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In teoria e in pratica | Franca Mancinelli

Le risposte di Franca Mancinelli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Credo ancora nella forma libro, nel libro di poesia come compiuta costruzione di senso, nonostante i lettori si fermino sempre più spesso ai testi sparsi che si trovano a galleggiare nella rete. Per questo continuo a dedicare tutta la mia cura al compimento di un libro, la stessa necessaria per ogni singolo testo. Come in una poesia sono fondamentali il primo e l’ultimo verso, così in un libro sono fondamentali i testi di apertura e di chiusura. E come in una poesia un verso è legato all’altro attraverso connessioni che sono anche aperture del significato, strappi, interruzioni, inarcature, così accade in un libro tra un testo e l’altro.

Il lavoro che porta alla costruzione di un libro è simile a quello che compie un gatto su una coperta, o un mucchio di stracci. Muove il tessuto, tirandolo con le zampe, fino a che sente che si è trasformato in una cuccia. Le nostre carte avranno la forma di un libro quando saranno il luogo in cui deporre ogni difesa, ogni progetto, chiudere gli occhi e dormire. Un libro come una cuccia accoglie interamente non soltanto il nostro corpo, ma anche ciò che continua a transitare in noi, oltre la nostra coscienza.

Su questo tema del progetto in poesia e sul lavoro che porta alla costruzione di un libro ho riflettuto in Un libro di poesia, una struttura vivente, un testo scritto per un numero monografico della rivista «Materiali di Estetica», curato da Stefano Raimondi (n.7.2, 2020), che si può leggere qui, oppure nel mio libro di prose in traduzione inglese, con testo originale a fronte, The Butterfly Cemetery (The Bitter Oleander Press, 2022).

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Non mi piace pensare alla poesia nei termini della “finzione” né dell’“invenzione”. Se c’è finzione c’è letterarietà, manierismo, qualcosa che mi porta ad interrompere al più presto la lettura e, se sto scrivendo, a dimenticare quei segni. Sono segni, appunto, sporcano il bianco e lo spazio della nostra mente. Non c’è nulla da “inventare” in poesia, ossia, etimologicamente, da trovare con l’ingegno, la ragione, la volontà. Piuttosto si tratta di creare lo spazio perché qualcosa accada.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Sì, Mala kruna, il mio primo libro, è il mio esordio. Ricordo ancora il tormento che ha accompagnato la consegna del file che sarebbe andato alle stampe. Sentivo quel distacco come qualcosa di assoluto, la fine di ogni rinvio, di ogni ripensamento: una ghigliottina, o il taglio di un cordone. Non potevo concepire il dolore di ritrovare stampato, in diverse copie, qualcosa che non mi corrispondeva, in cui non mi sarei riconosciuta, anche solo per un verso. Per fortuna non è stato così, e Mala kruna ha continuato ad accompagnarmi, ad aprirmi sentieri e incontri nella vita, per altri cinque-sei anni, prima dell’uscita del libro seguente, Pasta madre.

Certamente gli occhi di tutti coloro che hanno letto le mie poesie prima che fossero pubblicate in Mala kruna, hanno contribuito a portarle alla loro essenza, plasmandole, così come l’acqua di un fiume fa con i suoi ciottoli: consigli di maestri e compagni di strada, uscite su riviste e antologie che hanno chiamato al lavoro sui testi, al confronto con la pubblicazione, per quanto in forma ridotta e attenuata rispetto al grande evento che è l’uscita di un libro. Penso all’acqua come a ciò in cui siamo immersi, il fluire, la vita, le relazioni importanti per noi, prossime e concrete nella nostra esistenza o invisibili e inconsapevoli, e ai ciottoli come a forme che possono smussarsi restando fedeli al loro nocciolo inscalfibile, alla loro struttura minerale, che è l’essenza di una lingua.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Ciò che mi manca negli incontri di poesia contemporanea è un elemento di ritualità, di festa condivisa. Penso a un luogo in cui sopravvive il residuo, anche minimo, di una comunità, un cerchio di persone che si ritrovano con l’intento di condividere un nutrimento essenziale per la loro esistenza.

In teoria e in pratica | Marilena Renda

Le risposte di Marilena Renda all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Lavoro da sempre in questo modo: leggo molto a proposito dell’argomento che mi sta a cuore in quel momento, raccolgo materiali, cerco di esaurire l’argomento, e contemporaneamente scrivo usando questi materiali come testi a fronte, estrapolo singole parole, mi concentro sui concetti che mi interessano, e a un certo punto sento che la spinta propulsiva si è esaurita e mi fermo. A quel punto di solito il libro è finito. Il processo complessivo è abbastanza veloce, di solito non dura più di sei mesi. Dopo che un libro è finito posso stare ferma anche per anni, ma in quel caso cerco di dedicarmi ad altre forme di scrittura, per esempio le recensioni, o piccoli racconti. Negli anni lo schema è sempre stato questo. Il fatto di avere dei materiali di riferimento mi aiuta a tenere a bada l’ansia di non saper lavorare in maniera abbastanza creativa; non sono capace, di norma, di scrivere “a mano libera”, ma anche questo, come altre cose, sta cambiando. Sto sperimentando con i nuovi testi che sto scrivendo una modalità meno legata ai testi degli altri. Credo che questo dipenda, anche, da una maggiore fiducia nelle possibilità del linguaggio.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Sono partita, con il mio primo libro, dal desiderio di dare voce a una comunità, all’esperienza di quella comunità dopo la catastrofe. Sembra essenziale allora nascondersi, far finta di non esistere. Negli ultimi anni l’io è tornato in scena: sembra che abbia delle cose da dire che finora non aveva avuto il coraggio o l’incoscienza di dire. Ma sulla questione condivido quello che ha detto di recente Antonella Anedda a una presentazione dello Spazio, e che dicono da molto le neuroscienze, ovvero che l’io è un personaggio fittizio sul palcoscenico della scrittura, proprio come le persone che vediamo nei sogni. Quello dell’io è un falso problema, quando dico io indico una proiezione di parti di me che io vorrei/non vorrei fossero il mio io.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Ho letto dei libri, come tutti. Amelia Rosselli è stata la mia scoperta della poesia, e per un po’ ho cercato di imitarla, ma la tua vera voce secondo me nasce nel momento in cui dimentichi le maestre, i maestri, gli amici, i sodali e i genitori e fai quello che ti va di fare senza preoccuparti di niente e nessuno. Quando scrivo qualcosa di nuovo c’è sempre quel momento in cui penso: “Oddio, questa cosa cos’è?”. Il nuovo non lo riconosci, e non sai come reagirà chi lo leggerà, ma secondo me ogni libro deve essere diverso dal precedente, deve testimoniare di un percorso, di libertà che ci siamo presi con il linguaggio e con l’esperienza. Scriviamo per conoscere meglio noi stessi e il mondo, ma se queste libertà non ce le prendiamo non impareremo un bel niente, saremo pappagalli ammaestrati che ripetono cose dette da altri per non deludere i nostri potenziali lettori o sodali. Quando scrivo io non ho lettori: ho solo un ostacolo da superare, e attorno a me non c’è nessuno. Della mia bolla non mi importa niente, solo quando ho finito mi chiedo: “Piacerà a qualcuno?”. Ma a quel punto è tardi per tornare indietro.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Pensare all’ascolto. Creare le condizioni per l’ascolto. Non creare festival/eventi/presentazioni che non manifestino una reale necessità di ascolto. Non organizzare maratone di poesia. Non andare alle maratone di poesia dove nessuno ascolta nessuno. Passare più tempo a casa. Fare meno cose. Oppure farne di più, ma solo cose che ci sembra che abbiano la qualità della necessità.

«amuk is a prayer»: declinazioni del lutto nella poesia di Khairani Barokka

Introduzione e traduzione dall’inglese a cura di Chiara Liso, vincitrice della Call for translators “Poesia e Lutto”.

La storia semantica della parola amuk è intrinsecamente legata a quella dei soprusi del colonialismo. Se in indonesiano e malese il termine sta a indicare il sentimento e l’atto di collera, a partire dal sedicesimo secolo si diffonde l’inesatta interpretazione che i coloni europei danno del vocabolo, ovvero di una condizione di furia violenta e omicida diffusa in alcune culture dell’Asia sudorientale. È proprio in questa traduzione erronea che si cela il pretesto per giustificare la criminalizzazione e sottomissione di intere popolazioni, l’accaparramento di terre e la distruzione di ecosistemi. A tutt’oggi, il lascito coloniale di tale mistraduzione è cristallizzato nell’espressione idiomatica inglese to run amok con cui si denota la perdita del raziocinio.

Amuk è anche, significativamente, il titolo della terza e ultima silloge poetica di Khairani Barokka, scrittrice, traduttrice e artista interdisciplinare nata nel 1985 a Giacarta e attualmente residente a Londra. Pubblicata nel marzo 2024 dalla casa editrice indipendente britannica Nine Arches Press, la raccolta si dipana lungo il filo di un’acuta riflessione sulla violenza perpetrata sul e dal linguaggio. La poesia di Barokka si offre, al contempo, come antidoto a qualsivoglia forma di tirannia, nel segno della riappropriazione dell’etimo originario di amuk e della rivendicazione, spiccatamente anticoloniale e femminista, della liceità della rabbia e della sua ancestrale sacralità. La scrittura poetica diventa, dunque, luogo d’elezione per l’elaborazione del lutto, personale e collettivo, e la celebrazione del resistere – di individui e comunità, di lingue e paesaggi – a ogni tentativo di dominazione e distruzione.

Si tratta di un libro, come la stessa autrice dichiara nei ringraziamenti finali, che reca l’impronta sia del dolore della perdita degli affetti che della furente solidarietà con i sopravvissuti e le vittime dei genocidi contemporanei, dalla Palestina al Papua, dal Sudan al Congo, eccidi che hanno come matrice comune il capitalismo coloniale (Barokka 2024: 105). La vena elegiaca pervade soprattutto la seconda delle due sezioni che compongono il volume, intitolata «doa», parola indonesiana di origine arabo-islamica che significa ‹preghiera›.

Come sostiene il critico Jahan Ramazani, introdurre la preghiera musulmana nella poesia di lingua inglese significa sintonizzare un linguaggio letterario saturato dal cristianesimo con l’esperienza discorsiva del mondo islamico (Ramazani 2013: 175). La ritualità e il linguaggio religiosi non vengono svuotati del loro significato divino, bensì la retorica della preghiera si intreccia con la tensione estetica e l’autoriflessività del genere poetico. Inoltre, sebbene profondamente radicati nella tradizione religiosa dell’Islam, i componimenti di questo ciclo delineano, allo stesso tempo, una liturgia ibrida portatrice di un messaggio di lotta e resistenza. Così recita icasticamente un verso della poesia di apertura: «amuk is a prayer» (Barokka 2024: 69).


