senza costrizioni, guardando indietro, senza rimpiangere ciò che avevo già pubblicato. I miei libri, i nostri libri, sono spesso molto diversi l’uno dall’altro. Nessuno, a mio avviso, deve essere considerato un errore, qualcosa da correggere o da dimenticare. Così, le stranezze narrative si sono completate per costituire un edificio che sta in piedi, e che noi rivendichiamo tutti senza sfumature. E oggi, dove l’edificio sta per essere coronato da questa performance, Retour au Goudron, non ho più quell’angoscia che a lungo ho provato. Avevo paura di non avere il tempo (per motivi fisici, di invecchiamento, medici, ecc. – ma mai per mancanza di ispirazione!) di terminare il progetto: di firmare 49 titoli e di scrivere la famosa frase «Je me tais». Ora, invece, posso tirare un sospiro di sollievo: è fatta!

L.P.: Forse da sempre, ma apparentemente con una centralità via via maggiore, uno dei motivi ricorrenti del post-esotismo è ciò che di recente ha descritto come la volontà o addirittura l’arte di riuscire a sopravvivere in un contesto sempre più sfavorevole e inospitale, rispetto cui ciò che abbiamo appreso non sempre risulta adeguato e sufficiente. Proprio quest’anno è comparso un suo scritto piuttosto atipico, un «racconto morale», le cui conclusioni sono così formulate: «Una volta nel Bardo, non contare troppo sulle Tesi d’aprile per uscirne». Non avete mai smesso di ribadire il vostro rifiuto di una letteratura che voglia imporre una visione del mondo o delle tesi, così come la disillusione degli scrittori post-esotici nei confronti del potenziale politico della letteratura. Ma d’altra parte avete anche sottolineato come, negli anni, la tonalità dei vostri libri sia andata modificandosi, accompagnando a suo modo la storia mondiale, le sue inversioni e i suoi crolli. Così, ad esempio, la fine dell’umanità è divenuta un tema più insistente, e oggi è davvero difficile, leggendovi, non pensare alla catastrofe ecologica e a tutta una serie di crisi conclamate e tra loro incrociate. Se il post-esotismo non vuole proporre niente di utile per confrontarsi con le sfide della contemporaneità, come dobbiamo intendere questo suo intervento inatteso nel dibattito francese che cerca di ripensare il rapporto tra letteratura e politica?

