Queste traduzioni sono associate a un’intervista condotta al poeta dalla traduttrice Enrica Fei. La trovate qui, sul nostro sito.
Marwan Makhoul (1979) è un poeta palestinese nato nel villaggio di al-Buqaia, nella Galilea settentrionale. Vive nella città israeliana di Maalot Tarshiha e, oltre a mandare avanti la sua attività poetica e letteraria, lavora come ingegnere edile.
Nel 1997, a soli 17 anni, ha vinto il Premio Giovane Scrittore indetto dalla rivista periodica Kul al-Arab. Il suo primo libro, la prosa Una lettera dall’ultimo uomo, è stato pubblicato nel 2002. Nel 2005 ha ricevuto una borsa di studio per la partecipazione a un workshop di traduzione organizzato dalla Helicon Society for the Advancement of Poetry in Israele.
Da allora ha pubblicato numerose raccolte poetiche, libri in prosa e opere teatrali. Tra queste, ricordiamo le raccolte La terra della passiflora triste (che ha conosciuto quattro edizioni tra il 2011 e il 2015 a Baghdad, Beirut, Haifa e Il Cairo), Versi che i poemi hanno dimenticato con me (Raya publishing house, Haifa 2012, e al-Jamal Baghdad e Beirut 2013), Dove è mia madre (Dar al-Saqi, Beirut 2019) e la pièce Non l’arca di Noé (2009). Nel 2011, La terra della passiflora triste ha vinto il prestigioso Premio dell’Associazione Mahmoud Darwish per la Poesia Palestinese.
Le sue raccolte o alcuni estratti sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, italiano, portoghese, ebraico, turco, russo, polacco, albanese, serbo, olandese e hindi. Molta della sua produzione poetica è stata messa in musica e adattata per opere teatrali e cinematografiche. È stato questo il caso, tra gli altri, del poema L’immagine del popolo di Gaza, portato nei teatri dalla regista Dalal Maqari e interpretata da artisti provenienti dalla Palestina, l’Iraq, l’Algeria, la Tunisia e la Libia, Il dio della rivoluzione, da cui è stato realizzato uno spettacolo che combina recitazione poetica, musica e ballo contemporaneo, e La sposa di Galilea, da cui è stato realizzato un documentario omonimo che ha ottenuto il secondo premio al Festival Internazionale del Cinema Documentario di Haifa nel 2006.
Marwan stesso si esibisce su palcoscenici locali e internazionali, spesso in occasione dei festival letterari e poetici in Europa e negli Stati Uniti a cui viene invitato come una delle voci di spicco della poesia palestinese contemporanea.
L’elemento performativo è uno dei tratti distintivi della poetica di Makhoul. Il primo tra i componimenti qui proposti, Un arabo all’aeroporto di Ben Gurion, è un ottimo esempio, ed è infatti stato recitato in numerosi teatri e nelle piazze in occasione delle varie manifestazioni contro l’occupazione dei territori palestinesi e la violenza dello Stato d’Israele, come Makhoul ci ha raccontato nella sua intervista.
Numerose strofe del poemetto hanno un andamento discorsivo, prosaico: il lessico immediato e d’impatto descrive una situazione comune, ordinaria – quella di un palestinese che si trova all’aeroporto di Ben Gurion a Tel Aviv –, che d’improvviso si fa tesa, nervosa. Il ritmo dei versi quindi accelera, la musicalità si fa vibrante, la voce dell’io poetico s’innalza e repentina racconta, denuncia, urla.
Da queste sequenze concitate, Makhoul passa poi con naturalezza a passaggi lirici: il ritmo si fa più avvolgente e disteso, le immagini si rarefanno nella metafora, nelle sospensioni di senso, nella resa più intima e raccolta delle falde del sentimento. L’io poetico è un io collettivo e la lirica si dipana nello spazio e nel tempo. Ai versi di riflessione e nostalgia che superano i confini geografici dell’io – «Dai gemiti dei rifugiati / spiega le ali la nostalgia oltre i confini / non una guardia né mille l’arresteranno» –, si affiancano digressioni storiche dal timbro mitico, leggendario.
