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In teoria e in pratica | Quaderni italiani di poesia contemporanea

Le risposte degli autori del Sedicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea all’inchiesta a cura di Raggi γ.

Raccogliamo le risposte di alcuni autori compresi nel sedicesimo volume dei Quaderni italiani di poesia contemporanea di Marcos y Marcos: Marilina Ciaco, Dimitri Milleri, Stefano Modeo, Noemi Nagy, Antonio Francesco Perozzi.


1)  Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo?  Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

MC: Guardando al mio lavoro dall’interno, e dunque da una prospettiva inevitabilmente limitata, posso dire che la componente progettuale e in parte “aperta” dei miei lavori è tuttora pregnante. A questa spinta se ne contrappone però un’altra uguale e contraria, complementare direi, che potrei definire “chiusa” o formalizzante. Mi sembra importante fissare uno spazio linguistico e percettivo sulla pagina, che parte dalle parole, dal sintagma o dalla frase, per poi dare vita a una concrezione relativamente stabile che è fatta anche di ritmi e di immagini, di corpi, di materia congelata «nella sua quasi sparizione vibratile», come scriveva Mallarmé. È su questa stabilità relativa, credo, che si fonda una fase importante del “fare” poetico. Una fissazione precaria che deve fare i conti, di continuo, con il sospetto di un’indicibilità di fondo, con l’incombere di un’assenza. Questo spazio, in qualche modo, deve vedersi, deve emergere dalla pagina e circoscrivere un qualcosa attraverso dei confini formali più o meno categorici, anche se magari è soltanto un appiglio teorico iniziale – penso agli Spazi metrici di Amelia Rosselli, e insomma, anche se decidi di non rispettare quella regola, deve essere una sovversione consapevole, devi sapere che c’è. Il «devi», naturalmente, riguarda una questione soggettiva di autocoscienza, la scrittura in sé non deve nulla. L’unico consiglio possibile è sapere chi sei e che cosa vuoi fare con quello che scrivi. Che l’approccio cambi in termini di singole pratiche o strategie espressive è un fatto strutturale, la nostra condizione umana e vivente impone la fluttuazione (a volte creativa, proficua, a volte soltanto sfibrante), ma ci sono poi due o tre stelle fisse che secondo me ogni autor3 seri3 mantiene costanti nel tempo. Certo, esistono spiriti fortemente monisti, diciamo pure un po’ petrarchisti – l’iterazione tematica e l’ossessione formale sono spie testuali di un tale atteggiamento, lo sappiamo – e spiriti pluralisti, rabelaisiani, forse più allegri. Conoscere il proprio posizionamento (culturale, sociale, etico, estetico, epistemologico, in vari sensi e secondo una molteplicità di assi) è cruciale ai fini della solidità e della credibilità dell’opera nel suo complesso. In ogni caso, nonostante tutti gli sforzi costruttivi immaginabili, ci sarà sempre, tanto in un singolo testo quanto nel progetto generale di un libro, qualche parte che sfugge al controllo di chi scrive, e penso sia giusto salvaguardare questo residuo caotico-magmatico, lasciar andare, qualche volta o sempre, il flusso della scrittura, accettare l’ignoto.

DM: Procedendo a ritroso e selezionando un po’ le domande, per me conta la coincidenza. Intendo dire che ogni materiale testuale, nel contesto dell’opera in cui si sta facendo, può assumere una ristretta gamma di configurazioni possibili, giuste. I vari attori che ruotano intorno all’Opera durante la gestazione cercano di capire cosa desidera essere, quale creatura deve e vuole essere. Quando l’illusione di esattezza diventa abbastanza solida da produrre il senso di necessità, vuol dire che gli apparati dell’Opera hanno una vita autonoma. È davvero così? L’opera è viva? Non credo, non importa. Quel che importa è che lo faccia credere.

SM: Questa nuova silloge Partire da qui ha cominciato a prendere corpo circa sette anni fa. Dopo aver pubblicato La terra del rimorso, sapevo che molti discorsi che gravitavano intorno a quella piccola raccolta non si erano in me conclusi. Al contempo mi ero reso conto, attraverso le letture degli altri, di quali fossero i limiti di quella plaquette e su cosa dovevo lavorare. Bisognava imparare a limare, misurare, saper riconoscere e riagganciare i fili con una tradizione. Ogni autore infatti, che lo voglia o meno, mentre scrive ricostruisce delle linee di tradizione; utilizza cioè, attraverso ciò che ha letto e recepito in un sistema di interazioni tra passato e presente, ciò che per lui è proficuo nel momento in cui scrive. Fondamentale in questi anni per me è stata dunque la riscoperta di una tradizione legata ai miei luoghi d’origine. Sono dovuto ripartire da lì per comprendere alcune mie scelte lessicali, la propensione ad un ritmo, l’uso di alcune immagini. Da questo studio sono nate ad esempio le curatele delle poesie di Raffaele Carrieri Un doppio limpido zero. Poesie scelte 1945 – 1980 (Interno Poesia) e di Pasquale Pinto La terra di ferro e altre poesie (marcos y marcos).
In tutto questo appare chiaro come i miei testi siano stati contaminati e abbiano attraversato innumerevoli fasi. Il lavoro di riscrittura nel corso degli anni è imprevedibile, è il gioco delle varianti, i testi seguono il loro corso incrociando letture, suggestioni, intuizioni, sino a quando s’impongono all’orecchio con la loro forma e spesso anche con un contenuto del tutto diverso dal proposito iniziale. Certo, può capitare anche che un verso, suggerito dalle letture del momento o da un preciso intento d’intonazione, si presenti immediatamente con un suo ritmo o una sua metrica e che io decida di conservarlo, di dargli seguito. Inoltre, personalmente condivido spesso ciò che scrivo con amici poeti o persone che conoscono il mio percorso. Questo mi aiuta a mettere in dubbio ciò che scrivo, stana quello che non riuscirei o non vorrei vedere, mette a dura prova il narcisismo. Se dovessi dare un consiglio a qualcuno direi proprio questo: nel lavoro di scrittura il poeta non deve essere mai del tutto solo. Un libro di poesia, prima di essere pubblicato, deve passare sotto diverse mani. Questo semplice consiglio vale ancor di più dal momento che pochissimi editori o persino curatori di collane si preoccupano di leggere sul serio ciò che pubblicano. Il modo migliore per rispettare ciò che si scrive credo sia questo: confrontare aspettative e risultati, accogliere le stroncature, dialogare e, se è il caso, rinsaldare le proprie posizioni.

NN: Mi piace pensare al libro possibilmente come sempre in fieri: un libro che non si chiude può prestarsi a sempre nuove riletture. Questa secondo me è una condizione necessaria perché vi sia opera poetica: la conservazione di un certo grado di apertura intrinseca.
Poi, certamente, il confine stabilito dall’atto della pubblicazione è importante: traccia una linea di demarcazione, ferma l’istantanea di un’intenzione autoriale. Ma è bene che sia permeabile – e qui forse è anche la formazione filologica a parlare: la passione per gli avantesti, la problematizzazione della nozione di compimento.
Per fare un esempio, all’interno di questo Quaderno mi affascina molto l’operazione di Milleri, che di fatto ha riscritto la propria precedente raccolta. Questo è un caso estremo, certo, ma esemplificativo della possibilità di risonanza e di movimento del testo poetico.
Per quanto riguarda la mia (breve) esperienza: sicuramente la silloge con cui esordisco all’interno del Quaderno si trova tutt’ora allo stato di un testo in costruzione. Questo credo possa essere – non soltanto, ma anche – un bene. Non so dire se, come o quando troverà una prosecuzione, che pure sembra chiedere.
Ma non so dirlo anche perché, per quanto riguarda la costruzione di questa, ancora precaria, forma macrotestuale, prima sono venuti i testi. Un fil rouge li ha intrecciati in seguito: rileggendoli a una certa distanza, anche temporale, sono emerse con inattesa chiarezza le tappe di un percorso, fissate però soltanto a quest’altezza nelle diverse e successive sezioni che ora compongono la raccolta.
Il lavoro sul macrotesto, dunque, è stato a posteriori, non a priori. La forma, per me, è stata dettata dai testi.

AFP: Personalmente tendo a adottare modalità differenti in base al progetto. Questo perché mi muovo contemporaneamente su terreni diversi della scrittura e ciò comporta confrontarsi con diverse necessità e possibilità. Ciò che posso individuare come costante, tuttavia, è una tensione tra macro-struttura e singolo testo, con un polo che attrae più dell’altro in base alla situazione.
Ad esempio ne Lo spettro visibile ho lavorato molto a monte: ho disegnato un quadro di ciò che volevo trattare, articolandolo in sezioni; poi i testi hanno seguito le ragioni di questo prospetto, certo suscitando di volta in volta imprevisti e nuove prospettive, che però io poi ho accolto o scartato, comunque piegato e collocato obbedendo allo schema iniziale, che almeno nelle sue direttive centrali, quindi, è rimasto stabile. Per bottom text, la raccolta presente nel Sedicesimo quaderno italiano, invece, la spinta dall’alto è stata meno forte, e le tre sezioni del libro sono state pensate contemporaneamente (cioè in maniera interconnessa) alla stesura dei testi/episodi.
Anche per quanto riguarda la forma dei singoli testi, poi, tendo ad agire in modi diversi in base all’obiettivo del lavoro, e in questo la risonanza tra micro e macro è – o mi impegno a fare che sia – percepibile. Ancora, nello Spettro, volendo ragionare di poesia e scienza, ho lasciato entrare materiale grezzo, desunto da saperi specialistici, all’interno dei versi; al contrario in bottom text, volendo esplorare percorsi più allucinati e post-umani, ho lavorato su nitidezza e (apparente) limpidità razionale. Apprezzo (anche da lettore, intendo) i libri compatti e consapevoli. Che possono essere anche compatti nella loro deliberata auto-trasgressione o inaffidabilità interna, è lo stesso; purché il libro possa costruire una sua (eventualmente anche anti-)intelligenza, una sua circonferenza di senso.
Visti questi contrasti, e percependo il mio stesso lavoro ancora in via di definizione (forse all’infinito, non so, oppure spero), non mi sento quindi nella posizione di poter dare consigli veri e propri. L’unica cosa che mi viene da suggerire, appunto, è di guardare a questa tensione tra struttura ed entropia, o tra razionalità e immaginazione. Mi sembra che buoni libri (almeno a mio gusto) emergano da questa conflittualità, in grado di smarcarsi tanto da un’impostazione meccanicamente esecutiva (obbedienza a dettami estetici auto- ma anche etero-imposti) quanto dallo spontaneismo puro, che rischia di far ripiegare la scrittura a un livello pulsionale, di raggio ristretto, poco spendibile sul piano dell’intelligenza o esperienza collettiva.

2)  Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

MC: Un elemento di finzione in senso lato, per quanto non definitorio della poesia, penso sussista in diversi casi di scrittura poetica, o comunque di prosa non narrativa, non romanzesca. Per quanto mi riguarda vivo tutto questo come un qualcosa di contingente, può esserci come non esserci, e quando c’è è uno dei tanti strumenti che abbiamo a disposizione pescando dalla proverbiale “cassetta degli attrezzi” della letteratura. Questa componente di artificio, o più precisamente di deviazione dal “fatto vero”, credo sia però funzionale, nel contesto della scrittura poetica, a rendere la propria singolarissima e relativissima “verità” più condivisibile, a darle un respiro che può diventare – perlomeno in potenza – intersoggettivo. Del resto, la porzione di realtà alla quale abbiamo (o crediamo di avere) accesso nel corso di un’esistenza si rivela assai limitata, e nonostante ciò si tende a sopravvalutare l’idea stessa di verità, come se esistesse davvero una forma di conoscenza oggettiva e immutabile che aspetta soltanto di essere intercettata dal nostro sguardo. E invece siamo sempre influenzati dai sistemi di rappresentazione che adottiamo, dai paradigmi interpretativi. Questo accade anche (soprattutto) per la propria biografia, vale a dire per l’autonarrazione continua e falsamente unitaria della propria coscienza. La deviazione, anche soltanto a partire da qualche dettaglio, aiuta a immaginare scenari alternativi e a ricordarci che quella che viviamo ogni giorno è una parte – parte come insieme di maschere, persona in senso etimologico, e parte infinitesimale di un incommensurabile “tutto”.

