Fady Joudah è un poeta, traduttore e medico statunitense, figlio di rifugiati palestinesi. Nato nel 1971 a Austin, Texas, ha vissuto in Libia e in Arabia Saudita; ha poi frequentato la facoltà di medicina presso l’Università della Georgia e oggi lavora come medico d’urgenza a Houston, Texas. È membro di Medici Senza Frontiere dal 2001, e in quanto tale ha preso parte alle loro missioni umanitarie in giro per il mondo.
Secondo Joudah, «all life is an act of translation»: dalla capacità di dare corpo al reale attraverso il linguaggio, alla semplificazione necessaria nella comunicazione coi pazienti, al lavoro di traduzione dei poeti in lingua araba, tutte le attività della sua vita girano attorno a questo sforzo di trasmissione, di costruzione di legami nel rapporto con l’Altro. È un’apertura verso l’esterno di tipo cosmico, dal momento che l’autore fa sì che la sua poesia non rimanga incastrata nell’interpretazione tipica della poesia palestinese, legata alle vicissitudini di questo popolo e quindi di valore limitato alla contingenza, ma includa in sé il passato e il presente, l’Occidente e l’Oriente, rivolgendosi all’umanità intera nel racconto di esperienze e memorie universali.
A questo scopo, Joudah mette in opera nelle sue poesie un’elaborata ricerca linguistica che riguarda in particolare l’uso di vocaboli ad alto grado di specializzazione provenienti dall’ambito medico e naturale: l’autore crea così nel dettato poetico delle isole metaforiche sulle quali il lettore è spinto a soffermarsi e che contengono il significato ultimo del testo. Come nel linguaggio post-grammaticale di Pascoli, Joudah cerca la precisione per creare effetti di straniamento e significazione. La forte attenzione verso gli elementi fisici, naturali e corporali, viene dalla volontà dell’autore di mettere in scena la realtà come fatta di carne e sangue, universalmente segnata dalla malattia, dall’infermità e dai cicli di vita-morte. Il lavoro di Joudah si impernia quindi sul tema della sofferenza come luogo fisico e mentale che unisce i popoli, i generi, le specie e le persone; la storia di sradicamento, esilio e morte del popolo palestinese diventa il punto di partenza di un’interrogazione sulle modalità in cui la violenza, percepita come fatalità ineluttabile, si dispiega su tutte le creature terrestri, dalla natura martoriata dall’uomo ai popoli oppressi da guerre e sopraffazioni e costretti alla migrazione. Tutto questo avviene in prospettiva dialettica, in cui l’autore rifiuta la fissità delle risposte e decide di porsi tra «sfumatura e semplificazione» confrontandosi direttamente con il lettore, il “noi” che è il fine ultimo di queste liriche. Qui presentiamo alcune poesie del suo terzo e quarto libro di poesie, Footnotes in the order of disappearance (2018), e Tethered to stars (2021), scritto a cavallo della pandemia di Covid-19.
Da Tethered to stars, 2021
Gemini
After yoga, I took my car to the shop.
Coils, spark plugs, computer chips, and a two-mile walk
home, our fossilized public transportation, elementary
school recess hour, kids whirling joy, the all-familiar
neighborhood. And then another newly demolished house.
How long since I’ve been out walking? A message appeared
on my phone: an American literary magazine
calling for a special issue on Jerusalem, deadline approaching,
art and the ashes of light. At the construction site
the live oak that appeared my age when I became a father
was now being dismembered. The machinery and its men:
almost always men, poor or cheap labor, colored
with American dreams. The permit to snuff the tree
was legally obtained. The new house is likely destined
for a nice couple with children. Their children
won’t know there was a tree. I paused to watch
the live oak brutalized limb by limb until its trunk stood
hanged, and the wind couldn’t bear the place:
who loves the smell of fresh sap in the morning,
the waft of SOS the tree’s been sending
to other trees? How many feathers will relocate
since nearby can absorb the birds?
Farewell for days on end. They were digging a hole
around the tree’s base to uproot and chop it
then repurpose its life.
Gemelli
Dopo lo yoga, portai la macchina al negozio.
