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L’autoproclamato “poeta laureato del nonsense”: quattro poesie di Edward Lear

Introduzione e traduzione dall’inglese a cura di Sara Caretta e Alessandro Valenti

Per la rubrica #mortəcheparlano, vi presentiamo quattro poesie di Edward Lear (1812 – 1888), scelte, tradotte dall’inglese e introdotte da Sara Caretta e Alessandro Valenti.

Nell’approcciarsi alla poesia di Edward Lear (1812-1888), lettori adulti e bambini si trovano di fronte a creature che inesorabilmente attraversano il confine che separa il convenzionale dal bizzarro, e l’abituale dall’eccentrico. È in questa scentratura che acquista il suo senso il delizioso nonsense di Lear, il quale all’interno dei suoi schemi metrici rigidamente prevedibili inserisce la cifra dell’incongruo – e quindi della sorpresa, a cavallo fra comicità, incertezza e simpatia.

Queste figure eccentriche, infatti, non sono oggetto di satira o derisione, pur non acquistando alcuna dimensione di pathos: nella loro configurazione più essenziale, affrontano vicissitudini che mettono in scena il confronto con una dura realtà, la quale rivela infine la loro incompatibilità con il mondo circostante. Nella prima poesia qui selezionata, “Gli abiti nuovi”, l’incongruo nasce dall’incontro assurdo tra due dei bisogni primari dell’uomo: al posto dei soliti vestiti, il protagonista in questione sfoggia un outfit interamente commestibile, e si trova poi, una volta uscito in pubblico, ad affrontare le conseguenze della sua scelta.

La selezione include poi tre limerick, la forma poetica che Lear stesso ha contribuito a popolarizzare tra il pubblico di lettori vittoriani; in questi componimenti (di quattro o di cinque versi a seconda dello spazio disponibile in sede di stampa per le illustrazioni di Lear) si ripete un’identica esperienza di straniamento, seguita quindi dal confronto (e dal conflitto) con le leggi di una realtà condivisa da tutti, men che dall’eccentrico personaggio in questione. Nello scegliere alcuni tra i numerosissimi limerick composti da Lear, abbiamo voluto privilegiare tre location situate in Italia (rispettivamente Abruzzo, Lucca e Aosta); ciò a testimonianza degli anni trascorsi da Lear nella penisola, ritratta in molti dei suoi appunti e delle sue illustrazioni. Non ci sembra inverosimile suggerire che l’esperienza artisticamente poliedrica e geograficamente vagabonda di Lear possa trovare un suo corrispondente nella popolazione eccentrica che abita i suoi versi, composta da audaci fashion designer, donzelle dal cuore spezzato, e pastori sbadati.


The New Vestments

p. 245

There lived an old man in the Kingdom of Tess,
Who invented a purely original dress;
And when it was perfectly made and complete,
He opened the door, and walked into the street.
By way of a hat, he’d a loaf of Brown Bread,
In the middle of which he inserted his head;—
His Shirt was made up of no end of dead Mice,
The warmth of whose skins was quite fluffy and nice;—
His Drawers were of Rabbit-skins;— so were his Shoes;—
His Stockings were skins,— but it is not known whose;—
His Waistcoat and Trowsers were made of Pork Chops;—
His Buttons were Jujubes, and Chocolate Drops;—
His Coat was all Pancakes with Jam for a border,
And a girdle of Biscuits to keep it in order;
And he wore over all, as a screen from bad weather,
A Cloak of green Cabbage-leaves stitched all together.
He had walked a short way, when he heard a great noise,
Of all sorts of Beasticles, Birdlings, and Boys;—
And from every long street and dark lane in the town
Beasts, Birdles, and Boys in a tumult rushed down.
Two Cows and a half ate his Cabbage-leaf Cloak;—
Four Apes seized his Girdle, which vanished like smoke;—
Three Kids ate up half of his Pancaky coat,—
And the tails were devour’d by an ancient He Goat;—
An army of Dogs in a twinkling tore up his
Pork Waistcoat and Trowsers to give to their Puppies;—
And while they were growling, and mumbling the Chops,
Ten Boys prigged the Jujubes and Chocolate Drops.—
He tried to run back to his house, but in vain,
For Scores of fat Pigs came again and again;—
They rushed out of stables and hovels and doors,—
They tore off his stockings, his shoes, and his drawers;—
And now from the housetops with screechings descend,
Striped, spotted, white, black, and gray Cats without end,
They jumped on his shoulders and knocked off his hat,—
When Crows, Ducks, and Hens made a mincemeat of that;—
They speedily flew at his sleeves in a trice,
And utterly tore up his Shirt of dead Mice;—
They swallowed the last of his Shirt with a squall,—
Whereon he ran home with no clothes on at all.
And he said to himself as he bolted the door,
‘I will not wear a similar dress any more,
‘Any more, any more, any more, never more!’

Gli abiti nuovi

Viveva un vecchietto in un villaggio reale
Che s’inventò un vestito assai originale;
Quando fu pronto e calzante a pennello,
Aprì il suo portone e uscì dal cancello.
Come cappello aveva una pagnotta integrale,
In mezzo alla quale mise la sua testa ovale;
La camicia era fatta di topolini stecchiti,
Così morbida da lasciar tutti sbalorditi;
I mutandoni erano pelli di coniglio, così come gli stivali;
Anche le calze erano di pelle, ma forse non di animali;
Gilè e pantaloni eran di carne grigliata;
I bottoni giuggiole, e gocce di cioccolata;
Pancake e marmellata gli facevan da cappotto,
Il tutto sorretto da una pancera di biscotto;
Un mantello, infine, per ripararsi dal vento,
Di foglie di cavolo, cucite con talento.
Camminava da un po’, quando udì tremendi schiamazzi,
Di ogni sorta di bestie, uccellacci e ragazzi;
E arrivarono da ogni vicolo e strada della grande città
Bestie, uccellacci e ragazzi con gran rapidità.
Due mucche e mezzo gli brucarono il mantello;
Quattro scimmie scapparono con la pancera nel borsello;
Tre bimbi si sbafarono i pancake del suo cappotto,
E le briciole andarono a un caprone vecchiotto;
Dei cani in un lampo sbranarono pantaloni e gilè
Per portar braciole e costine ai loro bebè;
E mentre questi banchettavano con la carne grigliata,
Dieci ragazzi sgraffignavano giuggiole e cioccolata.
Provò a tornare a casa di corsa, ma fu tutto invano:
Orde di maiali lo inseguivano a tutto spiano;
Arrivavano a frotte da stalle, porcili e portoni,
Per strappargli calze, stivali, e persino i mutandoni;
Con acuti miagolii scendevano ora dai tetti
Gatti striati, maculati, bianchi, neri e grigetti,
Gli saltaron sulle spalle e gli gettaron via il cappello,
Tra corvi, anitre e galline ne rimase un sol brandello;
S’avvinghiarono poi alle maniche, come impazziti,
Fino a strappare la camicia di topi stecchiti;
Con gran gusto papparono anche l’ultimo topino,
Così corse a casa nudo, senza neanche un calzino.
Si ripromise allora, barricandosi laggiù,
“Con un tale vestito non ci esco mai più,
Mai più, mai più, mai più, mai più!”


Tre limerick

(p. 27, 29, 57)

There was an Old Man of th’ Abruzzi,
So blind that he couldn’t his foot see;
⁠When they said, “That’s your toe,” he replied, “Is it so?”
That doubtful Old Man of th’ Abruzzi.

C’era un vecchio signore degli Abruzzi,
Così miope ch’i piedi gli sembravan merluzzi;
Quando gli dissero, “Ma è il tuo ditone,” lui rispose, “Ma come?”
Quel dubbioso vecchio signore degli Abruzzi.


There was a Young Lady of Lucca,
Whose lovers completely forsook her;
⁠She ran up a tree, and said, “Fiddle-de-dee!”
Which embarrassed the people of Lucca.

C’era una giovane donna di Lucca,
Dagli amanti piantata, come una vecchia bacucca;
Su di un albero si arrampicò, e disse “Piripì! Piripò!”
Il che imbarazzò la gente di Lucca.


There was an Old Man of Aôsta,
Who possessed a large cow, but he lost her;
⁠But they said, “Don’t you see, she has rushed up a tree?
You invidious Old Man of Aôsta!”

C’era un vecchio signore di Aosta,
Che perse una mucca, ma non apposta;
Gli dissero, “Ma non la vedi? È su quell’albero, in piedi!
Vecchio bilioso signore di Aosta!”


Edizione di riferimento: E. LEAR, The Complete Nonsense of Edward Lear, a cura di H. Jackson, New York, Dover Publications Inc.

Alcune riflessioni su Holst Katsma e il suo metodo

Nota di lettura a cura di Lorenzo Di Palma.

Pochi giorni fa è stata pubblicata in Italia Morfologia del romanzo, la tesi di dottorato di un giovane studioso statunitense che si chiama Holst Katsma. Il libro si inserisce nella meritoria opera di divulgazione che la casa editrice nottetempo svolge attraverso la collana extrema ratio; opera il cui scopo mi pare quello di avvicinare il grande pubblico ai temi più recenti della ricerca accademica di ambito letterario. Come gli altri titoli della collana, il libro di Katsma è caratterizzato dalla chiarezza che è propria degli studi che ruotano attorno a domande semplici, ma le cui risposte sono spesso sorprendenti. Cosa accadrebbe ­– si chiede Katsma – se si sostituisse al classico oggetto d’indagine della teoria della letteratura (ovvero la parola, la frase, il concetto) l’intero ambito della spazializzazione del pensiero romanzesco? Quale sarebbe l’esito di uno studio che partisse non dal microscopico nascosto tra le righe, ma dal macroscopico costituito dall’intero spazio della pagina?

Nel corso del XVIII secolo, infatti, il romanzo ha cambiato più volte aspetto. Nuove tecniche di raggruppamento del discorso, come ad esempio il paragrafo, la divisione in capitoli o l’uso delle virgolette per il discorso diretto, sono elementi che risultavano estremamente innovativi per il lettore dell’epoca e che oggi vengono spesso relegati all’ambito ornamentale a causa dell’abitudine. Ma proprio la cristallizzazione e la persistenza di queste forme ormai intuitive sono indizi che chiariscono molto della trasformazione repentina che deve essere avvenuta tra la metà del 1700 e l’inizio del 1800. L’oggetto di indagine del libro è quindi una morfologia in senso letterale delle forme esteriori e più visibili del romanzo.

Non bisogna inoltre dimenticare che la relativa giovinezza del romanzo tra i vari generi del campo letterario lo rendono un ottimo mezzo per comprendere alcune trasformazioni ancora in atto che rientrano nel più grande tentativo di espandere l’immaginazione verbale attraverso la scrittura. Se si prendono in esame due romanzi di tema similare, scritti a distanza di cento anni in una forbice di tempo che potrebbe essere 1750/1850, si può notare come le differenze esteriori e immediatamente riscontrabili sono anche quelle che determinano le altre strutture, cioè quelle interne al testo. All’andamento monologico del primo, si contrapporrebbe quello dialogico del secondo; al wall of text del primo, l’ordinata scansione in paragrafi del secondo.

Katsma utilizza come esempio alcune pagine tratte da David Copperfield (1850) di Charles Dickens, confrontandole con alcuni passi del Joe Thompson (1750) di Edward Kimber (uno scrittore oggi per lo più dimenticato, ma all’epoca di grande fama). Nel secolo che separa Dickens da Kimber sono stati elaborati modelli di pensiero che si basano su una concezione della spazialità e una psicologia della durata totalmente diverse. Il tempo del paragrafo è fondamentalmente il tempo dell’orologio da taschino e le possibilità che il paragrafo apre in termini di unità del pensiero sono quelle tipiche del borghese vittoriano.

Ma noi esseri umani del XXI secolo, a differenza di Dickens, sappiamo bene che il tempo e lo spazio sono sempre in relazione. Volendo, si potrebbe espandere il modello morfologico oltre il romanzo, incorporando anche altre forme. È possibile, ad esempio, che ­– come suggerisce Katsma – la nascita e lo sviluppo della poesia in prosa dipenda da una gelosa soggezione di fondo nei confronti del paragrafo nel romanzo? Basta ricordare che quello che viene riconosciuto come l’iniziatore della poesia in prosa, il francese Aloysius Bertrand, pubblica proprio negli anni ’40 del 1800 il Gaspard de la Nuit, un libro di poesie che si presentano graficamente come la somma di brevi paragrafi in prosa. Certo, questo articolo non è il luogo adatto per ampliare ulteriormente il discorso, ma c’è da dire che il sasso lanciato da Katsma smuove più acqua nello stagno di molti contributi sul fenomeno della poesia in prosa pubblicati negli ultimi anni; contributi che spesso si limitano a catalogare vari esempi di prosa poetica senza rispondere alla domanda esiziale del perché questa forma abbia avuto un revival proprio negli ultimi venti anni, e in che modalità il contenuto agisca sulla forma.