Come in altri poemetti di Makhoul, le narrazioni delle Sacre Scritture sono citate non come testi religiosi – il poeta, di famiglia cristiana, ha sempre dichiarato il suo ateismo – ma come espressione della saggezza antica, del tempo ancestrale dell’unità. I testi sacri, dunque, non come testi di Dio ma testamenti del Verbo, della saggezza del tempo che precede l’uomo.
Gli aneddoti quotidiani e ordinari che Makhoul descrive nella sua poesia rappresentano sempre un’occasione narrativa e poetica per descrivere il microcosmo di sopruso e precarietà relativo al tema della «casa», della nostalgia per la patria perduta o sotto attacco, del senso di appartenenza a una comunità in diaspora a cui si nega il legittimo ritorno. Una realtà, questa, che caratterizza la vita quotidiana del popolo palestinese e tutti i gruppi «vulnerabili» del mondo, a cui Makhoul si rivolge e a cui intende dare voce, come ci ha spiegato.
In Paese mio, la seconda poesia qui tradotta – un componimento meno narrativo e più lirico, tratto dalla raccolta Dove è mia madre –, il tema della patria, della diaspora, del senso di appartenenza a un popolo che permane nella nostalgia, nella memoria, nel coraggio e nella dignità di chi lotta per il ritorno si intreccia a quello dell’unità familiare, degli affetti più cari, dell’amore più intimo. «Mani che costruiscono un fronte completo, perfetto. / A te [paese mio, N.d.T.] la speranza, su di te la pace. / Paese mio, bambina mia.»
Per scrivere poesia che non sia politica, l’ultimo breve componimento qui presentato, è una poesia che, da ottobre 2023, è diventata uno slogan invocato da decine di milioni di manifestanti in tutto il mondo: nelle piazze, sui muri, nelle piattaforme social di tutti coloro che denunciano il genocidio in corso. Consapevoli che le nostre parole non saranno mai sufficienti, mai complete, mai all’altezza del dolore e della rabbia che proviamo per quanto sta accadendo a Gaza non solo da ottobre 2023 ma da un numero di giorni, mesi, anni che non peseranno mai abbastanza, nemmeno se li contassimo uno a uno e pronunciassimo, tra un numero all’altro, tutti i nomi di tutte le vittime di tutto il conflitto dal 1948 a oggi, abbiamo deciso, traducendo i suoi versi, che fosse Marwan Makhoul a farlo per noi.
عربي في مطار بن غوريون
!أنا عربي
صحت في باب المطار
،فاختصرتُ لجنديّةِ الأمنِ الطّريقَ إليّ
ذهبتُ إليها وقلتُ: استجوبيني، ولكن
سريعًا، لو سمحتِ، لأنّي لا أريد التّأخّرَ
.عن موعد الطّائرة
قالت: من أين أنت؟
من غساسنةِ الجَولان أصلُ فروسيّتي – قلتُ
جارُ مومِسٍ من أريحا؛
تلك الّتي وشَتْ إلى يوشع بالطّريقِ إلى الضِّفّة الغربيّة
يوم احتلّها فاحتلّها التّاريخُ من بعدهِ
في الصّفحةِ الأولى.