Quattro poesie da amuk (Nine Arches Press, 2024)

withstanding is a prayer

pain is a prayer, the soulbody screeching
it asks for help in the guise of fire

amuk is a prayer
is a word that prays
and is itself a unit of asking

prayer is a form of rage
while you rage, remember to keep the truth
within these arms: [ ]


il resistere è una preghiera

il dolore è una preghiera, il corpoanima stridente
chiede aiuto in guisa di fuoco

amuk è una preghiera
è una parola che prega
è in sé unità di richiesta

la preghiera è una forma di rabbia
mentre ti arrabbi, ricorda di tenere la verità
tra queste braccia: [ ]


tub

what digs you out with a verdigris scalpel, while a powerful blast ignited in their latest attempt to grow lives in the dirt of your online receipt, human blood carries all kinds of filigreed debris, coexisting with the coffin hinges from grotesquely groping eyes panoptic that brought you your morning kettle-hiss, faucet fiddling now, let loose, hotness coldness, piety, lust, bewilderment, supremacy writ into capital, rent hikes for men oiling hair with your rainforests, corners hiding gaspings for breath, a ladybug swatted away by a tank in gaza, a man with down’s syndrome killed with no consequences, violet memories of neuropathic pain still imprinted on your body you are soaking in a fluid warm enough to let it bleed out, breathe in, deliberately feel the edges of a ghost, the heart already drawn in pencil on your hospital radiator seven years ago, fuzzy twinges bear on your muscle feel these deliberate, you may not bathe in kind waters so lower your head below the surface, part your lips and scream it


vasca

cosa ti estrae con un bisturi verderame, mentre un potente boato innescato nel loro ultimo sforzo espansionistico vive nello sporco della tua ricevuta online, sangue umano trascina detriti filigranati di ogni sorta, coesistendo con le cerniere della bara dalle panottiche pupille grottescamente brancolanti che ti hanno portato il tuo mattutino fischio di bollitore, ora armeggiando con il rubinetto, lascia andare, caldo freddo, pietà, brama, perplessità, supremazia iscritta nel capitale, affitti rincarati per gli uomini che oliano i capelli con le tue foreste pluviali, angoli che celano respiri annaspanti, una coccinella spazzata via da un tank a gaza, un uomo con la sindrome di down ucciso senza conseguenze, ricordi violacei di dolore neuropatico ancora impressi sul tuo corpo a mollo in un fluido caldo abbastanza da dissanguarlo, inspira, senti deliberatamente i contorni di un fantasma, il cuore già disegnato a matita sul tuo radiatore ospedaliero sette anni fa, fitte sfocate pesano sul tuo muscolo sentile deliberate, non ti puoi bagnare in acque docili quindi china il capo sotto la superficie, schiudi le labbra e gridalo


prayer for dzikir as mnemonic device

still all your percussive orbits
and soft-click a thumb
to each third
of each finger

praise
how light
work is, unshirking
remembrance

vicissitudes plant grief
in skin-pricks,
out of the gasping sun
climbs daybreak

crackling, cyclonic
core tenets and ninety-nine names
flooding back
to thick bloodstream

memento mori, recuerda tu vida
ingat, ingat
ingat-ingat


preghiera per lo dzikir come espediente mnemonico

frena tutte le tue orbite percussive
e schiocca lievemente il pollice
su ogni terzo
di ogni dito

ringrazia
quanto leggero
sia il compito, ineludibile
il ricordo

le vicissitudini piantano il lutto
in punture cutanee,
dal sole ansimante
spunta l’aurora

crepitando, ciclonici
capisaldi e novantanove nomi
ritraboccano
in un denso flusso sanguigno

memento mori, recuerda tu vida,
ingat, ingat
ingat-ingat


dust ablution

spreading fingers against a wall then onto self,
what cleansing’s reachable when spent,
followed by what supposedly-holy movements can.

salvation comes from trying
and wanting god as much as from calmer tendon stretch, from anti-affirmation of what,

to much of venal world, a good body should
a good body can a good body best
a best body as though heaven’s narrow-gauged

and god a headmistress rapping rulers against
these many best bodies not marked so by others,
against totalities given to her beneficence.


abluzione pulverale

dita distese contro un muro poi su di sé,
quale purificazione è raggiungibile se a secco,
seguita da ciò che movimenti presumibilmente sacri possono.

la salvezza viene dal provare
e volere dio tanto quanto dall’allungare i tendini con più calma, dall’antiaffermazione di ciò che,

per gran parte del mondo venale, un buon corpo dovrebbe
un buon corpo può un buon corpo meglio
un corpo migliore come se i cieli fossero a scartamento ridotto

e dio una preside che scaglia la bacchetta contro
questi tanti corpi migliori non marchiati così dagli altri,
contro le totalità affidate alla sua beneficenza.


Foto di Khairani Barokka.
amuk di Khairani Barokka (Nine Arches Press, 2024)

“frammenti di storia / che si torcono al sole”: la poesia nativa di Maurice Kenny

Giorgio Drago traduce dall’inglese alcune poesie di Maurice Kenny

Maurice Kenny è stato un poeta Mohawk. Nato a Watertown, New York nel 1929, viene considerato uno degli interpreti più importanti delle istanze politiche e culturali dei popoli nativi americani. Dopo una carriera di sessant’anni dedicata alla poesia e all’insegnamento, muore nel 2016 a Saranac Lake.

Come poeta, Maurice Kenny è stato attivo tanto nel contesto del movimento politico conosciuto come Red Power che in quello letterario della Native American Renaissance, di cui rifiuta l’etichetta, conscio che il termine “rinascimento” presuppone l’idea di una cesura nella tradizione della poesia nativa, di cui invece ha sempre valorizzato la continuità attraverso la sua dimensione orale. Nel corso della sua lunga carriera ha pubblicato innumerevoli raccolte. Le più significative sono state pubblicate dall’editore White Pine Press, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, quando una rinnovata consapevolezza rispetto alle proprie radici lo porta a rifondare il suo mondo poetico, inizialmente vicino alla poesia modernista americana dei suoi maestri Louise Bogan e William Carlos Williams. La gioia della riconnessione con un passato prima ignorato che traspare nella poesia più campestre, dove viene ristabilito un legame sano e organico tra l’uomo e la natura grazie alle tradizioni Irochesi, lascia spazio anche allo sgomento e alla tristezza, alla rabbia e al lamento per un mondo gravemente compromesso dalla violenza coloniale.

Autore del primo saggio e della prima lirica che descrivono in epoca contemporanea le figure tradizionali dei Two-Spirit, rispettivamente «Tinselled Bucks: A Study on Indian Homosexuality» e «Winkte», Kenny ha svolto un infaticabile lavoro di organizzazione e di insegnamento universitario che, insieme ai centinaia di reading annuali organizzati negli Stati Uniti e in Europa, è stato seminale per la creazione della nuova sensibilità scrittoria nativo-americana. In contatto con autori celebri come N. Scott Momaday, Leslie Marmon Silko e Paula Gunn Allen, Kenny non ha vissuto un grande successo editoriale, ma ha attirato l’attenzione dei colleghi e della critica, ottenendo l’American Book Awards (per The Mama Poems) e due nomination al premio Pulitzer per le raccolte Between Two Rivers e Black Robe: Isaac Jogues.

The Mama Poems e Blackrobe rappresentano due modi diversi di risalire alle radici, quello privato e quello storico-comunitario. Questo secondo filone è sviluppato in particolare in quello che Kenny stesso considerava il suo capolavoro Tekonwatonti/Molly Brant: Poems of War dove sono esplorate la violenza e le brutalità coloniali. Pur innestandosi su un apparato retorico ricco di sfumature e su ricerche storiche amalgamate da un poetico revisionismo, la raccolta tenta di far rivivere le antiche passioni e i veri moventi dei protagonisti della guerra franco-indiana e della rivoluzione americana. Il linguaggio rimane semplice e diretto, scandito da un verso libero proteiforme che si piega e si modella sulla voce dei vari personaggi del poema.


Da Tekonwatonti/Molly Brant: Poems of War, 1992

Molly: Report Back to the Village

“Leg
   blackened at the stump with blood

Fingers
   scattered through brush

Torso
   painted and jeweled

                                    porcupine quills
                                    pretty beads

   beads rolling off in a line

                                    ants

   scurrying from a foot;

   torso split open a ripe pumpkin

   entrails

           hang/drip from rib cage

                                                    belly

Swath of black hair

                                   blue

                        from clouds and river water

                                    three feathers stir in the breeze

The head…

               missing

                            kicked off into the brush

                                                          a ball

Name
   unknown/unsung
   there are many
              too many

Buzzards wait in the sky

Why do they call this the Indian war?
It isn’t Indians who want rivers
and land and more pelts to ship to kings
or throats to pour whisky down.

Why?
This is my report. That is all. Niaweh.


Molly: rapporto di ritorno al Villaggio

“Gamba
   nera di sangue sul moncone

Dita
   sparse tra gli sterpi

Torso
   dipinto e ornato

                                   aculei di porcospino

                                   belle perline

   perline che rotolano via in fila

                                   formiche

   scappano da un piede;

   il corpo spaccato una zucca matura

   interiora

                   penzolano/gocciolano dalla gabbia toracica
                                                                                          pancia

Ciocca di capelli neri
                                      blu

                             di nuvole e di fiume

                                        tre penne si spostano nella brezza

La testa…

                mancante

                          calciata via tra gli sterpi
                                                                 una palla

Nome
   ignoto/ignorato
   ce ne sono tanti
                  troppi

Poiane aspettano in cielo

Perché la chiamano la Guerra Indiana?
Non sono gli indiani a volere fiumi
e terra e più pellicce da spedire ai re,
o gole per versarci il whisky.

Perché?
Questo è il mio rapporto. È tutto. Niaweh.”


George Washington: “Town Destroyer”

Flames river the low valleys.

Their music crackles like a kettledrum.

Vines, stalks, orchards on fire.

Melons explode, apples spit sweet

                                                     juice

on broken boughs of dying trees.

Horseflesh and pig fume in the morning air.

Barns wither and topple as insane

                                                          cows

run wild, flames snorting out

                                              their nostrils

and lambs bleat, their wool a coat

                                                         of fire.

Log huts and houses crumble beneath

                                                                 the forest.

The valleys rise in smoke.


George Washington: “Distruttore di Città”

Fiamme inondano le basse valli. 

La loro musica crepita come un timpano. 

Viti, spighe, frutteti a fuoco. 

Meloni esplodono, mele sputano dolce

                                                                    succo

sui rami rotti degli alberi morenti.

Carni di cavallo e maiale fumano nell’aria del mattino.  

Le stalle seccano e crollano mentre mucche

                                                                                   impazzite

corrono via, soffiando fiamme

                                                                     dalle narici

e agnelli belano, la lana un manto

                                               di fuoco.

Capanne di tronchi e case si sgretolano sotto

                                                                            la foresta.

Le valli si alzano in fumo.


Molly

I wish never to live to see

      another war.

I’ve gagged on flesh

      and chocked on blood.

I’ve seen the bones of my brothers

      float in the river,

smelled the stench of their rot.

My nostrils are clogged

      with powder smoke.

My arms are weary from the

      weight of rifles.

Villages are burned to the ground,

old men pierced on stockade posts.

Women and babies sleep on the

      scars of bayonets.

Maggots infest the bed.

General George, town destroyer,

       you have won.

Won and accomplished more in your

       victory

than you ever dreamed.

Our blood is your breakfast.

The flames of your village smoke

       the ham you carve and bring to your lips.

General George, leader of a new

       country,

our stars are yours now,

but our blood stains your flag.

Remember we were once

      powerful, a formidable nation

now on our knees.

Your hatred controls

      our destiny.

May your nation never know

      this unbearable loss, this pain,

      this exodus from home, the smoking 

      earth,

      the sacred graves of the dead.

I bathe in this river to wash

      away the blood of war,

      But no water can

      wash away

      the horrors tattooed

      on my flesh.

I pray I shall never smell

      the cannons of war again,

      nor hear the cries,

      nor see the body of a chief

      mutilated by hate and fear

      and greed.

As your stars, General George, rise

      above the many battlegrounds

I want you to remember all those

      who died

so that your flag may wave

      in tribute.


Molly

Non voglio vivere tanto da vedere

      un’altra guerra.

la carne mi ha asfissiato

      e il sangue soffocato.

Ho visto le ossa dei miei fratelli

      galleggiare nel fiume,

annusato il tanfo del loro putrefarsi.

Le mie narici sono occluse

      dal fumo delle polveri.

Le mie braccia sono sfinite

      dal peso dei fucili.

I villaggi sono rasi al suolo,

i vecchi impalati sulle palizzate.

Donne e bambini dormono sulle

      ferite da baionetta.

Larve infestano il letto.

Generale George, distruttore di città,

      hai vinto tu.

Hai vinto e ottenuto di più dalla tua

      vittoria

di quanto non avessi mai sognato.

Il nostro sangue è la tua colazione.

Le fiamme del tuo villaggio affumicano

      il prosciutto che tagli e porti alle labbra.

Generale George, capo di un nuovo

      paese,

le nostre stelle sono tue ora,

ma il nostro sangue macchia la tua bandiera.

Ricorda che una volta eravamo

      potenti, una nazione formidabile

ora in ginocchio.

Il tuo odio controlla

      il nostro destino.

Possa la tua nazione mai conoscere

      questa perdita insopportabile, questo dolore,

      questo esodo da casa, dalla terra

      fumante,

      dalle sacre tombe dei morti.

Mi bagno in questo fiume per lavare

      via il sangue della guerra,

      ma l’acqua non può

      lavare via

      gli orrori tatuati

      sulla mia carne.

Prego di non dover mai più fiutare

      i cannoni di guerra,

      né udire le grida

      né vedere il corpo di un capo

      mutilato da odio e paura

      e cupidigia.