Questo punto è essenziale perché un’obiezione abbastanza ovvia al metodo di Katsma è quella secondo cui sarebbe proprio il contenuto a modellare lo spazio sulla pagina e non viceversa. Si tratta di una obiezione problematica e complessa che l’autore tratta solo superficialmente nel libro e che forse meriterebbe più attenzione (l’autore non liquida l’argomento con un atteggiamento dogmatico, ma si dice aperto alla discussione). Insomma, sarebbe utile intavolare un discorso sull’influenza che le forme che occupano il centro del campo letterario (come il romanzo) hanno sulle forme più periferiche (come la poesia di oggi); allo stesso modo sarebbe straordinario un contributo sull’evoluzione della pagina poetica dai manoscritti medievali, in cui i sonetti apparivano per lo più su due colonne da sette versi ciascuna, passando per il tempo ciclico della strofa in ottava rima, fino al tempo della prosa poetica (non sono a conoscenza di libri di questo tipo sulla poesia italiana).

Concludendo, il libro di Holst Katsma fornisce un punto di vista fresco su problemi linguistici tutt’altro che scontati, ricordandoci che siamo ancora lontani dal comprendere veramente quanto la spazialità riesca a modellare il nostro pensiero, anche all’interno di strutture letterarie complesse come il romanzo.

“Per grandi occasioni scelgo volentieri le nervature”: alcune poesie di Natalia Malek

Introduzione e traduzioni dal polacco di alcune poesie di Natalia Malek a cura di Marta Wanicka per l’Almanacco.

In questo articolo dell’Almanacco vi invitiamo a leggere, per la prima volta in italiano, una delle più importanti voci liriche del panorama polacco contemporaneo. Malek è vincitrice dei premi letterari Adam Włodek 2017 e Gdynia 2021, ed è stata nominata anche ai premi letterari Nike e Wisława Szymborska.

“Na wielkie okazje chętnie wybieram szczypanki”, allo stile “di pizzo”: delicato, elegante e elaborato contrapporre le nervature, le pieghe del materiale. Questa è la dichiarazione poetica di Natalia Malek, che risuona ancor più limpida in polacco dove la parola “szczypanki” rinvia a “szczypać”, “dare dei pizzicotti”. Questi brevi componimenti vanno letti proprio così: come dei pizzicotti in grado di svegliare, sconvolgere, far passare il singhiozzo, rimanendo, lontanissimi, però, dalla pomposità. Giocosi e serissimi, tutti i testi qui presentati provengono dallo stesso Kord (Corda), il terzo libro di poesie di Natalia Malek, uscito da WBPiCAK nel 2017, dopo Pracowite Południa (Pomeriggi intensi) del 2010 e Szaber (Bottino) del 2014.

Kord è una sorta di indagine su un mondo caotico, su una confusione di lingue, paesi, migrazioni, piante, frasi interrotte, ricordi sovrapposti, significati che si diramano, prendendo strade diverse. La chiave compositiva è l’esperienza dell’io lirico, dei suoi viaggi e spostamenti (“la vita interiore dei migranti”), nella convinzione che per scrivere sia necessario lasciare libere le ciocche dei capelli e vivere (“Ci devo pensare/ E lo devo vivere”) senza imporre rigidità al materiale. Così l’esperienza fa sì che l’accumulo di oggetti non porti all’indistinto, ma, al contrario, faccia risaltare connessioni non evidenti tra le cose (i fiumi e i lacci; le api e i distici). 

Quella di Malek è una ricerca radicale di termini precisi, uno sguardo quasi filologico sulle parole, che trasuda l’esperienza traduttiva della poetessa; lei è, infatti, la voce polacca di Louise Glück, Tyrone Williams e Sandra Cisneros, per citarne alcune. Malek sceglie spesso parole rare, polacche e straniere, sfruttando la loro polisemia (“nervature”, “colloide”) e la loro sonorità (“jararaca”, “Hendrix”, “oolong”). L’attenzione allo strato sonoro è evidente in particolare nella poesia “Bardo e baraonda”, che ha come tema proprio la confusione di suoni in una città dove i rumori di passi, api e piatti della batteria contribuiscono a creare uno sfondo musicale a “una pallottola di uomo e saliva, la rabbia su due piedi”. Tutta questa “baraonda” di cose e suoni è governata da una voce lirica limpida, si direbbe quasi intransigente (“figlia di una jararaca”), consapevole della propria forza.

Cosa fare quando tacciono gli intellettuali di sinistra?

Gambe divaricate alla larghezza dei fianchi.
Leggermente piegate.
Braccia distese in avanti – come un rotolo di tessuto, una lastra lucente di un molo.

Ripeti:

Sono libera come una jararaca
Sono pericolosa come una figlia di jararaca
Nessuno mi ha mai desiderata così.

Co robić, gdy milczy liberalna inteligencja?

Rozstawić nogi na szerokość bioder.
Lekko zgiąć.
Ręce wyprostować przed siebie – niech tworzą belę materiału, jaśniejszą dechę pirsu.

Powtórzyć:

Jestem wolna jak żararaka.
Jestem groźna jak córka żararaki.
Jeszcze nikt mnie tak nie pożądał.

Bardo e baraonda

Hanno cambiato il mondo: le api, i distici, i piatti.
Della batteria.

Le scarpe di vernice hanno cambiato la città.
Quando vola una pallottola di uomo e saliva, la rabbia su due piedi, fa pensare a qualcosa di fonico.

Non ha nucleo
né troposfera. A volte è questo che vogliamo.

Bard i bardak

Zmieniły świat: pszczoły, dystychy, talerze.
Perkusyjne.

Lakierki zmieniły miasto.
Gdy leci kula z człowieka i śliny, wściekłość na dwóch nogach – kojarzy się fonicznie.

Nie ma jądra
ani troposfery. Tak czasem chcemy.

Oolong

La vita interiore dei migranti: prendere una macchina in prestito
per venerdì sera. Cercare uno spazzolino per le unghie.

Come si dice colloide in inglese? La vita, per la quale l’industria da tempo ha il vaccino –
o solo fagioli e riso?

Saltare fuori dal nulla, schiantarsi a terra: bam! Così come inizia la città!
Una delle persone del posto può comparire dodici volte

in dodici pelli diverse,
e presentarsi come Rilke e come Hendrix. Non lo portano da nessuna parte: né all’ospedale, né a scuola,

né in quel buco con i cognac,
che ho scoperto a caso grazie a te. Un altro può setacciare

l’intera cucina per farci vedere qualcosa di unico: il thè.
(Persino le più coraggiose delle piante ignorano la composizione del prato)

Ulung

Życie wewnętrzne emigrantów: pożyczyć samochód
na piątek wieczór. Rozejrzeć się za szczoteczką do paznokci.

Jak jest koloid po angielsku? Życie, na które przemysł od dawna zna szczepionkę –
czy tylko fasola i ryż?

Wystrzelić znikąd i obrócić się na płask! Tak, jak zaczyna się miasto!
Jeden z tutejszych ludzi umie przyjść dwanaście razy

w dwunastu skórach,
i przedstawić się jako Rilke i jako Hendrix. Nigdzie go nie zabierają; ani do szpitala, ani do szkoły

ani do dziury z koniaczkami,
o jakiej wiem przypadkiem od ciebie. Inny potrafi przetrząsnąć

całą kuchnię, by nam pokazać coś wyjątkowego: herbatę.
(Najśmielsze rośliny nie znają rozkładu łąki)

Margine

comprare venti barattoli di marmellata rossa,
non rasare le gambe,
lasciare la chiave ai vicini,

i quali, si sa, stanno costruendo una casa sul confine.
E passare la notte, e distillare il giorno-
come persone ragionevoli, ornamentali, incapaci di tornare indietro, ma ancora curiose di sapere: è l’ora?

Margines

kupić 20 słoików czerwonego dżemu,
nóg nie golić,
klucz dać sąsiadom,

o których wiadomo, że się budują na granicy.
I nocować, i pędzić dzień-
jak osoby rozumne, ozdobne, niezdolne do ruchu w tył, ale nadal zainteresowane pytaniem: to już?

Il volto della letteratura

Chiedeva di ascoltare le persone. Si pettinava le ciocche.
(Da poco le lasciava libere)

Scriveva lettere – e a loro venivano
delle macchioline sul dorso. Quando arrivavano proposte, dalle carceri o dagli scout, vigilava:

Ci devo pensare.
E lo devo vivere.

Twarz literatury

Prosiła, żeby ludzi słuchać. Poprawiała pukle.
(Od niedawna dawała im luzu)

Pisała listy – a one dostawały od tego
plamek na grzbiecie. Gdy wpływały propozycje, z ZK lub z harcerstwa, czuwała:

Muszę to przemyśleć.
I muszę to przeżyć.

Nervature

Stavo spiegando a un bambino come un paese che comincia con la B non possa essere Bruxelles.
(Non cambio nulla nel mondo, drammatizzava Giovanna prima di Pasqua)

E poi, che i fiumi non funzionano così bene come i lacci,
anche se legano le persone più delle feste di compleanno.

A te non piace lo stile di pizzo delle donne che scrivono.
E io ho scoperto da poco: Per grandi occasioni scelgo volentieri le nervature.

Szczypanki

Tłumaczyłam chłopcu, że państwem na be nie może być Bruksela.
(Niczego nie zmieniam w świecie, dramatyzowała przed Wielkanocą Joanna)

A potem, że rzeki nie działają tak dobrze jak sznurówki,
choć wiążą ludzi mocniej niż przyjęcia urodzinowe.

Ty nie lubisz koronkowego stylu piszących kobiet.
A ja odkryłam niedawno: Na duże okazje chętnie wybieram szczypanki.

Su “La verità e la biro” di Tiziano Scarpa

Nota di lettura a cura di Lavinia Ceci.

Autore prolifico e discusso, Tiziano Scarpa ha recentemente pubblicato per Einaudi il suo ultimo lavoro dal titolo La verità e la biro. Dico lavoro perché, a ben vedere, tale titolo difficilmente rientra nella tradizionale categoria di romanzo, quello fatto di trame e personaggi. Infatti, come l’autore stesso specifica con un’«Avvertenza» ad hoc in apertura, il racconto segue una sorta di collazione di «fatti accaduti anni fa e altri abbastanza recenti»; fatti, appunto, che precedono «quella diagnosi» su cui l’autore non si dilunga ma che lascia come «sottinteso di ogni parola», un sottofondo dagli «accesi toni azzurro cielo o rosso sangue». In sostanza, La verità e la biro appare alla penna dell’autore come un richiamo all’ordine, una ricognizione personale, un tentativo di intrecciare in nome del Vero i due grandi temi della sua poetica: il sacro della filosofia, dell’arte e del bello; il profano dell’indagine nei più materici aspetti dell’esistenza umana e nei rapporti che in essa si iscrivono. Eppure, sono gli occhi del lettore il vero target della riflessione: strumenti in grado di decifrare e progressivamente svelare le verità – tali o presunte – di cui l’autore dissemina il testo, quasi nel tentativo di prodursi in un’estrema confessione, quasi un denudarsi, che assume i drammatici connotati della summa filosofica.

Il testo ha un’impostazione diaristica, struttura che permette all’autore di muoversi liberamente all’interno delle questioni discusse, lavorando tanto per associazioni paratattiche di idee quanto in forme concentriche: spesso una riflessione tira l’altra, generando un sistema di parallelismi e variazioni che, pur nella loro incostanza, mostrano una logica di fondo che segue il fil rouge della verità e della sua confessione, intendendo «apertamente affrontare la questione della verità, [de]le cose che si possono dire e quelle che è meglio tenere segrete per non sgretolare la società». D’altro canto, l’impostazione diaristica ha una sua deontologia della verità, e l’autore la prende a monito e regola per costruire l’impalcatura del discorso. Discorso che procede entro la narrazione di un duplice viaggio: quello estivo in compagnia della consorte Lucia, in una Grecia spaccata tra il consumismo dei villaggi turistici e le reminiscenze filosofiche della Grecia Antica di pensatori e poeti; quello più intimo e personale di rilettura della propria esistenza, dall’infanzia all’età adulta, con annessa confessione di fatti ed eventi veritieri e particolarmente segnanti.

In tale articolata dinamica, che lavora in modo ondivago tra passato e presente, teorico e pratico, Scarpa dissemina i suoi strampalati spunti di riflessione, fornendo spesso quadretti bassi e triviali: il sesso orale praticato da una studentessa di filosofia, donna le cui parole avevano sempre un ché di vero, almeno a detta dello scrittore, «perché me le raccontava lei stessa, di persona»; la spiaggia nudista su cui approda con la moglie; il catechista pedofilo; il consumismo della Grecia turistica. La riflessione sulle figure femminili appare quella più insistita: le diverse ragazze menzionate nel romanzo, tutte senza nome, assumono agli occhi dell’autore oramai anziano il ruolo di mistiche portatrici di verità quotidiane, che vengono in un certo senso “consumate” al pari dell’atto sessuale. La studentessa di filosofia, quella di letteratura russa, la ragazza dagli occhi spiritati scatenano, nel distratto e quotidiano loro mettersi a nudo dinanzi a un uomo, riflessioni profonde che dialogano col presente dell’autore in un progressivo disvelamento di verità taciute o nascoste. Ovviamente, si tratta di un meccanismo tutto interno alla mente dell’autore, rispetto al quale il contatto con queste figure è puramente funzionale: le donne non vengono assunte a divulgatrici di queste piccole verità, ma sono semplici evocatrici, le cui azioni o parole inducono realizzazioni intime e veridiche nel profondo dell’autore; rivelazioni che rimangono ancora nella memoria fortemente agganciate all’eccentricità sessuale di queste donne, la cui sola esistenza si fa ispirazione.