A.V.: Sin dall’inizio delle mie pubblicazioni, i libri che sono stati pubblicati erano caratterizzati da una riflessione politica profondamente rivoluzionaria, ribelle, con una visione del mondo marxista e che rimane tuttora totalmente marxista. Ma devo segnalare comunque che i miei primi libri sono esistiti in un momento in cui l’URSS esisteva e non era affatto pronta a scomparire. C’era nel mondo uno scontro tra, diciamo, una forma di socialismo e il capitalismo. Dopo gli anni di tumulto che hanno segnato la fine del XX secolo, l’alternativa tra socialismo e barbarie è cambiata e solo la barbarie è rimasta. Viviamo – a mio avviso, ma non sono l’unico a pensarla così – viviamo in un mondo barbaro. L’assenza di prospettiva è molto più grande rispetto agli anni ’80, quando uscivano i miei primi libri, in cui l’idea stessa della rivoluzione mondiale esisteva ancora. La rivoluzione mondiale non era un fantasma, un delirio militante, era concretamente davanti a noi. Oggi, siamo entrati in un periodo buio dell’umanità, ecco perché a partire dall’inizio del XXI secolo, si osserva un’evoluzione nel trattamento delle mie storie, dei miei personaggi. Per ogni autore, l’evoluzione è normale, e, anche se le mie opere “giovanili” sono rimaste nell’ombra, anche se, in un certo senso, i miei primi libri appartengono a un periodo di scrittura che si può definire “maturo”, il post-esotismo è evoluto. Non posso riscrivere all’infinito gli stessi libri. Mi sono interessato – dico “mi” per riferirmi a tutti gli autori post-esotici, Lutz Bassmann, Manuela Draeger, Elli Kronauer e Infernus Iohannes come collettivo – ci siamo interessati più spesso a destini individuali segnati da un cammino nell’aldilà. Il Bardo Thödol è il nostro faro poetico, Libro dei morti tibetani racconta che dopo la morte la vita continua. E quindi, se all’inizio nei nostri primi libri le storie già si situavano «dopo il crollo», «dopo la fine», con personaggi che si dibattevano negli incubi che seguono la catastrofe, nei nostri ultimi libri, il più delle volte, i personaggi hanno un altro status. Prima sopravvissuti, combattenti di una realtà amara e terribile nei primi titoli, diventano non viventi negli ultimi. Non si preoccupano più della catastrofe, sono in cammino verso la propria estinzione, sono passati in un aldilà della morte, in un aldilà dell’umanità. Intorno a loro il mondo è molto meno frenetico di quello descritto in Liturgia del disprezzo. L’estinzione del vivente è avvenuta, l’estinzione dell’umanità è quasi totale, come per l’elefante di Gli animali che amiamo, per esempio (o in Terminus radioso, o in Angeli minori, ecc.). Certamente, si può vedere qui non solo un’evoluzione dell’autore, ma anche il cambiamento di prospettiva che si è aperto fin dalla fine del XX secolo: la fine programmata dell’umanità, il suo suicidio inevitabile, la crescente prossimità della guerra nera generalizzata, ecc. Sempre più spesso i nostri personaggi accompagnano la fine e, con l’umorismo del disastro che ci caratterizza, pensano al fallimento di tutto ciò che è venuto prima. E quindi camminano nel buio, nelle ceneri della civiltà. Non combattono più come Moldscher in Liturgia del disprezzo.

L.P.: Da lettore appassionato e simpatizzante del post-esotismo, ho sempre cercato di accettarne le regole, consapevole che «il vero lettore del romanzo post-esotico è uno dei personaggi del post-esotismo». Ho dunque letto i vostri libri senza farmi troppe domande, perché la complicità presupposta tra scrittore e lettore implicava che io dovessi già conoscere le risposte e che i vuoti, le divagazioni, le menzogne contenute nel testo non erano rivolte a me, ma agli inquisitori estranei al nostro patto che a un certo punto, immancabilmente, l’avrebbero maneggiato, ponendogli domande senza risposta poiché, con le vostre parole, «non c’è nessun enigma, il libro sigilla un’alleanza amorosa che la bruttezza della politica e della guerra non può intaccare». Per questo, come probabilmente già saprete, non è un compito facile intervistarvi, bisogna cercare di schivare lo scenario dell’interrogatorio, dell’interpretazione, della spiegazione… Che rapporto avete con la critica, le letture e le interpretazioni più o meno accademiche della vostra opera? È possibile fare un’analisi non inquisitoriale?

