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Su “Tutte le poesie” di Cosimo Ortesta

Nota di lettura a cura di Federico Di Mauro.

In questi giorni esce per Argolibri l’opera completa del poeta e traduttore dal francese Cosimo Ortesta (1939-2019), a cura di Jacopo Galavotti, Giacomo Morbiato e Vito M. Bonito. Il volume persegue coerentemente il progetto della casa editrice di Macerata di riproporre autori fuori canone del Novecento italiano. Già ampiamente conosciuti i bei volumi sull’opera omnia di Corrado Costa e su Trilce di Cesar Vallejo. La collana Talee ancora una volta si distingue per la grande cura critica ed editoriale: come nelle precedenti uscite, le introduzioni e le postfazioni si pongono come un luogo di dibattito critico serio, a margine di una riflessione generale sulla poesia d’avanguardia di ieri e di oggi.

Ortesta ha fatto fatica a trovare uno spazio nelle antologie della poesia recente, a eccezione della breve comparsa tra le pagine di Dopo la lirica di Enrico Testa. Le ragioni sono espresse da Galavotti e Morbiato nel saggio Una sola digressione ininterrotta. Cosimo Ortesta poeta e traduttore (Padova University Press), che tre anni fa ha aperto la strada per la riscoperta del poeta. Oltre a essere ostile al conformismo dei salotti letterari italiani, Ortesta era un poeta consapevolmente e orgogliosamente anacronistico. Esordiente a oltre quarant’anni con Il bagno degli occhi (1980), opera emblematica e barocca che molto deve a Mallarmé e ai poeti di Tel Quel (Sollers, Jaccottet, e altri), egli traccia una parabola autoriale insolita e difficilmente catalogabile. Da un lato, riprende con coerenza il materialismo che aveva animato la cultura francese del Sessantotto – già ampiamente dismessa all’altezza degli anni Ottanta, per non dire negli anni Novanta; dall’altro, impegna un dialogo serrato con se stesso, che di raccolta in raccolta lo porterà a chiudersi nei temi e nei motivi più ossessivamente personali: la memoria, la malattia, il disfacimento del corpo, la morte.

Letta oggi, la poesia di Ortesta ha un importante valore documentario perché ritrae un momento di svolta della poesia del secondo Novecento dal punto di vista di un interprete d’eccezione.

Dopo una prima fase all’insegna dello sperimentalismo di matrice parigina, Ortesta raggiunge la piena maturità stilistica in Serraglio primaverile (1999). Qui l’autore sa bilanciare istanze di un certo manierismo oscuro, come il travestimento in figure del mito, le accese sinestesie, i pesanti ossimori, la metaforica obliqua alla Dylan Thomas e l’insistenza martellante sul significante, al disvelamento di un vissuto lacerato, solcato dal trauma costante della perdita e da una pervasiva sofferenza psichica.

Il Serraglio abbandona in parte la messa in scena esclusivamente intra-psichica delle prime raccolte e va incontro al mondo esterno, percepito come minaccia costante. Alberi, animali, personaggi dai contorni evanescenti (bambini, ragazze, donne vedove) inscenano una specie di idillio rovesciato, dove un mondo radicalmente negativo rischia di rovesciarsi sulle vite degli esseri umani, inseparabili dal dolore, dall’invecchiamento e dal lutto:

È verde il bocciolo e fiorirà
quando più non parlerai.
Una specie di primavera sfiora il corpo gelato
un odore di felci e miele tutt’intorno
alle bocche che mangiano e baciano
annuncia un pensiero
l’umida crepa mistero tremante
nel fiato della madre.
Colpisce la compattezza stilistica e tematica della raccolta, che segna una rottura rispetto alle prime fasi sperimentali di Ortesta.

A seguire La passione della biografia, un’auto-antologia uscita nel 2006 per Donzelli. Il libro prende il nome dal poemetto uscito originariamente nel 1977 sui Quaderni della Fenice di Guanda, diretti al tempo da Attilio Bertolucci, e segna il consuntivo di questo poeta notturno, terminale, quasi postumo in vita.