L’aggancio alla dimensione filosofica si verifica proprio nel momento di massima assolutizzazione di questi quadretti, in cui Scarpa adulto si ritrova a riflettere; e riflette sui significati profondi di certi comportamenti o frasi casuali delle sue compagne o delle persone che ha incontrato; o più semplicemente lo fa quando si sente particolarmente ispirato perché in contatto con le anime di autori e pensatori classici. In tale intreccio, l’aspetto forse più interessante riguarda il rapporto col lettore. L’acquisizione di queste verità illuminate, infatti, verrebbe presentata da Scarpa all’interno di una forma narrativa che vede la riflessione inserita all’interno di una vera e propria sovrariflessione, vera struttura del romanzo. Le verità giovanili, estrapolate dalle discussioni postcoitali con donne senza nome, acquisite a seguito di ripensamenti e nuove interpretazioni di fatti ed eventi passati, diventano la base per la costruzione di un romanzo che è di per sé una continua ricerca di verità, che si palesa agli occhi dell’autore e del lettore quasi nello stesso momento. Verità, vera o presunta, perché di un romanzo si tratta e giustamente Scarpa ne rispetta i canoni: «poter essere libero di scrivere la verità che comprende anche le mie fantasie, le storie inventate che ho pubblicato».

«Un budín que lo endulzaba»: alcune poesie di María Ragonese

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo di quattro poesie di María Ragonese a cura di Martina Muci, vincitrice della call for translators “Poesia e Violenza”.

La parola poetica di María Ragonese risuona circolare, concentrica, quasi riecheggia la risacca incessante di quel «cerchio azzurro acciaio» di cui scrive Virginia Woolf ne Le Onde. Più che di parola poetica, bisognerebbe parlare di materia poetica; di una materia dolorosa che esonda, sporge, o meglio, si sporge oltre la sua mera espressione linguistica. La metrica alogica, tipica dei line-breaks teorizzati da Denise Levertov,[1]1 coreografa una lettura apparentemente aritmica, contraria al melos della tradizione canonica, che tuttavia conferisce un battito preciso, un gusto rotondo, ad ogni scelta lessicale. Questa ritmica liquida, che scivola da una parola all’altra, e sguscia un verso nell’altro, fa sì che le poesie della poetessa argentina si mantengano allo stato grezzo, raccontandosi da sole.

María Ragonese nasce e studia scienze umanistiche a Buenos Aires, dove poi si dedica a laboratori di scrittura, arti plastiche e fotografia. Ragonese è co-fondatrice di Agua Viva Ediciones, casa editrice argentina per cui lavora anche come editrice: nel 2020, insieme a Jorgelina Soulet, pubblica infatti Otras Nosotras Mismas, un’antologia in omaggio a Olga Orozco. La stessa María Ragonese fa parte di diverse antologie poetiche, tra cui Diarios de encierro (Índigo Editoras 2020), Flotar y Jardín (Camalote 2020 y 2021), e Poetas argentinas (1981-2000), raccolta poetica per cui Ragonese è stata recentemente selezionata e pubblicata nel 2023 da Ediciones Del Dock. Nell’agosto 2021 pubblica Brilla, sombra, il suo primo libro di poesie edito Índigo Editoras, casa editrice con sede in Spagna, uno spazio che invita a coltivare un tipo di sorellanza a-territoriale, con l’obiettivo finale di tessere una genealogia letteraria femminista e inclusiva.   

La poetica di María Ragonese ha un intento tutt’altro che esegetico, essa si manifesta piuttosto sottoforma di materia vertebrata, e ciò si evince tanto da un punto di vista contenutistico quanto a livello formale: all’interno di Brilla, sombra ogni poesia prende il nome dal primo verso della composizione poetica che viene dunque riportato in grassetto. La scelta di non dare un titolo ai propri testi deve intendersi come una sorta di giustizia poetica affine all’idea di poesia intesa come presenza viva e diffusa, capace di autoconvocarsi. L’io poetico in Brilla, sombra trascende la nostra tradizione logocentrica, per dirla con Derrida,2 e ci colloca in mezzo alle cose, o più precisamente, tra i loro margini, confini che costituiscono un nostro stesso prolungamento, piuttosto che dei limiti intersezionali: la parola poetica ci rammenta e rammenda con cura la nostra discendenza e animale e vegetale.

Si propone così un’ontologia di tipo relazionale, che spodesta l’ideale antropocentrico tipico della narrativa occidentale e umanistica, e promuove un livellamento tra l’essere umano e le cose che mancano di parole. I tarocchi, il velo, il cucchiaio d’argento, il canarino morto, fiore a testa in giù, tutte le cose, non esistono nella loro forma asintattica. Con le sue poesie Ragonese tenta di de-sclerotizzarle dal loro mutismo nominale, e regala ad ognuna lo statuto di oggetto-segno, oltre che di oggetto-presenza. Un segno che è il senso di una violenza che solo la dolcezza è capace di disinfettare – o di cariare –, sia che si tratti di succo di more, che di un budino per l’ora del tè.

Come ci suggerisce il titolo stesso dell’intera raccolta, l’apparente opacità semantica dei versi di Brilla, sombra, non costituisce una falla del linguaggio, bensì racchiude una promessa di luce che batte all’ombra della perdita, dei traumi infantili, e della violenza endemica e sistemica di cui è figlia un’intera genealogia di donne. La materia poetica svetta in senso politropo, prismatico, essa è asintoticamente confinante, non inciampa mai nella monosemia di stretti paradigmi interpretativi. Brilla, sombra inscena dunque un ossimoro fecondo e dialogante, umido di possibilità. La vita e la morte, per María Ragonese, intrattengono una relazione tutt’altro che dialettica, non si escludono reciprocamente, i loro toni trascolorano tanto che l’esperienza dolorosa non ci scomoda, anzi, ci accomoda sotto l’ombra fertile e pulsante del sentire umano.


  1. Levertov, D. (1979). On the Function of the Line. Chicago Review, 30(3), 30–36. https://doi.org/10.2307/25303862 ↩︎
  2. Smith, R. C. (1985). BACHELARD’S LOGOSPHERE AND DERRIDA’S LOGOCENTRISM: IS THERE A “DIFFERANCE?”. French Forum10(2), 225–234. ↩︎

La Fuerza (poema inédito)

En la tumba mi tío abuelo Deogracias Manuel
dejó un velo que agitaba las nubes y a veces movía
las almas, las almas de nubes, de hermanos, de hermanas,
las almas de tierra y recuerdos de campos.
Hermoso era el velo otro punto de fuga,
mamá lo tomó y me lo dio con sus cartas adentro.
Esa noche a mi sueño llegó la mujer de cabellos alados;
en el sueño las cartas, la primera va al centro
y ella pregunta si conozco la mía, le afirmo
y extiende la carta a mi mano, La Fuerza, la once
la miro, la apoyo en la mesa;
con los ojos del sueño le saco una foto
y me llevo la foto por fuera del sueño,
recuerdo tirada completa: la tengo guardada en el pelo.
Amante me tapa los ojos con velo
y con velo en los ojos tapados se abre una luz
es un hueco en el patio en la tierra que cubre la pérgola
de la panza me sale una bola de luz y después es la luna tan llena
que se aleja de mí, yo me alejo de amante
y me meto en lo oscuro en el hueco en la tierra,
amante se queda en la cama y roza mi velo y mi luz,
a mí no me toca, sus dedos se olvidan, la luz le ha quemado la piel,
memoria en sus huellas regresa a los días.
Mujer de cabellos alados da rumbo a mi vuelo,
aterrizo en el patio que cubre la pérgola,
todo es oscuro y me corto las venas
y arranco las moras que caen en la tierra.
Me exprimo la sangre y como las moras,
la tierra me come, me llama la bruma y la boca de león
se abre y me invita a pasar y yo paso.
Aún voy con velo, me cubre los ojos de gasa
y yo veo: me meto en el fondo del hades de muertos:
primero ladridos que lanza mi perro y los píos del pájaro
amarillo, canario, se escuchan de fondo. Una voz
muy antigua me mira mi velo, Deogracias Manuel
me dice es mi velo y ahora es tu velo, María;
le cuento del pueblo que había fundado y después se fundió,
le digo que quiero hablar con mi abuela, le pido
indicame el camino a Manuela y me dice que allá
crecen flores naranjas y se prenden de fuego,
señala y me indica el camino de humo.
Mi mano chorrea la sangre y el jugo de mora
despierta a mi abuela que habla delirios y corta
pezuñas de vaca (en el hades no sirve a mi abuelo José)
y me habla y se queda callada, se olvida palabras
también en el hades. Menciono a mamá y me mira a los ojos,
me dice: insufrible la muerte de un hijo
y vuelve al delirio. Victoria, su madre, la observa de lejos
y lleva la cuenta de ovejas y de hijos, primero de ovejas
y luego de hijos, son seis, uno Deogracias Manuel,
el mayor, y el segundo Adolfo,
tercero es Aníbal,
Luis, Elena,
Manuela la última, un círculo perfecto,
un círculo perfecto no sirvió, le dije una vez a mamá.
Le grita con fuego mi abuela a su madre:
repartir a los hijos es cosa insufrible
y se sumerge en agua de plancton
brillante, brillante y nada es brillante acá abajo
conservan palabras sin cuerpo y no brillan sin cuerpo
no encarnan, recuerdan, Manuela olvidó,
ella brilla, a veces. Va errante.
Ahora su carne es de humo y vapor y de fuego tan blanco;
y hay otros de carne, no carne, de huesos,
o su carne es la misma al revés.
Hilachas de sangre, mi sangre,
me cubro las venas, no quiero despierte cualquiera,
despierto a mi hermano mayor
y le advierto es un rato que vine a este hades,
no quiero morir de tristeza: le pido los pasos.
Me dice que tengo los pasos y recuerda su última
aparición en mis sueños, la cosa es así:
lo familiar se convierte en extraño, no vivas
en lo extraño, me viste volviendo y supiste
que ya no era yo
la marca en la frente y sonrisa de mueca
no eran las mías del mundo,
cerraste la puerta en mi cara
y así estuvo bien;
no guardes la cosa siniestra en las manos cerradas,
soltálas, juntá el equilibrio
que yo no tenía
tocá tus palabras, hacé
cosas nuevas.


La Forza (poesia inedita)

Sulla tomba il mio prozio Deogracias Manuel
lasciò un velo che agitava le nuvole e a volte muoveva
le anime, anime di nuvole, fratelli, sorelle,
anime di terra e ricordi di campi.
Com’era bello il velo altro punto di fuga,
mamma lo prese e me lo diede con dentro i suoi tarocchi.
Quella notte mi venne in sogno la donna dai capelli alati;
sogno i tarocchi, la prima carta va al centro
lei mi chiede se so qual è la mia, annuisco
mi avvicina la carta, La Forza, la numero undici
la guardo, la appoggio sul tavolo;
con gli occhi di sogno gli scatto una foto
porto la foto fuori dal sogno,
ricordo la lettura completa: la custodisco tra i capelli.
Amante mi copre gli occhi con il velo
e con il velo sugli occhi intravedo una luce
è un solco nel giardino nella terra all’ombra del pergolato
dalla pancia mi cresce una palla di luce che si fa luna piena
così piena che si allontana da me, io mi allontano da amante
e mi calo nell’oscurità nel solco dentro la terra,
amante resta a letto e sfiora il mio velo e la mia luce,
a me no, non mi tocca, le sue dita mi dimenticano, la luce
gli ha bruciato la pelle,
il ricordo dei suoi passi gli torna alla mente.
La donna dai capelli alati dirige il mio volo,
atterro nel giardino all’ombra del pergolato,
è tutto buio e mi taglio le vene
e stacco le more che cadono sul terreno.
Spremo il sangue e mangio le more,
la terra mi inghiotte, mi convoca la nebbia e la bocca del leone
si apre e mi invita ad entrare ed io entro.
Indosso ancora il velo, mi ingarza gli occhi
ed io vedo: mi insinuo in fondo al regno dei morti:
subito sento abbaiare il mio cane, in sottofondo il cinguettio
del canarino giallo. Una voce
molto antica guarda il mio velo, Deogracias Manuel
mi dice è il mio velo e adesso è il tuo velo, María;
gli racconto del villaggio che aveva fondato per poi disgregarsi,
gli dico che voglio parlare con mia nonna, gli chiedo
di indicarmi la strada verso Manuela e mi dice che lì
crescono fiori arancioni e infuocati,
punta il dito e mi indica il cammino di fumo.
La mia mano cola sangue e succo di more
svegliando mia nonna che delirante taglia
gli zoccoli a una mucca (negli inferi non è serva di mio nonno José)
e mi parla e resta zitta, dimentica le parole
anche all’inferno. Nomino mamma e mi guarda negli occhi,
mi dice: insopportabile, la morte di un figlio
e ricomincia a delirare. Victoria, sua madre, la osserva da lontano
e porta il conto delle pecore e dei figli, prima delle pecore
e poi dei figli, sono sei, per primo Deogracias Manuel,
il maggiore, e per secondo Adolfo,
il terzo è Aníbal,
Luis, Elena,
Manuela è l’ultima, il cerchio perfetto,
un inutile cerchio perfetto, dissi a mamma una volta.
Le urla di fuoco di mia nonna a sua madre:
separare i propri figli è qualcosa di insopportabile
e si immerge in acqua di plancton
che luccica, luccica, nulla luccica qui giù
si conservano parole senza corpo che senza un corpo
luccicanti non sono non significano, ricordano, Manuela dimentica,
brilla, a volte. Vaga.
Adesso la sua carne è fumo e vapore e fuoco bianchissimo;
e ce ne sono altri di corpi, non di carne, di ossa,
forse il rovescio della loro carne è lo stesso.
Il sangue si sfilaccia, il mio sangue,
mi copro le vene, non voglio che svegli qualcuno,
sveglio mio fratello maggiore
e gli faccio notare che abito questo inferno da un po’,
non voglio morire di tristezza: gli chiedo qual è la strada.
Dice che la strada la conosco già, e mi ricorda la sua ultima
apparizione in un mio sogno, succede questo:
ciò che di familiare esiste diventa estraneo, non vivere
nell’indifferenza, mi hai visto tornare e sapevi
che non ero più io
il segno sulla fronte e la smorfia sul viso
non erano mie ma del mondo,
mi hai chiuso la porta in faccia
e andava bene così;
non trattenere le preoccupazioni nei pugni delle mani,
liberale, raccogli l’equilibrio
che a me mancava
toccale le tue parole, fai
cose nuove.


dA BRILLA, SOMBRA (índigo Editoras, 2021)

Una jaula para mi canario doméstico

otra para los pichones que caían
en el jardín, desde el pino
antes de tiempo.