DM: Provo un certo disagio a discorrere entro l’opposizione finzione-testimonianza. Il testo è un device, quello che accade in chi legge è innanzitutto potestà di chi legge. Le facoltà simulative e rappresentative sono incorporate, specifiche per ognuno. Non siamo in tribunale: non possiamo indagare sul contenuto di verità di chi scrive, né regolare l’esperienza di chi legge. Resta l’intensità, la profondità dell’esperienza stessa. Ma non quella di chi scrive impacchettandola, quella che un’opera realizza nei singoli. Per questo espressione e finzione mi sono indifferenti: a me interessa far vivere qualcosa di vero entro i confini della testualità.

SM: Il più dannoso dei pregiudizi è quello secondo cui la poesia serva a esprimere sé stessi. L’essere umano compie costantemente operazioni immaginifiche, utilizza cioè il pensiero metaforico per leggere e inventare il mondo. La poesia attinge a una sapienza che fa riferimento ai propri sensi, alla propria memoria. In questo senso è chiaro che un io sia imprescindibile. L’io però sappiamo che è fatto di moltissimi piani e cassetti, e compito del poeta deve essere quello di mettere in dialettica le parti diverse di sé. Inoltre ci si può mettere a disposizione, si può mediare senza nascondersi e accogliere le voci degli altri; l’io può essere – anzi lo è inevitabilmente – plurale. La mia raccolta è percorsa da numerose voci, messe spesso tra virgolette, che nulla hanno a che fare con la mia ʻʻrealtà biograficaʼʼ ma che allo stesso tempo fanno parte di una mia naturale sintassi metaforica. Ad esempio Ulisse, Pulcinella sono solo alcuni dei personaggi che attraversano questa nuova raccolta.

NN: Si deve parlare di finzione poetica.
Identificare la soggettività che si esprime – anche in prima persona – all’interno di un testo letterario con quella autoriale è un errore tanto diffuso da portarci a parlarne nei termini, appunto, di senso comune.
Sin dalle origini della nostra letteratura, nel testo poetico convergono topoi canonizzati, tramandati nei secoli e chiaramente divergenti dal reale vissuto degli autori. Oggi non è diverso.
Poi è ovvio, nella scrittura si parte dal sé, inevitabilmente: il mondo viene filtrato dal punto di vista del soggetto che ne fa esperienza e non potrebbe essere altrimenti. Tuttavia, da qui diventa necessario ampliare lo sguardo. Cercare una via che conduca al superamento dei confini ristretti dell’introspezione in direzione di una parola comune. Parola che – anche in virtù della sua autenticità, per apparente paradosso – può, e forse deve, essere finzionale, se non bugiarda.
In quello che scrivo l’invenzione ricopre un ruolo importante. E non credo sia necessario o utile in alcun modo distinguere quanto vi è di autobiografico da quanto di finzionale. Ma sicuramente quello della finzione – a cui giungo spesso attraverso gli strumenti immaginativi del sogno o dell’allucinazione – è un meccanismo mediante il quale mi sembra possibile aprire delle crepe nella superficie del puramente referenziale. Da qui prende forma una delle possibili vie che tentano di condurre oltre alla pura percezione soggettiva.

AFP: Il problema dell’immaginazione (intendo così la finzione) non riguarda solo la poesia ma l’intera – io credo – nostra epoca. Perché coincide con un contenitore che ospita varie controversie culturali (decisive): detto concisamente, la possibilità di immaginare un’alternativa allo status quo. Una necessità (urgenza) incalzata, in modi diversi, dall’emergenza climatica e dal confine sempre più labile tra realtà e finzione, ma anche da contraddizioni della modernità non ancora risolte, come, su tutte, quella tra capitale e lavoro.
Pur occupando uno spazio marginale all’interno del contesto culturale, anche la poesia si misura oggi con queste dinamiche. E il senso comune che fa della poesia un esercizio del sé sicuramente non aiuta: tenendone comunque sempre presente la motivazione storica (cioè non iperuranica, ma chiaramente connessa alla configurazione della civiltà borghese), non ho problemi ad accettare il lavoro sul soggetto come possibilità della poesia. Il problema è quando questo soggettivismo diventa una linea dominante, dominatrice, che soffoca possibilità diverse, e chiude appunto la poesia in una dialettica pericolosa tra l’individuo (a questo punto biograficamente sottolineato) e la sua ricezione.
Si può, quindi, e anzi si deve, parlare di possibilità immaginative/finzionali della poesia (con o senza apporto esplicito di un io agente) e soprattutto della specificità dell’immaginazione poetica, che si compie – a differenza di quella narrativa, presa qui in linea di massima – nella manipolazione della lingua. Un’immaginazione scaturita, quindi, (o almeno innervata) dagli scarti del linguaggio, dalle visioni o glitch che essi possono aprire. Mi sembra che in modi diversi tutte le raccolte del Sedicesimo quaderno abbiano a che fare, più o meno coscientemente, con questa prospettiva. Al netto di una capacità rappresentativa solo parziale (come è per ogni antologia), direi sia il segno di qualcosa.

3)  Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

MC: Non ho mai pubblicato il primo libro di poesie che scrissi fra i venti e i ventiquattro anni, Sinapsi, finalista al Premio Pagliarani del 2019: quella, insieme alla rassegna RicercaBo del 2017, furono le uniche due occasioni in cui il non-libro fu presentato a un pubblico come potenziale opera prima, che poi di fatto non giunse mai a un’esistenza piena, o perlomeno non in quella forma. Per farlo esistere ho scelto di smembrarlo e di trasformarlo in un lavoro collettivo insieme a Giorgiomaria Cornelio e a Giuditta Chiaraluce: Intermezzo e altre sinapsi (Edizioni volatili, 2020) è anche il frutto di questo processo di decostruzione del mito dell’opera prima. Come molt3 sapranno, Edizioni volatili è un progetto di esoeditoria. Il mio primo libro prodotto e distribuito da un circuito editoriale più canonico è stato Ghost Track (Zacinto, collana Manufatti poetici, 2022) ed è anche il primo progetto di scrittura individuale che considero compiuto. A sua volta Ghost Track è poi confluito come prima sezione ne Gli anni del disincanto (Sedicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2023), e credo che quest’ultimo lavoro segni una tappa importante nella mia maturazione come autrice. Una raccolta più stratificata e complessa che sono felice sia stata accolta nel contesto del Quaderno. A posteriori e a un occhio esterno, quanto è accaduto dal 2016 (la mia prima lettura in pubblico) a oggi potrebbe persino apparire come un percorso “lineare”. Eppure, la paradossalità del caso vuole che io non abbia un’opera prima, bensì tre momenti della mia scrittura che corrispondono a tre raccolte molto diverse.
Il contatto con la “bolla”, il coro, o semplicemente con alcun3 autor3 che stimo molto mi ha senz’altro aiutato; il confronto e la lettura reciproca rappresentano dei passaggi significativi per chiunque, credo. Trovo molto utile esplicitare e discutere le proprie istanze di poetica, vagliare affinità e divergenze con l3 altr3, mettere a fuoco con maggiore chiarezza qual è la propria voce o le proprie voci coesistenti. Questione diversa è lo scrivere per un pubblico specifico o per facilitare una forma di consenso, di qualunque tipo essa sia. È un’operazione che non mi interessa e la ritengo esteticamente inconsistente, oltre che inutile. La semplificazione è escludente, denota una sfiducia di fondo in quel lettore potenziale che potrebbe essere chiunque. È banale ribadirlo, ma si scrive per nessuno e per tutt3.

DM: Per me la reazione esterna è tutto, la condizione migliore è quella di non avere solo qualche ossessione da difendere, così da poter trovare presto qualcosa che funzioni. L’Opera non è mai finita, non è mai abbastanza, quindi direi che il mio esordio rappresenta il punto più alto della mia capacità  immaginativa di allora. Infatti l’ho riscritto. Tutt3 l3 autor3 (o 3 lettor3) con cui vengo a contatto e che mi dicono qualcosa sul mio lavoro per me hanno ragione, ogni critica è accolta, ogni considerazione è giusta. C’è un limite, certo, ma è un nucleo molto profondo: tutto il resto può sparire ora.

SM: Ho esordito nel 2018 con una plaquette di venticinque poesie. Quei testi posseggono un’urgenza – e di conseguenza un’ingenuità – un certo nervosismo, riflettono la realtà che vivevo quando li ho scritti. Per questo definirei in parte quel lavoro come la presa di parola di un autore. Paolo Febbraro che ha scritto la prefazione alla silloge inserita nel Sedicesimo quaderno, è solito dire: «Quando scrive il poeta è un ispirato, e quando pubblica è un intellettuale». È un’affermazione che condivido e che ho imparato col tempo a fare mia. Nel mezzo infatti vi è tutto un processo di analisi e autocritica, un lavoro di consapevolezza e comprensione, di possibili letture di ciò che si è scritto, in cui ogni poeta deve rispondere ai tanti poeti che lo hanno preceduto. È un lavoro di formazione che si ripropone ogni volta per ogni testo, per ogni verso, e che richiede responsabilità.    
Riguardo il pubblico, se consideriamo che perlopiù è composto da altri poeti, allora posso affermare che certamente il confronto, e non l’effetto, può influire sulla mia scrittura.

NN: Per quanto riguarda la formazione, senza dubbio: ho avuto fortuna.
Innanzitutto, quella di incontrare i giusti maestri, che hanno saputo indirizzarmi sin da molto giovane. Indirizzare – in primo luogo – nel senso di aprire uno spiraglio su quello che significava pensare di avviare un percorso di questo tipo. Ma anche su quello che non poteva e non doveva significare, altrettanto importante, se non di più. E poi, fondamentale, indirizzare nel senso di aprire un orizzonte di letture fino ad allora sconosciuto, fornendo al contempo gli strumenti per ampliarlo autonomamente.
In seguito, fondativo è stato il dialogo. L’incontro con persone che mi hanno permesso di sfinirle facendo loro leggere e rileggere i testi, ricevendo riscontri anche feroci, che invitavano a buttare tutto e ricominciare da capo. Questo, credo, sia stato e resta ad oggi fondamentale: l’ascolto e il confronto, basati sull’apertura e la fiducia reciproca.
In tale dimensione di collettività dialogante si inserisce del resto anche il mio esordio, trovando spazio all’interno del Sedicesimo quaderno della Marcos y Marcos insieme ad altre sei voci autoriali. Al timore generato dalla consapevolezza di star prendendo parola – un gesto che implica un certo inevitabile grado di violenza e richiede quindi di prendersene la responsabilità – si affianca così l’incoraggiamento di non essere soli.
Quindi, sì: sicuramente il rapporto con la “bolla” ha sortito un effetto sulla mia scrittura, ma – credo – nei termini di un fertile e generoso dialogo a più voci coltivato negli anni.

