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Un diario poetico in divenire: la poesia del corpo di Stéphane Lambion

Introduzione e traduzione dal francese a cura di Elena Casadio Tozzi.

Stéphane Lambion è un poeta e traduttore francese. Nato a Bruxelles nel 1997, ha pubblicato la sua prima raccolta, dal titolo Bleue et je te veux bleue, nel 2019 per la casa editrice L’Échappée belle, con una prefazione di Jean-Michel Maulpoix. Nel 2022 è uscita per la casa editrice La Crypte la sua seconda raccolta, presque siècle, vincitrice del Prix des Trouvères Lycéens. Suoi testi inediti sono apparsi regolarmente su diverse riviste, tra le quali «Arpa», «Traversées», «Contre-allées». Dal 2020 è curatore delle riviste «Point de chute» e «Canal», quest’ultima nata nel 2022 e dedicata agli scambi tra poesia francofona e britannica. Lambion accompagna il lavoro di scrittura a quello di traduzione dal rumeno e dall’inglese: ha curato le raccolte 04:00 Canti domestiques di Radu Vancu (Vanneux, 2019) e Plantations di Constant Tonegaru (Abordo, 2022).

Dal 2021 è ricercatore presso l’Université d’Aix-Marseille dove sta svolgendo una tesi di ricerca e creazione sulla malattia nella poesia contemporanea, di cui è possibile consultare un diario sempre aggiornato sulla rivista online «remue.net». Questo lavoro si affianca alla poetica de l’intime di Lambion, volta a indagare il rapporto con il corpo “urtato”. La sua scrittura nasce, infatti, dall’esperienza vissuta e si sviluppa nello spazio della pagina con un ritmo, quasi un soffio, a cui corrispondono esperienze vive, sia artistiche che personali, come dimostra la sua attuale propensione alle forme poetiche e narrative ibride, all’arte visiva e alle arti plastiche.

Scaturita da un ambiente plurilingue e attraversata da più lingue, la scrittura di Lambion prende come oggetto di indagine privilegiato il corpo nelle sue diverse accezioni. La ricerca di una poesia incarnata, lontana da ogni astrazione, porta Lambion a fare del corpo uno strumento per dare carne a sensazioni ed emozioni, come in “le seul calcul est le sommeil”, dove emerge la volontà di dare corpo alla notte, di tagliarla e metterla in rapporto con la fisicità umana; o ancora in “. . .”, dove lo slancio vitale, la vergogna e la paura sono emozioni rappresentate in funzione del corpo e dei suoi movimenti. Questa ricerca fisica in poesia si spinge fino alla fascinazione per le potenziali trasformazioni del corpo, che siano dovute al tempo o alla malattia, e di cui la raccolta presque siècle e il testo En cœur costituiscono un diario poetico in divenire.


le seul calcul est le sommeil

la nuit s’est cassée
.
en mille morceaux
.
lorsqu’elle est tombée
.
sur ma maison.

je la dévisse,
elle a une odeur d’os.

je pose la nuit
sur une plaque millimétrée,

y découpe
la forme de ma chambre,
la forme de mon sommeil.

l’étends
par terre.

la nuit respire
sur le sol

, doucement.

se soulève
à peine.

si l’on coupe un cube de nuit de gauche à droite,


puis chaque moitié de haut en bas,

par combien multiplie-t-on
la surface de la nuit

, il demande.

pleine,
la nuit sera – pleine
.

ils

vérifieront
cette hypothèse.

testeront
ses corolaires.

chercheront le contre-exemple.

discuteront
son bien-fondé.

je

prendrai
les outils à la cave,

remettrai
la nuit en place.

elle sentira
le propre,

ce sera une
nuit neuve

comme il y en a tous les
deux-mille-neuf-cent-soixante-seize ans

, environ.

j’y collerai
mon visage
sans couleur.

la nuit

courra
sur mes tempes,

se faufilera
dans mes yeux,

se glissera sous mes ongles,

entière.

elle

deviendra
une prière

, dite
le long
des os.

la nuit aura
la surface de ma peau

, ce sera l’heure de dormir.

le sommeil sera le seul calcul


l’unico calcolo è il sonno

la notte si è rotta
.
in mille pezzi
.
quando è caduta
.
sulla mia casa

la svito
ha un odore d’ossa

poggio la notte
su un tavolo millimetrato,

vi ritaglio
la forma della mia stanza
la forma del mio sonno.

la stendo
per terra.

la notte respira
sul suolo

, dolcemente

si solleva
appena.

se tagliamo un cubo di notte da sinistra a destra,
poi ogni metà dall’alto in basso,

per quanto moltiplichiamo
la superficie della notte

, lui chiede.

piena,
la notte sarà – piena
.

loro

verificheranno
questa ipotesi.

testeranno
i suoi corollari.

cercheranno il contro-esempio.

discuteranno
la sua fondatezza.

io

prenderò
gli strumenti in cantina

rimetterò
la notte a posto.

lei sentirà
il pulito,

sarà una
notte nuova

come ce ne sono ogni
due-mila-nove-cento-sessanta-sei anni

, circa.

vi incollerò
il mio viso
senza colore.

la notte

correrà
sulle mie tempie,

s’intrufolerà
nei miei occhi,

scivolerà sotto le mie unghie,

intera.

lei

diventerà
una preghiera

, detta
lungo
le ossa.

la notte avrà
la superficie della mia pelle

, sarà ora di dormire.

il sonno sarà l’unico calcolo


La tristesse dans le pied

ma maison est une boîte
de nuit j’y danse
de jour aussi

, c’est la fête rue berthe,

tout le temps c’est la fête
charlotte de witte à trois
heures du matin spaghettis
au petit-déjeuner je danse

, toujours je danse
sans voir que

depuis quelques semaines
quand je

, quand je danse rue berthe
j’ai la tristesse dans le pied.

depuis quelques semaines je danse
en battant des pieds

, rue berthe je danse
comme un enfant qui ne veut pas
que sa tête aille sous l’eau

, danse comme un garçon
qui demande à charlotte
de l’aider à clouer
la tristesse au sol.

*

hier soir rue berthe mes jambes
étaient si lourdes que j’ai cru
couler

mes pieds s’enfonçaient
dans le parquet je
déjà me noyais

, battais fort
– la pointe le talon le plat
de tout le pied battais

et mes jambes de douleur
sont devenues pierres

, le bois du parquet
est devenu pierre

, la pierre
cognait la pierre

et un feu petit
à petit s’est allumé
sous la tristesse
de mes pieds

, hier soir rue berthe un feu
s’est allumé et mes pieds
ne s’enfonçaient
plus et je ne
coulais plus
hier soir

, j’ai dansé rue berthe
avec charlotte comme
un noyé qui prend feu
à six heures j’ai mis l’eau
à bouillir pour les pâtes

et j’ai dormi
dans ma boîte où
je vis je danse
rue berthe

, dans le pied la trace
d’une tristesse brûlée.


La tristezza nel piede

la mia casa è un locale
notturno in cui ballo
anche di giorno,

, è festa in rue berthe,

è sempre festa
charlotte de witte alle tre
del mattino spaghetti
per colazione io ballo

, ballo sempre
senza vedere che

da qualche settimana
quando io

, quando io ballo in rue berthe
ho la tristezza nel piede

da qualche settimana io ballo
battendo i piedi

, in rue berthe io ballo
come un bambino che non vuole
avere la testa sott’acqua

, io ballo come un ragazzo
che chiede a charlotte
di aiutarlo a inchiodare
la tristezza al suolo.

*

ieri sera in rue berthe le mie gambe
erano così pesanti che mi sembrava di
affondare

i miei piedi sprofondavano
nel parquet io
già annegavo

, battevo forte
– la punta il tallone la pianta
di tutto il piede battevo

e le mie gambe di dolore
sono diventate pietre

, il legno del parquet
è diventato pietra

, la pietra
colpiva la pietra

e un fuoco a poco
a poco si è acceso
sotto la tristezza
dei miei piedi

, ieri sera in rue berthe un fuoco
si è acceso e i miei piedi
non sprofondavano
più e io non
affondavo più
ieri sera

, ho ballato in rue berthe
con charlotte come
un annegato che prende fuoco
alle sei ho messo l’acqua
a bollire per la pasta

e ho dormito
nel locale dove
vivo ballo
in rue berthe

, nel piede la traccia
di una tristezza bruciata.


. . .

tape tape prend prend prend
tape prend prend tape tape
prend prend prend tape
prend prend tape tape
tape tape prend
prend tape
tape tape
prend
tape


      en un lancer,
      mélanger l’espace et le temps


          se nourrir du rythme,
          du plein, du vide, des
          éclairs de silence
          entre deux


tisser l’air
de mouvement


          (au creux du coude, bloquer :
          rien, ni même le vent, ne
          bougera le monde
         jusque-là roulé)


droit debout,
poursuivre


          tenir la mesure,
          la cadence à
          deux mains


respirer et ne pas oublier
d’avoir peur


         nécessairement, chuter :
         ramasser sans rougir et
         recommencer encore


du bout des doigts,
construire un
château d’air


         prêt à accueillir le visiteur
         à l’instant où il frappera :
         serrer la main


                la paume ouverte en
                trois petits
                 points


tape
prend
tape tape
prend tape
tape tape prend
prend prend tape tape
prend prend prend tape
tape prend prend tape tape
tape tape prend prend prend


. . .

batti batti prendi prendi prendi
batti prendi prendi batti batti
prendi prendi prendi batti
prendi prendi batti batti
batti batti prendi
prendi batti
batti batti
prendi
batti

        in un lancio,
        mischiare lo spazio e il tempo

         nutrirsi del ritmo,
         del pieno, del vuoto, dei
         barlumi di silenzio
         tra i due

tessere l’aria
di movimento

         (nella cavità del gomito, bloccare:
         niente, nemmeno il vento,
         muoverà il mondo
         fin lì rotolato)

dritto in piedi,
proseguire

         tenere il tempo,
         la cadenza con
          due mani

respirare e non dimenticare
di aver paura

         necessariamente, cadere:
         raccogliere senza arrossire e
         ricominciare ancora

dalla punta delle dita
costruire un
castello d’aria

          pronto ad accogliere il visitatore
          nel momento in cui busserà:
          stringere la mano

                il palmo aperto in
                tre piccoli
                punti

batti
prendi
batti batti
prendi batti
batti batti prendi
prendi prendi batti batti
prendi prendi prendi batti
atti prendi prendi batti batti
batti batti prendi prendi prendi


Copertina di Presque Siècle di Stephane Lambion
presque siècle di Stéphane Lambion (La Crypte, 2022)

Io abbreviazione di Dio. Una lettura de “Le schegge” di Bret Easton Ellis

Nota di lettura a cura di Simone Salomoni.

Su Le schegge, ultimo romanzo di Bret Easton Ellis, è già stato scritto molto e il contrario di molto: il capolavoro dello scrittore californiano, l’ennesima riscrittura del solo romanzo che lo scrittore californiano ha scritto nella sua carriera, Ellis al massimo del suo splendore, Ellis al massimo della sua sciatteria stilistica.

Quello che mi interessa fare qui (per altro non so dire se Le schegge sia un capolavoro, se sia il capolavoro di Bret Easton Ellis, mentre sono anche io convinto che Ellis abbia scritto un solo romanzo – come quasi tutti gli scrittori: la differenza è che Ellis lo fa in maniera più spudorata e quindi onesta – e cercato a ogni riscrittura la forma finale di sé: ho l’impressione che ora sia riuscito a raggiungerla e gli auguro di potere spurgare il suo male), non so se è stato fatto altrove, non mi pare, è riflettere su come Bret Easton Ellis si ponga, si muova – come scrittore ma anche come vivente: per BEE le due cose sono più che per altri inscindibili – si mimetizzi e si esponga all’interno di un romanzo come Le schegge, romanzo che potremmo con una certa sicurezza inserire nel novero delle cosiddette autofinzioni.

Partiamo da un fatto evidente: Ellis ci ricorda costantemente di essere uno scrittore, lo fa ogni dieci pagine per oltre settecento pagine e in maniera neanche troppo velata, lo fa a partire dallo splendido, davvero splendido, incipit e pertanto, se questa è la sua autobiografia di uno scrittore dobbiamo allora leggerla ricordandoci che per lo scrittore, come scriveva Rimbaud, io è – SEMPRE – un altro.

Chi è allora io per Bret Easton Ellis ne Le schegge? Io, innanzitutto, è abbreviazione di Dio, e Ellis gioca e quasi porta all’estremo l’idea facendosi Dio e demiurgo del proprio mondo narrativo, e mi pare lo faccia servendosi principalmente di tre personaggi, tre protagonisti, se vogliamo: il suo doppio narrativo, Bret, autore e narratore e protagonista de Le schegge, Robert Mallory, lo studente nuovo arrivato affetto da problemi mentali, nemesi dello stesso Bret, e The Trawler, tradotto da Giuseppe Culicchia con Il pescatore a strascico, sadico e misterioso serial killer che impera su Los Angeles.