Ortesta si muove dietro la rappresentazione, sul palcoscenico della mente e dei suoi fantasmi, per mezzo di un linguaggio-geroglifico segnato dalla rimozione; qui però un maggiore intento comunicativo e in generale una disposizione più favorevole alla comprensione e l’immedesimazione del lettore permettono alla sua poesia di rilasciare l’incandescente contenuto psichico delle sue immagini e di avvolgere il lettore in un ritmo più disteso e quasi narrativo. Da Zanzotto e Ungaretti, i punti di riferimento diventeranno soprattutto Giudici e Bertolucci. Nel lungo poema Céleste che apre la raccolta, indossando la maschera di Proust, l’autore ci fa calare nell’esperienza del corpo malato e dell’attesa della morte, riscattata in parte dal progetto di un’opera capace di trascendere l’esperienza della finitudine dell’individuo:

immobilità e silenzio gli [a Proust] insegnano a lavorare
per un’improbabile vita futura

mentre, sul fondo, fa la sua comparsa il presentimento del nulla definitivo

un’unica forma nera pronta
a dileguarsi nella notte
sta per toccare il confine
ecco adesso vi è entrata

l’azzurro intravisto dalla finestra
è un luogo preciso della terra
senza rilievo senza colore gli alberi
e le colline non entrano più nei suoi occhi.

Memorie, apparizioni, aritmie: tre poesie di Yara Nakahanda Monteiro

Introduzione e traduzioni dal portoghese a cura di Nicola Biasio.

“Sono pro-pronipote della schiavitù, pronipote del meticciato, nipote dell’indipendenza e figlia della diaspora.”

È attraverso l’incontro di piani temporali, genealogie di oppressione e memorie familiari che Yara Nakahanda Monteiro cerca di definire la sua identità. Nata nel 1979 in Angola, nella provincia di Huambo, a due anni si trasferisce con la famiglia in Portogallo. Yara cresce in una casa in cui i vecchi documenti dell’ufficio del nonno, gli album di famiglia ricolmi di fotografie e le cartine geografiche del continente africano evocano costantemente i fantasmi del colonialismo portoghese in Angola, conclusosi nel 1974 a seguito della Rivoluzione dei garofani. In bilico tra le memorie africane di seconda mano della famiglia e la vita in un Portogallo ostile ai figli degli immigrati dalle ex colonie, Yara deicide di utilizzare la letteratura come strumento di interpretazione del presente. Dopo il suo primo romanzo (‘Sta tipa spacca!, nella traduzione italiana pubblicata nel 2021 da Edizioni dell’Urogallo), l’autrice debutta con il suo primo libro di poesia, Memórias Aparições Arritmias (Penguin Livros, 2021), che riunisce componimenti già precedentemente pubblicati in diverse riviste brasiliane, portoghesi e del continente africano. La critica ha definito Memórias Aparições Arritmias come una raccolta di poesia decoloniale ed ecofemminista. Unendo l’oralità della tradizione angolana e i costumi poetici occidentali, la poesia di Yara Nakahanda Monteiro trasporta il lettore in altri tempi e spazi: muovendosi tra memorie intergenerazionali e vicende autobiografiche, l’autrice ricorda simultaneamente l’’infanzia trascorsa nella periferia di Lisbona e le storie di vita in Angola raccontate da sua nonna. E da queste memorie Yara evoca fantasmi che infestano il nostro presente: la diaspora, l’esilio, le condizioni di vita delle comunità afrodiscendenti, la violenza contro le donne, gli spettri del colonialismo reincarnati nel razzismo strutturale e quotidiano, la questione della nazionalità, la ricerca identitaria attraverso l’arte. Europea o africana? “Sono solita dire” – afferma Yara – “che le mie radici sono africane, angolane, ma le mie ali sono europee, sono portoghesi”. Nutrite dalle ombre del passato, le sue parole si trasformano in evocazioni, apparizioni, palpitazioni, aritmie cardiache, macchie confuse, ricordi vaghi, inquietudini scarabocchiate in un quaderno interminabile in cui i confini tra passato e presente, tra Europa e Africa, tra sogno e realtà sfumano, diventando altro: poesia.