Arrancando la corteza
esperaba el vuelo de los pájaros,
partía las costras
hasta dar con la savia.

Un verano vi un manojo de plumas
amarillas, no parecía alado
la boca con tierra fue la muerte
una flor al revés.


Una gabbietta per il mio canarino

un’altra per i passerotti che cadevano
sul prato, dal pino
prima del tempo.

Aggrappata alla corteccia
aspettavo il volo degli uccelli
strappavo la crosta
fino a che non trovavo la linfa.

Un’estate vidi un ciuffo di piume
gialle, non sembrava avesse le ali
con in bocca la terra fu la morte
un fiore a testa in giù.


Heredé una cuchara de plata

que usό una abuela para servir
el té con las amigas. Años cinquenta,
las mujeres se reunían a contar
botones de nácar.

A veces
deslizaban otras palabras,
un ojo morado
cubierto de polvo,

un budín que lo endulzaba.


Ereditai un cucchiaio d’argento

che una mia nonna usava per prendere
il tè con le amiche. Anni cinquanta,
le donne si incontravano per contare
bottoni di madreperla.

A volte
si lasciavano sfuggire altre cose,
un occhio nero
coperto di cipria,

ad addolcirlo, un budino.


En la naturaleza

todo es transformaciόn.
para nosotras hay muerte
dentro una bolsa
sin oxígeno
en el campo.

Lugares con plantas aún nativas
zarza sin descanso.

Cuando vi a mi amiga muerta
el sol puso en mi boca
una joya de dolor.


In natura

tutto si trasforma.
Per noi altre la morte
sta dentro una sacca
senza ossigeno
nei campi.

Esistono ancora luoghi con piante native
cespugli instancabili.

Quando vidi la mia amica morta
il sole posò sulla mia bocca
una gemma di dolore.

Copertina di Brilla, sombra di Marìa Ragonese
brilla, sombra di Marìa Ragonese (Índigo Editoras, 2021)

Sole nero

Racconto di Martina Faedda.

La spiaggia era coperta di ciottoli, si facevano via via sempre più piccoli fino a diventare sabbia dentro all’acqua. Antonio e Francesco giocavano a pallone sulla battigia, con i piedi scalzi e i calzoni arrotolati sulle caviglie; intanto Aurora e Camilla avevano sparso barbies e altre bamboline tra le pietre. Le loro madri, poco distanti, prendevano i primi raggi del sole primaverile senza perderli di vista. Mentre Camilla le mostrava tutti i vestitini di ricambio che aveva ricevuto per il compleanno, Aurora guardava il fratello in lontananza.
“Anche io voglio mettere i piedi in acqua”, disse.
A Camilla però non andava. “Mi dà fastidio la sabbia che si appiccica tra le dita quando mi rimetto le scarpe.”
“Allora chiediamo se vengono a giocare a palla con noi, senza bagnarci i piedi.”
“Non possiamo giocare con le bambole? Io mi vergogno, non sono brava a calcio.”
“Dai, mi annoio.”
Camilla sbuffò.
“Uffa. Va bene”.
Le due bambine si diressero verso i rispettivi fratelli, lasciando le madri a recuperare tutti i giochi mollati in giro. La tramontana accarezzava loro le guance arrossate dal sole.

“Sai che se hai bisogno puoi chiamarmi quando vuoi, vero?”
“Grazie. Sarà strano tornare a lavoro e non passare più tutto questo tempo con loro.” disse Rachele, la mamma di Aurora e Antonio, voltandosi a guardare le teste bionde dei suoi figli che giocavano insieme agli amici. I riflessi tra i loro capelli cominciavano a schiarirsi in primavera, per diventare quasi bianchi a fine estate. Lei era più scura, li avevano presi dal papà.
“Però ne hai bisogno. Devi riprendere a fare qualcosa per te.”
“Lo so.”
“Loro come stanno reagendo?”
“Non malissimo. Aurora fa un po’ più fatica. Non vuole andare a dormire, fa gli incubi, la pipì a letto. Mi sveglia quasi ogni notte.”
“Ha cinque anni, penso sia normale, vista la situazione.”
“Può darsi.”
Rimasero in silenzio qualche secondo, una nuvola solitaria aveva coperto i raggi del sole.
“E Antonio?”
“Lui va meglio, però è molto nervoso. Sua sorella lo infastidisce, prima di venire a svegliare me prova a mettersi nel suo letto come quando erano più piccoli. Tre anni di differenza non sono così pochi. Sto pensando di dividerli in due stanze.”
“Aurora non la prenderebbe male?”
La conversazione fu interrotta bruscamente da un grido acuto che si tramutò immediatamente in singhiozzi. Aurora era per terra sui ciottoli che piangeva, mentre Camilla cercava di consolarla.
“Che è successo?” domandò Rachele spazientita.
Aurora si strofinò via le lacrime dagli occhi con il dorso della mano. “Antonio mi ha spinta!”
“Sei una lagna.” Si lamentò il ragazzino. “Stavo solo riprendendo la palla, non l’ho spinta giuro.”
La madre la afferrò da sotto le ascelle e la tirò in piedi, poi le pulì la gonna blu dalla polvere dei sassi con delle brusche manate. “Dai, non è successo niente” disse Antonio alla sorella, a voce più bassa. La bambina tirò su col naso e fece cenno di sì con il capo.
La madre di Camilla e Francesco li raggiunse e propose di andare a prendere il gelato, lanciando un’occhiata di complicità a Rachele. Tutti i bambini acconsentirono felici, specialmente Aurora, che si era già dimenticata dell’accaduto e sorrideva entusiasta, con le ciglia ancora appiccicate l’una all’altra per le lacrime.
“Grazie” disse Rachele, seguendo i bambini che correvano verso la gelateria.

Il giorno dopo, Aurora e Camilla erano sedute in due seggioline verdi al tavolo dell’asilo e coloravano concentrate sui loro disegni. Nel foglio di Aurora, quattro figure stilizzate giocavano a palla: una mamma, un papà, e due più piccole coi capelli dello stesso giallo del sole, il cerchio nell’angolo in alto a sinistra. In quello di Camilla, invece, due bambini si tenevano per mano, le braccia due righe rosa e la mano un unico pallino. Camilla finì di disegnare il cielo, un rettangolo azzurro in tutto il confine superiore del foglio, poi si alzò, si diresse verso la cattedra della maestra e le mostrò il disegno. Dopo qualche secondo tornò trionfante dall’amica e glielo porse.
“Lo puoi dare ad Antonio? Glielo regalo”, disse Camilla, sventolando il foglio.
Aurora prese il disegno. “Perché lo vuoi regalare a mio fratello?” chiese stizzita.
“Perché lo amo e voglio che diventiamo fidanzati.”
“Ma lui è grande, ha otto anni!”
“Anche mio papà è più grande di mia mamma.”
Aurora infilò il foglio nel suo zainetto, spiegazzandolo.
“Così lo rovini!”
“Tanto è bruttissimo.”
Gli occhi di Camilla si fecero umidi. “Antipatica”, sbottò, e corse dalle altre bambine che giocavano con gli animali di plastica nel morbido tappeto dell’aula.
Aurora rimasta sola guardò il suo disegno, che ancora doveva finire di colorare. Le quattro figure avevano gli stecchetti delle braccia protesi verso la palla, che sospesa per aria sembrava un altro sole, nero, al centro del cielo, proprio sopra la testa del padre.

Quella sera, dopo cena, Antonio giocava al game boy sul divano e Aurora era seduta per terra davanti a lui che guardava la televisione. Rachele, in cucina, preparava le loro merende per il giorno seguente.
Aurora si alzò e andò a sedersi vicino al fratello, poi si protese sopra la sua spalla per vedere meglio lo schermo.
“Posso giocare con te?” chiese dopo un po’. Il fratello annuì senza distogliere lo sguardo dallo schermo. “Appena perdo ti faccio fare una partita.”
L’omino vestito di rosso correva in avanti saltando gli ostacoli e i mostri che arrivavano in direzione opposta. Saltò su dei mattoncini sospesi in aria, poi di nuovo giù e riprese a correre, fino a che un salto sbagliato non lo fece schiantare contro un nemico e il gioco si interruppe.
“Tocca a me!” disse Aurora.
“No, non ho proprio perso, sono solo tornato indietro, ora ricomincia.”
“Non è vero, hai perso, hai detto che potevo giocare!”
“Anto, falle fare una partita, dài” ordinò la madre entrando nella stanza.
“Appena perdo la faccio giocare” sbuffò lui.
Rachele sistemò le merende dentro i loro zainetti e trovò in quello di Aurora il disegno. “Che bello questo disegno. Chi sono?”
“Siamo io e Anto, l’ho fatto per lui.”
La madre la guardò sorpresa. “E perché ti sei disegnata coi capelli scuri?”

“Così.”
Rachele voltò il foglio. Sul retro del disegno la maestra aveva scritto la data e una dedica: Per Antonio da Camilla.
Il videogioco tra le mani di Antonio strombazzò in segno di game over e lui lo passò alla sorella.
“Sei sicura che l’hai fatto tu questo?” continuò Rachele.
Aurora nascose lo sguardo nello schermo, senza rispondere.
Antonio si alzò e andò dalla madre. “C’è scritto che l’ha fatto Camilla! Sei una bugiarda” disse correndo nuovamente sul divano e strappando il gioco di mano alla sorella.
“Cosa ti importa?” gli urlò Aurora, con gli occhi pieni di lacrime, a pochi centimetri dalla faccia.
La madre si avvicinò e alzò la voce per richiamare la loro attenzione. “Basta. Smettetela subito. Aurora, non si dicono le bugie!”
La bambina cominciò a singhiozzare e ansimare, le lacrime le si rovesciavano copiose sulle guance.
“Aurora, basta piangere.”
La bambina si alzò dal divano e corse fuori dalla stanza, sbattendosi la porta del salone alle spalle. Rachele la seguì fino alla cameretta. Era sdraiata nel suo lettino con tutte le luci spente e la trapunta di Winnie the Pooh tirata fin sopra la testa. “Posso?” le chiese sulla soglia.
“No. Vattene via!” rispose la bambina, con la voce ovattata dalle coperte.
“Aurora, stai facendo i capricci. Si vede che sei stanca, almeno stanotte dormirai. Buonanotte.”
La bambina non rispose e la madre uscì. 

Poco dopo Antonio entrò nella stanza e si infilò nel suo letto, appoggiato alla parete opposta di quello della sorella. Aurora, ancora rifugiata, singhiozzava flebilmente.

“Auri? Sei sveglia?”
“Sì.”
Antonio accese una luce.
“Perché hai rubato il disegno di Camilla?”
“Perché non voglio che vuoi più bene a lei.”
“Ma io mica le voglio bene. È lei che ha fatto un disegno per me, non io.”
“Non mi importa, non voglio che ti faccia i disegni.”
“Tanto era bruttissimo.”
Aurora si scoprì la testa, ridacchiando. “È vero.”
“I tuoi disegni mi piacciono molto di più.”
“Domani finisco di colorare il mio e te lo porto.”
“Va bene. Buonanotte Auri.”
“Buonanotte Anto.”
Antonio spense l’abat-jour sul suo comodino. Dopo qualche secondo sentì nuovamente la voce della sorella, che lo chiamava.
“Anto?” sussurrò lei.
“Dimmi Auri.”
“Posso venire nel letto con te?”
Lui sospirò “Va bene, ma solo questa volta.”
Le fece spazio tra le coperte mentre lei si incastrava dentro al lettino per bambini dove in due, ormai, stavano stretti.