Mentre le tue stelle, Generale George, sorgono

      sopra i tanti campi di battaglia,

voglio che ricordi tutti

      i morti

così che la tua bandiera sventoli

      in tributo.


Aroniateka/Chief Hendrick at the Battle of lake George

Mountain pool

                    eye of this woods

reflects

                    robin wing

                    smoke of war camps

the march of angry feet which

                    ruffle ripples

Here a birch bends

                    into the clarity

deer takes a drink

fish jumps for flies

Fed by freezing mountain creek

                    winter snows

young boys swim like brown trout

                    warriors canoe

women wash clean the innards of fish

                    for a hot supper

and a general bathes exhausted feet

Mountain pool

                    eye of this woods

reflects

                    eagle wing

perched on a pine

                    a lofty tower

for surveillance

Mountain pool

                    soon

will reflect

                    stains of blood

                    a young soldier’s broken dream

                    an old man’s scattered vision

reflect

                    an absent king’s crown

Pool

                    prism of tomorrow

                    fragments of history

                    twisting in the sun


Aroniateka/Capo Hendrick alla battaglia di Lake George

Lago di montagna

                    occhio di questi boschi

riflette

                    ala di tordo

                    fumo di accampamenti

la marcia di piedi rabbiosi che

                    rimestano increspature

Qui una betulla si piega

                    nel chiarore     

il cervo beve

il pesce salta alle mosche

Nutriti dal gelido torrente di montagna

                    nevi invernali

ragazzini nuotano come trote

                    guerrieri pagaiano su canoe

donne puliscono viscere di pesce

                    per un pasto caldo

e un generale immerge piedi esausti

Lago di montagna

                    occhio di questi boschi

riflette

                    ala d’aquila

appollaiata su un pino

                    un’alta torre

di sorveglianza

Lago di montagna

                    presto

rifletterà

                    macchie di sangue

                    i sogni spezzati di un giovane soldato

                    lo sguardo sperduto di un vecchio

riflette

                    la corona di un re assente

Lago

                    prisma del domani

                    frammenti di storia

                    che si torcono al sole

Tekonwatonti / Molly Brant di Maurice Kenny

 

In teoria e in pratica | Francesca Serragnoli

Le risposte di Francesca Serragnoli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Chiesi la stessa cosa a Mario Luzi quando, dopo 13 anni circa di scrittura, ero indecisa sul senso e la costruzione di un libro (l’ordine etc), la bontà delle mie poesie, l’indecisione sul se andare avanti o smettere. Rispose: un libro di poesie è finito quando tutte le foglie sono cadute. Nessuno può dirti se continuare a scrivere o smettere: puoi smettere di vedere la realtà così come la vedi?
Queste le indicazioni generali che condivido. Ognuno ha una sua personale costruzione. Io, in ogni caso, non do molta importanza alla struttura, non è una narrazione. Salvo non sia un poema come Iliade o Divina Commedia etc. Ma il discorso è impossibile da sintetizzare perché ogni caso ha tempi e modi propri e rinnova, per fortuna, l’impossibilità di parlare di poesia senza la poesia. Cioè esistono solo esempi.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Non saprei rispondere perché non mi sono mai posta il problema. Anche qualora dovessi scrivere un poema allegorico, quindi fiction come la Divina Commedia, il problema rimarrebbe sempre vincolato al vero, cioè al rapporto fra la fiction e la realtà (interiore etc). Non credo di avere questa vocazione, non sono mai riuscita a scrivere neppure una fiaba. L’allegoria è un viaggio serio e per intraprenderlo, davvero, occorre, come direbbe Cristina Campo, l’eroe di fiaba.
In ogni caso, nella mia poesia, ho sempre bisogno di un fatto reale, anche piccolissimo.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Il problema del pubblico e dell’auto affermazione, nel mondo della poesia, è purtroppo un problema drammatico, come se il destino coincidesse con la visibilità del destino.
Il pubblico della poesia non esiste. È fittizio quello dei social e quello dei festival. Ognuno scrive da solo e risponde non al pubblico ma semmai a una vocazione o alla sua coscienza rispetto alla sua vita e al suo talento. L’esito del fare quello per cui si è nati: non si ruba il posto a nessuno, nessuno te lo ruba, si ha come esito gioia e pace interiori come tutti quelli che hanno lavorato e dato se stessi. Il lavoro della poesia è un dare, non un ricevere. Inoltre, il lettore non è il pubblico, ma una persona alla quale capiterà magari per puro miracolo di leggere un testo scritto da te o da me e mai ne verrai a conoscenza. Il riscontro vero della poesia è privato e personale. La cartina al tornasole: la gratitudine. L’unico pubblico è poi solo il maestro che ti riconosce e ti chiama per nome.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Non farei degli eventi, ma solo degli incontri. Manterrei il livello artigianale, gli spazi piccoli e raccolti, cioè difenderei il contarsi sulla punta di una mano, la presenza, l’accoglienza di ogni singolarità. Ringrazio che, nelle presentazioni di poesia, questo è ancora possibile e permette di conoscersi e di ascoltare e non di essere ascoltati, di stare sullo stesso piano e di mangiare insieme. Spero sempre che questo livello possa continuare. Terribile la poesia pronunciata da un palco tipo Sanremo, senza la possibilità di stringere la mano o incontrare gli occhi di chi si è commosso (anche questo è un dono enorme). La poesia è un servizio (non al proprio ego). Perché venga bene un incontro ci devono essere almeno 3-4 persone che desiderano incontrarsi e che siano felici di farlo.

Un altro nuovo mondo

Racconto di Roberto Pedotti.

Informe, senza nome, con tutti i nomi. 

«Agid Böhm, Germania. Luogo di nascita: Magdeburgo. Quindici anni di servizio. Dipartimento: astrofisica teorica. Famiglia: assente. Sei stato scelto per il quindicesimo lancio. Congratulazioni». Lo sguardo del rettore gli fa capire quanto sia importante per lui quest’ultima nomina.

L’anno è irrilevante, ma non lontano. L’umanità, sopravvissuta a ogni suo tentativo di uccidersi da sola, vede per la prima volta dall’Osservatorio di Greenwich qualcosa di ben strano: sette punti nel cielo, quasi contemporaneamente, brillano intensamente di una luce azzurrina, per poi dileguarsi nel firmamento. La squadra di astronomi che assiste all’evento la chiama convergenza, la definisce come una coincidenza, tra le infinite casualità dello spazio infinito. 

Ma il giorno dopo, altre ventiquattro stelle scompaiono. 

«Heat death», e mentre lo dice non gli sembra che esca alcun suono dalla bocca. Immagina invece di aver creato una bolla, ripiena di parole e significati: in tedesco quel termine ne ha così tanti

«Ma che bel bambino, come si chiama?»

«Agid. Agid, dài, di’ ciao alla signora».

Suo padre lo spinge in avanti dolcemente, gli strofina la nuca per rassicurarlo, ma Agid si mette le mani davanti alla bocca e corre a nascondersi dietro le sue gambe imponenti, grandi come la più grande quercia del mondo. Anni dopo, al liceo studia di Yggdrasil, l’albero mitico che tiene il mondo intero, e pensa alle gambe del padre, impiantate salde per terra. 

Kauer Böhm è sdraiato su un letto di ospedale. Non vede più – dice la dottoressa –, il tumore gli ha preso gli occhi. Papà sta morendo fra mura ingiallite. Papà che quando aveva avuto la varicella gli aveva regalato una piccola mappa del sistema solare ed era stato con lui tutto il tempo a raccontargli dei curiosi altri nuovi mondi che aspettavano dall’altra parte di esser scoperti. Papà che aveva sorriso sentendogli dire per la prima volta che voleva studiare le stelle, papà.

Agid pensa a Yggdrasil e alle sue gambe che non riesce più a vedere, fra le coperte pesanti, mentre gli carezza la barba incolta. Nella sua mente, là sotto le radici corrono a impiantarsi nelle fondamenta dell’ospedale e più in fondo ancora, fino ad arrivare al nocciolo della terra. 

Nocciolo. Nüss. Hasselnüss. Nocciola. Ed eccola davanti ai suoi occhi in mezzo alle figure informi, dove tutto cambia, il guscio scuro e lucido che riflette la luce (che luce? Da dove arriva questa luce?) E sembra, no, è la stessa che aveva gettato nel fiume con lei la notte che era partita. 

Il tonfo quando cade in acqua sembra coprire tutti gli altri rumori del bosco. Anche lei lo avverte, si guardano e senza capire perché ridono. 

Ha le labbra strette e le iridi verdi costellate di satelliti castani, che si illuminano di luce propria mentre gli parla di microbi e tardigradi e ambergris. Lui la guarda come se fosse un miracolo. Per un attimo non gli interessa nulla dello spazio, delle stringhe, delle stelle di neutrini, rivede l’enormità del tutto nella sua pelle liscia e scura e preferisce gettarsi in lei che in una navicella verso il vuoto, che in quel momento gli appare freddo, freddissimo. 

Quando si rivestono le chiede se è sicura di partire, spera non confessandolo in un suo ripensamento, ma lei risponde che è deciso, che ha già comprato il biglietto e che la sua vita la attende là, lontano, che oltreoceano ci sono cure sperimentali nuove, e che anche non fosse, ci sono tante piccole bellezze che deve ancora scoprire. Che vuole ancora scoprire.

Rialzandosi, ansima, ma non smette per un attimo di fissare Agid, come se stesse forzando il suo cervello a fotografare le sue borse sotto gli occhi, i lineamenti scavati e le cicatrici dell’acne, tutti i dettagli che lo rendono una persona, e non un’idea. Gli dice che è meglio così per entrambi, che se restasse lui non si dedicherebbe al suo obiettivo, toccare le stelle con mano. Racconta una storia che suona falsa ad entrambi, su come sia meglio andarsene quando c’è ancora amore. Gli carezza la guancia, gli lancia un’ultima occhiata, coi suoi occhi profondi e vasti, lo spazio fra due corpi celesti, lo stesso che lui sente sta per crearsi fra loro due .

 «Promettimi di dirmi cosa c’è al centro di tutto quando ci sarai arrivato».

Heat Death. 

E la nocciola si apre e al suo centro danza una fiamma ardente, ma più Agid la fissa, più tremola incerta. 

È su tutti gli schermi, su tutti i giornali. Heat death, la fine del ciclo del nostro universo, una serie di reazioni a catena che partono dalle sue estremità per arrivare al suo centro, nell’occhio. Ogni sole innesca una supernova, ingloba i pianeti circostanti per poi scomparire dalla mappa. In meno di venti giorni, quattrocentoventi sistemi solari vengono osservati estinguersi. 

Ma si calcolava che mancassero milioni di anni.

I calcoli erano sbagliati.

Tempo stimato perché succeda al sistema Helios: meno di due anni.

Possibilità di impedirlo:

Nessuna. 

La fiammella muore. Intorno tutto si fa buio, ma Agid lo sente muoversi ancora. Come scosse telluriche, sente che non ha ancora finito di vivere. Scalcia, ma manca poco, manca poco. 

Qualche ricco e potente crea delle capsule fatte per resistere al vuoto siderale, iper-reattive e dotate di ogni comfort. Dittatori, CEO e presidenti vengono avvistati catapultarsi oltre l’atmosfera senza alcun preavviso, puntini che veloci scompaiono e tornano al niente.

Ma il mondo non cade in preda al caos. Nelle città e nei paesi la gente si riunisce. Canta, gioca, ride, fa l’amore, si abbraccia. Questa volta tutti sanno che non c’è fuga, che il più forte farà la stessa fine del più debole, e si ama di più.

Accademie, istituzioni, governi si stringono in un ultimo interrogativo: le più grandi menti del pianeta si trovano per la prima volta nella storia a concordare sul fatto che prima della fine è necessario sapere cosa ci sia nell’Occhio dell’Universo, nel suo centro rovente. Lo chiamano Dio, il Tutto, il Nucleo Quantico delle possibilità, l’Uovo, ma il nome non importa più. I lavori per creare i veicoli da scagliare nel vuoto procedono veloci, velocissimi, perché chi lavora vuole aiutare a trovare l’ultima risposta e sacrifica tutto con mani sporche e felici.

Agid è fra i primi a iscriversi al programma, supera tutti gli esami con il massimo dei voti, pensando a suo padre e a lei, pensando che deve a loro ogni cosa, e non si risparmia.