Descarnar memórias

Esboço na retina de Mnemosine tempo antigo a maturar:
sílabas recortadas e vozes anuladas;
   [oiço minha avó velha]
palavras defuntas
ortografadas na calçada coberta por poeira,
terra descontinuada
   [leio meu avô]
reflexos no cacimbo, dia de festa,
bestas engravatadas, crianças, mulheres descalças;
   [vejo anónimos]
e sonhos trémulos,
trespassados pelo exílio apartado do amor colorido
dos gladíolos em flor,
e sua glória.
   [ameigo seus ecos retalhados]
O tempo sagaz empilha as folhas rubras caídas das acácias.
Corre em mim o mesmo sangue.
Trajo a reverência aos antepassados: panos e chifre de boi.

Primeiro, no tempo nascente, percorro as casas decompostas
deixadas para trás.
Procuro o escalpelo, talhado
com o sacrifício das nossas lágrimas.

Depois,
no chão estendo
o manto negro ruborizado.
Arranjo memórias em película aderente.
Retiro-lhes a pele.

Chegam os espectros ressoando ladainhas,
benzendo-me com seus risos,
batendo com os pés escuros
na dureza da nova terra.

Juntos descarnam-se as memórias
enquanto das
veias e artérias jorram
repuxos nutridos
a óleo de palma.

No piscar de olhos da titânide, bebo água do rio Lete.
Há esquecimentos que vêm por bem.

Scarnificare memorie

Abbozzo nella retina di Mnemosine un tempo antico da elaborare:
sillabe troncate e voci annullate;
   [sento la mia vecchia nonna]
parole defunte
sillabate sul selciato coperto di polvere,
terra discontinua;
   [leggo mio nonno]
riflessi nel cacimbo, giorno festivo,
bestie incravattate, bambini, donne scalze;
   [vedo anonimi]
e sogni tremolanti,
trapassati dall’esilio lontano dell’amore colorato
dai gladioli in fiore,
e dalla sua gloria.
   [accarezzo i suoi echi frammentati]
Sagace, il tempo impila le foglie rosse cadute dalle acacie.
Scorre in me lo stesso sangue.
Vesto il rispetto dei miei antenati: panni e corna di bue.

Prima, al levar del tempo, percorro le case decomposte
lasciate indietro.
Cerco il bisturi, forgiato
col sacrificio delle nostre lacrime.

Poi,
a terra stendo
uno scuro manto arrossato.
Sistemo memorie su pellicole aderenti.
Le spello.

Arrivano gli spettri riecheggiando litanie,
benedicendomi con le loro risate,
battendo i loro piedi scuri
sulla dura e nuova terra.

Insieme scarnifichiamo memorie
mentre dalle
vene e arterie sgorgano
getti nutriti
dall’olio di palma.

Allo strizzar d’occhio della titanide, bevo acqua dal fiume Lete.
Dimenticare, alle volte, fa bene.

Outrora

Lembras?
Quando eras bicho do céu,
bicho da água, bicho da mata, bicho do âmago?
Lembras
a inteireza da nossa casa, do tempo antigo
onde aflorava a vida?
Nossos corpos feitos de terra,
nossos gestos livres, coloridos, irrigados
com a saliva do torrão.
Gestos ainda por analisar, estruturar,
matematizar…
Junto dos teus, que são os nossos,
pulsando imersos
fazendo mundo, criando cosmos?
Nós, os do começo.

Lembras?

No meu colo
mamaste
a seiva verde dos meus potes.
Sugaste
o tanto de caudal vivo transmutado nos casulos.
Farejaste
por entre as colinas
pujança dos campos floridos, matas adensadas.
Tateaste
os caminhos divinos abertos pelos rios neste vasto corpo.
Abriste
rachas, feridas,
ávido de mais, sempre mais,
criatura com fome.
Nem adeus te pude fazer.
Hoje chegas e matas-me.

Lembras?

Não lembras.
… e fui eu quem te pariu.