Bret, Mallory e The Trawler sembrano a un primo sguardo, e senza possibilità di smentita, tre personaggi diversi, separati, monadi indipendenti l’una dall’altra che si muovono all’interno dello stesso spazio narrativo. Fin dalle prime pagine, però, Ellis insinua il dubbio che Mallory possa essere The Trawler o quantomeno che la sua apparizione a Los Angeles sia collegata all’apparizione e agli omicidi del Pescatore a strascico: “E poi naturalmente, si presentò il Pescatore a Strascico. Per circa un anno c’erano state diverse effrazioni e aggressioni, e sparizioni, e poi nel 1981 venne rinvenuto il secondo cadavere di un’adolescente scomparsa – il primo era stato scoperto nel 1980 – e infine fu collegato alle effrazioni nelle case. Tutto questo avrebbe potuto verificarsi senza la presenza di Robert Mallory, ma il fatto che il suo arrivo fosse coinciso con lo strano offuscamento che aveva iniziato a insinuarsi nelle nostre vite fu una cosa che non mi fu possibile ignorare, sebbene gli altri lo facessero, a loro rischio e pericolo” (pag. 19).

Ellis insinua e quando l’autore insinua il lettore, o quantomeno il lettore che sono io, si sente autorizzato a insinuarsi a sua volta, a insinuarsi e insinuare propositi e desideri autoriali più o meno manifesti, nascosti non come fatti ma come fantasmi nelle pieghe della narrazione e così il lettore che sono io si è trovato a chiedersi: ma non è che come BEE (il narratore) insinua una correlazione se non una sovrapposizione fra Robert Mallory e The Trawler, BEE (l’autore) voglia insinuare anche una correlazione se non una sovrapposizione fra BEE (il personaggio) e Robert Mallory?

ATTENZIONE: NON PROSEGUIRE LA LETTURA SE SI TEMONO SPOILER.

Questa ipotesi diventa qualcosa in più di un’ipotesi mano a mano che si avvicina la fine del romanzo – Bret e Mallory hanno un confronto, un tentativo di chiarimento delle incomprensioni avute “Non sapevo più che cosa dire, perché non c’era nient’altro da dire – niente faceva presa su di lui, era come parlare a uno specchio” (pag. 682) nel quale Mallory finge di sedurre Bret salvo poi umiliarlo “Lo guardai in faccia e il sorriso sexy era sparito, e lui si tirò via e sedette sul bordo del letto e poi mi guardò dall’alto in basso e con una lieve traccia di disgusto si ripulì la bocca col dorso della mano e mormorò: – Frocio del cazzo –. E poi: Lo sapevo” (pag. 684) – e prende maggiore forza durante la notte in cui prima Thom e Susan (il migliore amico di Bret e la sua fidanzata) vengono aggrediti con la ferocia che caratterizza The Trawler e dopo avviene la colluttazione fra Bret e Robert Mallory – “Abbassai lo sguardo e vidi che stringeva in pugno un coltello da macellaio. E poi lui vide il coltello che impugnavo io” (pag. 694) “Incespicai alla cieca in avanti alzando il coltello, ma Robert era corso fuori dalla stanza e io collassai contro il lavabo del bagno ma non riuscivo a vedermi nello specchio perché c’era troppo vapore” (pag. 697) – colluttazione nella quale è Mallory a soccombere.

Anche se le indagini ufficiali dicono il contrario, Bret insiste sulla possibilità che Mallory – prima di aggredirlo – abbia aggredito i suoi amici con inumana ferocia (a Susan è stato amputato un seno, mutilazione che caratterizza The Trawler, come vedremo), salvo poi aprire al lettore (o almeno: al lettore che sono io) un diverso e inquietante scenario – “Io indossavo una camicia Polo azzurra, con le maniche lunghe, abbottonata fino al collo, ma una delle maniche era ricaduta indietro quando avevo alzato un braccio per premerle un dito sulle labbra, e mi resi conto che era lì che stava guardando. Il sorriso da sballata era sparito e i suoi occhi incrociarono i miei e poi tornarono sul mio braccio. L’atmosfera ovattata, spossata, della stanza cambiò, e si attivò qualcosa – tutto stava ronzando. Susan prese a tremare intanto che tornava a guardarmi. Prima che potessi fermarla lei si sporse e tirò più su la manica. Dapprima non disse niente, ma mi resi conto che stava guardando una profonda ferita sull’avambraccio circondata da un livido viola e giallo.
Le sembrava di aver visto il segno di un morso. Lo disse alzando la voce.
Le sembrava che quel segno di un morso fosse esattamente dove aveva morso l’intruso sabato sera” (pag. 716) – lo scenario nel quale The Trawler possa in realtà essere lo stesso Bret.

La casa abbandonata su Benedict Canyon – casa appartenente alla famiglia di Mallory nella quale Bret entra abusivamente in cerca di un collegamento fra Robert Mallory e The Trawler – a me sembra funzionare come un corpo, il corpo che contiene la psiche di Ellis: il proprietario è Mallory, al suo interno vediamo muoversi esclusivamente Bret, ma sul finale si scopre che è il luogo nel quale, in effetti, è stata rinvenuta la quarta vittima di The Trawler: “Il suo corpo era stato «decorato»: la bocca riempita di pesci, la testa e il collo di un gatto cuciti sulla fronte, il resto del corpo dell’animale che fuoriusciva dalla vagina, mentre le gambe erano state ripiegate e divaricate come se Audrey stesse partorendo. La testa era adorna di corpi così che una sorta di parrucca le coprisse il cranio. I seni mancavano – erano stati rimossi, e nelle cavità erano state posizionate le teste di due gatti. L’ano era stato forzato col muso di un cane decapitato a cui era stato cucito il collo strappato a un altro cane. Come ho detto, solo mesi dopo venimmo a conoscenza di tali dettagli, e solo di alcuni: ci volle un anno perché l’orrore di ciò che il Pescatore aveva «realizzato» venisse reso noto nella sua interezza. Anche se il corpo della quarta vittima del Pescatore era stato ritrovato nella casa sulla Benedict Canyon, Robert Mallory non era mai apparso come il sospettato numero uno nei giorni successivi – appresi in seguito che si trattava di una teoria «allettante» ma che certi dati semplicemente non combaciavano.” (pag. 709-710). Una lunga sequenza per stomaci forti, la descrizione di un corpo smembrato che sembra quasi essere la sublimazione orrorifica del lavoro di selezione, correzione e montaggio di uno scrittore.

So che non è per forza così, mi rendo conto che attraverso gli strumenti della critica ufficiale l’analisi potrebbe dare risultati diversi, però io non sono un critico, e questa idea casa-corpo rafforza in me l’ipotesi che mi ha suggestionato, che mi ha portato a pensare: ma è possibile che per Bret Easton Ellis Bret, Mallory e The Trawler siano in effetti saldati, indissolubili, inscindibili? A me pare di sì. Mi pare che essi possano essere interpretati come la rappresentazione freudiana della psiche umana di Ellis nella quale Bret ha la funzione di IO (il giovane ragazzo ricco consapevole della propria omosessualità, pronto a sperimentarla ma non ancora ad accettarla), Robert Mallory quella di SUPER IO (Mallory è reduce da un ricovero psichiatrico, d’accordo, rappresenta comunque tutto ciò che Bret non è ma forse vorrebbe essere: bello e eterosessuale al punto da riuscire a sedurre Susan, la ragazza che Bret avrebbe voluto per sé, fosse stato eterosessuale) e The Trawler quella di ES (ciò che Bret sarebbe potuto diventare se avesse dato diverso sfogo assoluto alla sua parte oscura, se non fosse arrivata la scrittura a sublimare gli istinti più indicibili e violenti).

Se poi volessi andare oltre o di lato, e mi prendessi la libertà di immaginare un BEE ebbro di Cristianesimo, di immaginare un autore più europeo e meno americano, cosa che assolutamente Ellis non è – o almeno non mi pare proprio che sia – potrei arrivare ad affermare che Le Schegge potrebbe essere un tentativo di messa in scena di Dio più che di Io, la messa in scena di uno scrittore, demiurgo e trino, nella quale Bret è Padre, Mallory è figlio e The Trawler è Spirito Santo. Le Schegge è un romanzo che si presta a molte letture e molti lettori. Può essere letto come un thriller, la tensione è altissima e non cala mai; ci si può fermare a un secondo livello di lettura e leggervi la storia che segna la fine traumatica di una giovinezza e la nascita di uno scrittore; ci si può trovare molto altro: quello che ci ho trovato io – senza alcuna pretesa di univocità – è la sofferta ricomposizione di una trinità umana disgregata e sottomessa al trionfo dell’ego autoriale.

Rimanere “ancorati alle stelle” in un mondo di soprusi: quattro poesie di Fady Joudah

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Flavia Zerbini, vincitrice della Call for Translators “Poesia e Violenza”.

Fady Joudah è un poeta, traduttore e medico statunitense, figlio di rifugiati palestinesi. Nato nel 1971 a Austin, Texas, ha vissuto in Libia e in Arabia Saudita; ha poi frequentato la facoltà di medicina presso l’Università della Georgia e oggi lavora come medico d’urgenza a Houston, Texas. È membro di Medici Senza Frontiere dal 2001, e in quanto tale ha preso parte alle loro missioni umanitarie in giro per il mondo.

Secondo Joudah, «all life is an act of translation»: dalla capacità di dare corpo al reale attraverso il linguaggio, alla semplificazione necessaria nella comunicazione coi pazienti, al lavoro di traduzione dei poeti in lingua araba, tutte le attività della sua vita girano attorno a questo sforzo di trasmissione, di costruzione di legami nel rapporto con l’Altro. È un’apertura verso l’esterno di tipo cosmico, dal momento che l’autore fa sì che la sua poesia non rimanga incastrata nell’interpretazione tipica della poesia palestinese, legata alle vicissitudini di questo popolo e quindi di valore limitato alla contingenza, ma includa in sé il passato e il presente, l’Occidente e l’Oriente, rivolgendosi all’umanità intera nel racconto di esperienze e memorie universali.

A questo scopo, Joudah mette in opera nelle sue poesie un’elaborata ricerca linguistica che riguarda in particolare l’uso di vocaboli ad alto grado di specializzazione provenienti dall’ambito medico e naturale: l’autore crea così nel dettato poetico delle isole metaforiche sulle quali il lettore è spinto a soffermarsi e che contengono il significato ultimo del testo. Come nel linguaggio post-grammaticale di Pascoli, Joudah cerca la precisione per creare effetti di straniamento e significazione. La forte attenzione verso gli elementi fisici, naturali e corporali, viene dalla volontà dell’autore di mettere in scena la realtà come fatta di carne e sangue, universalmente segnata dalla malattia, dall’infermità e dai cicli di vita-morte. Il lavoro di Joudah si impernia quindi sul tema della sofferenza come luogo fisico e mentale che unisce i popoli, i generi, le specie e le persone; la storia di sradicamento, esilio e morte del popolo palestinese diventa il punto di partenza di un’interrogazione sulle modalità in cui la violenza, percepita come fatalità ineluttabile, si dispiega su tutte le creature terrestri, dalla natura martoriata dall’uomo ai popoli oppressi da guerre e sopraffazioni e costretti alla migrazione. Tutto questo avviene in prospettiva dialettica, in cui l’autore rifiuta la fissità delle risposte e decide di porsi tra «sfumatura e semplificazione» confrontandosi direttamente con il lettore, il “noi” che è il fine ultimo di queste liriche. Qui presentiamo alcune poesie del suo terzo e quarto libro di poesie, Footnotes in the order of disappearance (2018), e Tethered to stars (2021), scritto a cavallo della pandemia di Covid-19.


Da Tethered to stars, 2021

Gemini

After yoga, I took my car to the shop.

Coils, spark plugs, computer chips, and a two-mile walk

home, our fossilized public transportation, elementary

school recess hour, kids whirling joy, the all-familiar

neighborhood. And then another newly demolished house.

How long since I’ve been out walking? A message appeared

on my phone: an American literary magazine

calling for a special issue on Jerusalem, deadline approaching,

art and the ashes of light. At the construction site

the live oak that appeared my age when I became a father

was now being dismembered. The machinery and its men:

almost always men, poor or cheap labor, colored

with American dreams. The permit to snuff the tree

was legally obtained. The new house is likely destined

for a nice couple with children. Their children

won’t know there was a tree. I paused to watch

the live oak brutalized limb by limb until its trunk stood

hanged, and the wind couldn’t bear the place:

who loves the smell of fresh sap in the morning,

the waft of SOS the tree’s been sending

to other trees? How many feathers will relocate

since nearby can absorb the birds?

Farewell for days on end. They were digging a hole

around the tree’s base to uproot and chop it

then repurpose its life.

Gemelli

Dopo lo yoga, portai la macchina al negozio.

Bobine, candele d’accensione, chip di computer, e due miglia a piedi

per tornare a casa, i nostri trasporti pubblici fossilizzati, l’intervallo

delle scuole elementari, i bambini in un turbinio di gioia, il quartiere

così familiare. E poi un’altra casa demolita da poco.