A.V.: Ovviamente, non penso che i ricercatori siano degli inquisitori. Questo è scontato. La maggior parte sa che in Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, c’è una descrizione terribile dei critici che vengono in prigione a porre domande sul post-esotismo, sulle forme del post-esotismo, sulle tematiche del post-esotismo. E naturalmente, non possono fare a meno di essere imbarazzati e di dire: «spero di non essere come Niuki e Blotno che pongono queste domande»! Ma in realtà, ho ottimi rapporti con tutta la critica letteraria che, forse perché i miei libri sono abbastanza particolari, abbastanza ricchi, pone diverse questioni che sono interessanti anche per me. Quindi, certo, ho avuto l’occasione di leggere molti lavori accademici, in Francia in particolare, con approcci che non capisco dal punto di vista tecnico – non sono capace di comprendere un certo numero di questioni che si pongono sulla diegesi, sulla focalizzazione interna, ecc… sono cose che mi risultano piuttosto oscure. Perché personalmente non ho questa formazione e perché mi muovo a tentoni, nella mia scrittura, cercando essenzialmente di trasmettere immagini, impressioni, sogni. Ho le mie tecniche, un laboratorio davvero poco definibile, e la pretesa suprema di riuscire a entrare in contatto con il lettore e con la lettrice, di avviare un dialogo «da inconscio a inconscio». Tutto è spontaneo, non teorizzato, con molto lavoro. Non cerco, appunto – poco fa ha parlato di Oulipo – di obbedire rigorosamente a delle costrizioni che degli scrittori accademici potrebbero imporsi, per esempio: nella stesura del mio libro, a quale schema eterodiegetico o non so cosa risponderà questo personaggio?. Sto caricaturando, ma so che questo avvelena tutta la spontaneità di quegli scrittori che sanno sin troppe cose sul processo di scrittura. Questo tipo di questioni mi è estraneo. Ma lo accetto, e mi diverte anche molto essere analizzato. C’è un tipo di analisi che non ho mai visto fare finora ed è la psicoanalisi. E poiché ci sono moltissimi aspetti fantastici e onirici in ciò che scrivo, sono un po’ stupito che non ci sia stato un approccio psicoanalitico al post-esotismo. Ma forse è un bene che al momento non ci sia, perché potrebbe implicare il rischio di bloccarmi completamente sul finale. Di non riuscire a scrivere «Je me tais» e, al contrario, di sdraiarmi su un divano e parlare, parlare, parlare…


Nato in Francia (Chalon-en-Saône) nel 1950, ANTOINE VOLODINE è uno scrittore che sfugge a ogni classificazione. 

Dopo un’attiva partecipazione al movimento del ’68, denunciando da allora le derive della «barbarie planetaria», si è dedicato a studi di lingua e letteratura russa. Con il romanzo Biografia comparata di Jorian Murgrave (Biographie comparée de Jorian Murgrave, 1985, nt) ha esordito nel genere della fantascienza, rivisitato con pratiche di sconfinamento linguistico e tematico in direzione dei grandi classici della sua formazione, da Lautréamont a Beckett, da Dostoevskij ai formalisti russi degli anni ’20, alla narrativa latinoamericana degli anni ’70. Nelle sue opere successive (Alto solo, 1991, nt; I nostri animali preferiti, Nos animaux préférés, 2006, nt; il romanzo Scrittori, Écrivains, 2010) ha sviluppato le sue pratiche di attraversamento dei più diversi generi letterari proponendo una concezione della scrittura come «arte marziale», corpo a corpo con gli stereotipi e i limiti della narrazione e del pensiero. I suoi testi hanno ricevuto numerosi premi, compresi i prestigiosi Prix Wepler e Prix du Livre Inter assegnati entrambi ad Angeli minori, edito in Italia da L’Orma Editore nel 2016. Nello stesso anno esce Terminus radioso (66thand2nd), vincitore del Prix Médicis 2014. Nel 2024 esce Liturgia del disprezzo (66thand2nd), dall’originale Rituel de mèpris.

“Se il sole tramonta, qualcosa ne saprà”: Sonderkommando di Yiannis Stiggas

Introduzione e traduzioni dal greco moderno a cura di Vassilina Avramidi.

In Negotiating with the Dead, Margaret Atwood descrive l’esperienza della scrittura come «un rischioso viaggio nell’aldilà», con l’obiettivo orfico di riportare alla luce le voci disperse nel regno dei morti.1 Le sfide, però, non intimoriscono il poeta greco Yiannis Stiggas, che intraprende la discesa agli inferi dei crematori, per dar voce agli incompresi della Shoah. I testi di Sonderkommando (Άγρα, 2023) emanano un male che è tutt’altro che banale: i personaggi principali sono, appunto, i membri delle squadre speciali composte da quei detenuti ebrei che nei campi di concentramento venivano obbligati dai nazisti, sotto minaccia di morte immediata, a collaborare allo sterminio del loro stesso popolo.