Un tempo

Ricordi?
Quando eri animale del cielo,
animale d’acqua, animale della foresta, animale del nocciolo?
Ricordi
l’integrità della nostra casa, del tempo antico
dove affiorava la vita?
I nostri corpi fatti di terra,
i nostri gesti liberi, colorati, irrigati
con la saliva del suolo.
Gesti ancora da analizzare, strutturare,
matematizzare…
Gesti tuoi, che diventano nostri,
pulsando sommersi,
tessendo mondi, creando cosmi?
Noi, quelli dei primordi.

Ricordi?

Tra le mie braccia
hai poppato
la verde linfa delle mie riserve.
Hai succhiato
un intero torrente vivo trasformato in bozzoli.
Hai fiutato
tra le colline
il vigore dei campi fioriti, foreste addensate.
Hai palpato
i cammini divini aperti dai fiumi di questo vasto corpo.
Hai aperto
fessure, ferite,
sempre e sempre più avido,
creatura affamata.
Non ho potuto neanche dirti addio.
Oggi arrivi e mi uccidi.

Ricordi?

Non ricordi.
… e chi ti ha partorita sono io.

A heresia de Eva

Assobiam ditos.
Ditos do rio íntimo
adensado.
É este o sangue que me torna
mulher?

Se me despir
e dispo,
se me despedir
e despeço,
de tudo               de todos
e se empurrar
derrubo
a porta do «paraíso».

Ditos virgens.
No ventre levo casa, vila,
cidade, mundo, tudo,
todos                 o Universo.
E nada levo.

Eu, a criadora!
Invoco a fêmea,
a criatura.

Aqueduto de águas,
boca solta,
em verão húmido e ensolarado.
Ditos da mulher,
mitos e narrativas.
Ditos não ditos
sobre os deltas
vivos, infindáveis.
Assim,
semeando óvulos
pelo
espaço,
pelas
órbitas onde germinam
outras fêmeas e outros ventres,
nascentes intocadas.
Rias que se adensam
caindo como chuva na epiderme do Sol,
benzendo o portal de luz.

O astro descamba
no leito onde crescem as raízes.
Faz-se chama.
Na vala noturna irrompe a lua,
febril e circular.

Pelos túneis do meu corpo térreo
recolho a límpida seiva
em minhas garras de madrepérola.
Bebe-a o meu jardim.

Não existe nada que «devesse ser».
É isso que não sou:
a Terra imitando o Sol.

Ditos meus
não cedem ao rumor do desespero
do passar do tempo.

Ditos não ditos.
Ditos bíblicos
Ditos escritos na névoa das constelações.

L’eresia di Eva

Fischiano detti.
Detti del fiume intimo
addensato.
È questo il sangue che mi rende
donna?

Se mi spoglio
e mi spoglio,
se mi congedo
e mi congedo,
da tutto               da tutti
e se spingo
abbatto
la porta del «paradiso».

Detti vergini.
Nel ventre porto casa, paese,
città, mondo, tutto,
tutti               l’Universo.
E niente mi resta.

Io, la creatrice!
Invoco la femmina,
la creatura.

Acquedotto di acque,
bocca sciolta,
nell’estate umida e soleggiata.
Detti di donna,
miti e narrazioni.
Detti non detti
sui delta
vivi, interminabili.
Così,
seminando ovuli
attraverso
spazio,
attraverso
orbite dove germinano
altre femmine e altri ventri,
sorgenti intoccate.
Foci che si addensano
cadendo come pioggia sull’epidermide del Sole,
benedicendo il portale di luce.

L’astro s’inclina
sul letto in cui crescono le radici.
Diventa fiamma.
Nella fossa notturna irrompe la luna,
febbrile e circolare.

Attraverso i tunnel del mio corpo terroso
raccolgo la limpida linfa
nei miei artigli di madreperla.
La beve il mio giardino.

Non esiste nulla che «dovrebbe essere».
È questo che non sono:
la Terra imitando il Sole.

Detti miei
non cedete al rumore di disperazione
del passare del tempo.

Detti non detti.
Detti biblici.
Detti scritti nella nebbia delle costellazioni.