Bobine, candele d’accensione, chip di computer, e due miglia a piedi
per tornare a casa, i nostri trasporti pubblici fossilizzati, l’intervallo
delle scuole elementari, i bambini in un turbinio di gioia, il quartiere
così familiare. E poi un’altra casa demolita da poco.
Da quant’è che camminavo? Sul mio telefono
comparve un messaggio: una rivista letteraria americana
cercava contributi per un’edizione speciale su Gerusalemme, e la scadenza era vicina,
arte e le ceneri della luce. Nel cantiere
la quercia viva che sembrava avere la mia età quando divenni padre
veniva ora smembrata. La macchina e i suoi uomini:
quasi sempre uomini, manodopera a basso costo, povera, del colore
del sogno americano. Il permesso di estirpare l’albero dal suolo
era stato legalmente ottenuto. La nuova casa sarà probabilmente assegnata
a una cordiale coppia con figli. I loro bambini
non sapranno che lì c’era un albero. Mi fermai a guardare
la quercia viva brutalizzata ramo per ramo finché il tronco non rimase
esposto, e il vento non poté più tollerare il luogo:
chi ama l’odore di linfa fresca al mattino,
un SOS esalato che l’albero stava inviando
agli altri alberi? Quante piume si trasferiranno
potendo le vicinanze farsi carico degli uccelli?
Addio per giorni e giorni. Stavano scavando un buco
attorno alla base dell’albero per sradicarlo e tagliarlo a pezzi
poi rivenderne la vita.
House of Mercury
The storm funneled through town with destructive intent.
Fractured tree limbs, toppled fences, ripped shingles
like tufts of hair. Dad woke up to snaps and creaks,
the two live oaks in the front yard,
but in the backyard the nearly uprooted fig tree
brought him to tears. In the morning
two neighbors, one Black, one White
came over to bandage the oaks after debridement.
A third, an Indian, stabilized the fig tree,
pitched it like a tent with rope and stake.
On the second day, I cut up the rest of the branches,
deepened the earth for the fig, enjoyed a long lazy
lunch with my parents, and on the way home heard
a radio report on whether the sky is bluer
during a pandemic. The third day
I took my son and daughter back,
we bundled up the heaps, nursed the flower beds,
delighted in another languid lunch,
hummus, falafel, shakshuka
followed by tea and stories about fear
that comes to nothing. The kids said it was the best falafel
they’d ever had. And Mom said that going forward
her morning glories will get the light they deserve.
Casa di Mercurio
La tempesta attraversò la città con l’intenzione di distruggere.
Arti di albero fratturati, steccati abbattuti, tegole strappate
come ciocche di capelli. Papà si sveglio al suono di schiocchi e crepitii,
le due querce vive in cortile,
ma nel giardino dietro casa l’albero di fico quasi sradicato
lo fece piangere. In mattinata
due vicini, uno Nero, uno Bianco
vennero a fasciare le querce dopo lo sbrigliamento.
Un terzo, un indiano, stabilizzò le condizioni del fico,
lo piantò come una tenda con corda e pali.
Il secondo giorno, tagliai il resto dei rami,
sprofondai il fico nella terra, godetti di un lungo pranzo
pigro con i miei genitori, e sulla strada di casa sentii
un servizio radio sulla possibilità di un cielo più blu
durante una pandemia. Il terzo giorno
riportai a casa mio figlio e mia figlia,
legammo insieme i sacchi, badammo alle aiuole,
ci deliziammo con un altro languido pranzo,
hummus, falafel, shakshuka
seguiti da tè e storie sulla paura
che si dilegua. I bambini dissero che era il miglior falafel
che avessero mai mangiato. E mamma disse che d’ora in poi
le sue campanule avrebbero avuto la luce che meritavano.
Sandra Bland, Texas
On the highway home last night
you reappeared to me opposite where I was headed,
so tell me, was it
a cigarette that bothered your jailer so?
(They let me go the one time I blew smoke
into a trooper’s face.) In the footage
your final revolt. I stood before you
more than once, more than sex
and color separated us, and why
should you call a doctor kin. Sandra Bland,
we broke you down,
I say your name, how broke. You died
on the day the Hollywood sign
was dedicated. For you I name
this town, and after every woman
the police killed, a town.