Da quant’è che camminavo? Sul mio telefono

comparve un messaggio: una rivista letteraria americana

cercava contributi per un’edizione speciale su Gerusalemme, e la scadenza era vicina,

arte e le ceneri della luce. Nel cantiere

la quercia viva che sembrava avere la mia età quando divenni padre

veniva ora smembrata. La macchina e i suoi uomini:

quasi sempre uomini, manodopera a basso costo, povera, del colore

del sogno americano. Il permesso di estirpare l’albero dal suolo

era stato legalmente ottenuto. La nuova casa sarà probabilmente assegnata

a una cordiale coppia con figli. I loro bambini

non sapranno che lì c’era un albero. Mi fermai a guardare

la quercia viva brutalizzata ramo per ramo finché il tronco non rimase

esposto, e il vento non poté più tollerare il luogo:

chi ama l’odore di linfa fresca al mattino,

un SOS esalato che l’albero stava inviando

agli altri alberi? Quante piume si trasferiranno

potendo le vicinanze farsi carico degli uccelli?

Addio per giorni e giorni. Stavano scavando un buco

attorno alla base dell’albero per sradicarlo e tagliarlo a pezzi

poi rivenderne la vita.


House of Mercury

The storm funneled through town with destructive intent.

Fractured tree limbs, toppled fences, ripped shingles

like tufts of hair. Dad woke up to snaps and creaks,

the two live oaks in the front yard,

but in the backyard the nearly uprooted fig tree

brought him to tears. In the morning

two neighbors, one Black, one White

came over to bandage the oaks after debridement.

A third, an Indian, stabilized the fig tree,

pitched it like a tent with rope and stake.

On the second day, I cut up the rest of the branches,

deepened the earth for the fig, enjoyed a long lazy

lunch with my parents, and on the way home heard

a radio report on whether the sky is bluer

during a pandemic. The third day

I took my son and daughter back,

we bundled up the heaps, nursed the flower beds,

delighted in another languid lunch,

hummus, falafel, shakshuka

followed by tea and stories about fear

that comes to nothing. The kids said it was the best falafel

they’d ever had. And Mom said that going forward

her morning glories will get the light they deserve.

Casa di Mercurio

La tempesta attraversò la città con l’intenzione di distruggere.

Arti di albero fratturati, steccati abbattuti, tegole strappate

come ciocche di capelli. Papà si sveglio al suono di schiocchi e crepitii,

le due querce vive in cortile,

ma nel giardino dietro casa l’albero di fico quasi sradicato

lo fece piangere. In mattinata

due vicini, uno Nero, uno Bianco

vennero a fasciare le querce dopo lo sbrigliamento.

Un terzo, un indiano, stabilizzò le condizioni del fico,

lo piantò come una tenda con corda e pali.

Il secondo giorno, tagliai il resto dei rami,

sprofondai il fico nella terra, godetti di un lungo pranzo

pigro con i miei genitori, e sulla strada di casa sentii

un servizio radio sulla possibilità di un cielo più blu

durante una pandemia. Il terzo giorno

riportai a casa mio figlio e mia figlia,

legammo insieme i sacchi, badammo alle aiuole,

ci deliziammo con un altro languido pranzo,

hummus, falafel, shakshuka

seguiti da tè e storie sulla paura

che si dilegua. I bambini dissero che era il miglior falafel

che avessero mai mangiato. E mamma disse che d’ora in poi

le sue campanule avrebbero avuto la luce che meritavano.


Sandra Bland, Texas

On the highway home last night

you reappeared to me opposite where I was headed,

so tell me, was it

a cigarette that bothered your jailer so?

(They let me go the one time I blew smoke

into a trooper’s face.) In the footage

your final revolt. I stood before you

more than once, more than sex

and color separated us, and why

should you call a doctor kin. Sandra Bland,

we broke you down,

I say your name, how broke. You died

on the day the Hollywood sign

was dedicated. For you I name

this town, and after every woman

the police killed, a town.

*

Dear Sandra,

I just got done with hours

of Civil War documentaries. “Useless,

useless,” John Wilkes Booth said

of his hands as his final words. An echo

of Kurtz’s “horror.” The Civil War, it turns out,

set a standard for modern wars,

one century into another.

And as the Confederate commander

of Andersonville prison camp felt the noose

around his neck, he, too, said

he was merely obeying orders.

Armies said. The police said.

The doctor, triaging collaterals, said.

The historian, wanting us to be the greatest,

said. The Civil War is a pointer to

future liberation for all kinds of folk, a milestone

in which no clear victor emerges,

since time is the master to whom

even literature submits.

*

We have schools,

counties, forts, clinics,

and at one point a hospital

named after Jefferson

Davis in Texas.

We have nothing

named after you.

Will you excuse me,

Sandra, for naming a poem

an imaginary place that,

as with any home,

one doesn’t inhabit

all alone, even if

in a coffin one is

all that there is?

And one, not even,

and far more.

*

Which “we” is it I speak of? Those of us

who didn’t play a part in your disintegration know

that we play a part. Not all players even

the field. We’re a catalog that goes on like hypha.

If it is resuscitation I seek

through your citation

it isn’t resuscitation I seek. Your mother called you

Sandy and with countless others loved your smile

beyond my arithmetic of commemoration.

Sioux City, Tucson, Tuskegee, Seattle.

*

To persuade me that war is retribution

for unspeakable sins, a comeuppance, a bit

theological for me all this. But to think

of war as entropy’s work, order

and disorder in a waltz that sees

not the identities we historicize into chains

of absolute ghosts? How is it that

women (to mention one example) have always

suffered greater injustice, endured

more pain than men have,

what entropy is this

that singles out?

*

History has rendered this kind of math incalculable.

History manufactured out of and against our biology,

seduced as a dog is lured with a treat.

Between nuance and essentialization, I sing myself.

Between cost-benefit ratio and the unattainable

I see freedom in amendments I further amend.

Between my trauma and another’s passage,

speaking and the spoken for.

*

It’s clear you’re my pretext, Sandra, you were

an Aquarius (my dad’s as well). But do zodiacs exist

for birth into the underworld? If so, then on the date

your breath no longer tethered your body, you became

a Cancer, proliferative, this nation’s sign.

*

Under that sign, ten years before your murder,

I asked myself in Darfur, What is the threshold

for suffering to create us equal? It’s low

enough for anyone to dance the limbo

and stay on their feet the whole

song through, if we choose. I fear our twin

consciousness cannot hold. Our voodoo

and epigenetics, our quantum and wizards,

snakes and ladders. Yet my weakest faith

(when I remember it) is that I don’t visit

my grief upon those whose pain is more acute

than mine, or is chronic with more frequent flares.

Is there an equation to help me exempt

others from my loyalty oath to taxonomy,

a step in my deliverance from woe?

*

Nuance, too, competes with generality

for erasure, a visibility each mode can perform

well: where is that threshold?

So that prudent justice isn’t laundered

against the baler angels of our nature, Sandra,

I rise up from my apoptosis under

a cherry tree into an olive. What crimes

won’t I pardon or dissipate into energy

if suffering is folded in space-time?

Is our empathy’s nebula pacifist

or a ruse of the tongue sat in dentition?

I reckon the ten words in which Honest Abe

counted “the people” a trinity at Gettysburg

are what the Black Panthers heard.

*

Ms. Bland,

I also learned

that singularity

is achieved only

when one is torn

to irreconcilable

pieces, decomposed

six fathoms up,

down, lateral,

unflagged, indivisible,

undertow for all.

Ms Bland,

how much

of me is you

and you is we?

Sandra Bland, Texas

Sulla strada di casa la scorsa notte

mi sei riapparsa di fronte a dov’ero diretto,

allora dimmi, è stata

una sigaretta a far dare di matto il tuo carceriere?

(Avevano lasciato perdere quella volta che ho soffiato il fumo

in faccia a un soldato). Nel filmato

la tua ultima protesta. Siamo stati faccia a faccia

più di una volta, più di quanto il sesso

e il colore ci separassero, e perché

dovresti chiamare fratello un dottore. Sandra Bland,

ti abbiamo spezzato,

io dico il tuo nome, così spezzato. Sei morta

il giorno in cui il cartello di Hollywood

è stato inaugurato. Col tuo nome battezzo

questa città, e col nome di ogni donna

che la polizia ha ucciso, una città.

*

Cara Sandra,

vengo da ore di documentari

sulla Guerra civile. «Inutili,

inutili», John Wilkes Booth disse

delle sue mani come ultime parole. Un’eco

dell’«orrore» di Kurtz. La Guerra civile

ha definito lo standard per le guerre moderne,

un secolo dopo l’altro.

E mentre il comandante confederato

del campo di prigionia di Andersonville sentiva il cappio

attorno al collo, anche lui disse

che stava solo eseguendo gli ordini.

Gli eserciti dissero. La polizia disse.

Il dottore, diagnosticando garanzie, disse.

Lo storico sognando che siamo la più grande potenza

disse. La Guerra civile è un avviso

per la futura liberazione di ogni tipo di popolo, una pietra miliare

in cui non emerge un chiaro vincitore,

perché il tempo è il padrone a cui

anche la letteratura si sottomette.

*

Abbiamo scuole,

contee, basi militari, cliniche,

e a un certo punto un ospedale

che si chiama Jefferson

Davis in Texas.

Non abbiamo dato

il tuo nome a nulla.

Mi scuserai

per aver intitolato una poesia

a un luogo immaginario in cui,

come in qualunque altra casa,

uno non abita

tutto solo, anche se

in una bara uno è

tutto ciò che c’è?

E uno, neppure,

e uno, molto di più.

*

Di quale “noi” sto parlando? Quelli di noi

che non giocarono una parte nella tua disintegrazione sanno

che giochiamo una parte. Non siamo tutti giocatori ma anche

campo. Siamo un catalogo che si espande come un’ifa.

Se è la rianimazione che cerco

attraverso la tua citazione

non è la rianimazione che cerco. Tua madre ti ha chiamato

Sandy e con innumerevoli altri ha amato il tuo sorriso

al di là della mia matematica della commemorazione.

Sioux City, Tucson, Tuskegee, Seattle.

*

Persuadermi che la guerra sia retribuzione

per peccati ineffabili, un giusto castigo, un po’

teologico per me tutto questo. Ma pensare

della guerra come lavoro dell’entropia, ordine

e disordine in un valzer che non

vede le identità che storicizziamo in catene

di fantasmi assoluti? Com’è che

le donne (per dirne una) hanno

sofferto un’ingiustizia più grande, sopportato

più dolore degli uomini, che entropia è questa

che seleziona?

*

La storia ha reso questo tipo di matematica incalcolabile.

La storia fabbricata fuori da e contro la nostra biologia,

sedotta come un cane è attirato con un premio.

Tra sfumatura e semplificazione mi canto.

Tra il rapporto costi-benefici e l’irraggiungibile

vedo libertà in emendamenti che ulteriormente emendo.

Tra il mio trauma e il passaggio di un altro,

colui che parla e colui a nome del quale si parla.

*

È chiaro che sei il mio pretesto, Sandra, eri

un Aquario (come lo è mio padre), ma esistono gli zodiaci

per la nascita nell’aldilà? Se fosse così, allora nel giorno

in cui il tuo respiro non ha più legato insieme il tuo corpo, sei diventata

Cancro, proliferante, segno di questa nazione.

*

Sotto quel segno, dieci anni prima del tuo omicidio,

mi sono chiesto a Darfur, qual è la soglia

della sofferenza che ci fa uguali? È bassa

abbastanza per chiunque per ballare il limbo

e restare in piedi fino alla fine della

canzone se lo scegliamo. Temo che le nostre coscienze

gemelle non possano resistere. Il nostro voodoo

e l’epigenetica, il nostro quanto e i maghi,

gioco dell’oca. Eppure il mio dogma più debole

(quando me ne ricordo) è che non visito

il mio dolore presso coloro il cui dolore è più acuto

del mio, o è cronico con più frequenti fitte.

C’è un’equazione che mi aiuti a esentare

gli altri dal mio giuramento di lealtà alla tassonomia,

un passo in avanti nella mia liberazione dalla pena?

*

La sfumatura, pure, fa a gara con la genericità

per cancellare, una visibilità che entrambi i modi sanno performare

bene: dov’è quella soglia?

Perché la giustizia prudente non sia lavata e stirata

contro gli angeli-pressa della nostra natura, Sandra,

riemergo dalla mia apoptosi sotto

un ciliegio in un’oliva. Quali crimini

non condonerò o dissiperò in energia

se la sofferenza è ripiegata nello spazio-tempo?

È la nebulosa della nostra empatia pacifista

o uno stratagemma della lingua chiusa nei denti?

Immagino che le dieci parole con cui Honest Abe

contò «the people» in una trinità a Gettysburg

siano quello che le Black Panthers sentirono.

*

Ms. Bland,

ho anche imparato che l’eccezionalità si raggiunge solo

quando uno è lacerato

in pezzi irreconciliabili, decomposto

sei braccia verso l’alto,

verso il basso, di lato,

instancabile, indivisibile,

corrente di ritorno per tutti.