من حَجر الخليل الصُّلبِ أجوبتي
وُلدتُ زمنَ المؤابيّينَ النّازلينَ من قبلكم
،أرضَ الزّمانِ الخانعة
من كَنعانَ أبي
وأمّي فينيقيّةٌ من جنوبِ لبنان في السّابقْ،
ماتت أمُّها، أمّي، قبل شهرين
،ولم تودّعْ جثمانَ أمّها، أمّي، قبل شهرين
بكيتُ بِحضنها كي تؤانسَها الأُلفةُ في البُقَيعَةِ
،عند سفحِ المُصيبة والنّصيب
لبنانُ يا أختُ المستحيلْ، وأنا
أمُّ أمّي الوحيدةُ
!في الشِّمال
***
سألتني: ومن رتَّبَ الحقيبةَ لك؟
!قلتُ: أسامة بنُ لادن، ولكن
،رويدكِ، فهذا مُزاحُ الجراحِ المتاحْ
نكتةٌ يحترفُها الواقعيّونَ مثلي ها هنا
،في الكفاحْ
،أناضلُ منذ ستّينَ عامًا بالكلام عن السّلام
،لا أسطو على المستوطنة
ولستُ أملِكُ مثلَكُم دبّابةً كالّتي
،على متنها، دغدغَ الجنديُّ غزّة
لم أرمِ قنبلةً من الأباتشي في سِجلّيَ الشّخصيّْ
لا لنقصٍ فيّ
بل لأنّي أرى في الأفقِ المدى صدى السّأمِ
من ثورةِ السِّلميِّ في غير موضعها
.ومن حُسن السّلوك
***
،هل أعطاكَ أحدُهُم شيئًا في الطّريق إلى هنا – سألت
قلتُ: هو المنفيُّ في النَّيربْ
أعطانيَ الذّكرياتْ
ومِفتاحَ بيتٍ في الحكاياتْ
صدأُ الحديد على المفتاحِ وَتّرَني ولكنّي
كالمَعدِنِ الأصليِّ؛ أُرجِّعُ ذاتي بذاتي، إن أحنّ،
من أنينِ اللاجئينْ
يَبعثُ الشّوقُ جناحهُ عبر الحدودِ
لا حَرسٌ أو ألفُ يمنعُهُ
.ولا أنتِ، أكيد
***
قالت: هل من أداةٍ حادّةٍ في حيازتك؟
قلتُ: عاطفتي
بَشَرتي.. وملامحُ القمحيِّ فيّْ،
،وُلدتُ هنا بلا ذنبٍ سوى الحظّ
متشائلًا قد كنتُ في السّبعين
أنا المتفائلَ بأنشودتين عصيّتينِ عليكِ الآن
.في سجنِ جِلْبُوَّعْ
أَصْلي
وفصلي من رواياتِ الزّمانِ الفجِّ
جنازةُ الماضي وعرسٌ
في قاعةِ الأملِ القريب،
بلحٌ من الغَورِ رعرعني
.وفسّرني الكلام
في حيازتي طفلٌ أجّلتُه عن موعد التّوليدِ كي يأتي
.إلى صباحٍ لا كهذا الهشِّ يا بنت أوكرانيا
في حيازتي أنّ المؤذّنَ صادحًا يُطربُني رغم إلحادي
أصيحُ كي تَجفُلَ الأنّاتُ في النّاياتْ
.وكي تَصدَحَ الكمنجةُ في الطّبنجةِ من خلودٍ في الوجود
***
تأخذني الجنديّةُ إلى تفتيشِ حاجاتي
،تأمرُني بفتحِ الحقيبة
!أفعلُ ما تشاء
فينِزُّ من قلب الحقيبةِ قلبي، وأغنيتي
.ومعنى المعنى يفُزُّ فصاحةً وفجاجةً منها وفيها كلُّ ما فيّ
***
تسألني: وما هذا؟
،أقولُ: سورةُ الإسراءِ من معراجِ أوردتي وتفسيرُ الجلالين
ديوانُ أبي الطّيّب المتنبّي وأختي مرام، صورةً وحقيقةً في آن،
شالٌ حريريٌّ يدثّرني ويحميني من برد البُعادِ عن الأقاربْ،
تَبغٌ من عرّابة البطّوفِ دَوَّخَني إلى أن حشّشَ المجهولُ فيّْ
وفيَّ وفيٌّ وفيّْ.. زعترٌ بلديّْ
جلّنارُ النّارْ، جليليٌّ بَهيّْ
.عقيقي، كافوري، بَخورُي وأنّيَ حَيّْ
مَرجانُ حيفا المشعُّ المستديمُ المستنيرُ
المستحيلُ المستريحُ في جيبِ عودتنا بلا سببٍ
سوى أنّا عَبَدنا حُسنَ نِيّتنا وأوثقنا
!النّكبةَ السّقطةَ في الماضي وفيّ
***
تُسَلِّمُني الجنديّةُ إلى الشّرطيِّ الّذي
:تحسّسني في فجأةٍ ثمّ صاح
!ما هذا؟
عضويَ الوطنيّْ – أقولُ
ونسلي.. حمى أهلي وبيضتا حمامٍ
تفقّسانِ رجولةً وأنوثةً منّي ولي،
يبحثُ بي
عن كلّ شيء ممكنٍ وخطيرْ
لكنّهُ أعمى هذا الغريبَ الّذي
:ينسى قنابلَ بي أشدَّ مضاضةً وأهمّ
عنفواني، جُموحي، نزقَ النّسور في لهفي وفي جسدي
شامَتي وشهامتي، هذا أنا
كاملًا متكاملًا لن يراني فيما يرى
.هذا الغبيّ
***
الآن، وبعد ساعتينِ من معركة المعنويّاتْ