*
Dear Sandra,
I just got done with hours
of Civil War documentaries. “Useless,
useless,” John Wilkes Booth said
of his hands as his final words. An echo
of Kurtz’s “horror.” The Civil War, it turns out,
set a standard for modern wars,
one century into another.
And as the Confederate commander
of Andersonville prison camp felt the noose
around his neck, he, too, said
he was merely obeying orders.
Armies said. The police said.
The doctor, triaging collaterals, said.
The historian, wanting us to be the greatest,
said. The Civil War is a pointer to
future liberation for all kinds of folk, a milestone
in which no clear victor emerges,
since time is the master to whom
even literature submits.
*
We have schools,
counties, forts, clinics,
and at one point a hospital
named after Jefferson
Davis in Texas.
We have nothing
named after you.
Will you excuse me,
Sandra, for naming a poem
an imaginary place that,
as with any home,
one doesn’t inhabit
all alone, even if
in a coffin one is
all that there is?
And one, not even,
and far more.
*
Which “we” is it I speak of? Those of us
who didn’t play a part in your disintegration know
that we play a part. Not all players even
the field. We’re a catalog that goes on like hypha.
If it is resuscitation I seek
through your citation
it isn’t resuscitation I seek. Your mother called you
Sandy and with countless others loved your smile
beyond my arithmetic of commemoration.
Sioux City, Tucson, Tuskegee, Seattle.
*
To persuade me that war is retribution
for unspeakable sins, a comeuppance, a bit
theological for me all this. But to think
of war as entropy’s work, order
and disorder in a waltz that sees
not the identities we historicize into chains
of absolute ghosts? How is it that
women (to mention one example) have always
suffered greater injustice, endured
more pain than men have,
what entropy is this
that singles out?
*
History has rendered this kind of math incalculable.
History manufactured out of and against our biology,
seduced as a dog is lured with a treat.
Between nuance and essentialization, I sing myself.
Between cost-benefit ratio and the unattainable
I see freedom in amendments I further amend.
Between my trauma and another’s passage,
speaking and the spoken for.
*
It’s clear you’re my pretext, Sandra, you were
an Aquarius (my dad’s as well). But do zodiacs exist
for birth into the underworld? If so, then on the date
your breath no longer tethered your body, you became
a Cancer, proliferative, this nation’s sign.
*
Under that sign, ten years before your murder,
I asked myself in Darfur, What is the threshold
for suffering to create us equal? It’s low
enough for anyone to dance the limbo
and stay on their feet the whole
song through, if we choose. I fear our twin
consciousness cannot hold. Our voodoo
and epigenetics, our quantum and wizards,
snakes and ladders. Yet my weakest faith
(when I remember it) is that I don’t visit
my grief upon those whose pain is more acute
than mine, or is chronic with more frequent flares.
Is there an equation to help me exempt
others from my loyalty oath to taxonomy,
a step in my deliverance from woe?
*
Nuance, too, competes with generality
for erasure, a visibility each mode can perform
well: where is that threshold?
So that prudent justice isn’t laundered
against the baler angels of our nature, Sandra,
I rise up from my apoptosis under
a cherry tree into an olive. What crimes
won’t I pardon or dissipate into energy
if suffering is folded in space-time?
Is our empathy’s nebula pacifist
or a ruse of the tongue sat in dentition?
I reckon the ten words in which Honest Abe
counted “the people” a trinity at Gettysburg
are what the Black Panthers heard.
*
Ms. Bland,
I also learned
that singularity
is achieved only
when one is torn
to irreconcilable
pieces, decomposed
six fathoms up,
down, lateral,
unflagged, indivisible,
undertow for all.
Ms Bland,
how much
of me is you
and you is we?
Sandra Bland, Texas
Sulla strada di casa la scorsa notte
mi sei riapparsa di fronte a dov’ero diretto,
allora dimmi, è stata
una sigaretta a far dare di matto il tuo carceriere?
(Avevano lasciato perdere quella volta che ho soffiato il fumo
in faccia a un soldato). Nel filmato
la tua ultima protesta. Siamo stati faccia a faccia
più di una volta, più di quanto il sesso
e il colore ci separassero, e perché
dovresti chiamare fratello un dottore. Sandra Bland,
ti abbiamo spezzato,
io dico il tuo nome, così spezzato. Sei morta
il giorno in cui il cartello di Hollywood
è stato inaugurato. Col tuo nome battezzo
questa città, e col nome di ogni donna
che la polizia ha ucciso, una città.