Nei versi di Stiggas, i Sonderkommando formano un coro inusuale, e cantano «con la morte adosso»2 le torture che continuano a subire, da uno strano luogo in cui il tempo ha smesso di scorrere. Anzi, sono proprio loro a dover spingere la Ruota del Tempo, costretti forzatamente a lavorare anche post mortem. Alle liriche corali si alternano singole poesie-incontri tra il soggetto poetico e personaggi ben noti del Terzo Reich, o intellettuali sopravvissuti al genocidio. Ne «L’angelo bianco», le memorie di Josef Mengele si intrecciano con quelle universitarie dello stesso Stiggas che, ancora studente, sradica il cuore di una rana, e lo sente fantasmaticamente battere sulle proprie unghie per ore, ancora e ancora.3 Qualche pagina dopo, si palesa Jean Améry, per dare al poeta qualche consiglio di scrittura: «mi manca solo un tuo verso», gli dice, «ciò che scrivevi da piccolo / che il sangue si sparge / sempre in tempo presente» («απλώς μου λείπει ένας στίχος σου / εκείνο που ‘γραφες μικρός / ότι το αίμα χύνεται / πάντα στον ενεστώτα»). Proprio al presente ci parla ancora Adolf Eichmann, che ignaro del suo status attuale cerca disperatamente i prossimi capri espiatori negli elementi naturali.

Dal collage di Soña Spitzová sulla parte anteriore della copertina, al disegno di František Brozan sul retro,4 morti ad Auschwitz all’età di tredici e undici anni rispettivamente, Sonderkommando si configura come «un luogo di lamento» (« τόπος οιμωγής»), e il lettore spesso condivide il sentimento di «imbarazzo» («αμηχανία») del poeta, preannunciato in esergo: «questo Mondo / ho balbettato / è specchio del mio imbarazzo» («αυτός ο Κόσμος / ψέλλισα / είναι φτυστός η αμηχανία μου»). Rimane ancora da capire se, tra i versi di Stiggas, imbottiti di memoria e di storia, riusciremo a trovare anche «calore nei colori».

Yiannis Stiggas, Sonderkommando

Sonderkommando, p. 14-15

Κατά τ’άλλα βαριόμαστε
εδώ κάτω
ο Χρόνος είναι χειροκίνητος
γυρνάμε τον τροχό για τον Τροχό
και συνθλίβουμε
                          τούτη την Άνοιξη
κλείνοντας το μάτι στην επόμενη

κατά τ’άλλα
η εργασία απελευθερώνει
(μισή αλήθεια που σκουριάζει – την ίδια ώρα
που οι ολόκληρες γίνονται λίπασμα)
Ύστερα πέφτει μια ψιλή βροχούλα
και ιδού
              ο ασφόδελος Μιχαήλ
ιδού
              η λυγαριά Μαρία
με τα μακριά ικετευτικά κλαριά
Άααχ
αγαπήσαμε τη φύση
              για τους λάθους λόγους
στις τρεις διδαχές
              οι δυο είναι κάτεργο

– αδυνατώ να το εξηγήσω αυτό –

Αλλά
για να δύει ο ήλιος
κάτι θα ξέρει.

Sonderkommando, p. 14-15

Per il resto ci annoiamo
qui sotto
il Tempo è manuale
giriamo la ruota per la Ruota
e schiacciamo
                          questa Primavera
strizzando l’occhio alla prossima

per il resto
il lavoro rende liberi
(mezza verità che si ossida – mentre
quelle intere si fanno concime)
Dopo cade una pioggerellina
ed ecco
              Michele, l’asfodelo
ecco
              Maria, l’agnocasto
dai rami lunghi, supplicanti
Aaah
amavamo la natura
              per le ragioni sbagliate
sui tre insegnamenti
              due sono torture

– questo non riesco a spiegarmelo –

Però
se il sole tramonta
qualcosa ne saprà.