Copertina di Memorias, Aparicoes, Arritmias di Yara Nakahanda Monteiro
Yara Nakahanda Monteiro, Memórias Aparições Arritmias

Due voci a confronto. Su “Exfanzia” di Valerio Magrelli

Note di lettura a cura di Clara Tumminelli e Patrizio Andrisano.

Introduzione

Questo articolo riunisce due contributi sul nuovo libro di Valerio Magrelli Exfanzia (2022), degli studiosi Patrizio Andrisano e Clara Tumminelli. I due autori si inseriscono nel dibattito sorto nelle ultime settimane a proposito del valore letterario del libro, analizzandolo da prospettive diverse. Clara si sofferma maggiormente sull’aspetto pop della raccolta, rilevandone i punti critici nel confronto con la produzione precedente di Magrelli; Patrizio invece mette in luce le sottili linee di significato che attraversano il testo, cercandone l’unico punto di fuga rappresentato dal tema del riconoscimento.


Exfanzia, il fiammifero e lo stoppino

di Clara Tumminelli

Ēx: preposizione, parte del discorso non declinabile: “da, fuori di”.

A distanza di otto anni dall’ultima pubblicazione di poesie, Valerio Magrelli (nato a Roma, classe ‘57) si ripropone nel panorama poetico con la raccolta Exfanzia, uscita il 15 febbraio 2022 per la collana Einaudi. Nel ‘77 un giovanissimo Magrelli appare con i suoi primi esperimenti nella rivista «Periodo ipotetico», diretto da Elio Pagliarani. Esordisce nel 1980 con Ora serrata retinae, a cui seguono Nature e venature (1987), Esercizi di tiptologia (1992), Didascalia per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006) e Il sangue amaro (2014) che saranno poi raccolti in Le cavie: poesie 1980-2018 (Einaudi, 2018). Traduttore e critico letterario, Valerio Magrelli insegna Letteratura francese presso l’Università di Pisa e di Cassino.

Il ribaltamento esercitato da Ēx- apre subito il tema della raccolta e richiede al lettore una torsione, uno sforzo di espansione che segue il movimento messo in moto da questo rimaneggiamento. Exfanzia, dunque, come moto da luogo, come trazione («la vecchiaia è: diventare liquido»). È la senilità come condizione esistenziale, uscita dal sé, sguardo sul mondo e sull’infanzia («d’essere, io stesso, pantano!»). L’immagine dello sguardo «non allegro, ma assorto» del bambino che palleggia «solo col suo pallone e le sue leggi» – in apertura della sezione «Sotto la protezione di Pollicino» – viene riprodotta incessantemente lungo tutta la raccolta, è una sottrazione, e si fa retrospettiva, strozzata: parla di malattia e di morte («Se lui è malato, io cosa sono?»; «Sto qui nel letto. Febbre.») con uno scarto forte rispetto alle precedenti raccolte che affrontano il tema come chiave escatologica del rapporto corpo-cavia-mondo («il vivo veniva legato a un cadavere», in Noterelle archeologiche); si abbandona nella nenia di una filastrocca, mediante l’utilizzo provocatorio di rime inclusive («versi/avversi»; «logopedista/dista»), volutamente sciatte, dando vita a «un kit di rime da assemblare». Lo stile, dunque, è dimesso, semplice, e sembra farsi forza in un’estetica bruttura che naviga la superficie delle parole perché «Poesia viene da pus», mentre il lessico si apre sempre di più a tecnicismi collaterali e prestiti di lusso («check-in»; «stretching»; «shopping»; «password», «phon»).