*
Cara Sandra,
vengo da ore di documentari
sulla Guerra civile. «Inutili,
inutili», John Wilkes Booth disse
delle sue mani come ultime parole. Un’eco
dell’«orrore» di Kurtz. La Guerra civile
ha definito lo standard per le guerre moderne,
un secolo dopo l’altro.
E mentre il comandante confederato
del campo di prigionia di Andersonville sentiva il cappio
attorno al collo, anche lui disse
che stava solo eseguendo gli ordini.
Gli eserciti dissero. La polizia disse.
Il dottore, diagnosticando garanzie, disse.
Lo storico sognando che siamo la più grande potenza
disse. La Guerra civile è un avviso
per la futura liberazione di ogni tipo di popolo, una pietra miliare
in cui non emerge un chiaro vincitore,
perché il tempo è il padrone a cui
anche la letteratura si sottomette.
*
Abbiamo scuole,
contee, basi militari, cliniche,
e a un certo punto un ospedale
che si chiama Jefferson
Davis in Texas.
Non abbiamo dato
il tuo nome a nulla.
Mi scuserai
per aver intitolato una poesia
a un luogo immaginario in cui,
come in qualunque altra casa,
uno non abita
tutto solo, anche se
in una bara uno è
tutto ciò che c’è?
E uno, neppure,
e uno, molto di più.
*
Di quale “noi” sto parlando? Quelli di noi
che non giocarono una parte nella tua disintegrazione sanno
che giochiamo una parte. Non siamo tutti giocatori ma anche
campo. Siamo un catalogo che si espande come un’ifa.
Se è la rianimazione che cerco
attraverso la tua citazione
non è la rianimazione che cerco. Tua madre ti ha chiamato
Sandy e con innumerevoli altri ha amato il tuo sorriso
al di là della mia matematica della commemorazione.
Sioux City, Tucson, Tuskegee, Seattle.
*
Persuadermi che la guerra sia retribuzione
per peccati ineffabili, un giusto castigo, un po’
teologico per me tutto questo. Ma pensare
della guerra come lavoro dell’entropia, ordine
e disordine in un valzer che non
vede le identità che storicizziamo in catene
di fantasmi assoluti? Com’è che
le donne (per dirne una) hanno
sofferto un’ingiustizia più grande, sopportato
più dolore degli uomini, che entropia è questa
che seleziona?
*
La storia ha reso questo tipo di matematica incalcolabile.
La storia fabbricata fuori da e contro la nostra biologia,
sedotta come un cane è attirato con un premio.
Tra sfumatura e semplificazione mi canto.
Tra il rapporto costi-benefici e l’irraggiungibile
vedo libertà in emendamenti che ulteriormente emendo.
Tra il mio trauma e il passaggio di un altro,
colui che parla e colui a nome del quale si parla.
*
È chiaro che sei il mio pretesto, Sandra, eri
un Aquario (come lo è mio padre), ma esistono gli zodiaci
per la nascita nell’aldilà? Se fosse così, allora nel giorno
in cui il tuo respiro non ha più legato insieme il tuo corpo, sei diventata
Cancro, proliferante, segno di questa nazione.
*
Sotto quel segno, dieci anni prima del tuo omicidio,
mi sono chiesto a Darfur, qual è la soglia
della sofferenza che ci fa uguali? È bassa
abbastanza per chiunque per ballare il limbo
e restare in piedi fino alla fine della
canzone se lo scegliamo. Temo che le nostre coscienze
gemelle non possano resistere. Il nostro voodoo
e l’epigenetica, il nostro quanto e i maghi,
gioco dell’oca. Eppure il mio dogma più debole
(quando me ne ricordo) è che non visito
il mio dolore presso coloro il cui dolore è più acuto
del mio, o è cronico con più frequenti fitte.
C’è un’equazione che mi aiuti a esentare
gli altri dal mio giuramento di lealtà alla tassonomia,
un passo in avanti nella mia liberazione dalla pena?
*
La sfumatura, pure, fa a gara con la genericità
per cancellare, una visibilità che entrambi i modi sanno performare
bene: dov’è quella soglia?