Ms. Bland,

quanto

di me sei tu

e tu sei noi?


Da Footnotes in the order of disappearance, 2018

Beanstalk

I was twelve when I asked my older brother about the clitoris. He told me it was a structure on the outside of a woman’s vagina that was the size of a chickpea. If you hold it between your fingers, he said, a woman instantly melts, and he made a soft gesture of rubbing his index finger and thumb together, as if he were dusting off flour after eating a piece of bread, or stroking the wing of a moth. He’d never seen one, I was sure of it, but I could sense he wasn’t lying. He’d felt one maybe in the stairwell of some building that wasn’t fully housed on the campus where we lived in Riyadh. He had a reputation for being a Don Juan, which got him in trouble with the local boys. But the size of a chickpea? When I went to medical school the dimension never left my mind. If his fingers were accurate, objective, not subject to the delirium of pleasure at fourteen, then there’s only one explanation: he must have encountered a girl with clitoromegaly. A cadaver had a large penis in our anatomy lab the first year of medical school. The tiniest woman in class, who went on to become a pathologist, could not get over the size of it. She kept saying, “Look at the size of it! How can that fit?” Two years earlier, while taking premed anatomy, when it was penis time, and the cloth was removed, I don’t know why I uttered these words under my breath: “So small yet so many troubles.” A classmate who was standing right behind me approached me after class to tell me she was moved by my remark. She had been a victim of rape. I was stunned. She wanted to talk. She told me she lived in a house in the middle of Nowhere Road, in Athens, Georgia.

Pianta di fagioli

Avevo dodici anni quando chiesi a mio fratello maggiore cos’era il clitoride. Mi disse che era una struttura all’esterno della vagina di una donna grande come un cece. Se lo tieni tra le dita, disse, una donna si scioglie all’istante, e delicatamente sfregò insieme l’ indice e il pollice, come se si stesse togliendo dalle mani la farina dopo aver mangiato un pezzo di pane, o accarezzando le ali di una falena. Lui non ne aveva mai visto uno, ne ero sicuro, ma capii che non stava mentendo. Ne aveva sfiorato uno forse nella tromba delle scale di qualche edificio sfitto nel campus dove vivevamo a Riyadh. Aveva la reputazione di essere un Don Giovanni, cosa che lo aveva messo nei guai con i ragazzi locali. Ma un cece? Mentre frequentavo la facoltà di medicina queste dimensioni non lasciarono mai la mia mente. Se le sue dita erano precise, obiettive, non soggette al delirio del piacere di un quattordicenne , allora c’era una sola spiegazione: aveva incontrato una ragazza con clitoromegalia. Il primo anno della facoltà di medicina, nel nostro laboratorio di anatomia c’era un cadavere con un pene molto grande. La donna più minuta della classe, che divenne poi una patologa, non riusciva ad accettarne la misura. Continuava a dire, «Guarda quant’è grande! Come fa a entrare?». Due anni prima, mentre seguivo anatomia in premed, quando arrivò il momento del pene, e fu rimosso il telo, non so perché dissi queste parole sottovoce: «Così piccolo eppure così tanti guai». Una compagna di classe che era dietro di me mi si avvicinò dopo lezione per dirmi che si era commossa per la mia osservazione. Era stata vittima di uno stupro. Rimasi sbalordito. Lei voleva parlare. Mi disse che viveva in una casa nel bel mezzo di Nowhere Road, a Athens, Georgia.

I gabbiani e l’acciaio. Su “La terra di ferro” di Pasquale Pinto

Nota di lettura a cura di Simone De Lorenzi.

La pubblicazione de La terra di ferro e altre poesie (1971-1992) di Pasquale Pinto, avvenuta lo scorso ottobre per i tipi di Marcos y Marcos, riempie più di un vuoto. Innanzitutto la scelta antologica, curata da Stefano Modeo, prosegue l’operazione portata avanti dalla casa editrice – cominciata nel 2019 con le Poesie scelte (1953-2010) di Luigi Di Ruscio – di riscoperta e divulgazione della cosiddetta “letteratura operaia”, il filone di testimonianze dell’esperienza di fabbrica che solo ultimamente sta ricevendo adeguata ricognizione critica. Ma soprattutto riporta alla luce un autore dimenticato e caratterizzato anche in vita da una certa marginalità; marginalità che può essere documentata anche solo scorrendo le sedi di pubblicazione dei suoi libri, usciti per edizioni minori (In Primo Piano, Pentapress) e atipiche (il Centro sociale Magna Grecia, l’Assessorato alla Cultura del Comune di Taranto e la Biblioteca della Provincia di Taranto); di una raccolta, Il parco depresso, non si è neppure a conoscenza della data di pubblicazione.

Pasquale Pinto (1940-2004), operaio alla Italsider di Taranto dal 1964 al 1990, scrive della propria esperienza di fabbrica, ma ancora prima scrive del Sud nel quale vive: l’esperienza operaia di Pinto in quella che ora è conosciuta come l’ex-Ilva ancora non si affaccia nei suoi primi versi, impegnati piuttosto a registrare le risposte della sua terra alle sollecitazioni del tempo. La Puglia di Pinto è animata da un’umanità semplice, sabiana (donne, uomini, vecchi e bambini che sono spose, vedove, madri, sorelle e figli; marinai, naufraghi, mendicanti e infermiere): «Era la vita / che cade umida nelle tasche / e s’avvicina ai moli / scalciando l’ombra dei muri». Sono figure ferite e abbattute, ma che emergono vive e presenti in queste pagine assai frequentate dalla morte: «Ho trovato giorni / che per la loro magrezza / volavano più in alto dei morti».

Pinto mette in versi quello che Simone Giorgino, nell’introduzione, chiama un «idillio incrostato di ruggine»: la sua voce non ignora la bellezza di una terra che, sulla via dell’industrializzazione, conosce profondi cambiamenti – tanto a livello paesaggistico quanto sociale e antropologico – e il dipinto della Taranto antica, magnogreca, si intreccia a quello della Taranto contemporanea. L’ambientazione principe di In fondo ad ogni specchio (1976) e Il capo sull’agave (1979) è infatti un paese indeterminato ma chiaramente meridionale, nel quale fa la sua comparsa una dimensione moderna che affianca, contrastandolo, l’idillio atemporale tarantino: «Ho visto in un market / crisantemi con rugiade artificiali / e garofani di plastica / turbarsi per l’odore di una mano»; «C’è una luna su una terrazza / ferita da programmi televisivi».

Ai consueti mitologemi paesaggistici delegati alla rappresentazione del Meridione, che giocano con il cliché senza impigliarsi nelle sue maglie – il mare, il sole, le piante, i gabbiani, la luna, i tramonti – affianca e sovrappone elementi che si è solitamente portati ad associare al Nord Italia urbano. Così il «cielo di vetro» e «piombo» tarantino non è dissimile dal «cielo contemporaneo […] colore di lamiera» o «d’acciaio» della periferia milanese ne La ragazza Carla di Pagliarani (e agli «ufficio a ufficio b ufficio c» frequentati dalla dattilografa fa eco la «portineria “A”» della fabbrica), mentre la vita tra gli altiforni è equiparabile agli «asettici inferni» della Pirelli messi in scena da Sereni in Una visita in fabbrica (non più, però, osservata dal punto di vista straniato del visitatore, ma testimoniata dal suo interno). D’altronde un operaio può essere, indistintamente, «forse del Nord / forse del Sud», perché l’esperienza restituita sulla pagina – che pure parte da un dato vissuto personalissimo – nelle sue coordinate di fondo è transregionale: ovvero, in un certo senso, universale.

È con La terra di ferro (1992) che entra a gran voce la denuncia operaia, già anticipata in alcuni Frammenti senza titolo del 1978. In uno scenario caratterizzato da alienazione, ripetitività e sfruttamento, la morte si fa concreta («Un giovane che gli lavorava accanto / è corso in un lavandino / a svuotargli / una scarpa di sangue») e non è più solo naturale o esistenziale. Attore del poemetto è un soggetto massificato («20.000 cartellini / attendono una stretta di mano / all’alba a sera a notte»), che resta generico anche quando individuato («Tu Walter / Tu Pino / e tu Mario / alla fine di ogni turno / ricompravate intatta la vita»; «Salvatore / classe ’41 / appendicite del ’57 / riaperta con un colpo / di tosse / su un lenzuolo rosso»). L’acciaieria non è però mai presa come luogo asettico chiuso in sé, è piuttosto in dialogo – per quanto negativo – con la natura esterna ad essa («Una gru / s’è capovolta sui binari. / […] / Su un fianco / il suo numero / si meraviglia / del cielo») a perturbare definitivamente quel che di idillico è rimasto nel paesaggio tarantino, in un’amara presa d’atto: «Più nessuno ha l’erba negli occhi».

Nonostante il doppio status di poeta e di operaio, Pinto non si sente latore di un mandato sociale e con lucida consapevolezza denuncia l’insufficienza della letteratura: «Non vi porto certezze. / (mai i poeti modificarono il sangue) / Ho solo da parlarvi sottovoce / con l’abito consunto di parole». Lungi dall’essere un intellettuale engagé, Pinto scrive per dare voce a un’esigenza innanzitutto privata, ma che può diventare solidaristica condivisione di esperienze altrui: «Chi parlerà di voi uomini rossi / senza età senza bestemmie? / Chi parlerà dei vostri Natali / accanto alla ghisa lontano dai canneti / ove vivono gli ultimi gabbiani? // Pasquale Pinto è solo un uomo / costantemente denunciato / dai rivoli delle vostre fronti».

Lo stile di Pinto, in bilico tra andature narrativo-prosastiche e soluzioni liricheggianti, incorpora diverse suggestioni: alterna dizioni crude («Un fusto è scoppiato in acciaieria / come una palla d’acciaio / su un birillo di carne») e delicate («I bimbi mettono in equilibrio il primo mamma / sulle corde delle ugole»), pronunce sentenziose ma senza gravità («La folla ha sempre studiate miopie / per gli uomini che si amano») e scalfitture ironiche («I suoi figli hanno pantaloni / appena sopra le ginocchia / a 8 anni / hanno già letto / tutto Fleming»). È una poesia legata alla materialità («sguardi di vetro», «porcellana di mattini», «morti di ferro», «piombo dei tramonti», «vetri di luna», «lamiere di burro») e ai colori, che mescola tinte dal significato multiplo: il giallo è del sole ma anche della ghisa, l’azzurro del mare e del cielo ma anche dei vetri taglienti e il rosso può indicare tanto i tramonti quanto il sangue.

Nonostante la sostanziale marginalità dell’autore all’interno del panorama letterario, Pinto era in dialogo con autori e critici del tempo: due liriche sono indirizzate a Giorgio Caproni e Giacinto Spagnoletti, tra gli esegeti che intercettarono il valore della sua poesia. Il merito del lavoro di Stefano Modeo sta anche nell’aver sopperito, almeno parzialmente, all’accessibilità dell’opera di un autore i cui scritti restano ancora adesso di difficile reperimento nelle biblioteche al di fuori della Puglia; l’auspicio è quello di riportare l’attenzione anche critica su una figura che – bastano i frammenti testuali qui presentati a mostrarlo chiaramente – sarebbe limitante incasellare sotto l’etichetta di “poeta operaio”.


Da In fondo ad ogni specchio (1976)

C’è una nudità di rami

C’è una nudità di rami
che cerca il suo sangue in un tramonto
e piume ancora calde
di uccelli senza nome

C’è un paese rotto dal vento
una porcellana di mattini immobili
che corrono sulle ringhiere dei ponti

Ed una madre
ha ripulito gli spigoli del volto
per sorreggere il figlio lontano

Da Il capo sull’agave (1979)

Ho un cuore dalla rilegatura antica
che cerca la sua polvere in una pagina.
Ma forse ho solo parole
per dare ad ogni morto il suo nome.
Mi salvarono talvolta le tue mani
che da sole bastavano
a sorreggere il piombo dei tramonti.
Io parlo
per tutte le foglie cadute sulla terra
per tutto il sangue sceso nei chiusini
e per tutti i morti
che si lamentano dell’urina nelle mani.

Da La terra di ferro (1992)

[…]
Nelle officine i saldatori inveiscono nelle pupille
e sulle lamiere di burro.
A tutte le ore si prepara una squadra.
Il tempo fa fagotto ogni ora
si appartiene ad uno stesso
sudore.
[…]
C’è un operaio
classe 1922
che scarica pacchi
da 40 anni.
[…]
Sud mio sud
ove t’hanno portato
i riverberi delle colate?
[…]
Mentre l’estate si suicida nel sangue dei papaveri
una testa è rotolata
su un traversino ferroviario
i capelli in ordine
una ruga improvvisa di taglio sui binari.
[…]


Stefano Modeo (Taranto, 1990) vive e lavora come insegnante a Treviso. Ha esordito nel 2018 con La terra del rimorso (Italic Pequod). Compare nelle antologie Abitare la parola – Poeti nati negli anni ’90 (Ladolfi editore 2019) e I cieli della preistoria. La nuovissima poesia pugliese (Marco Saya 2022). Fa parte della redazione della rivista di poesia «Atelier», del blog «Universo poesia – Strisciarossa» e si occupa di poesia italiana contemporanea per la rivista di critica letteraria norvegese «Krabben – Tidsskrift for poesikritikk».