«Agid Böhm, Germania. Luogo di nascita: Magdeburgo. Quindici anni di servizio. Dipartimento: astrofisica teorica. Famiglia: assente. 

«Sei stato scelto per il quindicesimo lancio».

Agid sta cadendo ma non esiste un terreno su cui atterrare. Sente il clamore dei balli sulla Terra e l’utero di sua madre morta durante il parto. Agid cade e continua a cadere, senza appigli

Salendo sulla rampa di lancio, vede Mark correre verso di lui. Incurante delle norme di sicurezza, strattona le guardie e il pubblico per avvicinarsi. 

«È morta, Agid. Erano anni che il cuore giocava a dadi con lei. Mi ha chiesto di ricordarti della promessa». E il cuore di Agid ora gioca a dadi con lui, si inabissa, ma non cambia rotta. I passi dentro la scatola in titanio e speranza non sono meno decisi. 

Quando si stacca da terra, la navicella è un pennello leggero, e traccia fra le nuvole i suoi occhi. 

I piedi di Agid, astrofisico e astronauta, non toccano terra, ma non sente più di stare precipitando. Le contrazioni intorno a lui si sono fatte più lente. Attorno, sagome aliene si mischiano a immagini familiari. Un letto di ospedale, una nocciola, un libro di mitologia nordica. 

È a metà strada, a migliaia di anni luce da casa, che una voce elettronica lo avverte:

«Attenzione. La massa di Helios ha superato il limite critico di stabilità. Collasso imminente».

Non la vede, Agid, la fine di tutto quel che ha conosciuto. Non riesce nemmeno a immaginare il sole, che in un agosto lontano brillava mentre lui correva con uno shuttle giocattolo in mano, rinchiudersi nella grandezza di una nocciola e poi esplodere in una luce bluastra, catturando nel suo abbraccio il golfo di Palermo, le montagne dell’Oklahoma, i boschi di Magdeburgo.

Mentre il computer urla, lui torna alle gambe del padre e agli occhi di lei, a Yggdrasil, le cui radici salde non possono cedere nemmeno davanti all’esplosione del sole.

E continua verso la meta. 

Tutto tace.

Agid si sorprende a udire il suo respiro all’interno del casco. Nel silenzio cosmico, suona come quello di un gigante risvegliatosi da un sonno lungo millenni. Lo trattiene per qualche secondo ma appena si accorge quanto sia spaventoso non avvertire niente, comincia a respirare angosciosamente. 

Agid iperventila, cade nel panico, si contorce al posto dell’Universo, forse credendo di starlo salvando, di starlo invitando a ballare con lui, a scuoterlo, a reagire. Ma l’universo è silente.

La navicella passa attraverso la polvere di sistemi consumati. Dallo schermo il pilota vede nastri di luce carezzare le pareti del vascello, avvista forme tetradimensionali fissarlo curiose, lingue di tenebra che si accoppiano con batteri impossibilmente enormi, meraviglie e terrori che non riesce a descrivere e che gli bucano la testa se tenta di concentrarsi. Tutti lo lasciano andare, e lui si racconta sia perché anche loro capiscono dove sta andando, si convince lo stiano incitando verso la meta, gli stiano dicendo che manca poco, ancora poco, scimmia col casco, sei quasi arrivata. 

E Agid, ultimo pilota, ultimo essere umano, scorge l’Occhio dell’Universo, distante e allo stesso tempo vicinissimo: è un buco rigonfio, solcato da fulmini solidi che si imprimono e si spezzano in altri multicolore, è un cerchio perfetto senza geometria, un punto minuscolo che avvolge l’orizzonte, un trucco ottico che rimane dopo averlo lasciato, porte del Paradiso e voragine infernale. 

Si dimena, Agid, primate di cromosoma XY, sente di non essere più del tutto vivo. 

È a quel punto che la nave si incrina. Le pareti si piegano, cambiano di materia, decadono, diventano di legno, poi di pietra, poi di leghe sconosciute e irreali, di colori nuovi ed estranei che si sfaldano e si ricompongono, e Agid avverte le ossa scricchiolare e gli occhi cuocere dentro le orbite, il cervello congelarsi, contrarsi ed espandersi toccando il cranio.

Agid sa di stare morendo, ma spinge i propulsori, la tuta, le gambe, la mente, spinge ogni cosa mentre perde il controllo lanciandosi verso l’orizzonte degli eventi e solo quando sa di essere oltre si abbandona alla presa dell’Occhio.

Agid si schianta contro il cielo. 

*

C’è della terra sotto il suo palmo. È umida e calda, e fili di erba dondolano in mezzo alle sue dita. 

Si alza, confuso. Ricorda di esser caduto e di aver volato, ricorda di essere morto. Si rende conto di esserlo in parte. 

L’odore di legno vecchio come il mondo invade le sue narici, e senza pensare al come, capisce dove si trova: sono i boschi attorno a Magdeburgo. Querce e faggi e salici piangenti lo accolgono a casa. Agid si toglie il casco, inspira. L’ossigeno non riciclato gli fa salire le lacrime agli occhi, ed è solo quando con il dorso del guanto le scosta che le vede tutto intorno a lui.

Fra i tronchi aleggiano migliaia di luci minuscole, ciascuna non più grossa di un granello di sabbia. Vorticano senza peso e si condensano in galassie delle dimensioni del suo volto.

«Sono meravigliose», e la sua voce ora echeggia fra gli alberi e non fa più paura. 

Corre Agid entusiasta a esplorare la mappa del cosmo, senza metodo e con un bisogno infantile, piange e le gocce si impigliano fra la polvere di stelle, e così non si rende conto che ai lati della foresta il bagliore si sta spegnendo, prima lentamente, poi senza pietà. 

Quando se ne accorge, impazzisce. Corre furioso a vedere le luci, tutte le luci, bestemmia e sa che il tempo è già scaduto.

Le afferra con più cura che può, le tiene accanto ai suoi occhi, ma ogni fiocco che gli muore davanti è minuto e splendido e terribile, troppo intricato perché possa capirlo in una vita che non ha già più. Le parti di un telaio impossibile si sgretolano in polvere fra i polpastrelli.

Agid Böhm, tedesco, nato a Magdeburgo, quindici anni di servizio, del dipartimento astrofisica teorica, ultima persona in vita, capisce meno adesso di quando era partito. Si mette le mani davanti alla bocca, ma non ha gambe imponenti dietro cui nascondersi. Sotto il terreno le radici di Yggdrasil, vecchie, stanche, hanno lasciato la presa. Rivede suo padre entrare in camera, in piena notte, per sedersi al lato del letto e sussurrargli che è tardi, che c’è tempo domani per leggere di tutte le stelle distanti, di spegnere la luce ora. Chiede a entrambi altro tempo, ancora un attimo, per favore.

Ma la foresta non ha orecchie per ascoltare, e resta una fiamma solitaria accanto al fiume. Oltre, non c’è più nulla.

Così, Agid si appoggia al tronco che sa esser lo stesso vicino al quale con lei aveva fatto l’amore, e si accascia. 

Nel momento in cui l’ultimo tizzone si spegne, chiude gli occhi, e quasi gli sembra di sentire qualcuno accanto, col viso poggiato sull’incavo della spalla. 

Un fascio di nervi brilla in un’ultima striscia di messaggi, simile al calore di una carezza alla guancia, a una mano strofinata sulla nuca. Un rumore di foglie toccate dal vento attraversa le tenebre.

E una costellazione di immagini implode ai margini del cervello. Le illustrazioni di un libro mutano nelle radici di un albero nascoste da lenzuola d’ospedale. Labbra strette in un sorriso triste si affiancano a satelliti castani trasformati in cenere. Le dita di un bambino mentre tentano di afferrare il cielo dipinto sul soffitto di camera sua.

Agid tende qualcosa, le ultime sinapsi che restano gli suggeriscono “mano”, anche se mani non ne ha più, prova a raggiungerlo ancora una volta.

Poi la lascia andare.

Agid non aprirà mai più gli occhi, eppure vede chiaramente la nocciola sul fondo del fiume,

il seme del prossimo Yggdrasil.

Agid vede.

Lo vede.

Un altro nuovo mondo, sbocciato nel solco del vecchio.


Roberto Pedotti è insegnante, traduttore e giornalista. Scrive poesie e racconti, e cerca di trovare le poche giuste parole con cui esprimersi (spesso fallendo). Adora le incomprensioni e gli anagrammi, e infatti online lo si trova come @orbiteprodotte.

In teoria e in pratica | Tommaso Di Dio

Le risposte di Tommaso Di Dio all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Mi ritrovo nelle vostre parole. Un libro, prima di essere un’opera compiuta e prima ancora di essere un progetto, è una nebulosa: un coacervo di possibilità, in cui nessuna prende il dominio e tutte procedono nella mente e nella scrittura, influenzandosi reciprocamente, contaminandosi, perdendosi. Da quanto mi è accaduto fino a qui, ogni libro ha una sua storia, una sua unica dinamica di sviluppo: faccio fatica a trovare delle costanti. L’unica è che non ho mai veramente lavorato con un progetto. Scrivo sempre testi singoli: ogni poesia potrebbe essere l’ultima e in effetti lo è. Ogni volta che termino una poesia, non so se avrà senso scriverne un’altra o se ne sarò in grado. Sento che potrei aver detto tutto e che la mia esperienza di scrittore finisce lì. Ogni volta che scrivo una poesia, la scrivo dentro questa dimensione finale, definitiva. Scrivo soltanto dentro questo presagio, dentro questa atmosfera, questo spossessamento, altrimenti quello che faccio non mi sembra neanche poesia, ma un esercizio scolastico o epigonale, qualcosa meno di un gioco di bimbi (che è cosa seria, invece). Qualche volta capita che un testo però non resti da solo: una poesia ne chiama un’altra e si formano così piccole costellazioni di “ultime poesie”. Per quanto si moltiplichino, è una gemmazione che proviene sempre dalla scrittura stessa, dalla sua esperienza interna, mai da un’idea che precede la scrittura e che la governa a priori. La formazione di un libro di poesie è per me un’esperienza del tutto postuma, artificiale: un’operazione di composizione. È come se ci fossero due fasi, ben distinte, con due logiche completamente lontane e, in parte, estranee. La prima è la scrittura vera e propria: segue sentieri improvvisi e interiori, meno razionali, meno controllati, più vicini al bisogno, al magma, al corpo e alle sue risposte emotive, gestuali. La seconda è il montaggio, che è anch’essa una forma di scrittura, ma completamente diversa: è un’operazione ideologica, a posteriori, ha scopi, obiettivi, se vuoi anche ambizioni. La prima non ha nessuna ambizione, vive del momento, gli interessa stare lì, dentro una percezione che diventa tutto il mondo in punta di tastiera, parola per parola. La seconda invece è un’attività a cui sottopongo i miei testi ma come se non fossero più miei. Quando mi metto a lavorare sul montaggio e sulla composizione è come se i testi che mi trovo davanti fossero anonimi: miei o di altri è indifferente, sono solo materiali, forze, direzioni. Negli ultimi anni mi sono trovato a fare libri con macrostrutture molto elaborate (non so se andrò avanti in questo modo): l’ho fatto perché mi interessava lavorare sulla forma libro, sulle modalità di tenuta e ibridazione del libro di poesia del nuovo Millennio. Devo dire che quasi tutte le opere che ho profondamente amato sono libri che hanno una costruzione potente, allegorica, che però non supera mai la forza intrinseca e solitaria dei testi. Penso alle egloghe di Virgilio, a Caproni con il suo Il Conte di Kevenhüller, a Sereni con Stella variabile, più recentemente a Pitture nere su carta di Mario Benedetti o a un libro straordinario, pubblicato in Francia nel 1986, ma solo l’anno scorso uscito in Italia (tradotto da Domenico Brancale e Tommaso Santi): Qualche cosa nero, di Jacques Roubaud. Per costruire un libro, posso consigliare due cose: sicuramente la prima è pensare al lettore, a cosa si vuole che accada durante l’esperienza della lettura; la seconda è trasformare i testi, da schermate digitali, in fogli stampati e distribuirli fisicamente su di una superficie (appenderli al muro o accostarli a terra): vedere il libro come successione fisica di pagine libera molte energie e rende gli spostamenti (o le sottrazioni o le aggiunte) più rapide, più indolori. Sono in effetti due tecniche di estraniamento, piccoli esercizi per uscire fuori dal sé.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Che la poesia sia espressione del sé è un pigro adagio. Certo che la poesia ha sempre a che vedere con la propria esperienza (chi lo nega non vede le mani con cui scrive), ma se non è contemporaneamente trasfigurazione di sé in altro, è solo una noiosa tiritera ombelicale. E la poesia, quando c’è, è metamorfosi. Insomma – come in ogni altra forma d’arte – è solo una questione di stile: è il lavoro sulla forma che permette questo salto, questo calvario della materia biografica che si incendia e diventa movimento e luce. In questo preciso senso, la finzione della poesia è la sua verità e la verità è la sua finzione. Si tratta di arrivare (a forza di lavoro sulla sintassi e sul ritmo e sulle memorie letterarie) in questo cortocircuito fra grafia del bios e memoria retorica e poi saperci restare dentro un cammino di parole e immagini. Una poesia che sia solo un racconto di sé, per quanto una vita possa essere interessante e commovente, sarà sempre una poesia sciatta (tanta poesia “lirica” finisce così); e, al contrario, una poesia solo retorica e proceduralmente innovativa sarà solo un vociare senza scopo o al massimo un campionario di formule da riusare altrove (tanta poesia di “ricerca” finisce così). Quando si arriva al paradosso raggiunto, che ci sia un io, un tu o un egli, che ciò che bruci sia tuo o di un altro o di nessuno, non importa più nulla: solo è sovrana la restituzione, l’effetto, la forza che scorre nelle parole; con cosa ciò accada, è del tutto secondario, o meglio: è qualcosa che pertiene alla critica, all’aneddoto, alle chiacchiere postume.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