Un diario poetico in divenire: la poesia del corpo di Stéphane Lambion

Introduzione e traduzione dal francese a cura di Elena Casadio Tozzi.

Stéphane Lambion è un poeta e traduttore francese. Nato a Bruxelles nel 1997, ha pubblicato la sua prima raccolta, dal titolo Bleue et je te veux bleue, nel 2019 per la casa editrice L’Échappée belle, con una prefazione di Jean-Michel Maulpoix. Nel 2022 è uscita per la casa editrice La Crypte la sua seconda raccolta, presque siècle, vincitrice del Prix des Trouvères Lycéens. Suoi testi inediti sono apparsi regolarmente su diverse riviste, tra le quali «Arpa», «Traversées», «Contre-allées». Dal 2020 è curatore delle riviste «Point de chute» e «Canal», quest’ultima nata nel 2022 e dedicata agli scambi tra poesia francofona e britannica. Lambion accompagna il lavoro di scrittura a quello di traduzione dal rumeno e dall’inglese: ha curato le raccolte 04:00 Canti domestiques di Radu Vancu (Vanneux, 2019) e Plantations di Constant Tonegaru (Abordo, 2022).

Dal 2021 è ricercatore presso l’Université d’Aix-Marseille dove sta svolgendo una tesi di ricerca e creazione sulla malattia nella poesia contemporanea, di cui è possibile consultare un diario sempre aggiornato sulla rivista online «remue.net». Questo lavoro si affianca alla poetica de l’intime di Lambion, volta a indagare il rapporto con il corpo “urtato”. La sua scrittura nasce, infatti, dall’esperienza vissuta e si sviluppa nello spazio della pagina con un ritmo, quasi un soffio, a cui corrispondono esperienze vive, sia artistiche che personali, come dimostra la sua attuale propensione alle forme poetiche e narrative ibride, all’arte visiva e alle arti plastiche.

Scaturita da un ambiente plurilingue e attraversata da più lingue, la scrittura di Lambion prende come oggetto di indagine privilegiato il corpo nelle sue diverse accezioni. La ricerca di una poesia incarnata, lontana da ogni astrazione, porta Lambion a fare del corpo uno strumento per dare carne a sensazioni ed emozioni, come in “le seul calcul est le sommeil”, dove emerge la volontà di dare corpo alla notte, di tagliarla e metterla in rapporto con la fisicità umana; o ancora in “. . .”, dove lo slancio vitale, la vergogna e la paura sono emozioni rappresentate in funzione del corpo e dei suoi movimenti. Questa ricerca fisica in poesia si spinge fino alla fascinazione per le potenziali trasformazioni del corpo, che siano dovute al tempo o alla malattia, e di cui la raccolta presque siècle e il testo En cœur costituiscono un diario poetico in divenire.


le seul calcul est le sommeil

la nuit s’est cassée
.
en mille morceaux
.
lorsqu’elle est tombée
.
sur ma maison.

je la dévisse,
elle a une odeur d’os.

je pose la nuit
sur une plaque millimétrée,

y découpe
la forme de ma chambre,
la forme de mon sommeil.

l’étends
par terre.

la nuit respire
sur le sol

, doucement.

se soulève
à peine.

si l’on coupe un cube de nuit de gauche à droite,


puis chaque moitié de haut en bas,

par combien multiplie-t-on
la surface de la nuit

, il demande.

pleine,
la nuit sera – pleine
.

ils

vérifieront
cette hypothèse.

testeront
ses corolaires.

chercheront le contre-exemple.

discuteront
son bien-fondé.

je

prendrai
les outils à la cave,

remettrai
la nuit en place.

elle sentira
le propre,

ce sera une
nuit neuve

comme il y en a tous les
deux-mille-neuf-cent-soixante-seize ans

, environ.

j’y collerai
mon visage
sans couleur.

la nuit

courra
sur mes tempes,

se faufilera
dans mes yeux,

se glissera sous mes ongles,

entière.

elle

deviendra
une prière

, dite
le long
des os.

la nuit aura
la surface de ma peau

, ce sera l’heure de dormir.

le sommeil sera le seul calcul


l’unico calcolo è il sonno

la notte si è rotta
.
in mille pezzi
.
quando è caduta
.
sulla mia casa

la svito
ha un odore d’ossa

poggio la notte
su un tavolo millimetrato,

vi ritaglio
la forma della mia stanza
la forma del mio sonno.

la stendo
per terra.

la notte respira
sul suolo

, dolcemente

si solleva
appena.

se tagliamo un cubo di notte da sinistra a destra,
poi ogni metà dall’alto in basso,

per quanto moltiplichiamo
la superficie della notte

, lui chiede.

piena,
la notte sarà – piena
.

loro

verificheranno
questa ipotesi.

testeranno
i suoi corollari.

cercheranno il contro-esempio.

discuteranno
la sua fondatezza.

io

prenderò
gli strumenti in cantina

rimetterò
la notte a posto.

lei sentirà
il pulito,

sarà una
notte nuova

come ce ne sono ogni
due-mila-nove-cento-sessanta-sei anni

, circa.

vi incollerò
il mio viso
senza colore.

la notte

correrà
sulle mie tempie,

s’intrufolerà
nei miei occhi,

scivolerà sotto le mie unghie,

intera.

lei

diventerà
una preghiera

, detta
lungo
le ossa.

la notte avrà
la superficie della mia pelle

, sarà ora di dormire.

il sonno sarà l’unico calcolo


La tristesse dans le pied

ma maison est une boîte
de nuit j’y danse
de jour aussi

, c’est la fête rue berthe,

tout le temps c’est la fête
charlotte de witte à trois
heures du matin spaghettis
au petit-déjeuner je danse

, toujours je danse
sans voir que

depuis quelques semaines
quand je

, quand je danse rue berthe
j’ai la tristesse dans le pied.

depuis quelques semaines je danse
en battant des pieds

, rue berthe je danse
comme un enfant qui ne veut pas
que sa tête aille sous l’eau

, danse comme un garçon
qui demande à charlotte
de l’aider à clouer
la tristesse au sol.

*

hier soir rue berthe mes jambes
étaient si lourdes que j’ai cru
couler

mes pieds s’enfonçaient
dans le parquet je
déjà me noyais

, battais fort
– la pointe le talon le plat
de tout le pied battais

et mes jambes de douleur
sont devenues pierres

, le bois du parquet
est devenu pierre

, la pierre
cognait la pierre

et un feu petit
à petit s’est allumé
sous la tristesse
de mes pieds

, hier soir rue berthe un feu
s’est allumé et mes pieds
ne s’enfonçaient
plus et je ne
coulais plus
hier soir

, j’ai dansé rue berthe
avec charlotte comme
un noyé qui prend feu
à six heures j’ai mis l’eau
à bouillir pour les pâtes

et j’ai dormi
dans ma boîte où
je vis je danse
rue berthe

, dans le pied la trace
d’une tristesse brûlée.


La tristezza nel piede

la mia casa è un locale
notturno in cui ballo
anche di giorno,

, è festa in rue berthe,

è sempre festa
charlotte de witte alle tre
del mattino spaghetti
per colazione io ballo

, ballo sempre
senza vedere che

da qualche settimana
quando io

, quando io ballo in rue berthe
ho la tristezza nel piede

da qualche settimana io ballo
battendo i piedi

, in rue berthe io ballo
come un bambino che non vuole
avere la testa sott’acqua

, io ballo come un ragazzo
che chiede a charlotte
di aiutarlo a inchiodare
la tristezza al suolo.

*

ieri sera in rue berthe le mie gambe
erano così pesanti che mi sembrava di
affondare

i miei piedi sprofondavano
nel parquet io
già annegavo

, battevo forte
– la punta il tallone la pianta
di tutto il piede battevo

e le mie gambe di dolore
sono diventate pietre

, il legno del parquet
è diventato pietra

, la pietra
colpiva la pietra

e un fuoco a poco
a poco si è acceso
sotto la tristezza
dei miei piedi

, ieri sera in rue berthe un fuoco
si è acceso e i miei piedi
non sprofondavano
più e io non
affondavo più
ieri sera

, ho ballato in rue berthe
con charlotte come
un annegato che prende fuoco
alle sei ho messo l’acqua
a bollire per la pasta

e ho dormito
nel locale dove
vivo ballo
in rue berthe

, nel piede la traccia
di una tristezza bruciata.


. . .

tape tape prend prend prend
tape prend prend tape tape
prend prend prend tape
prend prend tape tape
tape tape prend
prend tape
tape tape
prend
tape


      en un lancer,
      mélanger l’espace et le temps


          se nourrir du rythme,
          du plein, du vide, des
          éclairs de silence
          entre deux


tisser l’air
de mouvement


          (au creux du coude, bloquer :
          rien, ni même le vent, ne
          bougera le monde
         jusque-là roulé)


droit debout,
poursuivre


          tenir la mesure,
          la cadence à
          deux mains


respirer et ne pas oublier
d’avoir peur


         nécessairement, chuter :
         ramasser sans rougir et
         recommencer encore


du bout des doigts,
construire un
château d’air


         prêt à accueillir le visiteur
         à l’instant où il frappera :
         serrer la main


                la paume ouverte en
                trois petits
                 points


tape
prend
tape tape
prend tape
tape tape prend
prend prend tape tape
prend prend prend tape
tape prend prend tape tape
tape tape prend prend prend


. . .

batti batti prendi prendi prendi
batti prendi prendi batti batti
prendi prendi prendi batti
prendi prendi batti batti
batti batti prendi
prendi batti
batti batti
prendi
batti

        in un lancio,
        mischiare lo spazio e il tempo

         nutrirsi del ritmo,
         del pieno, del vuoto, dei
         barlumi di silenzio
         tra i due

tessere l’aria
di movimento

         (nella cavità del gomito, bloccare:
         niente, nemmeno il vento,
         muoverà il mondo
         fin lì rotolato)

dritto in piedi,
proseguire

         tenere il tempo,
         la cadenza con
          due mani

respirare e non dimenticare
di aver paura

         necessariamente, cadere:
         raccogliere senza arrossire e
         ricominciare ancora

dalla punta delle dita
costruire un
castello d’aria

          pronto ad accogliere il visitatore
          nel momento in cui busserà:
          stringere la mano

                il palmo aperto in
                tre piccoli
                punti

batti
prendi
batti batti
prendi batti
batti batti prendi
prendi prendi batti batti
prendi prendi prendi batti
atti prendi prendi batti batti
batti batti prendi prendi prendi


Copertina di Presque Siècle di Stephane Lambion
presque siècle di Stéphane Lambion (La Crypte, 2022)

Io abbreviazione di Dio. Una lettura de “Le schegge” di Bret Easton Ellis

Nota di lettura a cura di Simone Salomoni.

Su Le schegge, ultimo romanzo di Bret Easton Ellis, è già stato scritto molto e il contrario di molto: il capolavoro dello scrittore californiano, l’ennesima riscrittura del solo romanzo che lo scrittore californiano ha scritto nella sua carriera, Ellis al massimo del suo splendore, Ellis al massimo della sua sciatteria stilistica.

Quello che mi interessa fare qui (per altro non so dire se Le schegge sia un capolavoro, se sia il capolavoro di Bret Easton Ellis, mentre sono anche io convinto che Ellis abbia scritto un solo romanzo – come quasi tutti gli scrittori: la differenza è che Ellis lo fa in maniera più spudorata e quindi onesta – e cercato a ogni riscrittura la forma finale di sé: ho l’impressione che ora sia riuscito a raggiungerla e gli auguro di potere spurgare il suo male), non so se è stato fatto altrove, non mi pare, è riflettere su come Bret Easton Ellis si ponga, si muova – come scrittore ma anche come vivente: per BEE le due cose sono più che per altri inscindibili – si mimetizzi e si esponga all’interno di un romanzo come Le schegge, romanzo che potremmo con una certa sicurezza inserire nel novero delle cosiddette autofinzioni.

Partiamo da un fatto evidente: Ellis ci ricorda costantemente di essere uno scrittore, lo fa ogni dieci pagine per oltre settecento pagine e in maniera neanche troppo velata, lo fa a partire dallo splendido, davvero splendido, incipit e pertanto, se questa è la sua autobiografia di uno scrittore dobbiamo allora leggerla ricordandoci che per lo scrittore, come scriveva Rimbaud, io è – SEMPRE – un altro.

Chi è allora io per Bret Easton Ellis ne Le schegge? Io, innanzitutto, è abbreviazione di Dio, e Ellis gioca e quasi porta all’estremo l’idea facendosi Dio e demiurgo del proprio mondo narrativo, e mi pare lo faccia servendosi principalmente di tre personaggi, tre protagonisti, se vogliamo: il suo doppio narrativo, Bret, autore e narratore e protagonista de Le schegge, Robert Mallory, lo studente nuovo arrivato affetto da problemi mentali, nemesi dello stesso Bret, e The Trawler, tradotto da Giuseppe Culicchia con Il pescatore a strascico, sadico e misterioso serial killer che impera su Los Angeles.