La protezione di Pollicino è il disegno programmatico della raccolta, il vademecum di questa a-poetica («perdo gli oggetti, a uno a uno»). Ne scaturisce un rapporto guastato con il mondo contemporaneo, e la poesia mima il reale attraverso la metafora dell’elettrodomestico, «il frigorifero», che qui diventa un correlativo oggettivo privato della sua carica, diverso dal «termosifone» in Viaggio d’inverno. Entrano nei testi squallide immagini («in certi gabinetti / con la cellula elettrica»); disincanto e cinismo ingialliscono la raccolta («maschere»; «Ponte dei Suicidi»); «Ottuso, meccanico, ripetitivo» con «quel suo borbottare da idiota» è il tono dell’io, che si inceppa all’interno di un asfittico punto d’osservazione («è raro che la poesia possa riaprirsi»), sottolineato da ripetizioni ossessive, masticate («a quale dio mi lega?», «prego un dio», «un dio farmacologico», «un dio su misura»). Tramite il meccanismo di spostamento messo in moto dall’Ex-, la a-poesia si incarna in una accondiscendente amarezza che stona di fronte alla riproposizione di un’infanzia ingenua e non problematizzata («Vi amo come figli / e vi vorrei salvare / da questa orrenda età che vi tortura»), in una torsione deformante che ri-elabora impietosamente il passato attualizzandolo nel presente («Tra mezz’ora, cadendo, / mi romperò una spalla / e poi sarò operato due volte»). Costellata da correlativi oggettivi – feticci – che non si illuminano, la raccolta assume le fattezze di un diario che altera la nostalgia in una sempre più compiacente poesia pop («Non resta che ballare, / perché ballare è la cosa più bella che esista»), e un lessico così radicalmente domato rischia di esaurire il proprio potenziale in un ammuffimento di significati («Ma le rughe raccontano i sorrisi»), nei parallelismi retorici, sentimentali («anche abitando tanto vicini, / come potremmo stare più lontani?»), nell’autoreferenzialità intrisa di “contemporaneismo” – carattere distintivo del poemetto Guardando le serie tv, in coda alla raccolta nella sezione «Quattro poemetti» – di cui l’io non riesce a fare a meno («Tra la mia sofferenza e il mio amore, / io scelgo Super Mario Nintendo»).

Nonostante la puntuale organicità che corre lungo la raccolta, fedele al punto nevralgico dell’ex-fanzia, si ha il sentore di una poesia addomesticata, addestrata e con il fiato corto, lontana dallo «stormire neurologico di fronde» della vecchiaia, presente in Timore e tremore. È quindi una poesia che si apre al contemporaneo ma che rimane inerte; si rifiuta, ora, di fungere da scandaglio del reale e sembra ripudiare l’«alfabeto dei padri» di Paesaggi laziali; che lascia depotenziati della loro forza espressioni come l’esangue «QR code del tuo viso»; «il flash del riconoscimento» non apre la poesia a ulteriori significati celati nel correlativo oggettivo; il «lettore ottico» è uno spiraglio che propone una visione depressa del mondo; «identità», «storia», «vita» restano parole abuliche nella chiusa di una poesia che non ha voce, che non inveisce «sotto una tomba etrusca». Non «come fa lo stoppino / da uno stoppino che gli passa il fuoco» in Viaggio d’inverno, ma come un fiammifero: si accende e subito si consuma.

Nel segno di Pollicino

di Patrizio Andrisano

La nuova raccolta poetica di Magrelli non costituisce un punto di rottura coi lavori precedenti, e laddove si volesse collocare questo testo in continuità con Il sangue amaro (2014), allora urgerebbe ammettere che piuttosto ne rappresenta l’explicit, ossia la prima parola di un verso di fine: Exfanzia (2022). E proprio attorno a questa parola-titolo così impegnativa sorgono le prime difficoltà interpretative, che, a fidarsi dell’autore, si risolverebbero nell’ammettere un “ex” che comunque implichi “in”, a definire dunque, come spazio poetico, l’inconsueta plaga del contatto fra infanzia e vecchiaia; quantomeno, un piano di sineciosi non vincolante e di trapasso fra due mondi lontanissimi. La verità è più complessa. La scena è tutta presa da un tentativo di mediazione che segue la prassi della confidenza autobiografica e sferra un duro colpo a ogni scapicollata forma di neospontanesimo. La costruzione meticolosa del verso, la scelta di incipit chiari ed estremamente esplicativi in molti componimenti – «Ogni tanto mi telefona il mio amico malato», «E ricomincia la solita tortura», «Sto qui nel letto. Febbre. Ma sto bene», «La vecchiaia è questione di idraulica» – e l’emergere di un caldo impeto esclamativo a volte dal tono paterno ed esortativo – «resurrexit!» – altre più fanciullesco – «allora non ve ne siete ancora andati!» – definiscono l’ubi consistam di un dramma esistenziale che investe il lettore attento ai temi della maturità. Scontato credere che le vecchie generazioni non comprendano il nostro modo di sentire, meno ovvio è il contrario: siamo capaci di comprendere, noi, il dramma dell’anziano? La risposta è no, almeno non come, teoricamente, sarebbe in grado di fare un bambino che esprime sempre, seppure da prospettiva diversa, le medesime necessità del vecchio; una su tutte, quella del riconoscimento. Ma andiamo con ordine.