È una domanda complessa, è difficile rispondere. Ti posso dire che senz’altro considero Favole (Transeuropa, 2009) come il mio esordio: è il mio primo libro di poesia nel senso che è il primo percorso di testi che ho lavorato con una lingua che considero reale, mia. E che ciò sia accaduto con l’auspicio di Mario Benedetti (che firmò la prefazione) è stato importante: non solo per ragioni personali, ma perché dice qualcosa sulla mia formazione e su ciò che ha contribuito a costruire la mia scrittura. Ho sentito di iniziare a scrivere davvero proprio grazie all’incontro con alcuni libri del mio tempo (Notti di pace occidentale di Antonella Anedda, La città dell’orto di Stefano Raimondi, Tema dell’addio di Milo De Angelis, Umana gloria di Mario Benedetti), ma anche grazie all’ascolto delle letture dal vivo, ai dialoghi intimi con alcuni poeti, ai loro consigli di lettura, senza i quali non sarei andato da nessuna parte. Un peso altrettanto grande per la mia formazione l’ha avuta la filosofia e in particolare il magistero di Carlo Sini, la cui riflessione sull’alfabeto e sul lavoro del simbolo è per me e per la mia poesia una lezione centrale. È importante per chi scrive incontrare la poesia contemporanea non solo nelle opere e nella scrittura, ma anche nelle figure e nei modi vitali in cui ciò accade in un tempo storico; in questo incontro sono compresi ovviamente anche i lettori e le loro restituzioni. Benedetti mi spronava a incontrare i miei coetanei, a dialogare con loro, a organizzare incontri e letture e così ho fatto: alcune compagne e compagni della mia generazione sono stati per me decisivi per definire la mia scrittura. Penso a libri come Pasta madre (2013) di Franca Mancinelli, La direzione delle cose (2014) di Roberto Cescon, Appartamenti o stanze (2016) di Carmen Gallo, Trasparenza (2018) di Maria Borio e come il recente Posti a sedere (2019) di Luciano Mazziotta o Campo aperto (2022) di Bernardo De Luca. Sono libri che mi hanno aiutato a capire non tanto come scrivere, ma cosa fosse il caso di buttare via.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Non ho molto da dire sull’argomento. Ci sono presentazioni che vengono bene e altre no, dipende tutto dal grado di preparazione di chi conduce l’incontro e dalla disponibilità del poeta a prendere sul serio il momento di scambio intellettuale con il pubblico e con chi conduce. Non tutti danno a questo momento lo stesso valore e non ne faccio una colpa: è anche una questione di attitudine personale. Dico però che per me è un momento importante, sia da conduttore che da ospite. Non ho alcun interesse se ci sono cento persone o cinque: chiunque sia lì, sta cercando qualcosa e questa disponibilità è un valore. Considero la presentazione pubblica della poesia e la sua lettura a alta voce un momento di militanza culturale: il modo in cui la poesia accade nella realtà storica del mio tempo. Mi piacerebbe che più spesso di come succede oggi ci fossero spazi consoni all’ascolto e alla lettura e ci fossero più occasioni per ragionare sui libri significativi del passato, sulle forme e sui temi, più workshop e laboratori invece di insistere – come spessissimo accade – sulla promozione dell’ultimo libro di poesia uscito qualche settimana fa. In questo senso, recentemente, ho incontrato una realtà molto bella a Milano, un collettivo che si chiama “Murmur”, promosso da Maria Luce Cacciaguerra e Greta Sugar: organizzano delle letture-laboratori, aperte al pubblico, in spazi e formule che cambiano continuamente, ma sempre informali e intimi, lontano sia dall’idea promozionale, che dall’idea intellettualistica dell’agone letterario. Ho trovato un clima di scambio e di dialogo sulla parola poetica e sulle sue forme davvero raro: vorrei più occasioni così, in cui accostarsi all’ascolto della parola dell’altro significa cercare di mettere in comune qualcosa di sé, in una ricerca che trova nella poesia un veicolo potentissimo.

“Come qualsiasi altro poeta” – Intervista a Marwan Makhoul

Intervista e traduzione dall’arabo a cura di Enrica Fei.

Quest’intervista, avvenuta telefonicamente il 22 marzo del 2024, è associata alla traduzione commentata di tre opere del poeta sempre a cura di Enrica Fei. La trovate qui, sul nostro sito.

Marwan Makhoul (1979), di cui abbiamo analizzato la poetica qui, è un poeta palestinese che vive nello Stato d’Israele. È nato da un padre palestinese e una madre originaria del Libano. Raccontando situazioni ordinarie, comuni, aneddoti apparentemente banali della vita di tutti i giorni, Makhoul racconta la realtà del popolo arabo nello Stato d’Israele, l’identità e diaspora palestinese e i soprusi che subiscono tutte le comunità «vulnerabili» del mondo, per usare le sue parole. Lo abbiamo incontrato per chiedergli cosa significhi essere un palestinese con passaporto israeliano e discutere con lui della sua attività poetica.

EF: Cosa significa essere un poeta arabo e palestinese che vive in Israele?

MM: Ci sono circa due milioni di palestinesi che non hanno lasciato la loro patria nel 1948 durante la guerra tra le organizzazioni sioniste e gli eserciti arabi. Centosessantacinquemila palestinesi sono rimasti a vivere nelle loro città nel 1948 e nel tempo si sono trasformati in due milioni di cittadini. Questo in termini di informazioni storiche, ma in termini di come mi sento come cittadino palestinese o poeta che vive in Israele, credo che non sia certo colpa mia se sono nato nello Stato di Israele.

Sono nato nella mia patria. Israele è lo stato che è venuto dopo e che è stato costruito sulla mia patria, sulla sua cancellazione e sulla cancellazione dei miei antenati. È lo Stato di Israele che è venuto dopo, non sono io che mi sono trasferito in Israele. La mia presenza è legittima. Perché vivo in Israele o perché accetto Israele? Non ho scelto di vivere in Israele, ho scelto di rimanere nella mia patria. La differenza tra patria e stato è enorme. Lo stato è un’istituzione, la patria è la terra, il luogo di un popolo, la sua storia e la sua cultura: io sono rimasto nella mia storia e nella mia cultura continuando a rappresentarne un legittimo membro.

I miei sentimenti a riguardo non sono dei migliori, perché un palestinese che vive all’interno dei territori del 1948, oggi chiamati Israele, è un palestinese che soffre di una crisi: che patria e stato non coincidano e che il popolo, quello palestinese, non governi il proprio paese ma sia governato dalla comunità ebraica.

Vorrei vivere in uno stato di tutti i cittadini; uno stato in cui possiedo gli stessi diritti di qualsiasi altra persona. Non ho gli stessi diritti di un cittadino ebreo. Vorrei vivere in un paese laico, non costruito su base settaria o religiosa. Penso che non ci sia differenza tra Daesh (Stato Islamico dell’Iraq e Siria, ISIS, N.d.T.) e lo Stato ebraico: a mio avviso, sono entrambi stati che si fondano su principi religiosi, ben lontani da uno stato laico. Uno stato civile deve tenere ben distinti le istituzioni statali e la religione. Una delle ragioni dell’arretratezza della comunità araba e islamica è il legame profondo tra religione e stato. Questo è ciò che sento e in cui mi sto impegnando. Alcuni dei miei scritti poetici trattano proprio di questo.

EF: Come si vive giorno per giorno, da persone arabe, nello Stato d’Israele?

MM: Credo che la vita dei palestinesi che risiedono all’interno dei territori del 1948 – all’interno della cosiddetta Linea Verde (linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio del 1949 fra Israele e Siria, Giordania ed Egitto alla fine della guerra del 1948–1949, N.d.T.) – sia migliore dei palestinesi che vivono in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza, e nettamente migliore dei palestinesi che vivono nei campi profughi. I palestinesi che vivono nei territori del 1948 non hanno perso la loro terra, la loro casa. D’altra parte, però, sono cittadini che non godono di tutti i diritti di cui dovrebbero godere in democrazia. Abbiamo visto di recente come lo Stato d’Israele non sia più una democrazia ma una dittatura, che impedisce ai cittadini nei territori del 1948, me compreso, di esprimere la propria appartenenza al suo stesso popolo, di sostenere la propria causa, manifestare per il cessate il fuoco e per fermare l’uccisione dei civili a Gaza.

Gli israeliani vogliono che decidiamo se essere completamente israeliani o completamente palestinesi, ma noi non siamo né l’una né l’altra cosa. Mi spiego: siamo palestinesi a tutti gli effetti tranne che rispetto alla nostra identità civile, intesa come appartenenza nazionale, politica e come vogliamo essere riconosciuti. Siamo israeliani perché viviamo in Israele e abbiamo la cittadinanza israeliana. Non vogliamo rinunciare a questa cittadinanza, perché questa cittadinanza ci permette di rimanere nel nostro paese, nella nostra patria. Vogliamo, però, ottenere tutti i nostri diritti, e questo significa, anche, il cambiamento del nome dello Stato, il cambiamento della sua identità, il cambiamento della sua bandiera, il cambiamento dell’inno nazionale. Solo così questo Stato diventerà lo stato di tutti i suoi cittadini e anche gli altri palestinesi godranno di eguali diritti, che si trovino in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza o nei campi profughi.

EF: Passiamo al tema della diaspora. La diaspora è un elemento che pertiene sia all’identità ebraica che a quella palestinese. In che modo si articola e differenzia tra le due identità? Quali sono gli elementi che distinguono la diaspora nella storia dell’identità ebraica e in quella della storia palestinese?

MM: I musulmani vivono ovunque nel mondo. I cristiani vivono ovunque nel mondo. I buddhisti vivono ovunque nel mondo. Perché gli ebrei vogliono vivere solo in Israele? Perché sostengono che questa terra sia un loro diritto storico, loro e di nessun altro? Se hanno lasciato questo Paese tremila anni fa, perché vogliono tornare in questo Paese che non gli appartiene più, se non in senso strettamente religioso, e sradicare le persone che già vi vivevano tremila anni fa? Tremila anni fa noi eravamo lì come palestinesi.

Perché vogliono sradicarci per il loro ritorno? Io non odio gli ebrei, voglio vivere con gli ebrei perché sono Marwan, una persona non religiosa, e voglio che tutti vivano assieme, ma non sulla base dell’annullamento reciproco. Non voglio che, affinché gli ebrei tornino nella Palestina storica o in uno stato – la Terra di Israele, come la chiamano –, io debba essere sradicato dalla mia casa e il mio popolo debba essere sfollato. Questo avviene da settantasei anni e non è mai stata trovata una soluzione. Questo è il problema e questa è la differenza: Israele è uno Stato di occupazione con il mantello del vittimismo. È l’unica occupazione al mondo che si sente vittima. Non ho alcun problema che il mondo smetta di perseguitare gli ebrei e difenda questa minoranza nel mondo. La soluzione per la difesa di questa minoranza, però, non può andare a scapito del popolo palestinese.