Bret, Mallory e The Trawler sembrano a un primo sguardo, e senza possibilità di smentita, tre personaggi diversi, separati, monadi indipendenti l’una dall’altra che si muovono all’interno dello stesso spazio narrativo. Fin dalle prime pagine, però, Ellis insinua il dubbio che Mallory possa essere The Trawler o quantomeno che la sua apparizione a Los Angeles sia collegata all’apparizione e agli omicidi del Pescatore a strascico: “E poi naturalmente, si presentò il Pescatore a Strascico. Per circa un anno c’erano state diverse effrazioni e aggressioni, e sparizioni, e poi nel 1981 venne rinvenuto il secondo cadavere di un’adolescente scomparsa – il primo era stato scoperto nel 1980 – e infine fu collegato alle effrazioni nelle case. Tutto questo avrebbe potuto verificarsi senza la presenza di Robert Mallory, ma il fatto che il suo arrivo fosse coinciso con lo strano offuscamento che aveva iniziato a insinuarsi nelle nostre vite fu una cosa che non mi fu possibile ignorare, sebbene gli altri lo facessero, a loro rischio e pericolo” (pag. 19).

Ellis insinua e quando l’autore insinua il lettore, o quantomeno il lettore che sono io, si sente autorizzato a insinuarsi a sua volta, a insinuarsi e insinuare propositi e desideri autoriali più o meno manifesti, nascosti non come fatti ma come fantasmi nelle pieghe della narrazione e così il lettore che sono io si è trovato a chiedersi: ma non è che come BEE (il narratore) insinua una correlazione se non una sovrapposizione fra Robert Mallory e The Trawler, BEE (l’autore) voglia insinuare anche una correlazione se non una sovrapposizione fra BEE (il personaggio) e Robert Mallory?

ATTENZIONE: NON PROSEGUIRE LA LETTURA SE SI TEMONO SPOILER.

Questa ipotesi diventa qualcosa in più di un’ipotesi mano a mano che si avvicina la fine del romanzo – Bret e Mallory hanno un confronto, un tentativo di chiarimento delle incomprensioni avute “Non sapevo più che cosa dire, perché non c’era nient’altro da dire – niente faceva presa su di lui, era come parlare a uno specchio” (pag. 682) nel quale Mallory finge di sedurre Bret salvo poi umiliarlo “Lo guardai in faccia e il sorriso sexy era sparito, e lui si tirò via e sedette sul bordo del letto e poi mi guardò dall’alto in basso e con una lieve traccia di disgusto si ripulì la bocca col dorso della mano e mormorò: – Frocio del cazzo –. E poi: Lo sapevo” (pag. 684) – e prende maggiore forza durante la notte in cui prima Thom e Susan (il migliore amico di Bret e la sua fidanzata) vengono aggrediti con la ferocia che caratterizza The Trawler e dopo avviene la colluttazione fra Bret e Robert Mallory – “Abbassai lo sguardo e vidi che stringeva in pugno un coltello da macellaio. E poi lui vide il coltello che impugnavo io” (pag. 694) “Incespicai alla cieca in avanti alzando il coltello, ma Robert era corso fuori dalla stanza e io collassai contro il lavabo del bagno ma non riuscivo a vedermi nello specchio perché c’era troppo vapore” (pag. 697) – colluttazione nella quale è Mallory a soccombere.

Anche se le indagini ufficiali dicono il contrario, Bret insiste sulla possibilità che Mallory – prima di aggredirlo – abbia aggredito i suoi amici con inumana ferocia (a Susan è stato amputato un seno, mutilazione che caratterizza The Trawler, come vedremo), salvo poi aprire al lettore (o almeno: al lettore che sono io) un diverso e inquietante scenario – “Io indossavo una camicia Polo azzurra, con le maniche lunghe, abbottonata fino al collo, ma una delle maniche era ricaduta indietro quando avevo alzato un braccio per premerle un dito sulle labbra, e mi resi conto che era lì che stava guardando. Il sorriso da sballata era sparito e i suoi occhi incrociarono i miei e poi tornarono sul mio braccio. L’atmosfera ovattata, spossata, della stanza cambiò, e si attivò qualcosa – tutto stava ronzando. Susan prese a tremare intanto che tornava a guardarmi. Prima che potessi fermarla lei si sporse e tirò più su la manica. Dapprima non disse niente, ma mi resi conto che stava guardando una profonda ferita sull’avambraccio circondata da un livido viola e giallo.
Le sembrava di aver visto il segno di un morso. Lo disse alzando la voce.
Le sembrava che quel segno di un morso fosse esattamente dove aveva morso l’intruso sabato sera” (pag. 716) – lo scenario nel quale The Trawler possa in realtà essere lo stesso Bret.

La casa abbandonata su Benedict Canyon – casa appartenente alla famiglia di Mallory nella quale Bret entra abusivamente in cerca di un collegamento fra Robert Mallory e The Trawler – a me sembra funzionare come un corpo, il corpo che contiene la psiche di Ellis: il proprietario è Mallory, al suo interno vediamo muoversi esclusivamente Bret, ma sul finale si scopre che è il luogo nel quale, in effetti, è stata rinvenuta la quarta vittima di The Trawler: “Il suo corpo era stato «decorato»: la bocca riempita di pesci, la testa e il collo di un gatto cuciti sulla fronte, il resto del corpo dell’animale che fuoriusciva dalla vagina, mentre le gambe erano state ripiegate e divaricate come se Audrey stesse partorendo. La testa era adorna di corpi così che una sorta di parrucca le coprisse il cranio. I seni mancavano – erano stati rimossi, e nelle cavità erano state posizionate le teste di due gatti. L’ano era stato forzato col muso di un cane decapitato a cui era stato cucito il collo strappato a un altro cane. Come ho detto, solo mesi dopo venimmo a conoscenza di tali dettagli, e solo di alcuni: ci volle un anno perché l’orrore di ciò che il Pescatore aveva «realizzato» venisse reso noto nella sua interezza. Anche se il corpo della quarta vittima del Pescatore era stato ritrovato nella casa sulla Benedict Canyon, Robert Mallory non era mai apparso come il sospettato numero uno nei giorni successivi – appresi in seguito che si trattava di una teoria «allettante» ma che certi dati semplicemente non combaciavano.” (pag. 709-710). Una lunga sequenza per stomaci forti, la descrizione di un corpo smembrato che sembra quasi essere la sublimazione orrorifica del lavoro di selezione, correzione e montaggio di uno scrittore.

So che non è per forza così, mi rendo conto che attraverso gli strumenti della critica ufficiale l’analisi potrebbe dare risultati diversi, però io non sono un critico, e questa idea casa-corpo rafforza in me l’ipotesi che mi ha suggestionato, che mi ha portato a pensare: ma è possibile che per Bret Easton Ellis Bret, Mallory e The Trawler siano in effetti saldati, indissolubili, inscindibili? A me pare di sì. Mi pare che essi possano essere interpretati come la rappresentazione freudiana della psiche umana di Ellis nella quale Bret ha la funzione di IO (il giovane ragazzo ricco consapevole della propria omosessualità, pronto a sperimentarla ma non ancora ad accettarla), Robert Mallory quella di SUPER IO (Mallory è reduce da un ricovero psichiatrico, d’accordo, rappresenta comunque tutto ciò che Bret non è ma forse vorrebbe essere: bello e eterosessuale al punto da riuscire a sedurre Susan, la ragazza che Bret avrebbe voluto per sé, fosse stato eterosessuale) e The Trawler quella di ES (ciò che Bret sarebbe potuto diventare se avesse dato diverso sfogo assoluto alla sua parte oscura, se non fosse arrivata la scrittura a sublimare gli istinti più indicibili e violenti).

Se poi volessi andare oltre o di lato, e mi prendessi la libertà di immaginare un BEE ebbro di Cristianesimo, di immaginare un autore più europeo e meno americano, cosa che assolutamente Ellis non è – o almeno non mi pare proprio che sia – potrei arrivare ad affermare che Le Schegge potrebbe essere un tentativo di messa in scena di Dio più che di Io, la messa in scena di uno scrittore, demiurgo e trino, nella quale Bret è Padre, Mallory è figlio e The Trawler è Spirito Santo. Le Schegge è un romanzo che si presta a molte letture e molti lettori. Può essere letto come un thriller, la tensione è altissima e non cala mai; ci si può fermare a un secondo livello di lettura e leggervi la storia che segna la fine traumatica di una giovinezza e la nascita di uno scrittore; ci si può trovare molto altro: quello che ci ho trovato io – senza alcuna pretesa di univocità – è la sofferta ricomposizione di una trinità umana disgregata e sottomessa al trionfo dell’ego autoriale.

Rimanere “ancorati alle stelle” in un mondo di soprusi: quattro poesie di Fady Joudah

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Flavia Zerbini, vincitrice della Call for Translators “Poesia e Violenza”.

Fady Joudah è un poeta, traduttore e medico statunitense, figlio di rifugiati palestinesi. Nato nel 1971 a Austin, Texas, ha vissuto in Libia e in Arabia Saudita; ha poi frequentato la facoltà di medicina presso l’Università della Georgia e oggi lavora come medico d’urgenza a Houston, Texas. È membro di Medici Senza Frontiere dal 2001, e in quanto tale ha preso parte alle loro missioni umanitarie in giro per il mondo.

Secondo Joudah, «all life is an act of translation»: dalla capacità di dare corpo al reale attraverso il linguaggio, alla semplificazione necessaria nella comunicazione coi pazienti, al lavoro di traduzione dei poeti in lingua araba, tutte le attività della sua vita girano attorno a questo sforzo di trasmissione, di costruzione di legami nel rapporto con l’Altro. È un’apertura verso l’esterno di tipo cosmico, dal momento che l’autore fa sì che la sua poesia non rimanga incastrata nell’interpretazione tipica della poesia palestinese, legata alle vicissitudini di questo popolo e quindi di valore limitato alla contingenza, ma includa in sé il passato e il presente, l’Occidente e l’Oriente, rivolgendosi all’umanità intera nel racconto di esperienze e memorie universali.

A questo scopo, Joudah mette in opera nelle sue poesie un’elaborata ricerca linguistica che riguarda in particolare l’uso di vocaboli ad alto grado di specializzazione provenienti dall’ambito medico e naturale: l’autore crea così nel dettato poetico delle isole metaforiche sulle quali il lettore è spinto a soffermarsi e che contengono il significato ultimo del testo. Come nel linguaggio post-grammaticale di Pascoli, Joudah cerca la precisione per creare effetti di straniamento e significazione. La forte attenzione verso gli elementi fisici, naturali e corporali, viene dalla volontà dell’autore di mettere in scena la realtà come fatta di carne e sangue, universalmente segnata dalla malattia, dall’infermità e dai cicli di vita-morte. Il lavoro di Joudah si impernia quindi sul tema della sofferenza come luogo fisico e mentale che unisce i popoli, i generi, le specie e le persone; la storia di sradicamento, esilio e morte del popolo palestinese diventa il punto di partenza di un’interrogazione sulle modalità in cui la violenza, percepita come fatalità ineluttabile, si dispiega su tutte le creature terrestri, dalla natura martoriata dall’uomo ai popoli oppressi da guerre e sopraffazioni e costretti alla migrazione. Tutto questo avviene in prospettiva dialettica, in cui l’autore rifiuta la fissità delle risposte e decide di porsi tra «sfumatura e semplificazione» confrontandosi direttamente con il lettore, il “noi” che è il fine ultimo di queste liriche. Qui presentiamo alcune poesie del suo terzo e quarto libro di poesie, Footnotes in the order of disappearance (2018), e Tethered to stars (2021), scritto a cavallo della pandemia di Covid-19.


Da Tethered to stars, 2021

Gemini

After yoga, I took my car to the shop.

Coils, spark plugs, computer chips, and a two-mile walk

home, our fossilized public transportation, elementary

school recess hour, kids whirling joy, the all-familiar

neighborhood. And then another newly demolished house.

How long since I’ve been out walking? A message appeared

on my phone: an American literary magazine

calling for a special issue on Jerusalem, deadline approaching,

art and the ashes of light. At the construction site

the live oak that appeared my age when I became a father

was now being dismembered. The machinery and its men:

almost always men, poor or cheap labor, colored

with American dreams. The permit to snuff the tree

was legally obtained. The new house is likely destined

for a nice couple with children. Their children

won’t know there was a tree. I paused to watch

the live oak brutalized limb by limb until its trunk stood

hanged, and the wind couldn’t bear the place:

who loves the smell of fresh sap in the morning,

the waft of SOS the tree’s been sending

to other trees? How many feathers will relocate

since nearby can absorb the birds?

Farewell for days on end. They were digging a hole

around the tree’s base to uproot and chop it

then repurpose its life.

Gemelli

Dopo lo yoga, portai la macchina al negozio.

Bobine, candele d’accensione, chip di computer, e due miglia a piedi

per tornare a casa, i nostri trasporti pubblici fossilizzati, l’intervallo

delle scuole elementari, i bambini in un turbinio di gioia, il quartiere

così familiare. E poi un’altra casa demolita da poco.