Due enormi dilemmi fanno da impalcatura alle trame del libro: cosa resta oggi di ieri? E ancora: cosa resterà? Domande che spingono il poeta alla solitudine e all’isolamento. Anche qui Magrelli si comporta da scienziato, prova a rispondere impugnando alternativamente alla lima il bisturi – «L’importante per un chirurgo, / diceva il poeta, / è stare sempre dalla parte del manico» – e attraverso un’alleanza fra corpo mortale e corpo poetico, una sutura questa, che seleziona in maniera puntuale e raffinata i lemmi di riferimento: «tessuto psichico, corteccia cerebrale, valvola mitralica, cartilagine, sangue, unghie…». Così, Exfanzia prende molto dal lessico scientifico e mette in risalto l’inevitabile disfacimento del corpo – «Qui come premi un po’, sgorgano liquidi, /e la vecchiaia è: diventare liquido» –, risponde alle due domande cardine rivelando allora, con grande umiltà, quella tensione verso l’inorganico – invero, una pulsione di ritorno all’inorganico – che attraversa tutta l’opera di Valerio Magrelli e trova qui, forse, la sua massima finalizzazione. Di noi resteranno solo alcuni scarti, delle «scorie», un «pantano», al limite delle fotografie – «poi sbuca fuori una foto», «la foto di mia figlia piccola» – e alcuni scampoli di memoria – «io, disperato, invece, adesso abbraccio / quell’immagine» –; ma questo è solo il punto di partenza.

Dopo circa sessanta pagine, Magrelli propone una soluzione; inserisce un testo chiaramente programmatico col quale esprime il bisogno di riaffermare l’ovvio: l’antidoto al disfacimento è la poesia. Poesia come riciclo: «immenso lavoro di trasformazione delle scorie», dalla deformazione all’ordine matematico, prosodico, metrico perché «l’accento è tutto», al ribaltamento del caos nel calcolo preciso borrominiano perché «qui, “ma” vuol dire tutto», e ancora, l’atto di «fare maglioni col dolore», di «trasformare l’angoscia in tappetini da bagno» per realizzare «la metamorfosi del male»; niente meno che «una vecchia idea» di Magrelli, di Poesia come «terapia, arredamento, traduzione». Ma quanto affermato sul piano della coscienza altrove viene negato, e dunque conservato, fra le lastre di una poesia marmorea, non elaborato ma rimosso; per usare un’immagine dello stesso Magrelli, tutto è seppellito in una bara zincata o plastificato nella materia poetica. Così le scorie (ciò che resta), quelle umane, ma anche quelle di un pensiero dominante che non può essere invalidato, non ritornano a nuova vita – «mi sento riformato dalla vita» –, mai smaltite, forse stoccate, certo rinchiuse dove non possono nuocere, di qua della poesia che, ad un tempo, è scudo e oggetto ultore: armato contro «l’infinita crudeltà della vita».