Sonderkommando, p. 30

Δεν έχω αμφιβολίες πια
η γλώσσα μου θα γίνει βυσσινιά
θα βρούμε θαλπωρή στα χρώματα.
Δυο σαλαμάνδρες καταπράσινες
θα δικαιώσουν – εν αγνοία μου – το κρανίο μου
αργότερα θα ερωτευτούν
           La vita nuova!
La vita nuova, μέσα στ’ατάραχο μυαλό
      του μαυρομπούμπουρα
Φέρνει πέντ’-έξι σβούρες
                      και σωριάζεται
σαν τιποτένιος στις καμέλιες

θα σας ξανάρθω
σύντομα

Εχθές στο συρματόπλεγμα
καθόταν κόκκινο υμενόπτερο,
πλησίασα δειλά
                         δειλά
στιγμούλα δεν πετάρισε –

το φίλησα στο στόμα.

Sonderkommando, p. 30

Non ho più dubbi
avrò la lingua color amarena
troveremo calore nei colori.
Due salamandre verdissime
riabiliteranno – a mia insaputa – le mie ossa
più tardi si innamoreranno
           La vita nova!
La vita nοva, dentro la mente serena
      del calabrone nero
Fa cinque-sei giri
                      e poi crolla
come un nulla sulle camelie

tornerò a trovarvi
presto

Ieri sul filo spinato
si sedeva imenottero rosso,
l’ho avvicinato con timore
                         con pudore
– non ha battuto ciglio

gli ho dato un bacio in bocca.

Η θλιβερή πασιέντζα του Αϊχμαν

Δεν ξέρω τι γυρεύω εδώ

Το Έλεος δεν έχει μηχανή
          δεν έχει
ούτε ένα τόσο δα γρανάζι
κι εγώ ήμουν γραναζάκι πάντοτε
μαθήτευσα να φέρνω
τέλειους κύκλους
            να συμπλέκομαι
μ’ άλλα γρανάζια μεγαλύτερα
με -αν το θες- ιμάντες

Δεν ξέρω τι γυρεύω εδώ

Όταν ζυγίζεις τις ψυχές με την οκά
μοιραία γίνεσαι μπακάλης
-δεν θα ΄χες τύχη στα τεφτέρια μου-
Δεν φταίει ο Βάγκνερ
            φταίει το θρόισμα
δεν φταίν τα τραίνα
           φταιν τα κάρβουνα
-από τι φτιάχνονται τα κάρβουνα;-
φταίνε, σαφώς, τα δέντρα

Οι σοφιστείες μου σκαρφαλώνουν εύκολα
μέχρι τη μεγάλη σοφιστεία:
           τον Θεό
αν θες να τον κρεμάσεις – κρέμασ’ τον

ψευτοφονιά μου,
                          τριτοδεύτερε

το ξέρω θα με χρειαστείς
ίσως σε χίλια χρόνια
όσο βαστά ένα Ράιχ
όσο βαστά το μίσος μου
εγώ θα είμαι εδώ
                          για σένα.

Il triste solitario di Eichmann

Non so che ci faccio qui

La Pietà non ha motore
          non ha
neanche un minimo ingranaggio
ero anch’io ingranaggio minuscolo
ho appreso a tracciare
cerchi perfetti
            ad allacciarmi
con altri ingranaggi più grandi
con -se preferisci- delle cinghie

Non so che ci faccio qui

Quando pesi le anime all’etto
è destino, sarai bottegaio
-non avresti successo nei miei blocchetti-
Non è colpa di Wagner
            è colpa del fruscio
non è colpa dei treni
           è colpa del carbone
-di cos’è fatto il carbone?-
è colpa, certo, degli alberi
I miei sofismi si arrampicano facilmente
fino al grande sofisma:
           Dio
se lo vuoi impiccare – impiccalo

caro finto assassino,
                          farabutto
lo so, ti servirò
forse tra mille anni
per quanto dura un Reich
per quanto dura il mio odio
io sarò qui
                          per te.