Da quant’è che camminavo? Sul mio telefono

comparve un messaggio: una rivista letteraria americana

cercava contributi per un’edizione speciale su Gerusalemme, e la scadenza era vicina,

arte e le ceneri della luce. Nel cantiere

la quercia viva che sembrava avere la mia età quando divenni padre

veniva ora smembrata. La macchina e i suoi uomini:

quasi sempre uomini, manodopera a basso costo, povera, del colore

del sogno americano. Il permesso di estirpare l’albero dal suolo

era stato legalmente ottenuto. La nuova casa sarà probabilmente assegnata

a una cordiale coppia con figli. I loro bambini

non sapranno che lì c’era un albero. Mi fermai a guardare

la quercia viva brutalizzata ramo per ramo finché il tronco non rimase

esposto, e il vento non poté più tollerare il luogo:

chi ama l’odore di linfa fresca al mattino,

un SOS esalato che l’albero stava inviando

agli altri alberi? Quante piume si trasferiranno

potendo le vicinanze farsi carico degli uccelli?

Addio per giorni e giorni. Stavano scavando un buco

attorno alla base dell’albero per sradicarlo e tagliarlo a pezzi

poi rivenderne la vita.


House of Mercury

The storm funneled through town with destructive intent.

Fractured tree limbs, toppled fences, ripped shingles

like tufts of hair. Dad woke up to snaps and creaks,

the two live oaks in the front yard,

but in the backyard the nearly uprooted fig tree

brought him to tears. In the morning

two neighbors, one Black, one White

came over to bandage the oaks after debridement.

A third, an Indian, stabilized the fig tree,

pitched it like a tent with rope and stake.

On the second day, I cut up the rest of the branches,

deepened the earth for the fig, enjoyed a long lazy

lunch with my parents, and on the way home heard

a radio report on whether the sky is bluer

during a pandemic. The third day

I took my son and daughter back,

we bundled up the heaps, nursed the flower beds,

delighted in another languid lunch,

hummus, falafel, shakshuka

followed by tea and stories about fear

that comes to nothing. The kids said it was the best falafel

they’d ever had. And Mom said that going forward

her morning glories will get the light they deserve.

Casa di Mercurio

La tempesta attraversò la città con l’intenzione di distruggere.

Arti di albero fratturati, steccati abbattuti, tegole strappate

come ciocche di capelli. Papà si sveglio al suono di schiocchi e crepitii,

le due querce vive in cortile,

ma nel giardino dietro casa l’albero di fico quasi sradicato

lo fece piangere. In mattinata

due vicini, uno Nero, uno Bianco

vennero a fasciare le querce dopo lo sbrigliamento.

Un terzo, un indiano, stabilizzò le condizioni del fico,

lo piantò come una tenda con corda e pali.

Il secondo giorno, tagliai il resto dei rami,

sprofondai il fico nella terra, godetti di un lungo pranzo

pigro con i miei genitori, e sulla strada di casa sentii

un servizio radio sulla possibilità di un cielo più blu

durante una pandemia. Il terzo giorno

riportai a casa mio figlio e mia figlia,

legammo insieme i sacchi, badammo alle aiuole,

ci deliziammo con un altro languido pranzo,

hummus, falafel, shakshuka

seguiti da tè e storie sulla paura

che si dilegua. I bambini dissero che era il miglior falafel

che avessero mai mangiato. E mamma disse che d’ora in poi

le sue campanule avrebbero avuto la luce che meritavano.


Sandra Bland, Texas

On the highway home last night

you reappeared to me opposite where I was headed,

so tell me, was it

a cigarette that bothered your jailer so?

(They let me go the one time I blew smoke

into a trooper’s face.) In the footage

your final revolt. I stood before you

more than once, more than sex

and color separated us, and why

should you call a doctor kin. Sandra Bland,

we broke you down,

I say your name, how broke. You died

on the day the Hollywood sign

was dedicated. For you I name

this town, and after every woman

the police killed, a town.

*

Dear Sandra,

I just got done with hours

of Civil War documentaries. “Useless,

useless,” John Wilkes Booth said

of his hands as his final words. An echo

of Kurtz’s “horror.” The Civil War, it turns out,

set a standard for modern wars,

one century into another.

And as the Confederate commander

of Andersonville prison camp felt the noose

around his neck, he, too, said

he was merely obeying orders.

Armies said. The police said.

The doctor, triaging collaterals, said.

The historian, wanting us to be the greatest,

said. The Civil War is a pointer to

future liberation for all kinds of folk, a milestone

in which no clear victor emerges,

since time is the master to whom

even literature submits.

*

We have schools,

counties, forts, clinics,

and at one point a hospital

named after Jefferson

Davis in Texas.

We have nothing

named after you.

Will you excuse me,

Sandra, for naming a poem

an imaginary place that,

as with any home,

one doesn’t inhabit

all alone, even if

in a coffin one is

all that there is?

And one, not even,

and far more.

*

Which “we” is it I speak of? Those of us

who didn’t play a part in your disintegration know

that we play a part. Not all players even

the field. We’re a catalog that goes on like hypha.

If it is resuscitation I seek

through your citation

it isn’t resuscitation I seek. Your mother called you

Sandy and with countless others loved your smile

beyond my arithmetic of commemoration.

Sioux City, Tucson, Tuskegee, Seattle.

*

To persuade me that war is retribution

for unspeakable sins, a comeuppance, a bit

theological for me all this. But to think

of war as entropy’s work, order

and disorder in a waltz that sees

not the identities we historicize into chains

of absolute ghosts? How is it that

women (to mention one example) have always

suffered greater injustice, endured

more pain than men have,

what entropy is this

that singles out?

*

History has rendered this kind of math incalculable.

History manufactured out of and against our biology,

seduced as a dog is lured with a treat.

Between nuance and essentialization, I sing myself.

Between cost-benefit ratio and the unattainable

I see freedom in amendments I further amend.

Between my trauma and another’s passage,

speaking and the spoken for.

*

It’s clear you’re my pretext, Sandra, you were

an Aquarius (my dad’s as well). But do zodiacs exist

for birth into the underworld? If so, then on the date

your breath no longer tethered your body, you became

a Cancer, proliferative, this nation’s sign.

*

Under that sign, ten years before your murder,

I asked myself in Darfur, What is the threshold

for suffering to create us equal? It’s low

enough for anyone to dance the limbo

and stay on their feet the whole

song through, if we choose. I fear our twin

consciousness cannot hold. Our voodoo

and epigenetics, our quantum and wizards,

snakes and ladders. Yet my weakest faith

(when I remember it) is that I don’t visit

my grief upon those whose pain is more acute

than mine, or is chronic with more frequent flares.

Is there an equation to help me exempt

others from my loyalty oath to taxonomy,

a step in my deliverance from woe?

*

Nuance, too, competes with generality

for erasure, a visibility each mode can perform

well: where is that threshold?

So that prudent justice isn’t laundered

against the baler angels of our nature, Sandra,

I rise up from my apoptosis under

a cherry tree into an olive. What crimes

won’t I pardon or dissipate into energy

if suffering is folded in space-time?

Is our empathy’s nebula pacifist

or a ruse of the tongue sat in dentition?

I reckon the ten words in which Honest Abe

counted “the people” a trinity at Gettysburg

are what the Black Panthers heard.

*

Ms. Bland,

I also learned

that singularity

is achieved only

when one is torn

to irreconcilable

pieces, decomposed

six fathoms up,

down, lateral,

unflagged, indivisible,

undertow for all.

Ms Bland,

how much

of me is you

and you is we?

Sandra Bland, Texas

Sulla strada di casa la scorsa notte

mi sei riapparsa di fronte a dov’ero diretto,

allora dimmi, è stata

una sigaretta a far dare di matto il tuo carceriere?

(Avevano lasciato perdere quella volta che ho soffiato il fumo

in faccia a un soldato). Nel filmato

la tua ultima protesta. Siamo stati faccia a faccia

più di una volta, più di quanto il sesso

e il colore ci separassero, e perché

dovresti chiamare fratello un dottore. Sandra Bland,

ti abbiamo spezzato,

io dico il tuo nome, così spezzato. Sei morta

il giorno in cui il cartello di Hollywood

è stato inaugurato. Col tuo nome battezzo

questa città, e col nome di ogni donna

che la polizia ha ucciso, una città.

*

Cara Sandra,

vengo da ore di documentari

sulla Guerra civile. «Inutili,

inutili», John Wilkes Booth disse

delle sue mani come ultime parole. Un’eco

dell’«orrore» di Kurtz. La Guerra civile

ha definito lo standard per le guerre moderne,

un secolo dopo l’altro.

E mentre il comandante confederato

del campo di prigionia di Andersonville sentiva il cappio

attorno al collo, anche lui disse

che stava solo eseguendo gli ordini.

Gli eserciti dissero. La polizia disse.

Il dottore, diagnosticando garanzie, disse.

Lo storico sognando che siamo la più grande potenza

disse. La Guerra civile è un avviso

per la futura liberazione di ogni tipo di popolo, una pietra miliare

in cui non emerge un chiaro vincitore,

perché il tempo è il padrone a cui

anche la letteratura si sottomette.

*

Abbiamo scuole,

contee, basi militari, cliniche,

e a un certo punto un ospedale

che si chiama Jefferson

Davis in Texas.

Non abbiamo dato

il tuo nome a nulla.

Mi scuserai

per aver intitolato una poesia

a un luogo immaginario in cui,

come in qualunque altra casa,

uno non abita

tutto solo, anche se

in una bara uno è

tutto ciò che c’è?

E uno, neppure,

e uno, molto di più.

*

Di quale “noi” sto parlando? Quelli di noi

che non giocarono una parte nella tua disintegrazione sanno

che giochiamo una parte. Non siamo tutti giocatori ma anche

campo. Siamo un catalogo che si espande come un’ifa.

Se è la rianimazione che cerco

attraverso la tua citazione

non è la rianimazione che cerco. Tua madre ti ha chiamato

Sandy e con innumerevoli altri ha amato il tuo sorriso

al di là della mia matematica della commemorazione.

Sioux City, Tucson, Tuskegee, Seattle.

*

Persuadermi che la guerra sia retribuzione

per peccati ineffabili, un giusto castigo, un po’

teologico per me tutto questo. Ma pensare

della guerra come lavoro dell’entropia, ordine

e disordine in un valzer che non

vede le identità che storicizziamo in catene

di fantasmi assoluti? Com’è che

le donne (per dirne una) hanno

sofferto un’ingiustizia più grande, sopportato

più dolore degli uomini, che entropia è questa

che seleziona?

*

La storia ha reso questo tipo di matematica incalcolabile.

La storia fabbricata fuori da e contro la nostra biologia,

sedotta come un cane è attirato con un premio.

Tra sfumatura e semplificazione mi canto.

Tra il rapporto costi-benefici e l’irraggiungibile

vedo libertà in emendamenti che ulteriormente emendo.

Tra il mio trauma e il passaggio di un altro,

colui che parla e colui a nome del quale si parla.

*

È chiaro che sei il mio pretesto, Sandra, eri

un Aquario (come lo è mio padre), ma esistono gli zodiaci

per la nascita nell’aldilà? Se fosse così, allora nel giorno

in cui il tuo respiro non ha più legato insieme il tuo corpo, sei diventata

Cancro, proliferante, segno di questa nazione.

*

Sotto quel segno, dieci anni prima del tuo omicidio,

mi sono chiesto a Darfur, qual è la soglia

della sofferenza che ci fa uguali? È bassa

abbastanza per chiunque per ballare il limbo

e restare in piedi fino alla fine della

canzone se lo scegliamo. Temo che le nostre coscienze

gemelle non possano resistere. Il nostro voodoo

e l’epigenetica, il nostro quanto e i maghi,

gioco dell’oca. Eppure il mio dogma più debole

(quando me ne ricordo) è che non visito

il mio dolore presso coloro il cui dolore è più acuto

del mio, o è cronico con più frequenti fitte.

C’è un’equazione che mi aiuti a esentare

gli altri dal mio giuramento di lealtà alla tassonomia,

un passo in avanti nella mia liberazione dalla pena?

*

La sfumatura, pure, fa a gara con la genericità

per cancellare, una visibilità che entrambi i modi sanno performare

bene: dov’è quella soglia?

Perché la giustizia prudente non sia lavata e stirata

contro gli angeli-pressa della nostra natura, Sandra,

riemergo dalla mia apoptosi sotto

un ciliegio in un’oliva. Quali crimini

non condonerò o dissiperò in energia

se la sofferenza è ripiegata nello spazio-tempo?

È la nebulosa della nostra empatia pacifista

o uno stratagemma della lingua chiusa nei denti?

Immagino che le dieci parole con cui Honest Abe

contò «the people» in una trinità a Gettysburg

siano quello che le Black Panthers sentirono.

*

Ms. Bland,

ho anche imparato che l’eccezionalità si raggiunge solo

quando uno è lacerato

in pezzi irreconciliabili, decomposto

sei braccia verso l’alto,

verso il basso, di lato,

instancabile, indivisibile,

corrente di ritorno per tutti.

Ms. Bland,

quanto

di me sei tu

e tu sei noi?