AFP: In realtà, il mio avvicinamento alla scrittura non si è compiuto subito sul terreno della poesia. I miei interessi erano in prima battuta filosofici, incentrati sull’elaborazione di un pensiero più che sullo stile; poi ho iniziato a interessarmi alla narrativa, e solo al terzo step, con l’università, alla poesia. Questo ha comportato, per me, un certo ritardo nelle letture (specie di autori contemporanei), nella formazione, ma forse anche una percentuale di “selvatichezza” nella scrittura, che non giudico del tutto negativa – occorre saperla dosare, e io spesso non ci sono riuscito, ma concede anche la possibilità di seguire percorsi non tracciati, e perciò, magari, interessanti. Se devo descrivere il formarsi della “mia voce” (espressione che non amo, lo confesso) devo quindi mettere accanto alla poesia le letture filosofiche o scientifiche, che si sono fortemente proiettate (penso a Derrida per Essere e significare o a Darwin per Lo spettro visibile) sulla mia scrittura.           
A proposito di questa “selvatichezza” (che possiamo intendere dunque come un misto di ingenuità e originalità) si può poi aprire proprio il discorso sulla “bolla” (più che sul pubblico, non esistendo – o quasi – un pubblico di poesia che non ne sia anche autore): quando si entra in un circuito è inevitabile che se ne venga condizionati; e anche qui, sia in bene (la condivisione, l’utilità dello sguardo esterno, l’ampliamento di riferimenti), sia in male (il rischio di agire adeguandosi al gusto dominante di una bolla, se non addirittura per compiacerlo). Perciò uno degli elementi su cui più secondo me occorre riflettere, quanto a contesto (oltre che testo) poetico, è il paradigma algoritmico: visto che la community poetica – come le altre – agisce sui social, essa risulta inevitabilmente guidata dai parametri algoritmici tramite cui i vari portali costruiscono i feed, quindi le relazioni e gli scambi, degli autori (me compreso, ovviamente). Che ci sia un’influenza algoritmica della community sugli stili dei singoli è ai miei occhi una cosa visibile, ma di cui non si discute abbastanza.        
Tutto ciò mi permette poi di rispondere alla domanda sul giudizio del proprio percorso e del proprio esordio: dacché le strutture algoritmiche (unite a quelle già esistenti di tipo mediatico e editoriale/economico, quindi anche ideologico) influenzano le scritture, si continua a coltivare anche il mito – nato negli anni ’80 – dello scrittore giovane, e dunque dell’esordio. Dico mito perché di questo si tratta: una narrazione che, per obiettivi commerciali, punta i riflettori sull’esordio come manifestazione di un genio precoce (ad esempio) e finisce per farne uno status, quindi un termine di paragone, un termometro. Anche sulla scorta di un’auspicabile decostruzione di questo mito efficientista e giovanilista, guardo alle mie prime prove con uno sguardo (credo) equilibrato: passaggi, certamente superati, ma che, a prescindere dal loro valore intrinseco o contestuale, hanno portato il mio percorso dov’è ora. Mi piace l’idea di sperimentazione come un tracciarsi la strada da soli, quindi anche sbagliando. Credo nella scrittura come test. Respingo l’idea, ancora dominante, dell’oggetto-libro sacralizzato, della pubblicazione infallibile.

4)  Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

MC: Mi piacerebbe una maggiore partecipazione del pubblico. A giugno di quest’anno abbiamo presentato La distinzione di Gilda Policastro insieme ad Alberto Bertoni alla Libreria Alaska di Milano e c’è stato un momento di lettura collettiva che ho apprezzato molto.

DM: Dall’esperienza che ho avuto con lay0ut, ho capito che imposterei le presentazioni come momenti performativi e trasformativi, non come la presentazione di un prodotto. La poesia vocalizzata chiama la multimedialità, e il momento teatrale della sua presentazione può essere un’occasione di mostrarne il potenziale, liberarla dai suoi stereotipi. Mi è capitato di sentir leggere un testo di Peter Gizzi tradotto e inserito nel nostro ultimo cartaceo (Sono hackeratə): la voce era autotunata, un producer sonorizzava la lettura improvvisando un tappeto armonico. È stato assurdo, come ascoltarlo per la prima volta. Questo vorrei per le presentazioni: che andando via si potesse pensare ho ascoltato una poesia “davvero” per la prima volta.

SM: Non ho un’idea in particolare delle presentazioni di poesia, non saprei dire quale modalità sia più funzionale rispetto ad altre.

NN: Credo sarebbe bello far parlare i testi.
Trovo un po’ soffocanti le presentazioni in cui a diventare preponderante è il discorso critico e teorico. Preferirei si articolassero piuttosto come momenti di ascolto reciproco.

AFP: Sono due le lamentele che mi capita più spesso di ascoltare a proposito delle presentazioni: che non si leggono abbastanza testi; che c’è poco spazio per la riflessione critica. Benché opposte, le due preoccupazioni mi sembrano ruotare attorno allo stesso problema, e cioè al fatto che la poesia occupa uno spazio intermedio tra l’arte e l’attività intellettuale. Questo comporta che, in base alla sensibilità e all’interpretazione della poesia che ha chi la conduce, la presentazione spesso pende o verso una delegittimazione del discorso intellettuale – a volte inteso come estraneo, come zavorra, rispetto a una presunta purezza o spontaneità della parola poetica – o, al contrario, verso un assottigliamento del ruolo dei testi, in una pratica che ha più a che vedere con la filosofia, a quel punto, che con la letteratura.
Personalmente mi colloco lontano da entrambi questi poli. Ciò che della poesia suscita interesse in me è esattamente il suo essere una crasi tra arte e attività intellettuale, cioè tra distorsione o squilibrio e razionalità all’interno del linguaggio. E questo conflitto è ciò che vorrei emergesse dalle presentazioni di poesia, che sicuramente soffrono il peso di due modelli (quello della performance autoriale da una parte e quello del convegnismo accademico dall’altra), ovvero il focus su un’esperienza che è costruita dal testo e che però produce un discorso intellettuale e culturale oltre se stesso. La presentazione, per uscire da questa impasse (e tacendo ora della sua funzione altrettanto controversa di spot commerciale), dovrebbe essere in grado di costruire un momento di esperienza e discorso, cioè di concentrazione nel presente veicolata dal testo e, a partire da quella, intelligenza spendibile per progetti a venire.

Su “bottom text” di Antonio Francesco Perozzi

Nota di lettura a cura di Lorenzo Di Palma.

Qualche mese fa è stato pubblicato il sedicesimo Quaderno italiano di poesia contemporanea di Marcos y Marcos. Volendo per il momento accantonare il discorso sull’utilità di questa operazione editoriale che ormai si ripete da più di trent’anni, c’è da ammettere che l’antologia – per quanto eterogenea – si mantiene su uno standard qualitativo piuttosto alto. Un dato significativo è la presenza tra gli autori antologizzati di tre dottorandi in materie umanistiche (Michele Bordoni, Marilina Ciaco, Noemi Nagy) e una in sociologia dei media (Alessandra Corbetta) su sette totali. Dei tre autori rimanenti, due (Antonio Francesco Perozzi, Stefano Modeo) sono laureati in filologia moderna, mentre l’ultimo (Dimitri Milleri) è maestro di chitarra. Questo dato è di per sé spiegabile con il coinvolgimento diretto di alcuni dei membri del comitato di lettura nel mondo accademico, ma la questione rimane problematica. Se è vero che ogni Quaderno misura la temperatura poetica del biennio precedente alla sua pubblicazione, forse dovremmo porci la domanda da un altro punto di vista: è possibile scrivere un libro di poesia in Italia senza una laurea magistrale in filologia?

La figura del poeta addottorato (o poeta critico) prolifera nelle università italiane in maniera inversamente proporzionale a quella del romanziere letterato; basti citare due dei più grandi romanzieri italiani contemporanei, Francesco Pecoraro e Vitaliano Trevisan, il primo architetto e il secondo difficilmente incasellabile in categorie di sorta. Non è un caso quindi se in Italia il lettore di poesia è sempre più antropologicamente simile allo scrittore di poesia (fino al sospetto allarmante che il primo gruppo coincida con il secondo), mentre il mondo del romanzo continua pullulare e, in casi eccezionali, a travalicare i confini nazionali. Il discorso si lega ad una sempre più chiara abdicazione della poesia al suo mandato sociale, un fenomeno incominciato alla fine del 1800 che ha lentamente reso la poesia e il teatro periferiche all’interno del sistema delle arti letterarie, in favore del romanzo. Questo ha prodotto una reazione istintiva dei poeti che si sono armati nell’ultimo secolo di strumenti critici così sofisticati da poter essere maneggiati soltanto con le pinze di un dottorato di ricerca.
Tra i sette autori, il caso di Antonio Francesco Perozzi è interessante perché mostra una rapida e netta trasformazione di segno opposto. Rispetto al suo precedente libro, uscito appena l’anno scorso, in bottom text Perozzi si riappropria della prima persona singolare che era praticamente assente in Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022), un libro che faceva dell’impersonalità tipica di alcune scienze lo strumento stilistico predominante.
Leggendo bottom text, invece, si ha l’impressione che il personaggio che dice io (modellato sul vero Antonio Perozzi) offra al lettore il suo sguardo su un mondo in cui un antropocene futuribile ha preso le strada lenta e silenziosa dell’apocalisse. Sono quasi del tutto assenti le figure umane: al loro posto una sfilza di oggetti inanimati (la ferraglia, le travi, gli arnesi di falegnameria, il televisore LG, un assortimento di oggetti di metallo).

Installazioni è il titolo della prima sezione, e proprio come delle installazioni questi oggetti esistono, e il loro senso è ricavato dal solo fatto di esistere. La loro esistenza è in realtà una persistenza, in quanto «Con il boom economico ci siamo innamorati / delle cose tangibili e difficili da eliminare», e continuamente «tocchiamo con mano che più niente / è destinato a sparire». In ogni caso, la desolazione è giustificata dal fatto che come sempre l’espressione di una prima persona coincide con qualcosa di antisociale e asimmetrico. Per il personaggio che agisce su uno sfondo urbano e industrializzato come la periferia della provincia italiana, l’esperienza del mondo e l’esperienza di sé arrivano quasi a identificarsi («Ho un’immagine che mi sono costruito da solo»).

Un punto centrale per la comprensione del libro è il fatto che Perozzi riesca ad essere uno scrittore “impegnato” senza cadere nel vecchio inganno dell’impegno a tutti i costi che porta alcuni poeti a plasmare opere così vistosamente superate dalla propria vocazione sociale da essere quasi illeggibili; in breve: opere in cui è palese la prevalenza della politica sull’arte, della funzione sul senso. In bottom text invece, il lettore è continuamente suggestionato da situazioni quotidiane, uno slice of life spesso ambientato tra le mura domestiche (la seconda sezione è intitolata stanze), non sempre accoglienti («Al contrario, le pareti costruiscono / l’odio per i romanzi, i porno preferiti, / la noia, il sonno, non parlare più coi genitori»).

Le poesie di Perozzi non sono dei bignami patetici sui recenti fatti di cronaca nera o sugli ultimi sviluppi della critica marxista o del mondo di internet, ma sono dei quadri in cui questi elementi agiscono da catalizzatori, pur mantenendo un alto grado di poeticità. Il cortocircuito deriva dal fatto che l’individualità del poeta, della sua casa, della sua stanza, dei suoi pensieri non è che una costruzione collettiva posticcia, la stessa che è alla base del concetto di meme di cui il “bottom text” è la parte sottostante, quella da riempire a piacimento con frasi sempre nuove che garantiscono all’ultra-individualismo una ultra-serialità. Il meme irrompe nel testo con la stessa franchezza di una schiera di case popolari, tutte identiche e diverse («Alcune abitazioni possono essere lette / come fossero dei meme») e porta con sé la distruzione dei due cardini fondanti del sistema artistico occidentale, ossia l’unicità e l’originalità dell’opera, a cui contrappone l’emergere prepotente e incontrollato della creatività amatoriale.