Oltre a La terra di ferro e altre poesie di Pasquale Pinto, nel 2023 ha curato l’antologia di Raffaele Carrieri Un doppio limpido zero (Interno Poesia) ed è comparso nel sedicesimo volume dei Quaderni italiani di poesia contemporanea editi da Marcos y Marcos. Di recente per l’Almanacco de Lo Spazio letterario ha risposto alle domande di In teoria e in pratica, l’inchiesta a cura della nostra rassegna di poesia contemporanea Raggi γ.

“Agarrate bien, que vienen curvas”. La katana di Gata Cattana contro la violenza sistemica

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Kamelia Sofia El Ghaddar, vincitrice della call for translators “Poesia e Violenza”.

“Una punky che cantava Flamenco ad Adamuz” La Gata, Ana Sforza, Ana tout court, sono solo alcuni degli appellativi di Gata Cattana, ciascuno a evidenziare una brillante sfaccettatura delle sue doti artistiche e della sua poliedrica personalità creativa. Poetessa, cantante, rapper, politologa e femminista andalusa, Ana Isabel Garcia Llorente nasce ad Adamuz, comune di circa 4500 abitanti a Cordoba, in Andalusia, nel giorno 11 maggio 1991.

Andalusista convinta, fa della sua breve, ma intensa produzione poetica e musicale uno strumento di critica feroce, sovversione e rivendicazione contro ogni tipo di violenza poiché l’oppressione sistemica che Gata Cattana subisce, come donna del Sud immersa in una realtà capitalista, antimeridionalista e etero-patriarcale, la costringe in una condizione subalterna. La poesia di Ana si fa attraversare da un’esperienza del mondo ed una conoscenza fortemente situate, veemente e carnale è il prodotto di una forte connessione con la terra di provenienza. Quella terra retrograda e sottosviluppata che è l’Andalusia agli occhi del Nord, che si manifesta nei testi della poetessa nel grande uso di variazioni linguistiche e di registro. Ana non ha paura di essere considerata una malhablá (malparlante), sfoggia con fierezza i suoni di una lingua che si discosta dal castigliano, ovvero lo spagnolo standard e scambia, smonta, accorcia, tronca, ribalta sillabe e parole come fa con la violenza dei pregiudizi nei confronti del Sud della Spagna e del mondo.

La passione che ribolle negli scritti di Ana, recitati in tanti luoghi pubblici, privati, politicamente connotati e non, è quella di una figura che sceglie di guardare l’ingiustizia negli occhi e combatterla con violenta grazia. Sono molti i riferimenti a figure femminili emblematiche della storia greca, romana, egizia. A partire dal passato e sempre orientata verso Sud, Ana si impegna a delineare una genealogia di donne dal carattere sovversivo e anticonformista rispetto ai costumi dell’epoca. Nonostante gli elementi che compongono l’immaginario della poetessa siano carne che si disfa, corpo, mani, terra, pane, sangue, dissanguarsi, l’intento politico dell’autrice è quello di trascendere i confini del verbo e del corpo per combattere l’universalità della violenza. Ana Sforza era il suo io più introspettivo, ma Gata Cattana, come afferma lei stessa, “è la guerra”. I riferimenti alla violenza sono molteplici, come quella incarnata da Salomè, l’energia erotica di Satine, Femme Fatale, come la bellicosità di Atena. La vita del capitalismo occidentale è la moderna schiavitù di “Como Amana Los Pobres”, dove i sogni sono frustrati dai padroni. Si tratta sempre di violenza, come nell’esclusione delle donne dallo spazio pubblico, nella sessualizzazione e nella colonizzazione operata nell’imperialismo che Ana vuole vedere crollare, dopo aver sparso sangue in “Teodora, Agripina, Satine, Medusa, Salomè”. La parola, la poesia che costringe ad investigare nell’Io e a condensare l’universo in poche righe sono (anch’esse) violente.

L’eredità che Ana Isabel ci lascia il 2 marzo 2017 a Madrid quando muore di shock anafilattico all’età di 26 anni è quella di un’agitatrice culturale, appassionata di mitologia greca il cui impegno contro la violenza patriarcale, razzista, capitalista è stato sferrato a colpi di rime a penna, la sua katana. Il messaggio imperituro di Gata Cattana nei tre album musicali autoprodotti di cui l’ultimo postumo, una raccolta di poesie autoprodotta La Escala de Mohs (2016) in seguito ripubblicata da Aguilar nel 2019, un’opera postuma No Vine a Ser Carne (2020) la rende eterna. Il carattere intertestuale dei testi di Ana accende la sua lotta contro la violenza ancora attiva. Ana Isabel non c’è più, ma Gata è qui con noi che siamo armate di Cattana.

Un ringraziamento di cuore ad Ana Llorente, madre dell’autrice e Mónica Adán, editrice per la fiducia e la disponibilità.


Da La Escala de Mohs (Aguilar, 2019)

CON LAS MANOS

No aman de igual forma
los ricos y los pobres.

Los pobres aman con las manos
Los pobres aman en la carne y con gula,
en las peores estampas,
en condiciones famélicas
y con todo en su contra.

Los pobres aman sin bonitos decorados.
Entienden de lunes y de tedios domingueros
y de gastos imprevistos de facturas
y de angustias que embisten, mes a mes, a quemarropa.

El amor de los pobres no sale por la ventana
aunque el dinero entre por la puerta
(que nunca entra)
(aunque no haya ventanas).

Los pobres han aprendido
a amarse a oscuras por eso mismo.
Han aprendido a amarse malalimentados,
malvestidos, malqueridos,
porque el hambre agudiza el ingenio
y en sus jardines también crecen las flores
(aunque no haya jardines).

Los pobres han aprendido a aprovechar los vis a vis
entre jornada y jornada de trabajo
(aunque no haya trabajo)
y saben darse placeres nunca tasados,
de valor incalculable,
y han aprendido a disfrutar las circunstancias
y la sopa de sobre,
el viejo colchón y la cuesta de enero.

Y parece que su amor se yergue
indestructible a pesar de;
a pesar de las miles de plagas,
de los sueños frustrados
y fracasos andantes,
de las crisis cíclicas
y de hambrunas
y de guerras,
más valiente que Heracles,
más Odiseo que Odiseo.
Y parece que su amor se extiende
y se multiplica
al ritmo que se multiplican los pobres,
al ritmo que se multiplican los infortunios
y los desastres naturales que golpean siempre
en las casas de los pobres.

Y ese amor está a la altura de Urano,
a la altura de Urano y de Gea juntos,
y es la única arma que tienen los pobres
para defenderse.

Por eso han aprendido a cultivar flores
y a cantar bien sus penas,
y han inventado las mejores obras
y los mejores instrumentos.
Por eso entienden de arte
y saben encontrarlo donde lo haya,
aunque no lo haya,
(que siempre lo hay).

Y han aprendido a aprovechar el carisma
y la jerga,
y a escribir poemas inmortales
sobre amores complicados,
y saben de cosquillas,
y saben de boleros,
y saben de desnudos
y de darlo todo,
que no es más que lo puesto:
las manos y la lengua,
la forma de otear al horizonte
y los cánticos en contra del patrón.

Yo siempre he amado de esta manera.

Yo te amo como aman los pobres,
y me temo
que durante mucho, mucho tiempo
esto seguirá siendo así.


CON LE MANI

Non amano allo stesso modo
i ricchi ed i poveri.

I poveri amano con le mani
I poveri amano nella carne e con ingordigia,
negli scenari peggiori,
in condizioni fameliche e con tutto contro.

I poveri amano senza bei fronzoli.
Ne sanno di lunedì e di accolli domenicali
Di spese improvvise di fatture
e di angoscia che si infrange, mese dopo mese, a bruciapelo.

L’amore dei poveri non esce dalla finestra
nonostante il denaro entri dalla porta
(che poi non entra mai)
(anche quando le finestre non ci sono).

I poveri hanno imparato
ad amarsi al buio proprio per questo.
Hanno imparato ad amarsi malnutriti,
malvestiti, mal amati,
poiché la fame acutizza l’ingegno
e anche nei loro giardini crescono i fiori
(anche quando i giardini non ci sono).

I poveri hanno imparato a sfruttare gli incontri di sfuggita
tra una giornata e l’altra di lavoro
(anche quando non c’è il lavoro)
E sanno darsi piaceri mai tassati,
dal valore incalcolabile,
e hanno imparato a godere delle circostanze
della zuppa avanzata,
il vecchio materasso e il rincaro a gennaio.

E pare che il loro amore si erga
indistruttibile nonostante;
nonostante le migliaia di piaghe,
i sogni frustrati
i continui fallimenti,
le crisi cicliche
le carestie
le guerre,
più coraggiosi di Eracle,
più Odisseo che Odisseo.

E pare che il loro amore si estenda
e si moltiplichi
nella misura in cui si moltiplicano i poveri,
Nella misura in cui si moltiplicano gli infortuni
ed i disastri naturali che colpiscono sempre
le case dei poveri.

E quell’amore è all’altezza di Urano,
all’altezza di Urano e Gea insieme,
ed è l’unica arma che i poveri abbiano
per difendersi.

Perciò hanno imparato a coltivare fiori,
e a canticchiare bene le proprie pene
e inventarono le migliori opere,
i migliori strumenti.
Perciò ne sanno di arte
e sanno scovarla ovunque sia,
anche quando non c’è
(che poi c’è sempre).

Ed hanno imparato a sfruttare il carisma,
il gergo,
scrivere poesie immortali
di amori complicati,
e ne sanno di solletico
e di canti popolari
di nudità
e di cedere tutto,
che non è niente più di ciò che hanno addosso:
le mani e la lingua,
il modo di scrutare l’orizzonte
ed i cori contro il padrone.

Io ho sempre amato così.

Io ti amo come amano i poveri,
e temo
che per molto, molto tempo
continuerò ad amarti così.


DESAPARICIONES

Escribo desapariciones
Me deshago
me deshilacho por todas
las extremidades.

Me desprendo de la carne,
me miro de lejos,
me desato de la gravitas
y sacrifico la lengua y la voz,
el olfato;
me mato el nervio.

Sólo es una forma de descoserse,
de desencontrarse,
de desangrarse.
Tal vez la mejor forma de desangrarse,
pero no más.
Fue un desastre aprenderlo,
un des-lastre.

¡Qué desilusión! ¡Qué desidia!
¡Qué desamparo absoluto!

Si yo sólo gobernaba la palabra;
si mi templo, la palabra,
y más epístolas que San Pablo,
si yo purita oratoria y huesos,
si sólo discurso y polémica,
y de tanta retórica
y tanta dialéctica se volvió inocua,
perdió el sentido y el significado,
y yo misma asistí a su entierro
sin sentirme una pizca culpable.

Entre todos la matamos
y ella sola se murió.

Sólo se escribe lo que no está,
lo que ya no queda,
lo que es necesario apuntar
porque se olvida.

Yo solía utilizarla para inventar rutas y puertos,
de mensajes en botellas de ornamento y armamento,
de batallas y manuscritos para mis nietos.

Ahora sólo me deshago.
Escribo desapariciones.
La utilizo como si fuera Krökodil.
Me utiliza, me disuelve,
me desvincula,
pero sólo es un remedio paliativo,
como la religión.

Lamentablemente,
sólo es otra forma de descoserse,
de desangrarse.
Tal vez la mejor.


SCOMPARSE

Scrivo scomparse
Mi disfo
Mi sfilaccio da ogni
Estremità

Mi disfo della carne
Mi guardo da lontano
Mi sgancio dalla gravità
E sacrifico lingua e voce,
l’olfatto
mi ammazzo il nervo.

È solo un modo di scucirsi,
Disconoscersi,
dissanguarsi.
Forse il modo
Migliore di dissanguarsi
Ma nulla più.
Capirlo fu un disastro
Sgretolarsi un peso di dosso.

Che disillusione! Che disincanto!
Che disperazione assoluta!

(Ed) io che dominavo solo la parola,
il mio tempio, la parola,
e più lettere che San Paolo
io che ero solo pura orazione
e ossa
che ero solo discorso e polemica
a causa di tanta retorica
e tanta dialettica diventò innocua
perse il senso e il significato
e io stessa assistetti alla sua sepoltura
senza sentirmi un briciolo colpevole.

Insieme la ammazzammo
Lei sola morì

Si scrive solo di ciò che non c’è
Ciò che non rimane,
ciò che è necessario segnare
perché si dimentica.

Io la usavo di solito per inventare percorsi e porti
Messaggi in bottiglia di ornamento e armamento,
di battaglie e manoscritti per i miei nipoti.