  1. Margaret Atwood, Negotiating with the Dead: A Writer on Writing, [Cambridge University Press, 2002] Virago: London, 2009, p. 152. ↩︎
  2. Salmen Gradowski, Sonderkommando. Diario di un crematorio di Auschwitz, 1944, Carlo Saletti, Philippe Mesnard (a cura di), Marsilio: Venezia, 2021. ↩︎
  3. Yiannis Stiggas, Sonderkommando, “Ο λευκός άγγελος”, p. 16-17. ↩︎
  4. Entrambi provenienti da “… I never saw another butterfly…” – Children’s Drawings and Poems from Terezin Concentration Camp 1942-1944, Schocken 1987. ↩︎

Niente di nuovo sul fronte dello Strega

A cura di Lorenzo Di Palma.

Quando il 9 ottobre 2024 mi sono collegato su RaiPlay per seguire la cerimonia finale del Premio Strega Poesia, mi trovavo nello stato d’animo di chi si appresta a partecipare ad una veglia funebre: malinconia, generale disagio e il timore di rivedere amici e conoscenti in uno stato di profonda prostrazione. Non c’è infatti un luogo dal quale un poeta dovrebbe tenersi più alla larga di un palco in diretta nazionale. Le caratteristiche del Premio erano già state ampiamente riassunte nel corso della prima edizione. Sarebbe inutile ora stilare una lista dei pro e dei contro dei singoli libri finalisti; cercare tra loro un minimo comune denominatore; snocciolare le peculiarità dell’opera vincitrice.

Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: il Premio Strega Poesia esiste in quanto perfetto coronamento di un sistema editoriale che, per funzionare a dovere, richiede ingenti investimenti nell’ambito pubblicitario e della promozione. Il meccanismo stesso di selezione, che prevede in una prima fase la pubblicazione di una lista di più di cento libri “candidati”, incarna alla perfezione il desiderio delle case editrici di venire accostate, anche solo con la presenza nel listone, al prestigioso nome dello Strega. In effetti la lista dei candidati pre-dozzina è sempre più coincidente con quella dei libri di poesia pubblicati tout court in Italia.

Una delle caratteristiche che il neonato Strega Poesia ha cooptato dalla sua versione adulta di prosa è quella di nascere già ricoperto da una patina di polvere come tutte le cerimonie nazional-popolari che si svolgono a Roma, dove un tempo il papa consegnava l’alloro al poeta che ne avesse fatto espressa richiesta, e non è superfluo sottolineare che il Premio conserva un suo nucleo coriaceo locale (basti pensare che sette sui dodici membri totali del comitato scientifico sono nati nella Capitale). Da questo punto di vista, nessuna sorpresa per un premio come lo Strega che ha sempre avuto una tradizione familiarista, essendo di fatto legato ad un salotto letterario e ad un gruppo di lettori molto specializzati, uniti da un senso di cameratismo che è proprio delle specie protette.

La sorpresa non è stata molta nemmeno per quanto riguarda la vittoria di Stefano Dal Bianco con il suo Paradiso (Garzanti, 2024), un libro già ampiamente individuato come favorito dal momento della pubblicazione, essendo il Premio Strega Poesia anche una specie di premio alla carriera (si veda la vittoria di Vivian Lamarque nella prima edizione), ma prima di tutto una struttura di promozione solida e rodata per i grandi gruppi editoriali.

Tornando proprio alla questione della promozione, è curioso notare come al giorno d’oggi il tour promozionale di un libro possa impegnare un autore fisicamente e psicologicamente più di quanto non lo tenga impegnato l’esercizio vero e proprio della scrittura. Dirò forse una banalità quando dico che ormai non esiste in Italia una letteratura (e in particolare una poesia) che sopravviva soltanto attraverso la fruizione dei libri. È come se la promozione del libro fosse diventata essa stessa il centro dell’operazione culturale legata a quel libro specifico. Nel caso dei libri di poesia, poi, la faccenda assume spesso inquietanti tratti religiosi: la presentazione è il vero rito; il libro è lo strumento; l’autore il sacerdote. A volte immagino Rainer Maria Rilke a bordo di una Fiat 501 Torpedo partita da Duino che fiancheggia la costa adriatica, raggiungendo a sera la Feltrinelli di Venezia giusto in tempo per presentare le sue Elegie, e questa idea mi provoca un profondo imbarazzo.