Dice una cosa, poi la smentisce nei fatti; Magrelli vuole dirci che la poesia è una freccia spuntata all’età di sessantacinque anni, un rifugio per uomini già morti che anticipa un eterno riposo: «Cesare che si copre / la testa col mantello / vedendo Bruto tra i suoi assalitori. // Alberto fa lo stesso / con le coperte, a letto, / quando si vede vinto dalla malinconia», dove la poesia è il letto, una coperta simulacro di madre, che riduce la distanza da quel ritorno all’inorganico di cui s’è detto, mai soluzione. E tante sono le immagini di castrazione del mezzo poetico, una su tutte quella di Sunt lacrimae rerum: le lacrime non spengono il fuoco del dolore, ma cauterizzano l’acqua che tracima – «[…] il pianto è questo: / marca, marchio rovente» – bloccando la liquefazione, ma – si domanda Magrelli – «(per quanto?)». A questa piccola parentetica il compito di smantellare sul piano testuale la menzogna della poesia come riciclo che, chiaramente, non potrebbe realizzarsi se non in maniera perentoria. I motivi del dolore sono ora quelli della vecchiaia, e non è sufficiente il conforto offerto dalla certezza della forma ad arginare il senso di smarrimento che assottiglia l’uomo (ancora vivo) a cui venga negata la gioia del riconoscimento. Il “diritto di perdersi” a cui accenna il poeta in Mi perdo, mi perdo, mi perdo, nasconde dubbi e inquietudini; un certo grado di ambiguità serpeggia poi nel verso che chiude con tono perplesso la prima stanza: «perché recalcitro? Perché voglio smarrirmi?». Ma tra queste righe risiede il centro di irradiazione dell’intera raccolta, il motivo per cui “ex” e “in” possono convivere, il significato del titolo della prima sezione: «Sotto la protezione di Pollicino». Sì, perché dietro questo diritto a perdersi si annida il bisogno di essere ritrovati da qualcuno. È il motivo del nascondino questo, e di una dialettica del perdersi che unisce il bambino con l’anziano; ché entrambi hanno bisogno di sentirsi desiderati, entrambi desiderano continuare a scavare nell’Altro il vuoto della propria assenza. Allora, il Pollicino di Valerio Magrelli dissemina briciole sul proprio cammino non per ritrovare la strada, ma per lasciare una traccia del proprio passaggio, sempre nella speranza del ricongiungimento con l’Altro. I punti di emergenza di senso sono molteplici e il desiderio del poeta tracima presto nel rimpianto: i vagoni dei rapporti umani sfrecciano l’uno accanto all’altro nell’indifferenza – «Ci incontreremo in treno, / a metà strada, / tu verso Sud e io al Nord […] Sarà un momento, / i due vagoni passeranno vicini, / senza neanche accorgersene» –, gli amici sono ormai «perfetti estranei», il volto del poeta è lo spazio su cui «papà e mamma […] fanno capolino […] giocando fra le linee del viso. A nascondino». Insomma, il poeta è il teatro immobile del corteggiamento fra i genitori, e vorrebbe interferire (come farebbe un bambino) ma non può: «si divertono cercandosi tra loro, / io sono, escluso, a fare da teatro».

Come anticipato, Exfanzia non è un libro di rottura, e, a ben vedere, i temi di fondo sono i medesimi di altre raccolte, con momenti che richiamano Ora serrata retinae (1980) e Il sangue amaro (2014), espliciti richiami a Geologia di un padre (2013) e Addio al calcio (2010); tuttavia, il rimaneggiamento è importante e tocca l’estremo del rimotivare pienamente una parola antica attraverso l’esperienza nuova; perciò il libro riesce e segna il suo passaggio diritto sul piano dell’imposizione di un dilemma lontanissimo, mette il lettore nel corpo di chi non dovrebbe morire prima del tempo perché esprime ancora i medesimi bisogni del bambino a cui, diversamente, la gratificazione non verrà mai negata. Ora, credo di non poter tacere sulle ultime venti pagine della raccolta, a cui il poeta riconosce dignità di fare sezione a sé, dal titolo Quattro poemetti, perché sento il bisogno di rivolgere la parola direttamente a Magrelli per dire:

“Valerio,

mi sono messo nei tuoi panni, ho letto questo libro e qualcosa avrò pur detto di vicino all’esatto; non sarà forse il caso che tu faccia altrettanto con noi più o meno giovani? Capiresti che la parola “pandemia”, per noi, è troppo grande, capirai anche che questa critica non è rivolta soltanto a te, ma anche a noi”.