Ora solo mi dissolvo
Scrivo scomparse
La uso come se fosse Krokodil,
Mi usa, mi dissolve
Mi svincola,
ma è solo un rimedio palliativo
come la religione

Sfortunatamente
È solo un modo come un altro di scucirsi,
di dissanguarsi.
Forse il migliore.


TEODORA, AGRIPPINA, SATINE, MEDUSA, SALOME

Yo hubiera sido la puta suprema,
la Satine,
la Agripina,
nunca Penélope, esa no.
Yo no mato bajito
ni tengo tanta paciencia.
No me quedo esperando.
Yo hubiera sido Teodora de Bizancio,
Olimpia de Epiro, la madre de Alejandro,
la neurótica, la loca Juana
y la violenta Salomé.
Hubiera corrido la sangre, carajo,
habrían caído los imperios.
Que se joda Agamenón.
Que se calle el César cuando hable Cleopatra,
igual que calla Tutmosis cuando habla Hatshepsut;
la primera de las nobles damas,
la faraona de las dos tierras
por designios de Amor.
Yo hubiera sido Evita,
no por la sonrisa abierta y diplomática,
no por la apariencia sofisticada y elegante,
sino por el pico de oro, la estrategia,
la estrategia Robin Hood y espontánea.
Yo hubiera sido Atenea,
por los ojos garzos
y la prepotencia;
por la beligerancia.

TEODORA, AGRIPPINA, SATINE, MEDUSA, SALOME

Io sarei stata la puttana suprema,
Satine,
Agrippina,
Penelope mai, quella no.
Io non mi muovo nell’ombra
E non ho quella pazienza.
Non rimango ad aspettare.
Io sarei stata Teodora di Bisanzio
Olimpia di Epiro, la madre di Alessandro
La nevrotica, Giovanna La Pazza,
la violenta Salomè.
Avrei versato sangue, diamine
Sarebbero crollati gli imperi.
Che si fotta Agamennone.
Che stia zitto Cesare quando parla Cleopatra
Come tace Tutmosis quando parla Hatsheput
La prima delle nobildonne
La faraona delle due terre
Per volere di Amore.
Io sarei stata Evita,
non per il sorriso aperto e diplomatico,
né per il portamento sofisticato ed elegante,
bensì per la lingua di velluto, la strategia
la strategia spontanea alla Robin Hood.
Io sarei stata Atena,
per gli occhi celesti
e la prepotenza;
per la belligeranza.


ENGAÑO

Podría bañarte ahora mismo
De palabras pantanosas y cínicas
Y conducirte a mi tela de araña,
pasito a pasito, haciendo que
disfrutes del cebo y que relamas
el jugo que rezuma
la herida
que ha de matarte.


INGANNO

Potrei cospargerti proprio ora
Di parole paludose e ciniche
E attirarti nella mia ragnatela
Passo dopo passo, lasciando che
ti goda l’esca, che assapori
Il nettare espulso
Dalla ferita
Che ti sarà mortale.

Copertina de La Escala de Mohs di Gata Cattana (Aguilar, 2019)
La Escala de Mohs di Gata Cattana (Aguilar, 2019)

In teoria e in pratica | Marco Simonelli

Le risposte di Marco Simonelli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Devo confessare che ogni mio libro ha avuto un processo di costruzione diverso. Per quanto riguarda il mio ultimo libro, Bestiario, ho deciso a priori di utilizzare una doppia quartina a rima incatenata: l’idea alla base è quella di sperimentare il più possibile all’interno di una forma fissa. La decisione di scrivere sugli animali è avvenuta in ambito laboratoriale: da vent’anni ormai tutti i miei testi sono presentati a uno sparuto gruppo di amici-lettori competenti che arricchiscono il processo compositivo con interpretazioni e consigli. Mi riesce difficile parlare di maestri di costruzione, credo che sia l’opera stessa a dettare modalità ed esigenze espressive, credo si debba principalmente desumere le necessità dell’opera dall’opera stessa. Come dicevo, ho sperimentato diversi approcci compositivi e diversi metri: in Palinsesti giocavo con la metrica e personaggi televisivi in disarmo, Will era un canzoniere di sonetti elisabettiani, Firenze Mare era composto da poemetti fra l’elegiaco e il confessionale. Adesso sto ultimando quella che io chiamo la mia trilogia metrica, iniziata con Litania nervosa e proseguita con Bestiario. Attualmente sto lavorando alla stesura del terzo pannello. Sono pronto a scommettere che, una volta terminata, mi imbatterò in altre forme e altri contenuti ma ora non riesco a prevederli. Se dovessi dare un consiglio sulla costruzione interna di un’opera suggerirei di stare con l’idea principale il più possibile, estraendo da una visione anche vaga dell’insieme quanti più dettagli possibili, usando molto la fantasia per coprire i vuoti, senza aver paura di arrivare all’insignificanza: sono rischi che vanno corsi.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Leggere un libro di poesie come un diario intimo è pericoloso: si rischia di sovrapporre la persona dell’autore all’io monologante, scambiare un pronome per un individuo. C’è gente che se ne innamora. Siamo consapevoli della dose di fiction necessaria a costruire un io convincente sulla pagina, persino i maestri del confessional americano (Plath, Sexton, Lowell) stabilivano una distanza fra l’io poetante e l’io anagrafico. Tuttavia non credo che la finzione o l’invenzione siano attributi necessari allo scrivere in versi: la poesia non inventa, scopre. Scopre territori a volte inesplorati, scopre fenomeni umani complessi, scopre la stessa lingua di cui si compone. Nella mia scrittura l’uso dell’io è riservato alle prosopopee. L’invenzione potrebbe essere una rampa di lancio ma non è mai un punto di arrivo.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Ho esordito con un paio di plaquette fra loro molto diverse, avevano una certa grazia ma erano comunque derivative, troppo influenzate da scritture forti che all’epoca esercitavano su di me un innegabile fascino. La mia voce ha cominciato ad avere una sua fisionomia più definita con Sesto Sebastian – Trittico per scampata peste, un poemetto ideato per essere letto ad alta voce (quindi scrittura-per-pubblico). Fu il mio coming out poetico col quale prendevo un poco le distanze da quanto c’era stato prima e stabilivo alcune costanti della mia scrittura come l’utilizzo della metrica, l’ironia mordace, il prevedere un ascolto. Come ho detto prima, tutti i miei testi da vent’anni a questa parte sono ascoltati e discussi da un gruppo laboratoriale che ormai conosce stili e stilemi delle altrui scritture. Se un testo non ha mordente, lo si individua e sopprime in poco tempo. Alle volte un testo può miracolosamente resuscitare grazie all’aiuto e ai suggerimenti del gruppo. Per quanto riguarda un pubblico più vasto – stiamo parlando del famoso pubblico della poesia, vale a dire i poeti stessi – mi interessa sempre ciò che hanno da dire qualora si siano dati la pena di leggere. Sono sempre pronto ad ascoltare. Come sono sempre pronto a seguire poi una strada che porta altrove.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Mi ispirerei a una performance di Marina Abramović: legherei il poeta alla sedia e permetterei al pubblico di interagire con lui tramite una serie di oggetti a disposizione che possono dare piacere o dolore: una piuma, un martello, una rosa, del cotone, un coltello, del miele, una pistola… Se il poeta sopravvive alle pulsioni del pubblico allora potrà leggere qualche poesia.

Galassie

Racconto di Deborah Guarnieri.

La catenina d’oro che suo padre portava al collo al momento dell’incidente la madre gliel’aveva infilata nella borsa in camera mortuaria, poco dopo che il medico di famiglia le aveva infilato nella stessa borsa un flaconcino di gocce che la sua migliore amica aveva definito non proprio omeopatiche. Avrebbe potuto girarla due volte attorno alla caviglia per farci una cavigliera, tre volte attorno al polso per farci un braccialetto, ma aveva preferito conservare la catenina lì, sul fondo della borsa.

Per la città era un periodo brutale, la violenza assopita si risvegliava ciclicamente, si sollevava dall’asfalto come il miasma di una pestilenza. Si finiva accoltellati sul viale per una carta di credito o per goliardia. Ogni volta assumeva una forma diversa e quella era la volta dei coltelli e del sangue. Accadeva di notte quindi si scoraggiava la vita notturna. Questa, l’unica misura adottata. Per lei non era un problema, per lei non era un problema niente. Lei ora la notte dormiva. Usciva per comprare le gocce, usciva per andare dalla psichiatra a farsi prescrivere altre gocce. Dal fondo della borsa la catenina la fissava con occhi di biscia.

Sperimentava da settimane, testava una quantità sempre differente, guardava le meduse dissolversi nell’acqua poi andava a rannicchiarsi sul letto, sopra il lenzuolo, aspettava che l’intonaco bianco del muro si espandesse in uno spazio infinito intorno al suo corpo, una nuvola di ovatta che la avvolgeva al punto che non vedeva più niente se non quel bianco accecante. Prima di ogni nuova prescrizione la psichiatra le domandava a cosa pensasse durante quei pomeriggi che trascorreva distesa e lei rispondeva: a niente, mangiava il minimo essenziale perché l’annebbiamento non si dissipasse, perché la nuvola di ovatta al massimo si sfilacciasse. Dalla finestra della cucina osservava la luce assumere il colore e la consistenza dell’albume dell’uovo, appollaiarsi sui rami addensata in blocchi cubici. Si accorgeva del calo dell’effetto dal sopraggiungere di una visione, un tunnel, lei camminava in questo tunnel, doveva essere un tunnel lunghissimo perché le pareti non convergevano mai verso l’occhio giallo dell’uscita. Mentre vagava in quella foschia lo aveva incontrato, lui era nero, tutto nero, le iridi nere si confondevano con le pupille. Si erano guardati e si erano riconosciuti, si erano visti attraverso immediatamente; toccandosi, avevano trovato conferme. Insieme si sarebbero saziati. Insieme sarebbero stati invincibili.

Mangiavano caramelle schifose perché i denti non si sarebbero cariati, non dormivano perché non avrebbero sentito stanchezza. Lei non era tornata più a casa, non aveva più bisogno di una casa. Fumavano e i polmoni non sarebbero anneriti, fumavano in continuazione e se la passavano, se la poggiavano l’un l’altro sulle labbra, sputandosi nella bocca si scambiavano la saliva. Si fermava a scrutarlo per cercare di capire se le piacesse davvero la sua faccia, ma non era la bellezza del corpo, qualche pura simmetria a ispirarli; era il fatto che la sua figa fosse piccola e calda e il suo cazzo sempre duro, che le mani di lui, prima o poi, dovessero ritrovare le sue cosce, quelle mani grandi che le lasciavano galassie nere verdi e viola, quelle mani grandi che la picchiavano e quel cazzo duro che la fotteva fino allo stremo, fino a quando non restava che il suo involucro da usare, mentre lei trapassava, si elevava in quello stato beato della semi-incoscienza.

Si erano stabiliti in un buco di quaranta metri quadri con poche finestre non esposte a est, frigido come uno scantinato, avevano preso a uscire soltanto di notte perché la luce non guastasse il loro ordine. Il giorno impone le proprie leggi mentre la notte si può plasmare. Si addormentavano, non era cosa voluta ma una conseguenza, l’apice dell’amplesso e della perdita di coscienza, lo facevano per ore, le sue mani sul torace, tutto il suo peso premuto sul torace, quando lei rinveniva, se faceva buio, uscivano, vagavano per la città perché i piedi non avrebbero fatto male, i calli non sarebbero spuntati, anche se lei portava sempre stivaletti con il tacco quadrato, i piedi non facevano mai male.

Più volte era successo che, tornati a casa, lei sfilasse lo stivaletto e trovasse il sangue. Sangue secco impregnava le calze e la pelle intorno alle unghie. Era sempre il piede sinistro a sanguinare. Dopo le botte, le galassie nere verdi e viola comparivano a sinistra, dopo le sberle era l’occhio sinistro ad andare, per un istante, fuori fuoco. Ricordava una visita dal ginecologo, poco dopo averlo conosciuto, crampi da sudori freddi l’avevano assalita all’inguine sinistro, e giù per tutta la gamba sinistra, il ginecologo le aveva infilato la sonda e le aveva comunicato che a ovulare era stato il suo ovaio sinistro. Il male si insinua sempre a sinistra. La destra è di Dio.

A tratti la folgorava il pensiero che stesse succedendo qualcosa alla sua parte sinistra ma lo ignorava. Se fossero rimasti insieme lei non sarebbe marcita. Era tornata a vedere i colori, grazie a lui, grazie a loro insieme vedeva a colori e non più il bianco accecante, e non più il tunnel. I colori della notte e delle galassie non la ferivano, non erano invadenti, squillanti, la notte nella città era nera, rosso carminio e verde scuro, soprattutto verde scuro, verde muschio, la notte nella città era gocciolante e frigida come lo scantinato, così che nemmeno lo sbalzo di temperatura li poteva colpire. Il sottopassaggio della stazione era il posto più umido della città. Aveva quell’odore di tessuto bagnato asciugato male, e macchie di piscio, e un rimbombo da latrina. Era un posto da evitare. Si circumnavigava il quartiere, pur di non passarci. Forse, erano da attribuire a quell’umidità i miasmi della violenza.