Meme

Il meme infatti, proprio come la poesia, non funziona mai in maniera referenziale (vero o falso), ma in maniera metaforica, e la sua metafora si traduce tutta nella conoscenza o meno della chiave d’accesso, nel senso di appartenenza del lettore. Appena cerchiamo di interrogarlo, il meme si dissolve, diventa pervasivo come un virus. In definitiva, il suo capitale simbolico è spendibile nella pervasività piuttosto che nella persuasione.

L’algoritmo ci ha lasciato in dono
gli stessi sogni, dalle sponde del letto
facciamo tutti gli stessi sogni:
l’inquadratura è sovraesposta, tagliata male,
e ognuno si riconosce in sé, e dappertutto,
si riconosce in ogni altro, è il centro del sogno.

Per concludere, bottom text è un libro agile, fresco, consapevole, che non cede alle lusinghe dell’impegno letterario spicciolo, né ai virtuosismi della letteratura astratta e accademica. L’autore pare aver interiorizzato il meglio della temperie poetica recente derivata, in parte, da La pura superficie di Guido Mazzoni e della linea autofinzionale in prosa che ha in Walter Siti il suo capostipite italiano e forse, come nel caso di Siti, è bene che il lettore capisca al più presto, guardandosi allo specchio, che è Antonio Francesco Perozzi, come tutti.


Sistema di valori

Il grande invisibile si trova qui,
nei soldi. A cena rinneghiamo
che l’alta finanza si fotta di noi:
così limpido è l’amore
che ci vuole a produrre un sistema di valori
capitali, che sono in mezzo alla gente,
che si trasformano imitandoci.
Tutto ciò che si vede o sente o mangia,
anche la passione per il nuoto o l’eternit,
può essere convertito nella sua larva,
in qualcosa che resta
anche se l’uso ne sforma le parti.
Questa notizia ci rasserena; sorrido dopo tempo
a mio padre. Riponiamo i barattoli nel frigo
e tocchiamo con mano che più niente
è destinato a sparire.

Campi di telefonia mobile

L’aria è di proprietà della Vodafone
e di altre compagnie telefoniche.
Lo scopro una mattina senza campo
dalle parti di Carsoli: quasi un’apnea
non ricevere più voci dallo spazio.
Ma ora la salute dell’aria è scoperta
un artificio: trattiene in verità dei flussi,
delle reti trasparenti al di sopra delle teste,
che tessono tra loro conversazioni, avvocati
consultati, madri apprensive, i fatti più oscuri
della storia recente.
Quindi tutto ciò che le persone hanno detto è sospeso
nell’aria. Un sogno sarebbe un magnete
in grado di intercettare, se sollevato, l’onda del linguaggio.
Sapere così, con un bastone,
chi ha messo le molotov nella Diaz.

Rasoterra nella realtà e nella lingua: alcune poesie di Mosab Abu Toha

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Camilla Marchisotti

Ci si accorge subito, leggendo Mosab Abu Toha, che le cose nelle sue poesie sono davvero cose: gli alberi sono davvero alberi, non token bucolici su cui proiettare significati altri; le case sono davvero case e i bambini davvero bambini, non personaggi o simboli dell’infanzia; le bombe, soprattutto, sono davvero bombe, non metafore. Che nel suo Things you may find hidden in my ear (City Lights, 2022) le cose siano proprio così come appaiono non è il segno di un’ingenuità poetica da libro d’esordio, ma una scelta formale ben precisa, una modalità di enunciazione e posizionamento che è la regola aurea e terribile della sua scrittura. Dico terribile, perché dal punto della mappa in cui l’autore si colloca e scrive, e cioè da quella Gaza in cui è nato, i bambini sono spesso morti, feriti o menomati (come in “Seven fingers” o “We deserve a better death”); le case sventrate e il paesaggio deformato dalle bombe, dagli aerei, dai droni, dai proiettili e dalle schegge di granata che, realissimi, coprono e gareggiano con il rumore di vento, alberi e uccelli. L’una e l’altra dimensione, naturale e guerresca, convivono nel vocabolario poetico di Abu Toha e nel soundscape del suo cielo palestinese, fino a confondersi e sovrapporsi con effetti a volte stranianti. Tenere insieme questi elementi apparentemente inconciliabili è quello che fa tutti i giorni l’irreale realtà di Gaza, e che di conseguenza deve fare il poeta sulla pagina. Così, Mosab è l’occhio che ha visto e che vede; il corpo che ha patito e la memoria che registra, elenca le date dei massacri e i nomi delle vittime, ricordando anche per gli altri, come per i nonni morti con la speranza di poter tornare un giorno a Yaffa nella casa abbandonata a forza nel 1948, di cui si racconta in “My grandfather and home”. Mosab è anche l’orecchio che ha sentito e che sente: fortissima la dimensione sonora, una sorta di aurality da guerra permanente che infatti ritorna anche nel titolo del libro e nel componimento omonimo (“Things you may find hidden in my ear”); così come frequente, tra gli oggetti, è la radio. Questa attenzione al reale non vuol dire che al libro manchi una dimensione immaginifica, onirica o surreale, anzi (si vedano per esempio, qui, “The wall and the clock” e “Notebooks”); o che non ci si permetta, a volte, di allargarsi o salire liricamente (in “A litany for “one land””), ma è sempre un dire che evita i rischi della retorica, della pornografia del dolore e della banalizzazione.

Ed è tanto più sorprendente, questa capacità di stare rasoterra nella realtà e nella lingua, se si pensa che il poeta sceglie, per le sue poesie, non l’arabo (madrelingua spesso definita “sick”, malata come il popolo che la parla), ma l’inglese, a cui mancano le lettere necessarie per pronunciare correttamente il suo nome (come ci viene spiegato in “Mosab”), e che marca anche linguisticamente una situazione fisica, una condition ormai cronicizzata di displacement (uno dei numi tutelari del libro è Edward Said, a cui è dedicata “Displaced”). Mosab Abu Toha si è laureato in lingua e letteratura inglese, ha insegnato inglese nelle scuole della UNRWA (United Nations Relief and Works Agency) dal 2016 al 2019, ha studiato in America come visiting fellow e visiting librarian, ha fondato la Edward Said Library, la prima biblioteca di lingua inglese a Gaza. Questa lingua seconda gli permette di trovare e di tenere, lungo tutti i testi, la corretta misura enunciativa. Si tratta di una lingua su cui il poeta spesso ragiona mentre scrive, ma le riflessioni metaletterarie nel libro sono estranee alla freddezza dell’esercizio di stile: anche le parole sono cose, e le poesie mattoni con cui si costruiscono le case; soltanto con la penna in mano si è umani e non spettri.


Da Things you may find hidden in my year (2022)

My grandfather and home

i
my grandfather used to count the days for return with his fingers
he then used stones to count
not enough
he used the clouds birds people

absence turned out to be too long
thirty-six years until he died
for us now it is over seventy years

my grandpa lost his memory
he forgot the numbers the people
he forgot home

ii
i wish i were with you grandpa
i would have taught myself to write you
poems volumes of them and paint our home for you
i would have sewn you from soil
a garment decorated with plants
and trees you had grown
i would have made you
perfume from the oranges
and soap from the skys tears of joy
couldnt think of something purer

iii
i go to the cemetery every day
i look for your grave but in vain
are they sure they buried you
or did you turn into a tree
or perhaps you flew with a bird to the nowhere

iv
i place your photo in an earthenware pot
i water it every monday and thursday at sunset
i was told you used to fast those days
on ramadan i water it every day
for thirty days
or less or more

v
how big do you want our home to be
i can continue to write poems until you are satisfied
if you wish i can annex a neighboring planet or two

vi
for this home i shall not draw boundaries
no punctuation marks

Mio nonno e casa

i
mio nonno contava i giorni del ritorno con le dita
poi usò le pietre per contare
non bastava
usò le nuvole uccelli persone

l’assenza si rivelò troppo lunga
trentasei anni finché non morì
ora per noi oltre settanta

mio nonno perse la memoria
dimenticò i numeri le persone
dimenticò casa

ii
nonno vorrei essere con te
avrei insegnato a me stesso come scriverti
poesie interi volumi e avrei dipinto casa nostra per te
ti avrei cucito dalla terra
un vestito decorato con piante
e alberi che avevi fatto crescere
ti avrei confezionato
profumo dalle arance
e sapone dalle lacrime di gioia dei cieli
impossibile pensare a qualcosa di più puro

iii
vado al cimitero ogni giorno
cerco invano la tua tomba
sono sicuri di averti seppellito
o sei diventato un albero
o forse sei volato via con un uccello verso il nulla

iv
metto la tua foto in un vaso di terracotta
la innaffio ogni lunedì e giovedì al tramonto
mi hanno detto che in quei giorni digiunavi
durante il ramadan la innaffio ogni giorno
per trenta giorni
o di meno o di più

v
quanto la vuoi grande questa nostra casa
posso continuare a scrivere poesie finché non sarai soddisfatto
se vuoi posso aggiungere uno o due pianeti vicini

vi
per questa casa non traccerò confini
nessun segno di punteggiatura

The wall and the clock

There is always that clock on the wall.
Every time I step into my room, I feel
curious, want to take it down, see
what’s behind its face.
I want to see how old it has become.
My father bought it when I was a child.
I want to count its teeth
to know its age.

But the clock doesn’t get old.
The numbers never change,
Only I do.

And then there’s the rocking chair,
and I am sitting in it, just me
in the room, rocking back and forth
doing nothing but
imagining the wall shouting to the clock,
“Stop ticking! You’re hurting my ears.”

I look at the cracks in the paint on the wall.
It’s more than just the sound of the clock.
Shrapnel holes stare at me
whenever I enter the room.

(The clock wasn’t harmed in that attack.)

I hurry to pull the batteries out of the clock.
I whisper to it:
I’ll take you to the doctor,
even though it’s not only you who’s sick.

The paint stops peeling.
I take the clock to the clockmaker,
ask him to make it soundless.
He removes the clock’s vocal cords,
patches its mouth shut.
I didn’t see the teeth,
didn’t ask the doctor.

At home, I put the batteries back.
The clock works silently.
It adds to the silence in the room.

I settle back into my chair, read some poems aloud
to break off the threads of silence that dangle
from the ceiling.

A cold night breeze seeps through the holes in the wall.
I tear out some pages I’ve finished reading,
stuff them into the small, shapeless non-closable windows.

I am two hours late for work the next day.

The clock wasn’t set right after its “treatment”.
Surely it would’ve alerted me
if it were capable of speech.

Number 4 falls from the clock’s face
when I try to adjust the time.

As if a front tooth has fallen out.

Four days later,
my brother Hudayfah
passes away.

L’orologio e il muro

C’è sempre quell’orologio sul muro.
Ogni volta che entro in camera, mi
incuriosisco, vorrei tirarlo giù, vedere
cos’ha dietro alla faccia.
Voglio vedere com’è invecchiato.
Mio padre l’ha comprato che io ero un bambino.
Voglio contargli i denti
conoscere i suoi anni.

Ma l’orologio non invecchia.
I numeri non cambiano.
Soltanto io.

E poi c’è la sedia a dondolo,
e io sono seduto qui, soltanto io
nella stanza, dondolo avanti e indietro
non faccio nulla, se non immaginare
il muro che grida all’orologio,
“Smettila di ticchettare! Mi fai male alle orecchie”.

Guardo le crepe nell’intonaco sul muro.
Non è solo il suono dell’orologio.
Buchi di granata mi fissano
ogni volta che entro in camera.

(L’orologio non è rimasto ferito in quell’attacco.)