EF: Parliamo adesso della tua attività poetica. Come esprimi i tuoi messaggi sociali e politici attraverso la tua poesia?

MM: Quando scrivo poesie, non penso a inviare messaggi. Scrivo solo poesie. Ciò che emerge dalla mia poesia è che non esprime solo me stesso, ma anche altri. Tutti i palestinesi si sentono discriminati, che vivano all’interno (della Linea Verde, N.d.T.), sotto l’occupazione, a Gaza, in Cisgiordania, o in diaspora. E questo vale per tutte le minoranze vulnerabili del mondo. Questo è l’elemento che caratterizza la mia poetica; qualsiasi essere umano che si trova sotto occupazione o in un luogo che li discrimina come minoranza vulnerabile e i cui diritti non vengono garantiti può provare empatia e identificarsi: i nativi americani, gli abitanti del continente africano, i tibetani, il popolo basco, gli irlandesi, gli scozzesi, i ciprioti, e così via. Non sono solo un poeta politico, però: sono anche un poeta ordinario che scrive di tutto, che affronta tutti gli ambiti della vita.

EF: Quali sono i tuoi modelli? Quando pensiamo alla poesia palestinese, pensiamo subito a Mahmoud Darwish. Ma la poesia palestinese, e quella araba in generale, ha una lunga storia e una ricchissima tradizione. Che impatto ha avuto su di te?

MM: Credo che una persona o un popolo che citi un solo poeta o un singolo modello sia un popolo poco istruito, un popolo con una consapevolezza limitata. È un popolo che imita: imita un poeta, o un cantante, un ballerino, un leader. Un poeta arabo dovrebbe essere come un poeta francese, nella cui tradizione letteraria rientrano decine di poeti, decine di musicisti, decine di artisti e decine di politici. Se ci aggrappiamo a nomi specifici e trasformiamo il creativo o il politico in un dio – un’icona elevata a qualità di star –, è perché non abbiamo particolari successi o raggiungimenti degni di nota.

Io sono come qualsiasi altro poeta: sono influenzato da tutti e non sono direttamente influenzato da nessuno. Sono influenzato da tutti a più livelli e in vario modo, proprio come nella vita negli ambiti più diversi.

“Per scrivere poesia che non sia politica”: tre poesie di Marwan Makhoul

Introduzione e traduzioni dall’arabo a cura di Enrica Fei.

Queste traduzioni sono associate a un’intervista condotta al poeta dalla traduttrice Enrica Fei. La trovate qui, sul nostro sito.

Marwan Makhoul (1979) è un poeta palestinese nato nel villaggio di al-Buqaia, nella Galilea settentrionale. Vive nella città israeliana di Maalot Tarshiha e, oltre a mandare avanti la sua attività poetica e letteraria, lavora come ingegnere edile.

Nel 1997, a soli 17 anni, ha vinto il Premio Giovane Scrittore indetto dalla rivista periodica Kul al-Arab. Il suo primo libro, la prosa Una lettera dall’ultimo uomo, è stato pubblicato nel 2002. Nel 2005 ha ricevuto una borsa di studio per la partecipazione a un workshop di traduzione organizzato dalla Helicon Society for the Advancement of Poetry in Israele.

Da allora ha pubblicato numerose raccolte poetiche, libri in prosa e opere teatrali. Tra queste, ricordiamo le raccolte La terra della passiflora triste (che ha conosciuto quattro edizioni tra il 2011 e il 2015 a Baghdad, Beirut, Haifa e Il Cairo), Versi che i poemi hanno dimenticato con me (Raya publishing house, Haifa 2012, e al-Jamal Baghdad e Beirut 2013), Dove è mia madre (Dar al-Saqi, Beirut 2019) e la pièce Non l’arca di Noé (2009). Nel 2011, La terra della passiflora triste ha vinto il prestigioso Premio dell’Associazione Mahmoud Darwish per la Poesia Palestinese.

Le sue raccolte o alcuni estratti sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, italiano, portoghese, ebraico, turco, russo, polacco, albanese, serbo, olandese e hindi. Molta della sua produzione poetica è stata messa in musica e adattata per opere teatrali e cinematografiche. È stato questo il caso, tra gli altri, del poema L’immagine del popolo di Gaza, portato nei teatri dalla regista Dalal Maqari e interpretata da artisti provenienti dalla Palestina, l’Iraq, l’Algeria, la Tunisia e la Libia, Il dio della rivoluzione, da cui è stato realizzato uno spettacolo che combina recitazione poetica, musica e ballo contemporaneo, e La sposa di Galilea, da cui è stato realizzato un documentario omonimo che ha ottenuto il secondo premio al Festival Internazionale del Cinema Documentario di Haifa nel 2006.

Marwan stesso si esibisce su palcoscenici locali e internazionali, spesso in occasione dei festival letterari e poetici in Europa e negli Stati Uniti a cui viene invitato come una delle voci di spicco della poesia palestinese contemporanea.

L’elemento performativo è uno dei tratti distintivi della poetica di Makhoul. Il primo tra i componimenti qui proposti, Un arabo all’aeroporto di Ben Gurion, è un ottimo esempio, ed è infatti stato recitato in numerosi teatri e nelle piazze in occasione delle varie manifestazioni contro l’occupazione dei territori palestinesi e la violenza dello Stato d’Israele, come Makhoul ci ha raccontato nella sua intervista.

Numerose strofe del poemetto hanno un andamento discorsivo, prosaico: il lessico immediato e d’impatto descrive una situazione comune, ordinaria – quella di un palestinese che si trova all’aeroporto di Ben Gurion a Tel Aviv –, che d’improvviso si fa tesa, nervosa. Il ritmo dei versi quindi accelera, la musicalità si fa vibrante, la voce dell’io poetico s’innalza e repentina racconta, denuncia, urla.

Da queste sequenze concitate, Makhoul passa poi con naturalezza a passaggi lirici: il ritmo si fa più avvolgente e disteso, le immagini si rarefanno nella metafora, nelle sospensioni di senso, nella resa più intima e raccolta delle falde del sentimento. L’io poetico è un io collettivo e la lirica si dipana nello spazio e nel tempo. Ai versi di riflessione e nostalgia che superano i confini geografici dell’io – «Dai gemiti dei rifugiati / spiega le ali la nostalgia oltre i confini / non una guardia né mille l’arresteranno» –, si affiancano digressioni storiche dal timbro mitico, leggendario.

Come in altri poemetti di Makhoul, le narrazioni delle Sacre Scritture sono citate non come testi religiosi – il poeta, di famiglia cristiana, ha sempre dichiarato il suo ateismo – ma come espressione della saggezza antica, del tempo ancestrale dell’unità. I testi sacri, dunque, non come testi di Dio ma testamenti del Verbo, della saggezza del tempo che precede l’uomo.

Gli aneddoti quotidiani e ordinari che Makhoul descrive nella sua poesia rappresentano sempre un’occasione narrativa e poetica per descrivere il microcosmo di sopruso e precarietà relativo al tema della «casa», della nostalgia per la patria perduta o sotto attacco, del senso di appartenenza a una comunità in diaspora a cui si nega il legittimo ritorno. Una realtà, questa, che caratterizza la vita quotidiana del popolo palestinese e tutti i gruppi «vulnerabili» del mondo, a cui Makhoul si rivolge e a cui intende dare voce, come ci ha spiegato.

In Paese mio, la seconda poesia qui tradotta – un componimento meno narrativo e più lirico, tratto dalla raccolta Dove è mia madre –, il tema della patria, della diaspora, del senso di appartenenza a un popolo che permane nella nostalgia, nella memoria, nel coraggio e nella dignità di chi lotta per il ritorno si intreccia a quello dell’unità familiare, degli affetti più cari, dell’amore più intimo. «Mani che costruiscono un fronte completo, perfetto. / A te [paese mio, N.d.T.] la speranza, su di te la pace. / Paese mio, bambina mia.»

Per scrivere poesia che non sia politica, l’ultimo breve componimento qui presentato, è una poesia che, da ottobre 2023, è diventata uno slogan invocato da decine di milioni di manifestanti in tutto il mondo: nelle piazze, sui muri, nelle piattaforme social di tutti coloro che denunciano il genocidio in corso. Consapevoli che le nostre parole non saranno mai sufficienti, mai complete, mai all’altezza del dolore e della rabbia che proviamo per quanto sta accadendo a Gaza non solo da ottobre 2023 ma da un numero di giorni, mesi, anni che non peseranno mai abbastanza, nemmeno se li contassimo uno a uno e pronunciassimo, tra un numero all’altro, tutti i nomi di tutte le vittime di tutto il conflitto dal 1948 a oggi, abbiamo deciso, traducendo i suoi versi, che fosse Marwan Makhoul a farlo per noi.


عربي في مطار بن غوريون

!أنا عربي

صحت في باب المطار

،فاختصرتُ لجنديّةِ الأمنِ الطّريقَ إليّ

ذهبتُ إليها وقلتُ: استجوبيني، ولكن

سريعًا، لو سمحتِ، لأنّي لا أريد التّأخّرَ

.عن موعد الطّائرة

قالت: من أين أنت؟

من غساسنةِ الجَولان أصلُ فروسيّتي – قلتُ

جارُ مومِسٍ من أريحا؛

تلك الّتي وشَتْ إلى يوشع بالطّريقِ إلى الضِّفّة الغربيّة

يوم احتلّها فاحتلّها التّاريخُ من بعدهِ

في الصّفحةِ الأولى.