Aveva capito subito che qualcosa non andava perché il sottopassaggio era giallo e verde acido. Ascoltava i loro passi, i suoi tacchi quadrati e pensava che se stavano insieme non sarebbe successo niente, siamo insieme e non ci succederà niente, e gli strizzava la mano. Erano usciti con il buio, come al solito, come sempre, avevano seguito la corrente e la musica che trascinava, aveva piovuto e i marciapiedi luccicavano, avevano svoltato due o tre angoli ma la musica proveniva dall’altra parte dei binari, al di là dell’edificio della stazione, non potevano vederla, potevano solo sentirla. Il sottopassaggio era la via più breve, lui aveva detto: due minuti e saremo di là, due minuti, che saranno mai due minuti, bastava trattenere il respiro prima di entrare, sarebbe riuscita a trattenerlo due minuti. Ma quel giallo e il verde acido incrinavano la bolla, stavano forando la loro bolla, crick, un uovo che si buca, aveva accelerato il passo perché la bolla non si crepasse, continuando a trattenere il respiro, se siamo insieme non ci succederà niente, ma dovevano uscire, non le piaceva restare nel tunnel, lì le pareti convergevano verso l’occhio dell’uscita quindi dovevano uscire, tornare ai colori rassicuranti della notte. Rosso carminio, verde scuro, verde muschio. Erano lì che li aspettavano.

Era lì che li aspettava. Stava appoggiato al muro e lo avevano superato fingendo che non ci fosse. Avevano visto quel che c’era da vedere: un uomo macilento, ma un telaio agile, nervoso. Li aveva attaccati alle spalle.

Lui gli aveva sferrato un pugno, sapeva quanto le sue mani potessero far male, era lei a chiederlo: di più di più. Lo aveva messo a terra e gli si era seduto sopra. L’aveva guardata. Non aveva detto niente ma lei aveva sentito è il tuo turno. Quegli occhi neri nerissimi le stavano lasciando il posto. I colori della città erano baluginati nei suoi, tutti mescolati, cerchietti vorticanti, no non glielo avrebbero portato via, aveva alzato il piede, aveva sbattuto le palpebre, no non le avrebbero tolto anche lui, aveva affondato il piede, il tacco quadrato nello zigomo, no non avrebbe perso anche lui, l’uomo macilento aveva spalancato la bocca nel tentativo di morderle la caviglia, non voleva tornare nel tunnel, aveva alzato, affondato, di nuovo alzato, affondato, aveva sentito le ossa spezzarsi sotto il tacco quadrato. L’uomo era rimasto immobile con la bocca spalancata, la mascella frantumata. Da allora non erano più stati visti. La notte erano rientrati nel buco e si erano seduti sul letto; a gambe incrociate, lui, in ginocchio, lei, dietro di lui. Aveva afferrato la biscia dal fondo della borsa. Aveva chinato la testa e gli aveva annusato i capelli, la nuca, il collo fino all’orlo della maglietta. Sì, era umido, ora, quell’odore umido di sudore dimenticato addosso. Aveva portato il naso sopra la spalla, aveva inspirato, su di sé non riusciva a sentirlo ma era sicura di avere addosso anche lei, ora, quell’odore, l’umidità. Aveva sollevato la catenina d’oro, le estremità tra pollice e indice, gliel’aveva posata sul petto, aveva chiuso il fermaglio dietro il collo.

Le radici della violenza sulla punta della lingua: Eva Maria Leuenberger

Introduzione e traduzioni dal tedesco a cura di Dafne Graziano, vincitrice della call for translators “Poesia e Violenza”.

Eva Maria Leuenberger (1991) è nata a Berna e attualmente vive a Bienne. È stata finalista al concorso «open mike» di Berlino nelle edizioni 2014 e 2017 e vincitrice del premio «Weiterschreiben» della città di Berna nel 2016. Nel 2019 ha pubblicato per la casa editrice Droschl dekarnation, la sua prima raccolta di poesie, che le è valso, tra i vari premi, il «Basler Lyrikpreis». Nel 2021 è uscita, sempre per Droschl, la sua seconda raccolta, kyung.

Ciò che colpisce dei versi di Leuenberger è l’uso di una lingua scarna e al contempo vivida, che attinge all’essenza della parola per scandagliare la realtà e rivelarne l’essenza più autentica, anche tramite la scelta di temi non convenzionali. Nonostante kyung sia solamente il secondo lavoro della poeta, nella raccolta si nota già uno stile ben definito, che viene qui portato a un ipotetico punto di non ritorno rispetto all’opera precedente. Infatti, se in dekarnation l’autrice mette in luce la brutalità di una natura personificata e senza bellezza, il cui corpo simbolico viene progressivamente scarnificato e ricondotto a una forma primordiale tramite il bisturi della lingua, in kyung la dissezione della parola opera su un corpo umano, quello dell’artista e scrittrice Theresa Hak Kyung Cha, violentata e uccisa a New York negli anni Ottanta a pochi giorni dalla pubblicazione del suo primo e unico romanzo, Dictée (1982). Ripartendo dall’attimo in cui si consuma la tragedia, Leuenberger recupera i capi di quel filo spezzato prematuramente, mettendo in luce «la chiarezza della violenza» e rievocando nei suoi versi «una voce morta da anni» attraverso immagini ricorrenti nella poesia di Leuenberger e già consolidate dall’uso (corpi che cadono a terra, mani attorno al collo, ali che spuntano dalle scapole) che le conferiscono un’atmosfera a tratti onirica e perturbante. In sottofondo, va e viene l’eco dei brani tratti da Dictée, opera multilingue e innovativa con cui l’autrice traccia un toccante parallelismo.

Definita dalla Berliner Zeitung «(una voce) unica nel suo genere», quella di Leuenberger è a tutti gli effetti una poesia non convenzionale, che, se anche non si illude di poter cancellare la violenza che pervade la realtà, sceglie però di metterla a nudo, di sezionarne i vari strati, fino a estrarne il cuore pulsante. Con la stessa precisione chirurgica, i suoi versi si incidono nella mente di chi legge e lasciano ferite destinate a cicatrizzarsi senza mai scomparire del tutto.


Da kyung (Droschl, 2021)

die stimme

stößt löcher in die zeit

die grenzen verwischen

die pronomen verwischen

gesichter in der nacht

die toten körper im parkhaus

            eine frau verschwindet

            in den pixeln eines bildschirmes

als wäre die zeit

ein klarer fluss

            der rückwärts fliesst

als wäre die zeit

als wäre der schnee

als wüsste der körper

die eigene zukunft


la voce

pianta buchi nel tempo

spariscono i confini

spariscono i pronomi

volti nella notte

i corpi morti nel parcheggio

            una donna scompare

            nei pixel di uno schermo

come se il tempo fosse

un fiume limpido

            che scorre all’indietro

come se il tempo fosse

come se la neve fosse

come se il corpo conoscesse il proprio futuro


hier ist dein körper – dein pfund aus fleisch

                               my love, regarde-moi –

du beneidest die klarheit der gewalt.

here it is. der tiefste punkt der nacht.

du beneidest den klaren grund,

die wurzel, aus der den tod in den bauch wächst

klarheit und kasualität.

es tut dir leid.

es tut mir leid.

                        die haut

                                       sehnt sich nach feuer


ecco il tuo corpo – la tua libbra di carne

                               my love, regarde-moi –

invidi la chiarezza della violenza.

here it is. il punto più profondo della notte.

invidi il motivo chiaro,

la radice da cui nel tuo ventre cresci la morte

chiarezza e casualità.

ti dispiace.

mi dispiace.

                         la pelle

                                        si strugge

                                     di desiderio per il fuoco


die frau beobachtet ihren körper

das publikum schaut sie an

während ihr körper

sich öffnet, zu etwas altem, oder neuem

                                   interdiffusion der zeit

du beobachtest das publikum

beobachtest das publikum, das dich anschaut

während dein körper sich öffnet

aus dem schultern wachsen flügel

im mund klingt ein neuer ton

eine parade aus schönen toten mädchen

mit glocken im mund

klingelnd wie farrähder

die füße zerschnitten

aus den knöcheln

wachsen räder

und die flügel

aus den schulterblattern


la donna osserva il proprio corpo

il pubblico la guarda

mentre il suo corpo

si apre, a qualcosa di vecchio, o di nuovo

                        interdiffusione del tempo

osservi il pubblico

osservi il pubblico che ti guarda

mentre il tuo corpo si apre

dalle spalle spuntano ali

in bocca un suono nuovo

una parata di belle ragazze morte

con campane in bocca

suonano come biciclette

i piedi tagliuzzati

dalle caviglie

spuntano ruote

e le ali

dalle scapole


theresa hak kyung cha hatte schwarze haare.

meine haare sind rot.

ich suche einen körper

und finde ihn unter einer decke

aus schwarzem haar

er ist spröde

bricht wie die zweige im unterholz

splittert unter dem gewicht einer hand

eine hand

rau wie rinde

ich suche einen körper

und sehe die hände um den hals

die haare auf dem asphalt

blaugelb

purpur

und schwarz

deine haare

               sind schwarz


theresa hak kyung cha aveva i capelli neri.

i miei sono rossi.

cerco un corpo

e lo trovo sotto una coperta

di capelli neri

è fragile

si spezza come i rami nel sottobosco

si frantuma sotto il peso di una mano

una mano

ruvida come corteccia

cerco un corpo

e vedo le mani attorno al collo

i capelli sull’asfalto

giallo-blu

porpora

e nero

i tuoi capelli

                 sono neri


die gesichter legen sich übereinander

ein vielzahl von körpern

schaut hinter ihren augen hervor

und dort ist die neue zeit

die glocken klingeln

die zahnrähder drehen

ein körper fällt

am boden eines parkhauses

schwebend

mit beiden füβen fest in der erde

luft 

oder wort


i volti si sovrappongono gli uni sugli altri

una moltitudine di corpi

sbuca da dietro i loro occhi

e là c’è il tempo nuovo

le campane suonano

gli ingranaggi girano

un corpo cade

a terra in un parcheggio

mentre fluttua

con entrambi i piedi saldi a terra

aria

o parola


die haare einer frau    sind rot

                                               oder schwarz

eine frau                     ist ein schwarzes loch

eine leerstelle             gefüllt mit rotem haar

die haare sind rot

            flimmernd im nebel

                                   ohne haut und körper


i capelli di una donna   sono rossi

                                                   o neri

una donna                   è un buco nero

uno spazio vuoto        farcito di capelli rossi

i capelli sono rossi

            tremolanti nella nebbia

                            senza pelle né corpo

Copertina di Kyung di Eva Maria Leuenberger

Su “Arca di Noè” di Gianna Manzini

Nota di lettura a cura di Eleonora Negrisoli.

Nella primavera di quest’anno Rina Edizioni ha ripubblicato Arca di Noè, raccolta di racconti di Gianna Manzini ormai da decenni fuori catalogo. I racconti erano già, in parte, apparsi in Animali sacri e profani (Casini, 1953), ma trovarono la loro versione definitiva nell’edizione Mondadori del 1960, con il titolo Arca di Noè.

L’operazione editoriale di Rina sembra collocarsi entro due tendenze critiche ben precise. La prima riguarda il recupero di autrici dimenticate o escluse dal canone letterario, a cui la critica e l’editoria italiana e internazionale stanno finalmente dedicando crescente spazio. Rina Edizioni, appunto, nasce con questo esatto obiettivo, come ci ricorda il Manifesto posto in calce a tutte le pubblicazioni della casa editrice. Riscrivere la storia letteraria si configura come azione necessaria per restituire voce a chi è stata tolta e, quindi, per guardare al contemporaneo da un altro punto di vista, adottando una stortura imprescindibile per la comprensione della sua complessità. Cambiare postura, dunque, ma anche cambiare forma: per stare dentro questa complessità occorre assumere una struttura rizomatica. Si assiste infatti – ed ecco la seconda tendenza – a una crescente ibridazione dei saperi. Tra le varie relazioni possibili – con i femminismi, la teoria queer, gli studi postcoloniali, e così via –, la critica letteraria stabilisce connessioni anche con l’ecologia e gli animal studies. E qui arriviamo a Gianna Manzini, che in tempi non sospetti aveva scritto di animali[1] attraverso uno sguardo inconsueto.

Benché i racconti dell’Arca di Noè riflettano una prospettiva antropocentrica e specista (implicita nella forma mentis novecentesca), il continuo riferirsi in modo didascalico a certe pratiche umane che violano la soggettività animale – ad esempio la caccia, la pesca, la sperimentazione scientifica – provoca nel lettore la sensazione dello straniamento. Questo meccanismo narrativo riesce a decostruire la percezione automatizzata che ci abitua a considerare gli animali proprietà dell’umano. È normale, leggendo Manzini, domandarsi che effetto faccia a una trota moribonda giacere su un piatto, oppure pensare alle gabbie dello zoo come prigioni, o ancora definire l’invenzione del cappone sopruso e delitto: è la narratrice-autrice a dichiararcelo. Il suo sguardo si posa sugli animali con interesse quasi scientifico, nel tentativo di comprendere i gesti di creature vicine ma sconosciute: «che festa,» – scrive in Il mio bestiario, prefazione alla raccolta – «sapere esattamente, con precisione, in tutte lettere, che cosa vuol significare un’ala quando appena si solleva e si ricompone serrandosi»[2].