Veloce, tiro fuori le pile dall’orologio.
Gli sussurro:
ti porto dal dottore,
anche se non sei solo tu a essere malato.

L’intonaco smette di creparsi.
Porto l’orologio dall’orologiaio
gli chiedo di renderlo silenzioso.
Rimuove le corde vocali all’orologio,
gli chiude la bocca.
Non ho visto i denti,
non ho chiesto al dottore.

A casa, rimetto dentro le pile.
L’orologio funziona in silenzio.
Che si aggiunge al silenzio della stanza.

Torno alla mia sedia, leggo poesie ad alta voce
per rompere i fili di silenzio che pendono
dal soffitto.

Una brezza serale e fredda filtra dai buchi sul muro.
Strappo delle pagine già lette,
le infilo in quelle piccole finestre senza forma, impossibili da chiudere.

Il giorno dopo vado a lavoro con due ore di ritardo.

L’orologio non era stato riprogrammato bene dopo la “cura”.
Sicuramente mi avrebbe avvertito
se avesse potuto parlare.

Il numero 4 cade dalla faccia dell’orologio,
quando provo ad aggiustare il tempo.

Come se gli fosse caduto un incisivo.

Quattro giorni dopo,
mio fratello Hudayfah
muore.

A litany for “one land”

After Audre Lorde

For those living on the other side,
we can see you, we can see the rain
when it pours down on your (our) fields, on your (our) valleys,
and when it slides down the roofs of your “modern” houses
(built atop our homes).

Can you take off your sunglasses and look at us here,
see how the rain has flooded our streets,
how the children’s umbrellas have been pierced
by a prickly downpour on their way to school?

The trees you see have been watered with our tears.
They bear no fruit.
The red roses take their color from our blood.
They smell of death.

The river that separates us from you is just
a mirage you created when you expelled us.

IT IS ONE LAND!

For those who are standing on the other side
shooting at us, spitting on us,
how long can you stand there, fenced by hate?
Are you going to keep your black glasses on until
you’re unable to put them down?

Soon, we won’t be here for you to watch.
It won’t matter if you blink your eyes or not,
if you can stand or not.
You won’t cross that river
to take more lands,
because you will vanish into your mirage.
You can’t build a new colony on our graves.

And when we die,
our bones will continue to grow,
to reach and intertwine with the roots of the olive
and the orange trees, to bathe in the sweet Yaffa sea.
One day, we will be born again when you’re not there.
Because this land knows us. She is our mother.
When we die, we’re just resting in her womb
until the darkness is cleared.

For those who are not here anymore,
We have been here forever.
We have been speaking but you
never cared to listen.

Litania per “un’unica terra”

Come Audre Lorde

Per quelli che vivono dall’altra parte,
possiamo vedervi, possiamo vedere la pioggia
quando cade sui vostri (nostri) campi, sulle vostre (nostre) valli,
quando scivola lungo i tetti dei vostri edifici “moderni”
(costruiti sulle nostre case).

Potreste togliervi gli occhiali da sole e guardare noi, qui,
come la pioggia ci ha invaso le strade
come gli ombrelli dei bambini sono stati perforati
da un acquazzone pungente sulla via di scuola?

Gli alberi che vedete le nostre lacrime li hanno innaffiati.
Non danno frutto.
Le rose rosse hanno il colore del nostro sangue.
Puzzano di morte.

Il fiume che ci separa è solo un miraggio
che avete creato quando ci avete espulso.

È UN’UNICA TERRA!

Per quelli che stanno dall’altra parte
e ci sparano, ci sputano,
per quanto tempo ancora ve ne starete là, recintati dall’odio?
Continuerete a indossare i vostri occhiali neri finché
non potrete più toglierli?

Presto, non saremo più qui per farci guardare da voi.
Non importerà se sbatterete o no le palpebre
se potrete stare o meno in piedi.
Non attraverserete quel fiume
per prendere altre terre
perché svanirete nel vostro miraggio.
Non potete costruire una nuova colonia sui nostri cimiteri.

E da morti,
le nostre ossa continueranno a crescere
per raggiungere e allacciarsi alle radici dell’ulivo
degli aranci, e bagnarsi nel dolce mare di Yaffa.
Un giorno, quando non sarete qui, noi di nuovo nasceremo.
Perché questa terra ci conosce. È nostra madre.
E da morti, stiamo soltanto riposando nel suo ventre
finché farà più chiaro.

Per quelli che NON sono più qui,
noi siamo qui da sempre.
Da sempre noi parliamo ma voi
non avete mai voluto ascoltare.

We deserve a better death

We deserve a better death.
Our bodies are disfigured and twisted,
embroidered with bullets and shrapnel.
Our names are pronounced incorrectly
on the radio and TV.
Our photos, plastered onto the walls of our buildings,
fade and grow pale.
The inscriptions on our gravestones disappear,
covered in the feces of birds and reptiles.
No one waters the trees that give shade
to our graves.
The blazing sun has overwhelmed
our rotting bodies.

Meritiamo una morte migliore

Meritiamo una morte migliore.
I nostri corpi sfigurati e storti,
ricamati con proiettili e schegge.
I nostri nomi pronunciati male
alla radio e alla televisione.
Le nostre foto, sui muri dei palazzi,
sbiadiscono e diventano pallide.
Le iscrizioni sulle nostre lapidi scompaiono,
coperte da feci di uccelli e rettili.
Nessuno innaffia gli alberi che ombreggiano
le nostre tombe.
Il sole rovente ha sopraffatto
i nostri corpi marcescenti.

Seven fingers

Whenever she meets new people, she sinks
her small hands into the pockets of her jeans,
moves them
as if she’s counting
some coins. (She’s just lost seven
fingers in the war.) Then she
moves away,
back hunched,
tiny as a dwarf.

Sette dita

Ogni volta che incontra persone nuove, affonda
le sue piccole mani nelle tasche dei jeans
le muove
come se contasse
monete. (Ha appena perso sette
dita in guerra). Poi si
allontana,
la schiena curva,
piccola come un nano.

Displaced

In memory of Edward Said

I am neither in nor out.
I am in between.
I am not part of anything.
I am a shadow of something.
At best,
I am a thing that
does not really
exist.
I am weightless,
a speck of time
in Gaza.
But I will remain
where I am.

Dislocato

In memoria di Edward Said

Non sono né dentro né fuori.
Sono in mezzo.
Non sono parte di niente.
Sono l’ombra di qualcosa.
Alla meglio,
sono una cosa che
non esiste
davvero.
Sono senza peso,
un bruscolo di tempo
a Gaza.
Ma rimarrò
dove sono.

Notebooks

I walk carefully on the beach, look to
see if a child’s footsteps lie ahead,
a child who’s lost a leg, or two,
or can no longer hear the waves.


This angel of death just turned my body into pieces
and took my soul. It
left me lying there on the bloody ground,
my fingers resting on a neighbor’s broken window.
It didn’t look back to see if I was smiling or crying,
or if my mouth was even intact.
It just wanted my soul.
My family was out looking for my body.


During the night airstrikes, all of us turned
into stones.


When I hear the explosion, I can smell the sand, sand that blows through the still air
to gather on my windowsill.
I can hear the little dog that barks whenever the branches of an almond tree stir.
He thinks it’s a bird trying to scare him. Is it time to play?
The thick dust falling onto the tree and the dog, and blowing in through my window,
clears the confusion.


I turn off the lights at night so the F-16s
and their bombs don’t catch me,
so the dust doesn’t race in to cover my new clothes,
so the bullets don’t hit my shoulders
when they cut through the skinless air.


I walked down the road and saw a tree.
I wrote a poem about its slim branches and vivid leaves,
a robin in its nest, watching a baby
in a stroller, a mother rolling up her sleeves.

The next day, I walked down and found the tree not there.
I hurried to my room, looked for the poem in my notebook.
The page was torn out.

I return to that road.
No tree.
I go back to my room.
The notebook is not there.

I look into the mirror,
and see a specter of my younger self.
I squat to pick up my pen from the floor.
The mirror follows me,
and shatters on my head.
I wake up.


Raindrops slip into the frying pan
through a hole in a tin roof.


We left the house,
took two blankets,
a pillow, and the echo
of the radio with us.


Why is it when I dream of Palestine,
that I see it in black and white?


People say silence is a sign of consent.
What if I’m not allowed to speak,
my tongue severed, my mouth sewn shut?


Even the pens wanted to write about what they heard,
what shook them when they were napping
in the early afternoon.


The grave was brimming with sand
and prayers and stories that fell from visitors passing by.


It’s been noisy for a long time
and I’ve been looking for a recording
of silence to play on my old headphones.

Taccuini

Con cautela cammino sulla spiaggia, cerco
davanti a me l’impronta di un bambino,
un bambino che ha perso una gamba, o due
o che non può più sentire il suono delle onde.


Questo angelo della morte mi ha appena ridotto il corpo a pezzi
e si è preso la mia anima. Mi ha
lasciato lì disteso sul terreno sanguinoso,
le dita posate sulla finestra rotta di un vicino.
Non si è voltato per vedere se sorridevo o piangevo
o se la mia bocca fosse almeno intatta.
Voleva solo la mia anima.
La mia famiglia, fuori, cercava il mio corpo.


Durante i bombardamenti notturni, ci trasformammo tutti
in pietre.


Quando sento l’esplosione, annuso nell’aria ferma la sabbia, la sabbia che soffia
e si posa sul mio davanzale.
Posso sentire il piccolo cane che abbaia ogni volta che i rami di un mandorlo si muovono.
Pensa che sia un uccello che prova a spaventarlo. È tempo di giocare?
La polvere spessa che cade sull’albero e sul cane, e soffia dentro alla finestra,
chiarisce la confusione.


Di notte spengo le luci perché gli F-16
e le loro bombe non mi prendano,
perché la polvere non venga a ricoprire i miei vestiti nuovi,
perché i proiettili non mi colpiscano le spalle
quando tagliano l’aria senza pelle.


Camminavo per la strada e ho visto un albero.
Ho scritto una poesia sui suoi rami magri e le sue foglie brillanti,
con un pettirosso nel nido, che guardava un neonato
in un passeggino, una madre tirarsi su le maniche.
Il giorno dopo, sono ripassato e l’albero non c’era più,
sono corso in camera, cercavo la poesia nel mio taccuino.
La pagina era stata strappata.

Torno in quella strada.
Nessun albero.
Torno alla mia stanza.
Nessun taccuino.

Guardo nello specchio,
e vedo lo spettro di un me più giovane.
Mi piego per raccogliere la penna da terra.
Lo specchio mi segue,
mi si spacca sulla testa.
Mi sveglio.


Gocce scivolano nella padella
attraverso un buco in un tetto di latta.


Abbandonata la casa, abbiamo
preso due coperte,
un cuscino, e l’eco
della radio con noi.


Perché quando sogno la Palestina
la vedo in banco e nero?


La gente dice che il silenzio è assenso.
E se non mi permettono di parlare,
la lingua tagliata,
la bocca cucita?


Anche le penne volevano scrivere di ciò che hanno sentito,
di quel che le ha scosse mentre sonnecchiavano
nel primo pomeriggio.


Il cimitero brillava di sabbia
e preghiere e storie che cadevano dai visitatori di passaggio.


C’è rumore da così tanto tempo
e io sto cercando la registrazione
di un silenzio, da ascoltare nelle vecchie cuffie.

Things you may find hidden in my ear

For Alicia M. Quesnel, MD

I
When you open my ear, touch it
gently.
My mother’s voice lingers somewhere inside.
Her voice is the echo that helps me recover my equilibrium
when I feel dizzy during my attentiveness.

You may encounter songs in Arabic,
poems in English I recite to myself,
or a song I chant to the chirping birds in our backyard.