Da Footnotes in the order of disappearance, 2018

Beanstalk

I was twelve when I asked my older brother about the clitoris. He told me it was a structure on the outside of a woman’s vagina that was the size of a chickpea. If you hold it between your fingers, he said, a woman instantly melts, and he made a soft gesture of rubbing his index finger and thumb together, as if he were dusting off flour after eating a piece of bread, or stroking the wing of a moth. He’d never seen one, I was sure of it, but I could sense he wasn’t lying. He’d felt one maybe in the stairwell of some building that wasn’t fully housed on the campus where we lived in Riyadh. He had a reputation for being a Don Juan, which got him in trouble with the local boys. But the size of a chickpea? When I went to medical school the dimension never left my mind. If his fingers were accurate, objective, not subject to the delirium of pleasure at fourteen, then there’s only one explanation: he must have encountered a girl with clitoromegaly. A cadaver had a large penis in our anatomy lab the first year of medical school. The tiniest woman in class, who went on to become a pathologist, could not get over the size of it. She kept saying, “Look at the size of it! How can that fit?” Two years earlier, while taking premed anatomy, when it was penis time, and the cloth was removed, I don’t know why I uttered these words under my breath: “So small yet so many troubles.” A classmate who was standing right behind me approached me after class to tell me she was moved by my remark. She had been a victim of rape. I was stunned. She wanted to talk. She told me she lived in a house in the middle of Nowhere Road, in Athens, Georgia.

Pianta di fagioli

Avevo dodici anni quando chiesi a mio fratello maggiore cos’era il clitoride. Mi disse che era una struttura all’esterno della vagina di una donna grande come un cece. Se lo tieni tra le dita, disse, una donna si scioglie all’istante, e delicatamente sfregò insieme l’ indice e il pollice, come se si stesse togliendo dalle mani la farina dopo aver mangiato un pezzo di pane, o accarezzando le ali di una falena. Lui non ne aveva mai visto uno, ne ero sicuro, ma capii che non stava mentendo. Ne aveva sfiorato uno forse nella tromba delle scale di qualche edificio sfitto nel campus dove vivevamo a Riyadh. Aveva la reputazione di essere un Don Giovanni, cosa che lo aveva messo nei guai con i ragazzi locali. Ma un cece? Mentre frequentavo la facoltà di medicina queste dimensioni non lasciarono mai la mia mente. Se le sue dita erano precise, obiettive, non soggette al delirio del piacere di un quattordicenne , allora c’era una sola spiegazione: aveva incontrato una ragazza con clitoromegalia. Il primo anno della facoltà di medicina, nel nostro laboratorio di anatomia c’era un cadavere con un pene molto grande. La donna più minuta della classe, che divenne poi una patologa, non riusciva ad accettarne la misura. Continuava a dire, «Guarda quant’è grande! Come fa a entrare?». Due anni prima, mentre seguivo anatomia in premed, quando arrivò il momento del pene, e fu rimosso il telo, non so perché dissi queste parole sottovoce: «Così piccolo eppure così tanti guai». Una compagna di classe che era dietro di me mi si avvicinò dopo lezione per dirmi che si era commossa per la mia osservazione. Era stata vittima di uno stupro. Rimasi sbalordito. Lei voleva parlare. Mi disse che viveva in una casa nel bel mezzo di Nowhere Road, a Athens, Georgia.

I gabbiani e l’acciaio. Su “La terra di ferro” di Pasquale Pinto

Nota di lettura a cura di Simone De Lorenzi.

La pubblicazione de La terra di ferro e altre poesie (1971-1992) di Pasquale Pinto, avvenuta lo scorso ottobre per i tipi di Marcos y Marcos, riempie più di un vuoto. Innanzitutto la scelta antologica, curata da Stefano Modeo, prosegue l’operazione portata avanti dalla casa editrice – cominciata nel 2019 con le Poesie scelte (1953-2010) di Luigi Di Ruscio – di riscoperta e divulgazione della cosiddetta “letteratura operaia”, il filone di testimonianze dell’esperienza di fabbrica che solo ultimamente sta ricevendo adeguata ricognizione critica. Ma soprattutto riporta alla luce un autore dimenticato e caratterizzato anche in vita da una certa marginalità; marginalità che può essere documentata anche solo scorrendo le sedi di pubblicazione dei suoi libri, usciti per edizioni minori (In Primo Piano, Pentapress) e atipiche (il Centro sociale Magna Grecia, l’Assessorato alla Cultura del Comune di Taranto e la Biblioteca della Provincia di Taranto); di una raccolta, Il parco depresso, non si è neppure a conoscenza della data di pubblicazione.

Pasquale Pinto (1940-2004), operaio alla Italsider di Taranto dal 1964 al 1990, scrive della propria esperienza di fabbrica, ma ancora prima scrive del Sud nel quale vive: l’esperienza operaia di Pinto in quella che ora è conosciuta come l’ex-Ilva ancora non si affaccia nei suoi primi versi, impegnati piuttosto a registrare le risposte della sua terra alle sollecitazioni del tempo. La Puglia di Pinto è animata da un’umanità semplice, sabiana (donne, uomini, vecchi e bambini che sono spose, vedove, madri, sorelle e figli; marinai, naufraghi, mendicanti e infermiere): «Era la vita / che cade umida nelle tasche / e s’avvicina ai moli / scalciando l’ombra dei muri». Sono figure ferite e abbattute, ma che emergono vive e presenti in queste pagine assai frequentate dalla morte: «Ho trovato giorni / che per la loro magrezza / volavano più in alto dei morti».

Pinto mette in versi quello che Simone Giorgino, nell’introduzione, chiama un «idillio incrostato di ruggine»: la sua voce non ignora la bellezza di una terra che, sulla via dell’industrializzazione, conosce profondi cambiamenti – tanto a livello paesaggistico quanto sociale e antropologico – e il dipinto della Taranto antica, magnogreca, si intreccia a quello della Taranto contemporanea. L’ambientazione principe di In fondo ad ogni specchio (1976) e Il capo sull’agave (1979) è infatti un paese indeterminato ma chiaramente meridionale, nel quale fa la sua comparsa una dimensione moderna che affianca, contrastandolo, l’idillio atemporale tarantino: «Ho visto in un market / crisantemi con rugiade artificiali / e garofani di plastica / turbarsi per l’odore di una mano»; «C’è una luna su una terrazza / ferita da programmi televisivi».

Ai consueti mitologemi paesaggistici delegati alla rappresentazione del Meridione, che giocano con il cliché senza impigliarsi nelle sue maglie – il mare, il sole, le piante, i gabbiani, la luna, i tramonti – affianca e sovrappone elementi che si è solitamente portati ad associare al Nord Italia urbano. Così il «cielo di vetro» e «piombo» tarantino non è dissimile dal «cielo contemporaneo […] colore di lamiera» o «d’acciaio» della periferia milanese ne La ragazza Carla di Pagliarani (e agli «ufficio a ufficio b ufficio c» frequentati dalla dattilografa fa eco la «portineria “A”» della fabbrica), mentre la vita tra gli altiforni è equiparabile agli «asettici inferni» della Pirelli messi in scena da Sereni in Una visita in fabbrica (non più, però, osservata dal punto di vista straniato del visitatore, ma testimoniata dal suo interno). D’altronde un operaio può essere, indistintamente, «forse del Nord / forse del Sud», perché l’esperienza restituita sulla pagina – che pure parte da un dato vissuto personalissimo – nelle sue coordinate di fondo è transregionale: ovvero, in un certo senso, universale.

È con La terra di ferro (1992) che entra a gran voce la denuncia operaia, già anticipata in alcuni Frammenti senza titolo del 1978. In uno scenario caratterizzato da alienazione, ripetitività e sfruttamento, la morte si fa concreta («Un giovane che gli lavorava accanto / è corso in un lavandino / a svuotargli / una scarpa di sangue») e non è più solo naturale o esistenziale. Attore del poemetto è un soggetto massificato («20.000 cartellini / attendono una stretta di mano / all’alba a sera a notte»), che resta generico anche quando individuato («Tu Walter / Tu Pino / e tu Mario / alla fine di ogni turno / ricompravate intatta la vita»; «Salvatore / classe ’41 / appendicite del ’57 / riaperta con un colpo / di tosse / su un lenzuolo rosso»). L’acciaieria non è però mai presa come luogo asettico chiuso in sé, è piuttosto in dialogo – per quanto negativo – con la natura esterna ad essa («Una gru / s’è capovolta sui binari. / […] / Su un fianco / il suo numero / si meraviglia / del cielo») a perturbare definitivamente quel che di idillico è rimasto nel paesaggio tarantino, in un’amara presa d’atto: «Più nessuno ha l’erba negli occhi».

Nonostante il doppio status di poeta e di operaio, Pinto non si sente latore di un mandato sociale e con lucida consapevolezza denuncia l’insufficienza della letteratura: «Non vi porto certezze. / (mai i poeti modificarono il sangue) / Ho solo da parlarvi sottovoce / con l’abito consunto di parole». Lungi dall’essere un intellettuale engagé, Pinto scrive per dare voce a un’esigenza innanzitutto privata, ma che può diventare solidaristica condivisione di esperienze altrui: «Chi parlerà di voi uomini rossi / senza età senza bestemmie? / Chi parlerà dei vostri Natali / accanto alla ghisa lontano dai canneti / ove vivono gli ultimi gabbiani? // Pasquale Pinto è solo un uomo / costantemente denunciato / dai rivoli delle vostre fronti».

Lo stile di Pinto, in bilico tra andature narrativo-prosastiche e soluzioni liricheggianti, incorpora diverse suggestioni: alterna dizioni crude («Un fusto è scoppiato in acciaieria / come una palla d’acciaio / su un birillo di carne») e delicate («I bimbi mettono in equilibrio il primo mamma / sulle corde delle ugole»), pronunce sentenziose ma senza gravità («La folla ha sempre studiate miopie / per gli uomini che si amano») e scalfitture ironiche («I suoi figli hanno pantaloni / appena sopra le ginocchia / a 8 anni / hanno già letto / tutto Fleming»). È una poesia legata alla materialità («sguardi di vetro», «porcellana di mattini», «morti di ferro», «piombo dei tramonti», «vetri di luna», «lamiere di burro») e ai colori, che mescola tinte dal significato multiplo: il giallo è del sole ma anche della ghisa, l’azzurro del mare e del cielo ma anche dei vetri taglienti e il rosso può indicare tanto i tramonti quanto il sangue.

Nonostante la sostanziale marginalità dell’autore all’interno del panorama letterario, Pinto era in dialogo con autori e critici del tempo: due liriche sono indirizzate a Giorgio Caproni e Giacinto Spagnoletti, tra gli esegeti che intercettarono il valore della sua poesia. Il merito del lavoro di Stefano Modeo sta anche nell’aver sopperito, almeno parzialmente, all’accessibilità dell’opera di un autore i cui scritti restano ancora adesso di difficile reperimento nelle biblioteche al di fuori della Puglia; l’auspicio è quello di riportare l’attenzione anche critica su una figura che – bastano i frammenti testuali qui presentati a mostrarlo chiaramente – sarebbe limitante incasellare sotto l’etichetta di “poeta operaio”.


Da In fondo ad ogni specchio (1976)

C’è una nudità di rami

C’è una nudità di rami
che cerca il suo sangue in un tramonto
e piume ancora calde
di uccelli senza nome

C’è un paese rotto dal vento
una porcellana di mattini immobili
che corrono sulle ringhiere dei ponti

Ed una madre
ha ripulito gli spigoli del volto
per sorreggere il figlio lontano

Da Il capo sull’agave (1979)

Ho un cuore dalla rilegatura antica
che cerca la sua polvere in una pagina.
Ma forse ho solo parole
per dare ad ogni morto il suo nome.
Mi salvarono talvolta le tue mani
che da sole bastavano
a sorreggere il piombo dei tramonti.
Io parlo
per tutte le foglie cadute sulla terra
per tutto il sangue sceso nei chiusini
e per tutti i morti
che si lamentano dell’urina nelle mani.

Da La terra di ferro (1992)

[…]
Nelle officine i saldatori inveiscono nelle pupille
e sulle lamiere di burro.
A tutte le ore si prepara una squadra.
Il tempo fa fagotto ogni ora
si appartiene ad uno stesso
sudore.
[…]
C’è un operaio
classe 1922
che scarica pacchi
da 40 anni.
[…]
Sud mio sud
ove t’hanno portato
i riverberi delle colate?
[…]
Mentre l’estate si suicida nel sangue dei papaveri
una testa è rotolata
su un traversino ferroviario
i capelli in ordine
una ruga improvvisa di taglio sui binari.
[…]


Stefano Modeo (Taranto, 1990) vive e lavora come insegnante a Treviso. Ha esordito nel 2018 con La terra del rimorso (Italic Pequod). Compare nelle antologie Abitare la parola – Poeti nati negli anni ’90 (Ladolfi editore 2019) e I cieli della preistoria. La nuovissima poesia pugliese (Marco Saya 2022). Fa parte della redazione della rivista di poesia «Atelier», del blog «Universo poesia – Strisciarossa» e si occupa di poesia italiana contemporanea per la rivista di critica letteraria norvegese «Krabben – Tidsskrift for poesikritikk».

Oltre a La terra di ferro e altre poesie di Pasquale Pinto, nel 2023 ha curato l’antologia di Raffaele Carrieri Un doppio limpido zero (Interno Poesia) ed è comparso nel sedicesimo volume dei Quaderni italiani di poesia contemporanea editi da Marcos y Marcos. Di recente per l’Almanacco de Lo Spazio letterario ha risposto alle domande di In teoria e in pratica, l’inchiesta a cura della nostra rassegna di poesia contemporanea Raggi γ.