ألعَقُ جرحي لخمسِ دقائقَ كافياتْ
ثمّ أصعدُ الطّائرة الّتي ارتفعت. لا للذّهاب
،ولا للإياب
بل لأرى جنديّةَ الأمنِ تحتي
الشّرطيَّ في نشيدِ حذائيَ الوطنيِّ تحتي
وتحتي أكذوبة التّاريخِ المعلّبِ مِثلَ
بن غوريون الّذي صارَ كما كان كما كان كما كان
.تحتي
مروان مخّول
Un arabo all’aeroporto di Ben Gurion
Sono arabo!
Ho urlato nell’area partenze dell’aeroporto
accorciando alla soldatessa la strada per raggiungermi.
Sono andato da lei e ho detto: interrogami! Ma
in fretta, per favore, perché non voglio fare tardi
e perdere l’aereo.
Ha detto: da dove vieni?
Dai Ghassanidi del Golan discende il mio cavalierato, ho detto io,
il vicino di una meretrice di Gerico.
Colei che indicò a Giosuè la strada per la Cisgiordania,
il giorno in cui la occupò e dopo di lui la occupò la storia
da quel momento a tutti quelli a venire.
Dalla pietra inscalfibile di Hebron le mie risposte,
sono nato al tempo dei Moabiti che scesero prima di voi
sull’antica terra sottomessa.
Da Canaan mio padre,
e mia madre è una fenicia, il sud del Libano in passato.
Mia madre, è morta sua madre, due mesi fa
non ha detto addio al corpo di sua madre, mia madre, due mesi fa.
Ho pianto nel suo grembo perché l’intimità di al-Buqaia la consolasse
ai piedi della calamità, del destino.
Libano, sorella impossibile, e io
unica madre di mia madre
nel nord!
Mi ha chiesto: Chi ha preparato la tua valigia?
Ho detto: Osama Bin Laden! Ma,
calma. Questa è uno scherzo di cattivo gusto, l’umorismo delle ferite,
una battuta per i realisti come me, ecco,
al servizio della lotta.
Combatto da sessant’anni con parole di pace
non attacco gli insediamenti
non posseggo come voi un carro armato
sulla cui torretta il militare punzecchia Gaza.
Non ho lanciato una bomba da un elicottero Apache, non è nel mio curriculum
non perché manchi qualcosa in me, no
ma perché vedo all’orizzonte l’eco lontana dell’indifferenza
alla rivoluzione della pace, fuori luogo qui
e alla condotta giusta.
Qualcuno ti ha dato qualcosa mentre venivi qui?, mi ha chiesto
ho detto: l’esule del campo profughi di Neirab
mi ha dato i ricordi
e la chiave di una casa nei racconti,
la ruggine del ferro della chiave mi corrodeva, ma io
come il metallo puro, ritorno a me stesso attraverso me stesso nella malinconia.
Dai gemiti dei rifugiati
spiega le ali la nostalgia oltre i confini
non una guardia né mille l’arresteranno
né tu, è certo.
Ha detto: hai oggetti taglienti in tuo possesso?
Ho detto: la mia passione
la mia pelle, il carnato del grano.
Sono nato qui senza colpa, solo sorte
ero pessimista, certo, negli anni Settanta
ma sono ottimista per gli inni che si innalzano contro di te proprio adesso,
nella prigione di Gilboa.
La mia origine
e il mio distacco dalle storie false del tempo amaro
sono un funerale del passato e un matrimonio
nella grande sala della speranza, che è vicina.