When you stitch the cut, don’t forget to put all these back in my ear.
Put them back in order as you would do with books on your shelf.

II
The drone’s buzzing sound,
the roar of an F-16,
the screams of bombs falling on houses,
on fields, and on bodies,
of rockets flying away –
rid my tiny ear canal of them all.

Spray the perfume of your smiles on the incision.
Inject the song of life into my veins to wake me up.
Gently beat the drum so my mind may dance
with yours,
my doctor, day and night

Cose che potresti trovare nascoste nel mio orecchio

Per Alicia M. Quesnel, Dottoressa

I
Quando apri il mio orecchio, toccalo
con gentilezza.
La voce di mia madre è ancora sospesa lì, da qualche parte.
La sua voce è l’eco che mi aiuta a ritrovare l’equilibrio
quando, nello sforzo dell’attenzione, vengo meno.

Potresti trovare canzoni in arabo,
poesie in inglese che recito a me stesso
o un mio canto per gli uccelli che cinguettano nel nostro cortile.

Quando ricucirai il taglio, non dimenticare di rimettere tutte queste cose nell’orecchio.
Ordinate, come faresti con i libri sul tuo scaffale.

II
Il ronzio dei droni
il boato di un F-16
le urla delle bombe che cadono sulle case
sui campi, sui corpi,
dei razzi che sfrecciano –
queste toglile dall’orecchio, dal suo canale stretto.

Sull’incisione, spruzza il profumo dei tuoi sorrisi.
Iniettami nelle vene la canzone della vita per svegliarmi.
Batti con gentilezza il timpano, così che la mia mente possa
ballare con la tua,
mia dottoressa, giorno e notte.

Mosab

My father gave me a difficult name.
Inside it sit two letters that don’t exist in English.

My father didn’t know I would
have English-speaking friends,
always asking how to pronounce my name,
or trying to avoid saying it.

But Dad, I like to hear others address me by name,
especially friends.

Even my name’s root means difficult.
A camel that is described as Mosab
is one that’s difficult to mount and ride.

But I’m not difficult in any way.
I will undress myself and show you
my shoulders, how dust has come to rest on them,
my chest, how tears have wet its thin skin,
my back, how sweat has made it pale,
my belly, how hair has covered my navel,
the spot where my mother fed me before birth.

The same spot, they say, the angel of death
will pierce to take away my soul.

And now, at night, my son’s head hurts
when he rests it on my belly.

And my clothes, I feel them loose,
while others see them tight on me.

When someone from the life insurance company calls
and pronounces my name in English,
I see the angel of death in the mirror,
with eyes that watch me
crumbling onto this foreign ground.

Mosab

Mio padre mi ha dato un nome difficile.
Dentro, siedono due lettere che non esistono in inglese.

Mio padre non poteva sapere
dei miei amici anglofoni
che chiedono sempre come pronunciarlo
o evitano di dirlo.

Ma papà, a me piace che gli altri mi chiamino per nome,
soprattutto gli amici.

Anche la radice del mio nome significa difficile.
Si dice che un cammello è Mosab
quando è faticoso da montare e cavalcare.

Ma io non sono per niente difficile.
Mi spoglierò e ti mostrerò
le mie spalle, come la polvere ci si è posata sopra,
il mio petto, come le lacrime hanno inumidito la pelle sottile,
la mia schiena, come il sudore l’ha resa pallida,
la mia pancia, come i peli hanno coperto l’ombelico,
il punto da cui mia madre mi nutriva prima di nascere.

Proprio il punto, dicono, che l’angelo della morte
bucherà per portarsi via la mia anima.

E ora, di notte, a mio figlio fa male la testa
quando la posa sulla mia pancia.

E i miei vestiti, li sento larghi,
mentre gli altri li vedono stretti su di me.

Quando qualcuno dell’assicurazione sulla vita chiama
e pronuncia il mio nome in inglese,
vedo l’angelo della morte nello specchio,
i suoi occhi che mi guardano
mentre crollo su questo suolo straniero.

A rose shoulders up

Don’t ever be surprised
to see a rose shoulder up
among the ruins of the house:
this is how we survived.

Spunta una rosa

Se dalle rovine della casa
vedi spuntare una rosa
tu non sorprenderti:
così siamo sopravvissuti.


Credit: Poetry from Things You May Find Hidden In My Ear. Copyright © 2022 by Mosab Abu Toha. Reprinted with the permission of City Lights Books. www.citylights.com

Si ringrazia Elaine Katzenberger di City Lights per la gentilezza e la disponibilità

In teoria e in pratica | Pietro Cardelli

Le risposte di Pietro Cardelli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Tu devi prendere il potere è un esordio, dunque sono obbligato a rispondere a questa domanda a partire da un’unica esperienza di scrittura di un’opera compiuta. Oltre ad essere un esordio, è anche un libro la cui gestazione è stata molto lunga, sia a livello di scrittura, sia di vicenda editoriale. I testi che lo compongono, infatti, sono stati scritti fra il 2013 e il 2022, e la pubblicazione del libro, per ragioni di mero contesto, ha subito un ritardo di quasi due anni rispetto alla prima uscita ipotizzata: dalla primavera 2021 alla primavera 2023. Tutti fattori, questi, che hanno accentuato gli elementi dinamici (di costruzione e movimento) di un lavoro che si voleva il più possibile chiuso e compiuto.

Per quanto mi riguarda, tale bisogno di compiutezza – valido in ogni fase di costruzione dell’opera e di sua organizzazione (sia a livello sincronico, di macro-struttura, sia diacronico, di organizzazione del materiale nel tempo) – non rispondeva a un semplice bisogno organizzativo, di superficie, e non era neppure un elemento irrelato fra i tanti che vanno a comporre la totalità-libro: era l’immagine di una stessa necessità attiva su tutti i piani del discorso e della lingua: di singolo testo, di sezione, di macro-struttura, ma anche: di stile, di postura, di strutturazione del centro enunciativo etc.

Un libro compiuto per un soggetto (e una voce) che – preda della propria nevrosi di (auto-)controllo e vittima di un senso di impotenza estremo e continuamente alimentato – vuole farsi soggetto, voce (e mondo) compiuto. Un obiettivo come una risposta: “compiutezza” significa anche comprensione, stabilità, prova del nove.

Ma “compiutezza”, per questo soggetto, era anche un modo per fermare il (e dunque uscire dal) tempo: acquisire una visione d’insieme, una lettura unificante, un punto “di approdo e di partenza insieme”. La sospensione di chronos rendeva allora possibile l’invenzione del nuovo: per la voce che parla, per il soggetto che la enuncia, per il mondo in cui essa vive.

In questo libro, dunque, il tentativo è sempre stato quello di tenere assieme tutto, dal singolo verso alla macro-struttura del libro fino al processo editoriale che lo ha riguardato. Tutto doveva tenersi come forma di auto-responsabilizzazione massima e ipotesi di una comprensione definitiva: un soggetto che costruisce un mondo perché vuole affermare un valore di verità («assoluta nella sua relatività», si diceva un tempo).

Tale postura, ovviamente, portava con sé tutto un carico di rischi a volte schivati, a volte elusi, a volte no. La crisi di questa postura, la sua messa in dubbio, è ciò che, ad un certo punto, mi ha spinto a riconoscere la fine di questo lavoro (e dunque mettere un punto al libro) e l’inizio di un periodo nuovo. Senza crescita, dentro e fuori dal testo, dentro e fuori dall’io, non può esserci nuova opera, nuovo senso.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Ho sempre pensato che, anche quando si parla di lingua, di poesia e di letteratura, non si possa prescindere dalle condizioni materiali, storico-economiche, che ci e la determinano. Farlo significa sprofondare nel soggettivismo, fino a perdere di vista sia il ruolo del poeta nella società di oggi (meno importante), sia il condizionamento di quest’ultima sulla sua voce (più importante).

È proprio da questa consapevolezza, inoltre, che credo possa essere costruito un io forte; ossia una poesia che sappia mettere in campo il proprio io in tutta la sua parzialità e che di questa parzialità faccia uso per spiccare il volo verso una voce oggettivata, non tanto impersonale quanto condivisa. Anche qui torna il tema di un’assunzione di responsabilità: riconoscere, nello stesso momento, la parzialità e l’insostituibilità del proprio filtro percettivo, nella scrittura e in tutto il resto.

Un tale tentativo necessita però di tutta una serie di contrappesi e di appigli per poter essere credibili, contrappesi e appigli che sono in primo luogo elementi di stile, l’unica via che abbiamo per mettere un freno credibile all’io e alla sua boria. È qui che ci giunge in soccorso la lingua, la Tradizione, dunque la poesia. Ciò che è sufficiente, per ora, è avere bene in mente l’obiettivo: partire dall’io per superarlo.

Per quanto mi riguarda, mi piace pensare all’io (qui come realtà biografica) come mero fornitore di materiale. Tutto quello che si fa con questo materiale è finzione poetica, quale che sia l’apparente aderenza dello scritto con il materiale iniziale prelevato. Il problema, poi, è come l’io (io-volontà, io-destino) riemerge da e in questa finzione: cosa resta – e quanto di impersonale, oggettivo e potenzialmente condiviso resta – dalla dialettica fra i momenti di posizione e quelli di sottrazione dell’io. Una risposta che può dare solo il lettore (inteso come soggetto collettivo) nel tempo. 

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

La mia formazione poetica è iniziata da bambino, prima delle elementari. Mia nonna, insegnante, oltre a leggermi e farmi leggere molta poesia, mi ha insegnato a scrivere (sembra assurdo ma è effettivamente così) attraverso piccoli esercizi di riscrittura di testi poetici più o meno conosciuti. Tale immersione forzata nella poesia, dopo un periodo di rigetto durato un bel po’ di anni, è riemersa attorno alla fine delle Scuole Superiori, quando ho ripreso in mano, con foga nuova, i poeti che avevo amato da bambino: i francesi (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud), gli spagnoli (Garcia Lorca, Machado, Jimenez, Alberti) e quello che – a quel tempo – era il mio trittico preferito della poesia italiana: Petrarca, Foscolo, Leopardi.

Successivamente ciò cha ha influenzato di più la mia scrittura è stato il trasferimento a Siena, dove ho avuto la fortuna di intercettare un ambiente culturale vivissimo, sia dentro sia fuori l’Università. È qui, per esempio, che ho incontrato alcune persone che hanno influenzato direttamente la mia crescita e la mia scrittura, consigliandomi libri da leggere, saggi da studiare, riviste da seguire, o più semplicemente coinvolgendomi in un percorso di elaborazione umana e intellettuale, di visione del mondo e del linguaggio, condivisa e collettiva. Penso subito, in questo senso, a Stefano Dal Bianco e a Guido Mazzoni, e con loro a Marco Villa, Simone Burratti, Alessandro Perrone e Andrea Lombardi, i redattori dell’allora “formavera”. È qui che ho iniziato a leggere cose nuove, italiane e straniere, e a modificare il mio modo di scrivere alla ricerca di una voce il più possibile autentica e il più possibile mia.

In questo senso sì, il rapporto con l’esterno – se così vogliamo chiamarlo – ha influenzato e continua ad influenzare moltissimo la mia scrittura, e per “esterno” potremmo intendere tutto quello che leggo (ovviamente con differenti intensità di condizionamento), ma anche tutto quello che vivo (e non solo strettamente legato alla poesia). Non credo, invece, che l’effetto sul pubblico influenzi il mio processo creativo, a meno che – per pubblico – non si intenda una cerchia ristretta di persone con cui ho sempre avuto la necessità di un reciproco confronto a partire dai propri testi. Infine sì, considero Tu devi prendere il potere la mia prima presa di parola come autore. Non darei, invece, lo stesso valore alle pubblicazioni sparse e spurie precedenti.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Sinceramente non credo che ci sia qualcosa da cambiare nelle “modalità” con cui si presenta un libro di poesia o si organizza una serata di letture. Credo che la differenza – e dunque la riuscita di un evento – risieda sempre in chi organizza quell’evento. Se a farlo è un soggetto serio (come collettività, nei suoi gradi di serietà, passione, capacità, impegno, credibilità), raramente si assiste ad eventi non necessari.