من حَجر الخليل الصُّلبِ أجوبتي

وُلدتُ زمنَ المؤابيّينَ النّازلينَ من قبلكم

،أرضَ الزّمانِ الخانعة

من كَنعانَ أبي

وأمّي فينيقيّةٌ من جنوبِ لبنان في السّابقْ،

ماتت أمُّها، أمّي، قبل شهرين

،ولم تودّعْ جثمانَ أمّها، أمّي، قبل شهرين

بكيتُ بِحضنها كي تؤانسَها الأُلفةُ في البُقَيعَةِ

،عند سفحِ المُصيبة والنّصيب

لبنانُ يا أختُ المستحيلْ، وأنا

أمُّ أمّي الوحيدةُ

!في الشِّمال

***

سألتني: ومن رتَّبَ الحقيبةَ لك؟

!قلتُ: أسامة بنُ لادن، ولكن

،رويدكِ، فهذا مُزاحُ الجراحِ المتاحْ

نكتةٌ يحترفُها الواقعيّونَ مثلي ها هنا

،في الكفاحْ

،أناضلُ منذ ستّينَ عامًا بالكلام عن السّلام

،لا أسطو على المستوطنة

ولستُ أملِكُ مثلَكُم دبّابةً كالّتي

،على متنها، دغدغَ الجنديُّ غزّة

لم أرمِ قنبلةً من الأباتشي في سِجلّيَ الشّخصيّْ

لا لنقصٍ فيّ

بل لأنّي أرى في الأفقِ المدى صدى السّأمِ

من ثورةِ السِّلميِّ في غير موضعها

.ومن حُسن السّلوك

***

،هل أعطاكَ أحدُهُم شيئًا في الطّريق إلى هنا – سألت

قلتُ: هو المنفيُّ في النَّيربْ

أعطانيَ الذّكرياتْ

ومِفتاحَ بيتٍ في الحكاياتْ

صدأُ الحديد على المفتاحِ وَتّرَني ولكنّي

كالمَعدِنِ الأصليِّ؛ أُرجِّعُ ذاتي بذاتي، إن أحنّ،

من أنينِ اللاجئينْ

يَبعثُ الشّوقُ جناحهُ عبر الحدودِ

لا حَرسٌ أو ألفُ يمنعُهُ

.ولا أنتِ، أكيد

***

قالت: هل من أداةٍ حادّةٍ في حيازتك؟

قلتُ: عاطفتي

بَشَرتي.. وملامحُ القمحيِّ فيّْ،

،وُلدتُ هنا بلا ذنبٍ سوى الحظّ

متشائلًا قد كنتُ في السّبعين

أنا المتفائلَ بأنشودتين عصيّتينِ عليكِ الآن

.في سجنِ جِلْبُوَّعْ

أَصْلي

وفصلي من رواياتِ الزّمانِ الفجِّ

جنازةُ الماضي وعرسٌ

في قاعةِ الأملِ القريب،

بلحٌ من الغَورِ رعرعني

.وفسّرني الكلام

في حيازتي طفلٌ أجّلتُه عن موعد التّوليدِ كي يأتي

.إلى صباحٍ لا كهذا الهشِّ يا بنت أوكرانيا

في حيازتي أنّ المؤذّنَ صادحًا يُطربُني رغم إلحادي

أصيحُ كي تَجفُلَ الأنّاتُ في النّاياتْ

.وكي تَصدَحَ الكمنجةُ في الطّبنجةِ من خلودٍ في الوجود

***

تأخذني الجنديّةُ إلى تفتيشِ حاجاتي

،تأمرُني بفتحِ الحقيبة

!أفعلُ ما تشاء

فينِزُّ من قلب الحقيبةِ قلبي، وأغنيتي

.ومعنى المعنى يفُزُّ فصاحةً وفجاجةً منها وفيها كلُّ ما فيّ

***

تسألني: وما هذا؟

،أقولُ: سورةُ الإسراءِ من معراجِ أوردتي وتفسيرُ الجلالين

ديوانُ أبي الطّيّب المتنبّي وأختي مرام، صورةً وحقيقةً في آن،

شالٌ حريريٌّ يدثّرني ويحميني من برد البُعادِ عن الأقاربْ،

تَبغٌ من عرّابة البطّوفِ دَوَّخَني إلى أن حشّشَ المجهولُ فيّْ

وفيَّ وفيٌّ وفيّْ.. زعترٌ بلديّْ

جلّنارُ النّارْ، جليليٌّ بَهيّْ

.عقيقي، كافوري، بَخورُي وأنّيَ حَيّْ

مَرجانُ حيفا المشعُّ المستديمُ المستنيرُ

المستحيلُ المستريحُ في جيبِ عودتنا بلا سببٍ

سوى أنّا عَبَدنا حُسنَ نِيّتنا وأوثقنا

!النّكبةَ السّقطةَ في الماضي وفيّ

***

تُسَلِّمُني الجنديّةُ إلى الشّرطيِّ الّذي

:تحسّسني في فجأةٍ ثمّ صاح

!ما هذا؟

عضويَ الوطنيّْ – أقولُ

ونسلي.. حمى أهلي وبيضتا حمامٍ

تفقّسانِ رجولةً وأنوثةً منّي ولي،

يبحثُ بي

عن كلّ شيء ممكنٍ وخطيرْ

لكنّهُ أعمى هذا الغريبَ الّذي

:ينسى قنابلَ بي أشدَّ مضاضةً وأهمّ

عنفواني، جُموحي، نزقَ النّسور في لهفي وفي جسدي

شامَتي وشهامتي، هذا أنا

كاملًا متكاملًا لن يراني فيما يرى

.هذا الغبيّ

***

الآن، وبعد ساعتينِ من معركة المعنويّاتْ

ألعَقُ جرحي لخمسِ دقائقَ كافياتْ

ثمّ أصعدُ الطّائرة الّتي ارتفعت. لا للذّهاب

،ولا للإياب

بل لأرى جنديّةَ الأمنِ تحتي

الشّرطيَّ في نشيدِ حذائيَ الوطنيِّ تحتي

وتحتي أكذوبة التّاريخِ المعلّبِ مِثلَ

بن غوريون الّذي صارَ كما كان كما كان كما كان

.تحتي

                                                               مروان مخّول

Un arabo all’aeroporto di Ben Gurion

Sono arabo!

Ho urlato nell’area partenze dell’aeroporto

accorciando alla soldatessa la strada per raggiungermi.

Sono andato da lei e ho detto: interrogami! Ma

in fretta, per favore, perché non voglio fare tardi

e perdere l’aereo.

Ha detto: da dove vieni?

Dai Ghassanidi del Golan discende il mio cavalierato, ho detto io,

il vicino di una meretrice di Gerico.

Colei che indicò a Giosuè la strada per la Cisgiordania,

il giorno in cui la occupò e dopo di lui la occupò la storia

da quel momento a tutti quelli a venire.

Dalla pietra inscalfibile di Hebron le mie risposte,

sono nato al tempo dei Moabiti che scesero prima di voi

sull’antica terra sottomessa.

Da Canaan mio padre,

e mia madre è una fenicia, il sud del Libano in passato.

Mia madre, è morta sua madre, due mesi fa

non ha detto addio al corpo di sua madre, mia madre, due mesi fa.

Ho pianto nel suo grembo perché l’intimità di al-Buqaia la consolasse

ai piedi della calamità, del destino.

Libano, sorella impossibile, e io

unica madre di mia madre

nel nord!                          

Mi ha chiesto: Chi ha preparato la tua valigia?

Ho detto: Osama Bin Laden! Ma,

calma. Questa è uno scherzo di cattivo gusto, l’umorismo delle ferite,

una battuta per i realisti come me, ecco,

al servizio della lotta.

Combatto da sessant’anni con parole di pace

non attacco gli insediamenti

non posseggo come voi un carro armato

sulla cui torretta il militare punzecchia Gaza.

Non ho lanciato una bomba da un elicottero Apache, non è nel mio curriculum

non perché manchi qualcosa in me, no

ma perché vedo all’orizzonte l’eco lontana dell’indifferenza

alla rivoluzione della pace, fuori luogo qui

e alla condotta giusta.

Qualcuno ti ha dato qualcosa mentre venivi qui?, mi ha chiesto

ho detto: l’esule del campo profughi di Neirab

mi ha dato i ricordi

e la chiave di una casa nei racconti,

la ruggine del ferro della chiave mi corrodeva, ma io

come il metallo puro, ritorno a me stesso attraverso me stesso nella malinconia.

Dai gemiti dei rifugiati

spiega le ali la nostalgia oltre i confini

non una guardia né mille l’arresteranno

né tu, è certo.

Ha detto: hai oggetti taglienti in tuo possesso?

Ho detto: la mia passione

la mia pelle, il carnato del grano.

Sono nato qui senza colpa, solo sorte 

ero pessimista, certo, negli anni Settanta

ma sono ottimista per gli inni che si innalzano contro di te proprio adesso,

nella prigione di Gilboa.

La mia origine

e il mio distacco dalle storie false del tempo amaro

sono un funerale del passato e un matrimonio

nella grande sala della speranza, che è vicina.

I datteri di Gawr mi hanno cresciuto

e mi hanno insegnato a parlare.                

Ho un bambino di cui ho ritardato il giorno della nascita perché arrivasse

non una mattina come questa, fragile, figlia dell’Ucraina.

Ho un muezzin la cui preghiera mi allieta, nonostante il mio ateismo.

Grido perché taccia il lamento dei flauti,

e perché il violino risuoni nel fucile in un sempiterno canto.

La soldatessa perquisisce le mie cose,

mi ordina di aprire la valigia

faccio quello che vuole!

Dal cuore della valigia stilla goccia a goccia il mio cuore, la mia musica,

e il senso di tutto zampilla, fecondo e crudo, e dentro di esso tutto ciò che è in me.

Mi chiede: e questo cos’è?

Dico: la sura del Viaggio Notturno, l’ascesa del mio sangue, e il Tafsir di Jalanain,

il diwan di Abu al-Tayyib al-Mutanabbi e mia sorella Maraam, sia foto che realtà,

uno scialle di seta che mi avvolge e protegge dal freddo della distanza dei miei cari,

il tabacco di un chiosco di Arraba che mi ha dato il capogiro, le vertigini e l’ignoto,

la lealtà, la lealtà, la lealtà… il timo selvatico del mio paese,

il fuoco dei chicchi di melograno, fulgidi, della mia Galilea,

la mia agata, la mia canfora, il mio incenso, e me stesso vivo.

Il corallo che è Haifa, radiosa, eterna e illuminata

l’impossibile che riposa nella tasca del nostro ritorno senza alcun motivo

se non la venerazione sacra delle nostre buone intenzioni e il confino

della nakba a un errore del passato e dentro di noi!

La soldatessa mi consegna al poliziotto che

d’improvviso mi perquisisce e urla:

Cos’è questo?!

Gli organi della mia nazione, dico,

e la mia progenie, la protezione della mia famiglia e due uova di colomba.

Covano la mascolinità e la femminilità, da me e per me.

Cerca sul mio corpo, lui

qualsiasi cosa che possa essere pericolosa.

Ma è cieco, questo sconosciuto,

e dimentica le bombe più feroci e capitali:

il mio vigore, il mio disprezzo, i falchi indomiti dello spirito e del corpo,

l’orgoglio e il coraggio. Questo sono io

tutto, completo, non mi vedrà mai in ciò vede

lui, questo ottuso.

Ora, dopo due ore di battaglia di spirito, di significato,

mi lecco le ferite per cinque minuti, quanto basta.

Poi salgo sull’aereo che è partito. Non per andare,

non per tornare.

Ma per vedere la soldatessa ai controlli, sotto di me

il poliziotto nell’inno nazionale delle mie scarpe, sotto di me

e sotto di me la menzogna della storia in una scatoletta di latta,

come Ben Gurion che è rimasto sempre, sempre, sempre,

sotto di me.


بلادي

إليك بلادي
جموحَ الطُّموحِ لسقف انتمائي،
إليك تعود الحَياةُ جَديدة
فتشفي جِراحَ العنيدْ
وتحيي الوئيدةْ

إليك اشتهاءَ الشهامةْ
وكرْمِ الكرامةْ
سواعدَ تبني الأمامَ التّمامْ
إليك المرام عليك السلامْ
بلادي الوليدةْ

Paese mio

A te paese mio

la tenacia ostinata dell’ambizione come tetto della mia appartenenza.

A te la vita ritorna, nuova

guarisce le ferite ostinate,

riporta in vita i racconti antichi.

A te il trasporto del coraggio,

l’onore della generosità.

Mani che costruiscono un fronte completo, perfetto.

A te la speranza, su di te la pace.

Paese mio, bambina mia.


لكي أكتب شعزا ليس سياسيْا يجب

،أن أصغى إلى العصافير

ولكي أسمع العصافير يجب

أن تَخرس طائرة

Per scrivere poesia che non sia politica,

devo ascoltare gli uccelli.

E per sentire gli uccelli

le bombe degli aerei devono tacere.

In teoria e in pratica | Collana Manufatti di Zacinto Edizioni

Le risposte degli autori della collana Manufatti di Zacinto Edizioni all’inchiesta a cura di Raggi γ.

Raccogliamo le risposte di alcuni autori presentati nella collana Manufatti di Zacinto EdizioniMarzia D’Amico, Lorenzo Mari, Stefania Zampiga.


1)  Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo?  Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

MDA: Il primo libro di poesia che ho pubblicato, Liricologismo, non è cronologicamente il primo che ho ultimato. Questo vuol dire che mi sono permessa un esercizio diverso, giocando con qualcosa che pensavo mi stesse male addosso (il lirismo puro) e trasformandolo come ho potuto a partire da dentro, permeando l’io con la costituzione di un’essenza plurima in una maniera diversa da altri esperimenti che avevo perseguito in passato (sia in lingua italiana che inglese). Non è cambiato però lo sguardo alla poesia, solo la maniera di applicare gli insegnamenti dello sperimentalismo (soprattutto italiano) che mi è caro. Sono certa che qualsiasi cosa scriverò affonderà sempre le radici – che sia per imitazione o per distanziamento – nella poesia sperimentale (soprattutto quella femminista) del secondo Novecento, perché oltre ad essere la materia di studio per il mio percorso di ricerca accademica, è un elemento chiave nel mio processo di ricerca personale e autoriale. Certo, non escludo che questo possa cambiare nel tempo in termini di approcci e giochi (mi piace una certa leggerezza poetica, l’ironia è una form(ul)a fondamentale di rivendicazione) ma dubito che perderò di vista l’orizzonte che mi ha così segnatə e formatə. Per quanto riguarda la costruzione di un’opera, invece, nella sua interezza, non ho consigli, o quantomeno non ne ho di buoni: io parto da un’idea che ha un principio e una fine, ma spesso cosa capita nel mezzo mi è (in parte) sconosciuto. Lavoro molto per accumulo e successiva esclusione, nel mezzo mi permetto una certa esuberanza per riconoscermi nel processo di scrittura: quando si arriva però al momento in cui l’oggetto-libro esce completamente da noi, ecco è lì che rivedo e rifinisco con quanta più possibile consapevolezza autoriale che non sto mandando nel mondo me ma una promessa di contatto.