Essendo ormai il ciclo vitale di un libro paragonabile a quello di alcuni piccoli molluschi invertebrati, ovvero circa tre mesi, è naturale che il sistema editoriale vigente sia improntato alla pubblicazione di più proposte possibili, lasciando poi alla selezione naturale il compito di scremare gli elementi deboli, facendo risaltare i sopravvissuti.

Il sistema dei premi letterari italiani, tra i quali lo Strega ricopre il ruolo di primus inter pares, sembra insomma aver garantito svariati benefici, tra cui spicca quello di creare un nesso solido tra produzione editoriale, già predisposta internamente verso le “opere da premio”, e il gusto del pubblico, avvalendosi di una fitta rete di mediatori. Uno di loro è Edoardo Prati, presente alla cerimonia di premiazione in quanto rappresentante della giuria dei giovani.

Prati è un ragazzo di 20 anni che conta mezzo milione di follower su Instagram e che svolge un lodevole ruolo nel mondo dell’intrattenimento legato alla letteratura, incarnando quasi fisiognomicamente la parte dello studente di lettere classiche.

Ma benché la principale caratteristica di Prati sia la sua giovinezza, si ha come l’impressione che gran parte del suo pubblico di riferimento sia quello dei quaranta-cinquantenni, ormai troppo lontani anagraficamente per comprendere a pieno la sua gimmick.

Fuoriuscendo dal campo delle ipotesi, è un dato di fatto che ormai gli editori di libri si siano in parte trasformati in editori di personaggi e per quanto riguarda l’Italia sarebbe anche possibile tracciare un’evoluzione di questo fenomeno facendolo partire dall’acquisizione da parte dei Fratelli Treves dei diritti di Gabriele D’Annunzio, ma non è questa la sede adatta.

Il fatto è che non esiste in Italia un pubblico di lettori abbastanza forte e folto da poter sostenere da solo la vitalità di un’opera letteraria sul mercato e spesso i libri di qualità, stando ai dati delle vendite, si fermano a poche centinaia di copie.

Incidentalmente, il giorno seguente la cerimonia dello Strega Poesia, mi sono trovato ad assistere alla proclamazione del Nobel per la letteratura sullo schermo del mio smartphone. La vittoria della coreana Han Kang mi ha portato a fare una di quelle riflessioni peregrine che si fanno di solito davanti al caffè la mattina.

Leggendo La vegetariana (Adelphi, 2016) mi sono chiesto cosa mancasse all’Italia per diventare un paese esportatore di letteratura, e cosa mancasse agli scrittori italiani in termini di internazionalità, carisma e forse qualità. Volendo per un momento attribuire al Nobel un’importanza che forse non riveste, è interessante notare che paesi come la Francia, dotati di un sistema editoriale in salute e di una buona risonanza internazionale, abbiano vinto negli ultimi venti anni ben tre volte il Nobel per la letteratura (in totale quindici volte dalla creazione del premio). Di contro l’Italia non vince il Nobel per la letteratura da ventisette anni; la letteratura italiana pare esprimere timidi tentativi di radicamento all’estero (è il caso di Elena Ferrante negli ultimi anni) e sembra che nessun premio letterario italiano sia improntato ad una libertà dai vincoli di amicizia e contiguità, né che sia capace di selezionare un livello di letteratura in grado di spostarsi all’estero con le proprie gambe, come accade per il premio Goncourt in Francia o per il Premio Pulitzer negli Stati Uniti. E questo qualcosa vorrà pur dire.

Per approfondire sul Premio Strega si consiglia la lettura di Caccia allo Strega di Gianluigi Simonetti (Nottetempo, 2023) e dell’articolo di Alberto Casadei pubblicato su Doppiozero intitolato Cosa manca ai premi letterari?.


In copertina: miniatura da Olao Magno, Historia de gentibus septentrionalibus, Liber XIII. De agricultura et humano victu, Cap. XXXVII. De ritu bibendi Septentrionalium populorum (1555).