Penelope se ne va: estratti da un poema di José Gardeazabal

Introduzione e traduzioni dal portoghese a cura di Vassilina (Vasiliki) Avramidi.

 «Penélope, con su bolso de piel marrón y sus zapatos de tacón y su vestido de domingo» cantava Joan Manuel Serrat già nel 1969, e questa precisa immagine viene ripresa nella copertina di un’altra versione iberica dell’eroina omerica, quella di Penélope Está de Partida (2022) di José Gardeazabal (Prémios Autores SPA, 2023). Pubblicata presso Relógio d’Água in contemporanea con Da Luz Para Dentro, i due libri-gemelli di lirica, entrambi nella ricerca del come si parli del corpo desiderante, del cosa si intraveda nel buio. Mentre però in Da Luz Para Dentro l’io, il tu e il noi rimangono generali, astratti, in Penélope Está de Partida gli interlocutori sono ben chiari: Penelope, stanca ormai di aspettare, sta per cominciare il suo viaggio e lascia questo bigliettino in versi a Ulisse.

Ma l’antica veste dell’epica non è adatta a questo personaggio, cui la maggior parte della trama si sviluppa all’interno di una sola stanza, la sua camera da letto. Lei opta per un viaggio lirico e si sbarazza degli aggettivi imposti dalla tradizione. Lo stesso vale per il noto stratagemma della tela che qui non porta a nulla («tecia tecia e nada acontecia»). L’attenzione si sposta invece sulla difficile creazione del soggetto femminile: attraverso un gioco continuo con i verbi riflessivi, in questo long poem Penelope cerca di stabilire la propria identità e di mettere in atto la propria volontà pur vivendo nella perenne mancanza di un dialogo. Infatti, questa riscrittura non propone una rottura (come fanno, per esempio, Meadowlands di Louise Glück o Penelope’s Confession di Gail Holst-Warhaft): le parentesi lasciano a Ulisse la porta aperta, senza però garantire che dentro casa ci sarà la donna che lo aspetta.


Da Penélope Está de Partida (2022)

ainda tenho um pé na epopeia
por pouco tempo
duas malas na mão
ou seja   estou de mãos livres
até aqui tecia   tecia   e nada acontecia
agora aqui   em breve desapareço
sem raiva nem ruído
por ti não espero mais   nem em literatura
(deixo a porta aberta para entrares)
já recebi todos os presentes
fui todos os adjetivos
viajaste-me por muito tempo
acho-me demasiado cheia das coisas de dentro
já conversei tudo com a mobília
tecida e entretida   tornei-me pouco a pouco uma história
odisseia   se vista de fora
é bom que fábulas assim cheguem ao fim

sto ancora con un piede nell’epopea
per poco 
due valigie in mano
cioè   ho le mani libere
fin qui tessevo    tessevo    e nulla accadeva
adesso qui   tra poco sparisco
senza rabbia né rumore
non ti aspetto più   nemmeno in letteratura 
(lascio la porta aperta così entri)
ho già ricevuto tutti i presenti
sono stata tutti gli aggettivi
mi hai viaggiata a lungo
mi trovo troppo piena di cose da dentro
ho già discusso di tutto con i mobili
intessuta e intrattenuta   diventai a poco a poco una storia
odissea   se vista da fuori
favole così fanno bene a finire


desapareceste-me em todas as direções
só te via no escuro
e de olhos fechados
o quarto tão negro
eu tão imóvel
que todas as manhãs acordava feita fotografia a preto-e-branco

mi dileguasti in tutte le direzioni
ti vedevo solo nel buio
e a occhi chiusi
la stanza tanto nera
io tanto immobile
che tutte le mattine mi svegliavo fatta fotografia in bianco e nero


de longe tornaste-te voyeur
em viagem    a vista é a melhor amiga de imaginação
chamo-te      distante   apequenas-te
de pé num navio       as mãos nas orelhas
não me ofereces a atenção das sereias
és enorme e erras
o teu mapa é o meu calendario
sozinha        pareço-me demasiado comigo
sonhei com o anonimato
a literatura oral agarrou-se a mim
com ambições de epopeia

da lontano diventasti voyeur
in viaggio     la vista è la migliore amica dell’imaginazione
ti chiamo      distante   rimpicciolisci
in piedi su una nave   le mani alle orecchie
non mi presti attenzione da sirena
sei enorme e erri
la tua mappa è il mio calendario
sola              rassomiglio troppo a me
ho sognato dell’anonimato
la letteratura orale si è aggrappata a me
con ambizioni di epopea


tornei-me substantivo
desejo adjetivos como quem escapa à noite de um palácio
olha     cansei-me de me elogiarem o olhar e os joelhos
olhar é coisa de velhos
e eu envelheço
sou o avesso de uma viagem
a minha vida foi o contrário de uma paisagem
conheço demasiado o meu corpo
e cansei-me de saudade
(as duas coisas)
a minha autobiografia é um quarto só para mim
tenho a aparência de filme mudo
aquele silêncio de legenda
sinto-o
fantasmas acariciam-me a testa
sem coragem para a pele do resto do corpo
sinto-o

diventai sostantivo
desidero aggettivi come chi scappa di notte da un palazzo
guarda   sono stanca degli elogi del mio sguardo, dei ginocchi
guardare è cosa da vecchi
e io invecchio
sono l’inverso di un viaggio
la mia vita è stata il contrario di un paesaggio
conosco troppo il mio corpo
e sono stanca di saudade
(entrambe le cose)
la mia autobiografia è una stanza tutta per me
il mio aspetto è di film muto
quel silenzio da sottotitolo
lo sento
fantasmi mi accarezzano la testa
senza coraggio per la pelle del resto del corpo
lo sento

Copertina di Penélope Está de Partida di José Gardeazabal
José Gardeazabal, Penélope Está de Partida, Relógio D’Água, 2022

Su “Tutte le poesie” di Antonella Anedda

Nota di lettura a cura di Alessandro Farris.

Al netto delle giuste e legittime polemiche riguardanti i grandi gruppi editoriali e il loro ruolo nel diffondere una determinata idea di poesia o tracciare un fantomatico canone del contemporaneo, è difficile negare che ancora oggi la pubblicazione dell’opera più o meno completa di un poeta o una poetessa da parte di una casa editrice di grandi dimensioni rappresenti un argomento importante a sostegno della sua “canonizzazione”; se non altro, la pubblicazione di un’antologia presso un grande editore può garantire una certa diffusione del nome del poeta, anche al di fuori dei circoli degli addetti ai lavori.
Vista la difficoltà di reperire alcune raccolte di Antonella Anedda ormai fuori catalogo (una su tutti: Notti di pace occidentale, Donzelli, 1997), e considerata l’attenzione accademica che le è stata riservata e i consensi pressoché unanimi che la sua produzione ha incontrato, peraltro in una maniera trasversale e al di là della divisione tutta italiana e talvolta manichea tra ricerca e lirica, nel suo caso un volume antologico era ormai atteso da anni.

Pubblicato nel settembre 2023 da Garzanti all’interno della sua storica collana I Grandi libri, Tutte le poesie di Antonella Anedda è il definitivo coronamento di un percorso singolare e importante nel panorama poetico italiano; un’operazione che ha offerto ad Anedda la possibilità di rivedere il proprio corpus di testi per modificare, correggere o cassare alcuni componimenti. Non poteva essere altrimenti per un’autrice che ha fatto della ricerca della “parola esatta” un vero e proprio topos della propria poesia, e al contempo ha immaginato la scrittura come una continua e necessaria interrogazione metalinguistica. Va comunque detto che le modifiche fatte da Anedda, quando non vanno a eliminare del tutto un componimento, non sono mai radicali e interessano in modo particolare le sue prime tre raccolte. Se tuttavia si vanno a confrontare i libri e i relativi testi nelle versioni originali con le versioni accolte nel volume del 2023, è possibile individuare, proprio guardando alle correzioni di Anedda, alcune delle direttive fondamentali della sua scrittura.

Prima di tutto, però, il libro raccoglie in 564 pagine tutte le sei raccolte in versi dell’autrice: Residenze invernali (Crocetti, 1992), Notti di pace occidentale (Donzelli, 1999), Il catalogo della Gioia (Donzelli, 2003), Dal balcone del corpo (Mondadori, 2007), Salva con nome (Mondadori, 2012) e Historiae (Einaudi, 2018); va anche rilevata la presenza della valida prefazione di Rocco Ronchi, che pone l’accento su quello che col passare degli anni si è rivelato sempre più come uno dei veri nuclei della poetica aneddiana: la riflessione sul soggetto, sulla soggettività e sul suo rapporto con il mondo e più in generale con l’alterità. Già in Residenze invernali, esordio aneddiano che Amelia Rosselli definì in una rarissima recensione «un quasi capolavoro», e che fa uso di un tono decisamente più oracolare e astratto rispetto agli altri libri dell’autrice, appaiono versi del tipo «levo la preghiera di un umano / che vuole diventare oggetto»; il binarismo tra organico e inorganico, umano e oggetto, mondo concreto e tangibile e mondo astratto e interiore diverrà un tema sempre più centrale e pervasivo di raccolta in raccolta.
Procedendo con la lettura appare infatti chiaro come l’ottica aneddiana si sia configurata nel tempo come decisamente anti-antropocentrica: si giunge a un testo come «Nuvole, io», in Historiae, e alla scomparsa definitiva della propria identità umana nel vagabondaggio a-logico, libero e liberatorio di Geografie (Garzanti, 2021), non compreso però nel volume del 2023. Ragionamento sull’io e sul soggetto che però rifiuta la semplice scappatoia della reductio a un noi o a una presunta impersonalità (che, come ha osservato più volte Guido Mazzoni, è di fatto impossibile vista l’ineludibile componente personale della forma), e piuttosto costruisce su questa tregua sempre momentanea dal peso dell’io un sistema poetico, etico, estetico.

Tornando alle varianti, è senz’altro da rilevare la tendenza di Anedda ad asciugare determinati passaggi tramite l’eliminazione di sintagmi o intere frasi; è invece rarissima la tendenza opposta, volta allo sviluppo del testo in lunghezza (presente giusto in alcuni componimenti di Salva con nome). In Residenze invernali, in particolare, è molto frequente l’assimilazione dei versi composti da una sola parola (che tenderebbero a conferire una certa gravitas ad alcuni componimenti di questo libro) al verso successivo e più lungo, così da smorzare il tono aulico e austero che domina l’intero esordio aneddiano.

Ma tu
muovi una luce
la prima della sera […]

Ma tu muovi una luce
la prima della sera […]

tremore
di fuochi tra le pietre […]

tremore di fuochi tra le pietre […]

Abbiamo sollevato il mento
lampade legno e vuoto
gambe intorpidite dai letti
miseria
non muschio bianco
non luce d ’acqua tra i cespugli. […]

Abbiamo sollevato il mento
lampade legno e vuoto
gambe intorpidite dai letti
miseria non muschio bianco
non luce d ’acqua tra i cespugli. […]

D’altronde, come si accennava prima, Anedda è sempre stata molto cauta nell’uso delle parole e della lingua, una lingua-coltello (per usare una formula introdotta in Salva con nome) che va maneggiata con attenzione e richiede una grande consapevolezza su quando è meglio tacere: «Lo capite da sole parole, / non vi posso più mostrare / con voi faccio del male […] / dunque parole siate buone, andate nel silenzio / abbasserò la voce fino in fondo» (Historiae, 2018). Di pari passo con queste varianti riguardanti la versificazione, nelle versioni nuove di alcuni componimenti dei primi due-tre libri dell’autrice si può riscontrare anche una minore enfasi metafisica.