I datteri di Gawr mi hanno cresciuto
e mi hanno insegnato a parlare.
Ho un bambino di cui ho ritardato il giorno della nascita perché arrivasse
non una mattina come questa, fragile, figlia dell’Ucraina.
Ho un muezzin la cui preghiera mi allieta, nonostante il mio ateismo.
Grido perché taccia il lamento dei flauti,
e perché il violino risuoni nel fucile in un sempiterno canto.
La soldatessa perquisisce le mie cose,
mi ordina di aprire la valigia
faccio quello che vuole!
Dal cuore della valigia stilla goccia a goccia il mio cuore, la mia musica,
e il senso di tutto zampilla, fecondo e crudo, e dentro di esso tutto ciò che è in me.
Mi chiede: e questo cos’è?
Dico: la sura del Viaggio Notturno, l’ascesa del mio sangue, e il Tafsir di Jalanain,
il diwan di Abu al-Tayyib al-Mutanabbi e mia sorella Maraam, sia foto che realtà,
uno scialle di seta che mi avvolge e protegge dal freddo della distanza dei miei cari,
il tabacco di un chiosco di Arraba che mi ha dato il capogiro, le vertigini e l’ignoto,
la lealtà, la lealtà, la lealtà… il timo selvatico del mio paese,
il fuoco dei chicchi di melograno, fulgidi, della mia Galilea,
la mia agata, la mia canfora, il mio incenso, e me stesso vivo.
Il corallo che è Haifa, radiosa, eterna e illuminata
l’impossibile che riposa nella tasca del nostro ritorno senza alcun motivo
se non la venerazione sacra delle nostre buone intenzioni e il confino
della nakba a un errore del passato e dentro di noi!
La soldatessa mi consegna al poliziotto che
d’improvviso mi perquisisce e urla:
Cos’è questo?!
Gli organi della mia nazione, dico,
e la mia progenie, la protezione della mia famiglia e due uova di colomba.
Covano la mascolinità e la femminilità, da me e per me.
Cerca sul mio corpo, lui
qualsiasi cosa che possa essere pericolosa.
Ma è cieco, questo sconosciuto,
e dimentica le bombe più feroci e capitali:
il mio vigore, il mio disprezzo, i falchi indomiti dello spirito e del corpo,
l’orgoglio e il coraggio. Questo sono io
tutto, completo, non mi vedrà mai in ciò vede
lui, questo ottuso.
Ora, dopo due ore di battaglia di spirito, di significato,
mi lecco le ferite per cinque minuti, quanto basta.
Poi salgo sull’aereo che è partito. Non per andare,
non per tornare.
Ma per vedere la soldatessa ai controlli, sotto di me
il poliziotto nell’inno nazionale delle mie scarpe, sotto di me
e sotto di me la menzogna della storia in una scatoletta di latta,
come Ben Gurion che è rimasto sempre, sempre, sempre,
sotto di me.
بلادي
إليك بلادي
جموحَ الطُّموحِ لسقف انتمائي،
إليك تعود الحَياةُ جَديدة
فتشفي جِراحَ العنيدْ
وتحيي الوئيدةْ
إليك اشتهاءَ الشهامةْ
وكرْمِ الكرامةْ
سواعدَ تبني الأمامَ التّمامْ
إليك المرام عليك السلامْ
بلادي الوليدةْ
Paese mio
A te paese mio
la tenacia ostinata dell’ambizione come tetto della mia appartenenza.
A te la vita ritorna, nuova
guarisce le ferite ostinate,
riporta in vita i racconti antichi.
A te il trasporto del coraggio,
l’onore della generosità.
Mani che costruiscono un fronte completo, perfetto.
A te la speranza, su di te la pace.
Paese mio, bambina mia.
لكي أكتب شعزا ليس سياسيْا يجب
،أن أصغى إلى العصافير
ولكي أسمع العصافير يجب
أن تَخرس طائرة
Per scrivere poesia che non sia politica,
devo ascoltare gli uccelli.
E per sentire gli uccelli
le bombe degli aerei devono tacere.