Perché la giustizia prudente non sia lavata e stirata
contro gli angeli-pressa della nostra natura, Sandra,
riemergo dalla mia apoptosi sotto
un ciliegio in un’oliva. Quali crimini
non condonerò o dissiperò in energia
se la sofferenza è ripiegata nello spazio-tempo?
È la nebulosa della nostra empatia pacifista
o uno stratagemma della lingua chiusa nei denti?
Immagino che le dieci parole con cui Honest Abe
contò «the people» in una trinità a Gettysburg
siano quello che le Black Panthers sentirono.
*
Ms. Bland,
ho anche imparato che l’eccezionalità si raggiunge solo
quando uno è lacerato
in pezzi irreconciliabili, decomposto
sei braccia verso l’alto,
verso il basso, di lato,
instancabile, indivisibile,
corrente di ritorno per tutti.
Ms. Bland,
quanto
di me sei tu
e tu sei noi?
Da Footnotes in the order of disappearance, 2018
Beanstalk
I was twelve when I asked my older brother about the clitoris. He told me it was a structure on the outside of a woman’s vagina that was the size of a chickpea. If you hold it between your fingers, he said, a woman instantly melts, and he made a soft gesture of rubbing his index finger and thumb together, as if he were dusting off flour after eating a piece of bread, or stroking the wing of a moth. He’d never seen one, I was sure of it, but I could sense he wasn’t lying. He’d felt one maybe in the stairwell of some building that wasn’t fully housed on the campus where we lived in Riyadh. He had a reputation for being a Don Juan, which got him in trouble with the local boys. But the size of a chickpea? When I went to medical school the dimension never left my mind. If his fingers were accurate, objective, not subject to the delirium of pleasure at fourteen, then there’s only one explanation: he must have encountered a girl with clitoromegaly. A cadaver had a large penis in our anatomy lab the first year of medical school. The tiniest woman in class, who went on to become a pathologist, could not get over the size of it. She kept saying, “Look at the size of it! How can that fit?” Two years earlier, while taking premed anatomy, when it was penis time, and the cloth was removed, I don’t know why I uttered these words under my breath: “So small yet so many troubles.” A classmate who was standing right behind me approached me after class to tell me she was moved by my remark. She had been a victim of rape. I was stunned. She wanted to talk. She told me she lived in a house in the middle of Nowhere Road, in Athens, Georgia.
Pianta di fagioli
Avevo dodici anni quando chiesi a mio fratello maggiore cos’era il clitoride. Mi disse che era una struttura all’esterno della vagina di una donna grande come un cece. Se lo tieni tra le dita, disse, una donna si scioglie all’istante, e delicatamente sfregò insieme l’ indice e il pollice, come se si stesse togliendo dalle mani la farina dopo aver mangiato un pezzo di pane, o accarezzando le ali di una falena. Lui non ne aveva mai visto uno, ne ero sicuro, ma capii che non stava mentendo. Ne aveva sfiorato uno forse nella tromba delle scale di qualche edificio sfitto nel campus dove vivevamo a Riyadh. Aveva la reputazione di essere un Don Giovanni, cosa che lo aveva messo nei guai con i ragazzi locali. Ma un cece? Mentre frequentavo la facoltà di medicina queste dimensioni non lasciarono mai la mia mente. Se le sue dita erano precise, obiettive, non soggette al delirio del piacere di un quattordicenne , allora c’era una sola spiegazione: aveva incontrato una ragazza con clitoromegalia. Il primo anno della facoltà di medicina, nel nostro laboratorio di anatomia c’era un cadavere con un pene molto grande. La donna più minuta della classe, che divenne poi una patologa, non riusciva ad accettarne la misura. Continuava a dire, «Guarda quant’è grande! Come fa a entrare?». Due anni prima, mentre seguivo anatomia in premed, quando arrivò il momento del pene, e fu rimosso il telo, non so perché dissi queste parole sottovoce: «Così piccolo eppure così tanti guai». Una compagna di classe che era dietro di me mi si avvicinò dopo lezione per dirmi che si era commossa per la mia osservazione. Era stata vittima di uno stupro. Rimasi sbalordito. Lei voleva parlare. Mi disse che viveva in una casa nel bel mezzo di Nowhere Road, a Athens, Georgia.