Nei racconti la relazione tra umano e animale si consuma quasi interamente nello sguardo (John Berger, parecchi anni dopo, scriverà Perché guardiamo gli animali?), ed è attraverso quella osservazione che la scrittrice individua nel legame con gli animali «qualcosa di più vasto e segreto»[3]. Essi sembrano custodi di un qualche sapere iniziatico, di un oltre a cui in pochi, capaci di incanto e compassione, possono accedere: «ecco che, non si sa come, un granello di vita ignorata vien proiettato di sorpresa al centro di una splendente emozione. Queste fortune capitano di rado; a me, di tanto in tanto con gli animali. Fortune; non arbitrii coscienti; non invenzioni»[4]. Manzini intuisce nell’alterità animale la possibilità di aprirsi a una verità nascosta, a un mistero di cui queste creature, seppur attraverso il silenzio, si fanno messaggere.

Emilio Cecchi aveva definito Manzini animalista[5], e questo ci dice molto sull’originalità che la sua scrittura deve aver rappresentato per la letteratura italiana. Tuttavia, il rischio di sovrainterpretazione è molto alto: nell’Arca di Noè non c’è un messaggio politico esplicito, né è facilmente desumibile come invece in altre opere sul tema animale. È però indubbio che in questo bestiario l’esistenza animale venga riconosciuta al di là di quella umana, invertendo automaticamente la tendenza che ci ha abituato a considerare gli animali oggetti da asservire. Manzini non esorta a adorare gli animali, né proteggerli, ma mi sembra significativo concludere con la potente metafora contenuta nel penultimo testo della raccolta, Il sangue del leone. La protagonista fa un sogno ispirato a un episodio agiografico, rappresentato su una sua vecchia cartella da scrivere: San Girolamo si reca nel deserto, dove resta per tre anni. Qui, un giorno, arriva un leone che mette in fuga quasi tutti i monaci. Girolamo rimane e, riconoscendo nella zampa del leone una spina, gliela leva e cura la ferita.

L’immagine a cui probabilmente Gianna Manzini fa riferimento nel racconto Il sangue di leone: Giovanni di Paolo (Siena, 1403-1482), San Girolamo medica la zampa del leone, 1436, 44,5 x 32 cm, Archivio di Stato di Siena.

[1] Per comodità, da ora in avanti con il termine “animali” ci si riferirà a tutti gli animali non-umani.
[2] G. Manzini, Il mio bestiario, in Arca di Noè, Rina Edizioni, Roma 2023, p. 8.
[3] Ivi, p. 6.
[4] G. Manzini, Pascolo a Carbonin, in Arca di Noè, cit., pp. 141-142.
[5] Cfr. E. Cecchi, Manzini animalista, in Letteratura italiana del Novecento. Vol. 2, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1972, pp. 926-928.

“Si ergono (…) devastati i figli dell’amore”. La salvezza non è la destinazione: amore e distruzione nelle poesie di Marina Maggi

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Virginia Ciampi.

Quindi presa la fanciulla per mano, le disse: «Talitha cumi»; che tradotto vuol dire: «Fanciulla, ti dico: Alzati!». – Marco 5:4

«Talitha cumi», il verso biblico all’inizio di Toda belleza amante que colapsa di Marina Maggi, è una duplice esortazione. Per l’autrice significa, prima di tutto, risorgere da una peste fatale: l’amore. Dall’amore ci si cura amando: il verso ordina anche di amare ancora.

Nel racconto biblico si compie un miracolo, la fanciulla si alza e cammina. Nell’opera ciò non avviene, ma il miracolo si compie lo stesso, non portando, tuttavia, alla salvezza. Seguendo questa interpretazione, i titoli delle tre sezioni appaiono significativi; La nausea del presagio, Salvezza e Il peso del miracolo raccontano il percorso che la febbre d’amore traccia, ovvero quello suggerito dalla citazione di Dylan Thomas nella prima parte: From love´s first fever to her plague… . In questo percorso ciò che importa non è la salvezza: questa è qualcosa che si attraversa, non la destinazione definitiva. Così, la salvezza è l’amore e insieme la distruzione che esso comporta:

il sogno
chino su di sé, perfetto
nella sua menzogna inconfutabile
è un pozzo
dove sentir morire il palpito sacro
con tutta la salvezza della luce
dove affondare nell’ora della gioia.

Il sogno è ciò che conta, e non viene contemplata una esistenza senza amore: vi si preferisce l’annullamento dell’esistenza, l’amare senza esistere. E Marina sembrerebbe essere cosciente di ciò da sempre: ha una voce amorosa potente, che si rifà alla poesia di Lorca, di Dylan Thomas e, infine, alla tradizione biblica, ed ha come risultato una lirica mistica, tragica ma estremamente sensuale.

La sensualità è data anche dai riferimenti naturali, evocativi e alcune volte particolari della natura argentina, come il jacaranda di Noviembre II, gli alami del Salmo descarriado. La natura dei sensi è centrale: si parla spesso di fiori, di usignoli feriti, spezzati, di vento, acqua, fuoco, luce e, soprattutto, sangue. Il sangue scorre dalle vene tagliate ed è il sintomo di una malattia, la peste amorosa, che devasta chi ne è affetto. È un elemento molto utilizzato nella seconda sezione dell’opera, in cui avviene la morte del malato, ovvero dell’innamorato: è anche il simbolo del sacrificio di chi ama; la salvezza è morte che porta al sacro. Nella terza sezione il miracolo non porta alla resurrezione o alla creazione di qualcosa, ma alla redenzione, completa affermazione della sacralità. Il peso del miracolo è il sacrificio che genera il sacro.

La sacralità avvolge chi è stato ucciso o devastato dall’amore e anche la gioventù, perché l’amore provato in gioventù è l’unico in grado di uccidere l’innamorato, di incidere la storia di ognuno (la citazione di Dylan Thomas all’inizio della seconda sezione del libro è: Who kills my history?). La gioventù, dunque, è sacra in virtù della sua fragilità e della potenza delle sue pulsioni ed emozioni, ma anche per la sua finitezza e per la sua condizione effimera. Come il sogno, essa è febbre, alterazione e delirio e determina la nostra esistenza. Ci muoviamo, nei momenti cruciali e più autentici della nostra vita, in uno stato di disperazione che, allo stesso tempo, riesce a farci librare sopra tutto e a toccare altezze impensabili, come scrive l’autrice in Febbre:

Potete vedere che mi immergo,
felice, sotto le acque,
mentre sento che cammino sopra di esse.

Il miracolo della nostra distruzione si compie. È l’amore che ci fa morire, ma è l’amore che conta. Marina esprime ciò con una lingua immaginifica, incisiva e mai banale, che ricorda la potenza dei versi biblici ma fluisce con leggerezza.


Noviembre II

Ya ves, jacarandá, la misa la dio el viento.
Es como si enterrase para siempre la risa,
no sé a dónde volver para encontrar mi sangre.

En lo perdido hallo, inexistente y fijo,
bellísimo tu rostro, como un puñal de sueño:
qué poderosa es la memoria de la carne.

Noviembre sin amor noviembre para nadie,
cayendo sin derrumbe, eterna colapsada
ácida, amanecida, enferma de paciencia;

el cáncer de la espera, perro negro sin alba,
y yo nombrando el aire, colmada de limosnas,
cándida en el ocaso, oscura mariposa,
cadáver incendiado que resucita y canta.

Novembre II

Vedi, jacaranda, la messa l’ha detta il vento.
È come se sotterrasse per sempre il riso,
non so dove tornare per trovare il mio sangue.

Nelle cose perdute scopro, inesistente e fisso,
bellissimo il tuo volto, come un pugnale di sogno:
ché potente è la memoria della carne.

Novembre senza amore novembre per nessuno,
che io cado senza dirupo, eterna collassata
acida, insonne, ammalata di pazienza;

il cancro dell’attesa, cane nero senza alba,
ed io che nomino l’aria, colma di elemosine,
candida nel tramonto, oscura farfalla,
cadavere incendiato che resuscita e canta.

Salmo descarriado

Atraviesan
desnudos en su visión
los campos arruinados.
Descalzos, desalados,
salvados para siempre
del golpe imperdonable de la juventud.

El sueño
inclinado sobre sí, perfecto
en su mentira irrefutable
es un pozo
donde sentir morir el pálpito sagrado
con todo lo salvaje de la luz
hundiéndose en la hora de la dicha.

Se yerguen
como álamos ausentes calcinados
los estragados hijos del amor

Salmo dannato

Attraversano
nudi nella loro visione
i campi in rovina.

scalzi, smaniosi
salvi per sempre
dal golpe imperdonabile della gioventù

il sogno
chino su di sé, perfetto
nella sua menzogna inconfutabile
è un pozzo
dove sentir morire il palpito sacro
con tutta la salvezza della luce
dove affondare nell’ora della gioia

Si ergono
come alami assenti bruciati
devastati i figli dell’amore.

Fiebre

Pueden ver que me hundo
feliz, bajo las aguas,
sintiendo que camino sobre ellas

Febbre

Potete vedere che mi immergo,
felice, sotto le acque,
mentre sento che cammino sopra di esse.

Nostalgia del retorno

Cuando te vayas
se abrirán los párpados de la sangre y el agua,
se precipitará el pulso hasta quebrar el alba
y los huesos desnudos florecerán sin miedo.

Cuando te vayas
vendrá mi cruel infancia a torturar los muertos,
las heridas sedientas delirarán su fuego
y Eva será mordida por ingenuas manzanas.

Cuando te vayas
volverán los aniquiladores secretos,
las estatuas de viento bailarán con tu ausencia
hasta marearla.

Cuando te vayas
el corazón tomado por el cáncer del verbo
hará versos hambrientos,
rimas sucias y heladas.

Cuando te vayas
mendigaré veneno
para no tener que ver volver la primavera,
y soñaré suicidios de alturas colapsadas.

Sé qué sucederá cuando te vayas
porque partiste ya, lejos:
yo fui la que robó la costilla del tiempo
para que regresaras.

Nostalgia del ritorno

Quando te ne andrai,
si apriranno le palpebre del sangue e dell’acqua,
si precipiterà il battito fino a spaccare l’alba,
e le ossa nude fioriranno senza paura.

Quando te ne andrai,
verrà la mia crudele infanzia a torturare i morti,
le ferite assetate delireranno il loro fuoco,
ed Eva sarà morsa da mele ingenue.

Quando te ne andrai
torneranno i segreti distruttori,
le statue del vento balleranno con la tua assenza
fino a nausearla.

Quando te ne andrai
Il cuore preso dal cancro del verbo
scriverà versi famelici,
rime sporche e gelate.

Quando te ne andrai
mendicherò veleno
per non dover vedere tornare la primavera,
e sognerò suicidi da altezze collassate.

So cosa succederà quando te ne andrai,
perché sei già partito, lontano;
sono stata quella che ha rubato la costola del tempo
perché tornassi.

Toda belleza amante que colapsa

El cauce desangrado de la luz
soñó la adolescencia de tu nombre.
Tu ausencia iba clamando ya en los ojos
la golondrina herida de mi sangre.

Y si tuve otra edad,
aquélla fue tu infancia;
tu infancia, un claroscuro que en mi boca
se presagiaba flor apabullante.

Fui fantasma extasiado bajo el cielo perenne
y galería exacta y puñal desterrado
y eterna duermevela de los labios errantes.

Noches de estío azul, sin pronunciarme ángel
le prometí a mi muerte la sombra de tus manos.
El aliento esculpí del viento nacarado,
forjé tu forma indemne desgarrándome el aire.

Verano nuestro, pájaro por siempre herido,
sobrevolá lo inútil del aliento saciado;
vienen hasta nosotros los días implorantes,
los últimos espasmos de juventud sagrada.

Tutta la bellezza amante che collassa

Il canale dissanguato della luce
sognò l’adolescenza del tuo nome.
La tua assenza già richiamava negli occhi
la rondine ferita del mio sangue.

E se mai ho avuto un’altra età,
quella fu la tua infanzia;
la tua infanzia, un chiaroscuro che nella mia bocca
si presagiva fiore travolgente.

Fui fantasma estasiato sotto il cielo perenne
e galleria esatta e pugnale bandito
ed eterno dormiveglia delle labbra erranti.

Notti di azzurra estate, senza annunciarmi angelo
promisi alla mia morte l’ombra delle tue mani.
Il respiro scolpì dal vento perlaceo,
forgiò la tua forma indenne strappandomi l’aria.

Nostra estate, usignolo ferito per sempre,
sorvola l’inutilità dell’alito sazio;
si avvicinano a noi i giorni imploranti,
gli ultimi spasmi della gioventù sacra.