LM: Sono affezionato a una visione della poesia che è progetto (e proiezione) ma senza una progettualità – né ideologica né formale – prestabilita. La progettualità viene in corso d’opera, proprio come si suggerisce nella domanda, da un movimento graduale di intreccio tra i materiali di lettura, di scrittura, di confronto con le altre arti, con gli accidenti della vita, etc. Di conseguenza non posso dare consigli, ma, parafrasando la massima, cerco di dare cattivi esempi… Nella mia esperienza, questo ha portato a libri che ricercavano una compattezza formale affine a un determinato lavoro sull’allegoria (anche qui, senza giungere ad allegorie perfettamente conchiuse) in Ornitorinco in cinque passi (Prufrock Spa, 2016) e Querencia (Oedipus, 2019), ma anche al percorso caotico, talvolta pseudo-enciclopedico talvolta arbitrario, di Soggetti a cancellazione (Arcipelago Itaca, 2022). In questo caso, una performance insieme a molpho per XM 24 e Galleria Frittelli di Firenze basata su una breve sequenza di testi è diventata la plaquette di Zacinto edizioni Tarsia/Coro e poi una parte di Soggetti a cancellazione (che, però, appunto, contiene molti altri materiali affastellati tra loro… e al tempo stesso cancellati…).
Credo che ogni forma si scelga le proprie maestre e maestri – e che questo di fatto accada, seppure più nascostamente, anche per quell’informe che è in rapporto dialettico con la forma – e questi libri ne hanno cercati parecchie e parecchi… In tema di costruzione dell’opera, vorrei piuttosto sottolineare la presenza di realtà editoriali, o produttive in senso lato, che contribuiscono molto a questo percorso – a differenza di altre, pur meritorie, che si attengono ai crismi di una produzione più tradizionale… Ne cito soltanto alcune, pescandole a titolo di esempio tra quelle con cui non ho un rapporto autore-editore: Diaforia, Benway Series, Howphelia.

SZ: Ecco, il tema avvia la ricerca. Purtroppo non riesco a partire dalla curiosità per una forma. Da qualche anno ho un tema, un progetto ampio ma modulabile, in un ambito che non mi aspettavo, quello della scienza. In breve, il progetto consiste nel vedere come percorsi, procedure, posture appena meno note di animali non umani siano mirabili in sé (nella precarietà del dato scientifico) ma anche evochino altro, in particolare, le ‘inarrestabili trame’ della scrittura. In Rangifera l’attenzione è su un solo dettaglio scientifico non dichiarato – come la renna vede nel bianco –  importante per me in quanto dettaglio di avvio del progetto generale.
Il tema viene da subito delineato dagli studi, che di conseguenza riducono e ampliano le tipologie di parola impiegate, nell’accoglienza di spunti soprattutto dal linguaggio della scienza – anche solo a spazializzarlo sulla pagina, rilascia riverberi. Mi piace indagare l’estensione e la trasformazione degli spazi di parola, oltre che gli effetti di una parola negli spazi. Quindi il tema vive solo per le parole scelte per le connessioni sostenibili nelle fluttuazioni del tempo. In generale mi piace indagare fin dove si può dire poco, dunque esploro la forma breve, anche se comincio ad aprirmi all’abbondanza.
Per la costruzione di Rangifera, primo testo lungo su un tema, ho proceduto per aperture, come se una lente si muovesse fra il tema e le sue lingue, i perimetri non perimetri, ad es. scomposizioni di parole come ‘lichene’ e ‘lupo’, altri dettagli. Amo i lavori di Marilina Ciaco e di Christophe Tarkos per come stanno nell’intimità in altri modi e per loro ‘decentr-azioni’, e amo la scomposizione della frase e del concetto di testo di Alessandra Greco. Poi, figure come Marco Giovenale, Morena Coppola e Andrea Inglese mi portano ad apprendere lo spostamento di attenzione al senso del rumore.
Naturalmente l’approccio cambia, anche in base alle letture che faccio; ad esempio per gli animali non umani, fra gli altri, da lungo tempo leggo Vinciane Despret e, in questi mesi, Bartolomeo Cafarella e Giulio Marzaioli.
Infine, l’immedesimazione dentro al corpo di un animale è legata a pratiche di improvvisazione di danza; come affermava qualche decennio fa la pensatrice di origine vietnamita Trinh T Minh Ha. “Il pensiero è tanto il prodotto dell’occhio, del dito o del piede come lo è del cervello.” Minimi consigli: indagare, aprire il testo, confrontarsi, uscire dall’isolamento fisico della scrittura.

2)  Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

MDA: Credo fortemente nel principio di finzione poetica. Certo, gli elementi biografici possono essere presenti e addirittura ricorrenti, ma quello che mi interessa soprattutto della poesia è la capacità di un sentito collettivo. Questo si costituisce, a mio avviso, secondo un progetto di ideale comune, di orizzonte condiviso, di desiderio di contatto. Non devo la verità a chi mi legge, e al massimo posso offrire la mia versione della verità; in questo senso, più che di biografismo, mi piace pensare che si tratti di posizionamento. Magari rivelo – più o meno direttamente e concretamente – aspetti funzionali a creare una relazione col prossimo.

LM: Sono grandi temi e mi sento di rispondere soltanto telegraficamente. Finzione sì, invenzione no (e nemmeno “uncreative writing” duro e puro, ma qualcosa di ibrido, o in movimento dialettico, tra i due poli); il sé… che dobbiamo fare, teniamocelo pure… ma soltanto se…

SZ: In primo luogo il movimento dei miei testi è lontano dall’espressione di sé e della realtà biografica del mio io perché ci sono altri intenti, entrare nei panni di animali non umani, anche se la scrittura non è in prima persona. Dunque la prima ‘finzione/invenzione’ è immaginare altri punti di vista, a partire da studi piuttosto approfonditi su quello di cui parlo. Riguardo a ciò, assumo il dato scientifico perché comunque si caratterizza per essere modificabile e fallace, provvisorio; nuove scoperte e intuizioni lo cambiano, in un certo senso si tratta di una costruzione transitoria. E comunque mi piace ricordare che anche il dato scientifico parte spesso da un’intuizione, e dall’immaginare, come è stato nel caso di Rachel Carson. Nei miei testi la finzione è immaginare implicazioni del dato scientifico, anche a partire dal modo in cui questo è formulato, il modo in cui è stato ‘disposto’ nel linguaggio.

3)  Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

MDA: Ho cominciato a scrivere in versi abbastanza presto ma con poco successo. Mi rileggo e lo dico senza vergogna: le mie prime poesie non sono niente di che. Solo quando ho adottato l’inglese come lingua principale della mia scrittura poetica ho saputo creare il giusto distacco funzionale a creare qualcosa che potesse servire qualcuno oltre me, è stato molto istruttivo e in parte faticoso ma davvero un’esperienza brillante di cui sono felice. Sono tornatə alla lingua italiana con più metodo e più attenzione, spero soprattutto avendo imparato a mediare tra l’istinto di compiacenza del sé e la prospettiva collettiva alla quale cerco di affidare il mio sentire, il mio ragionare, il mio scrivere. Avendo trascorso quasi tutta la mia vita circa-adulta all’estero, non ho neanche gioito o patito dell’esperienza della “bolla”, per mia fortuna e sfortuna immagino: sicuramente, però, il pubblico ha un valore massimo nel mio tentativo autoriale, perché molto di quello che scrivo è anche pensato per la lettura ad alta voce e condivisa. Credo fortemente nel momento stesso della compartecipazione testuale, credo che una poesia raggiunga la sua massima altezza quando si verifica.

LM: Non posso negare di avere rapporti con l’esterno – se di esterno si può parlare – che possono essere valutati, poi, di volta in volta. Talvolta ci ragiono a fondo anche io – magari all’interno di singoli progetti collaborativi, che hanno sostituito la “poesia d’occasione”, nella loro progettualità maggiormente prestabilita – ma guardo sempre alla questione con una certa leggerezza, visto che si tratta più che altro di autoanalisi… Per quanto mi riguarda, francamente, non è questa la faccenda più interessante: da un po’ di tempo mi concentro solo su una parte della domanda, quella che riguarda la presa di parola. Mi sembra che questa domanda sfugga, in ultima istanza, all’autoanalisi e che non riguardi soltanto l’esordio, bensì che vada posta continuamente. D’altro canto, personalmente, non credo nemmeno di essermela mai posta fino in fondo – il che non vuol dire non aver ancora esordito, ma, con ogni probabilità, essere sempre stato “borghese”, da un lato, e sempre già morto, dall’altro.

SZ: (in brevissimo)
infanzia/giovinezza: a Cesena, parola nello spazio come gioco, con amica Claudia Castellucci (Societas ex Raffaello Sanzio). Resa di Rilke e Dickinson di Mariangela Gualtieri, suo ‘Fuoco Centrale’. Bologna, passione per T. S. Eliot e la poesia in lingua inglese.
dopo: Prato e altri luoghi, scritture per il teatro e per la danza. Parole nello spazio, per Società delle Letterate. Con gli studenti, poesie contemporanee per voce e corpo e altre azioni sulla poesia, anche nel coordinamento di progetti Erasmus. Studi su poesia americana in performance. Co-coordinamento Progetto Poecity, su letture condivise. Laboratori con Elisa Biagini e del Centro Scritture. Esperienza di Esiste la Ricerca.
Il mio percorso è sempre nato da un incontro: mai in solitudine. Scrivo per dialogare. ‘Scrittura come test’, ricorda Antonio Francesco Perozzi in questa sede, scritture come passaggi falliti o fallibili, sperimentazioni di avvicinamenti, spostamenti, verso incontri. Molte cose influiscono su di me, cerco di essere consapevole delle situazioni e dei mutamenti che offrono; sono grata alla porosità, mi muovo verso il contatto.
L’esordio in pubblicazione aiuta ulteriormente a sentirmi parte di un dialogo.

4)  Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

MDA: La verità è che non conosco abbastanza la scena contemporanea italiana per poter dare giudizi o consigli, sono solo gratə di avere le mie parole lì fuori insieme a quelle di molte persone talentuose che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso. Sicuramente, una cosa generica ma che sento il dovere di riaffermare in quanto è mio compito anche come persona che insegna la poesia, è che la poesia non è elitaria. O almeno, per me, non dovrebbe esserlo. Il più grande insegnamento che ci lascia Amelia Rosselli è secondo me la continua ricerca di “un semplice linguaggio”: questo non si traduce in una lingua scialba, o priva di densità e significato. Ma c’è differenza tra scrivere una cosa difficile e oscura, e il pensare (e scrivere, e farne tesoro) la complessità e il saperla restituire.

LM: Anche in questo caso non ho particolari idee né preoccupazioni, ma posso parlare di quella che è l’esperienza, negli ultimi due anni, di “Dialoghi”, insieme a Sergio Rotino e Luciano Mazziotta. Si tratta di una rassegna annuale, basata su una serie di presentazioni brevi, quasi à contrainte, ovvero con la presenza di due libri in dialogo tra loro, scelti da chi organizza e modera l’incontro, in un tempo molto condensato che prevede comunque uno spazio per la lettura di una selezione dei testi dei singoli autori. Se va bene, quello che si può dire e sentire in un’ora e mezza un’ora e quaranta può essere condensato in trenta-quaranta minuti… Succede anche con la lettura di un libro di poesia: la si può fare in brevissimo tempo, ma le parole poi, se va bene, risuonano a lungo.

SZ: In generale, trovo che siano momenti di entusiasmo e passione. Dopo un evento recente del Premio Montano, ho visto quanto siano efficaci le note introduttive. Però, in generale, toglierei solennità a questi momenti, aprendo a punteggiature da altre discipline – musica, danza, teatro; favorirei esperimenti di ibridazione, ad esempio come quello creato qualche mese fa da Anna Papa nella sua giornata per ‘I dialoghi della sedia’ di Chiara Serani, inclusiva di contributi dalle arti visive, azioni propriocettive, videoart, performance.