Non sorprenderà infatti che un altro cambiamento comune soprattutto in Residenze invernali e Notti di pace occidentale sia l’eliminazione di allusioni più o meno esplicite ad angeli, croci et similia. Lungi da Anedda essere mai stata una poetessa religiosa; piuttosto, come più volte rimarcato dall’autrice stessa, questo tipo di suggestioni hanno a che vedere con immagini provenienti dall’arte moderna e la sua iconologia (Anedda è storica dell’arte e iconologa di formazione) che si innestano sul dettato dei singoli testi. Il tono più “spiritualistico” che alcune di queste immagini rischiavano di conferire ai testi è qua abbondantemente cassato: l’unica trascendenza che viene ricercata in tutto il volume, e che è sempre stata quella veramente importante all’interno del percorso di autrice di Anedda, è la non-trascendenza della tregua, quella del momento di pieno distacco dall’io, della dispersione in qualcos’altro: nel non organico e nel paesaggio, nell’immagine e nella contemplazione, nello studio e nella testimonianza della storia e soprattutto della geografia.
Da qui l’estasi laica dello stare al mondo in maniera consapevole, l’etica dell’ascolto e la resistenza silenziosa alla costante anestetizzazione della percezione che caratterizza il momento storico in cui Anedda scrive. Ed è
proprio in questa contemplazione consapevole (che è di fatto lo stato privilegiato della poesia) che può trovare spazio tutto l’insieme delle immagini e delle tematiche aneddiane: le isole e i continenti, la storia e la geografia, la lingua sarda e il latino, la tregua e la perdita.

Si accennava prima all’importanza della geografia in Anedda; il volume omonimo del 2021, così come i precedenti libri non in versi (non semplicemente libri saggistici né raccolte di prose poetiche ma oggetti ibridi e difficilmente definibili), tra i quali vale la pena ricordare almeno La vita dei dettagli (Donzelli, 2008) e Isolatria. Viaggio nell’arcipelago della Maddalena (Laterza, 2013), non è compreso in Tutte le poesie. Questo è un peccato vista l’importanza fondamentale di questi testi per comprendere la poetica dell’ autrice. Certo, siamo di fronte a una scelta valida, che già il titolo (Tutte le poesie, non Tutte le prose o L’opera completa) dichiara in modo esplicito; e certo includere la produzione non in versi dell’autrice avrebbe reso poco maneggiabile un volume che già così supera le 500 pagine. Resta però auspicabile la pubblicazione di una futura opera omnia che raccolga i sei libri “gemelli” delle sei raccolte di poesia. Sono questi tra i libri più suggestivi, sperimentali e interessanti del panorama lirico italiano contemporaneo, più vicini all’opera della sempre inclassificabile autrice canadese Anne Carson che alla generazione dei coetanei di Anedda. Ci troveremmo dinanzi a un’opera che potrebbe aver titolo “Tutte le prose” e potrebbe offrire un reale sguardo d’insieme sulla produzione dell’autrice sardo-italiana, che, dal canto suo, alle parole “prosa” o “poesia” ne ha sempre preferito una più precisa: scrittura.


Da Notti di pace occidentale

Non volevo nomi per morti sconosciuti
eppure volevo che esistessero
volevo che una lingua anonima
– la mia –
parlasse di molte morti anonime.
Ciò che chiamiamo pace
ha solo il breve sollievo della tregua.
Se nome è anche raggiungere se stessi
nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino.
Non ci sono che luoghi, quelli di un’isola
da cui scrutare il Continente
– l’ oriente – le sue guerre
la polvere che gettano a confondere
il verdetto: noi non siamo salvi
noi non salviamo
se non con un coraggio obliquo
con un gesto
di minima luce.

Da Dal balcone del corpo

Paesaggio

Mi avvicinai a un ramo carico di neve
dove uno dei corvi piegava sotto le zampe il legno.

Diventai quel dondolio di grigio e nero.
E quel diverso verde (misto di salvia e gelo)
che avanzava con un tocco di livore sulle nubi.

Vidi me stessa dentro quel purgatorio.

Tutto era paesaggio. La rabbia: un tumulo.

L’incertezza – a mucchi: una collina.
Il disamore: alberi con ombre intirizzite.

“Osserva” disse l ’ombra nel cespuglio più vicino,

“la nebbia inghiotte il tuo dolore.
Impara nel tuo spazio mortale
imparando si sfiora il paradiso.”

Sì, risposi e la luce diminuì l’ira del mattino
divise il mio corpo dal rancore
impose alle ombre di tacere.
E un tagliante azzurro prese – era già paradiso? –
il posto del paesaggio, della prima persona.

Da HISTORIAE

Nuvole, io

I.

Il documento viene salvato, lo schermo torna grigio,
lo stesso grigio topo del cielo.
Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica
ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome.
Al massimo lo declino al plurale. Dico noi
e mi sento falsamente magnanima.
Dire voi e tu mi dà disagio come accusare.
La terza persona mi confonde ogni volta con il sesso.
Alla fine torno all’io che finge di esistere,
ma è una busta come quelle usate per la spesa
piena di verdure o pesce surgelato.
Io con l’io mi nascondo
chiamando a raccolta quello che sappiamo:
abbiamo paura, ancora non è chiaro come finirà la storia.
Dunque riapro la finestra dello schermo,
ritrovo il documento, esito davanti alla tastiera.
Salvo in una nube l’insalvabile.

“Et je n’avais aucun mot pour décrire la lumière”: alcune poesie di Milène Tournier

Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Raphael Louvet.

“J’écris comme
Hurlent les singes face à la montagne et la montagne
Leur rend leur cri”

“Scrivo come
le scimmie urlano davanti alla montagna e la montagna
restituisce loro il grido”

In questo modo e in quel giorno, nei suoi Poèmes en Dieu, Milène Tournier descrive il suo lavoro di scrittura. Dico ‘in quel giorno’, perché si tratta di una scrittura plastica, mutevole, che si gonfia di tutto ciò che, giorno per giorno, incontra sul suo cammino. 

Milène Tournier è nata nel 1988 a Nizza, dov’è cresciuta. Ha studiato teatro e discusso, nel 2017, una tesi intitolata Figures de l’impudeur: dire, écrire, jouer l’intime 1970-2016. Da allora, si dedica tra le altre cose alla scrittura poetica e teatrale. Ad oggi, è una delle voci più peculiari del panorama poetico francese, in ragione tanto della sua scrittura incarnata quanto della costanza con cui questa si manifesta. Ha pubblicato infatti tre raccolte in tre anni (L’autre jour, 2020; Je t’aime comme, 2021; Se coltiner grandir, 2022), tutte per l’editore Lurlure. Tournier è molto presente anche ‘fuori’, sui palchi e negli spazi dove la poesia si dice e si vive collettivamente. Il suo lavoro procede in varie direzioni. I testi che qui presentiamo tendono a volte verso la prosa autobiografica, evocando l’affetto familiare, l’età adulta, e l’ingresso nei trent’anni, altre volte si concentrano sull’erotismo, l’amore o l’esperienza della sua fine. 

Si tratta, soprattutto, di una poesia fatta per essere detta. Quotidianamente, Tournier scrive e pubblica su Youtube anche delle videopoesie, che trovano la loro materia grezza nelle lunghe passeggiate urbane e nei vagabondaggi; nelle immagini raccolte casualmente, con cui la voce si mette a dialogare (Ce que m’a soufflé la ville, 2023, éditions Castor Astral). Ne sale un canto caratterizzato da una leggera malinconia e radicato nella quotidianità, attento alla sua straordinaria banalità e al mormorio delle creature e delle cose che la popolano. Sono testi attraversati da istanti che non sarebbero stati percepiti né percepibili, se non passando attraverso quell’ascolto e quello sguardo attenti, tipici della vita poetica, cioè della vita ordinaria trasformata, se non addirittura orientata, dall’azione di vigilanza della poetessa.


Da L’autre jour (2021)

Poèmes de famille

On m’enterrera sous une autre époque que celle sur laquelle tout à l’heure je suis née. Mes mains ont cherché le visage de ma mère, le trou sur la vitre. Sur les tables à langer officielles ou de fortune, aire d’autoroute, lit d’invité, et pour que ne criât plus ma bouche qui criait, son nez a lu mon front de droite à gauche, de gauche à droite, comme une langue s’indécise. Trente ans durèrent trente ans. Mes bras prennent des bras dans leurs bras le soir, quand la lune prend le ciel. Il y a quelqu’un, précis comme un miracle, entre la lourde vitre du monde et le long trou du moi. Ma mort aura bientôt étalé et rapproché mes dizaines. Les mondes sont de très grands prématurés. J’attends ensemble la fin de la fin du monde.

Poesie di famiglia

Mi seppelliranno sotto un’epoca diversa da quella in cui poco fa sono nata. Le mie mani hanno cercato il viso di mia madre, il buco sulla finestra. Su fasciatoi ufficiali o di fortuna, aree di servizio, letti per gli ospiti, perché la mia bocca urlante non urlasse più, ha letto con il naso la mia fronte da destra a sinistra, da sinistra a destra, come una lingua s’indecide. Trent’anni durarono trent’anni. Le mie braccia prendono delle braccia tra le braccia la sera, quando la luna prende il cielo. C’è qualcuno, preciso come un miracolo, tra il pesante vetro del mondo e il lungo buco dell’io. La mia morte avrà presto disposto e avvicinato le mie decine. I mondi sono dei grandi prematuri. Aspetto insieme la fine della fine del mondo.

Poèmes urbains

On est loin à la fois de la mort et de la naissance
On survole en RER des cimetières
La nuit vient dans le ciel tout doucement
Pareille chaque soir
Les gamines couchent les Barbies par terre et parlent de château
Les nez coulent
Il faut trouver résolutions à tous les problèmes.

C’était la fin de journée dans le bus
Et je n’avais aucun mot pour décrire la lumière
Le précisement du ciel et les roues des nuages
Comme on suppose que le paradis existe
On suppose que le réel existe
Les nuages sur le début des montagnes
Les montagnes étaient pleines d’arbres
Et pas du tout vides comme je les aurais dessinées si on m’avait demandé
Dessine une montagne
Une lumière entre ciel et nuages et montagnes
Une lumière de Jurassique
Une lumière comme ce genre d’images-là
De cinéma et dinosaures
Le cou diplodocus de la lumière
Le ciel son squelette d’absolu.

C’était l’un de ces soleils de grande verrière de gare, en fin de journée l’été. Un soleil provincial. Avec son tout ciel un peu plus loin. Les peaux nues en bout de valises. C’était l’été encore et la petite France. D’aller et venir sud et nord comme on plie son coude – parce qu’on ne peut pas plier son cœur. C’était l’été long des trains. L’été bourdon des Flixbus qu’on pick up à l’aéroport, kiss and longtemps roule. Je voudrais Dieu faire une sortie d’été l’été, comme sortie de corps quand le ciel raccourci de chaque conscience consent enfin à grand ouvrir ses bras immenses.

Poemi urbani

Siamo lontani sia dalla morte che dalla nascita
Sorvoliamo cimiteri sulla RER
La notte arriva dolcemente nel cielo
Uguale ogni sera
Le bambine coricano le Barbie per terra e parlano di castelli
I nasi colano
Bisogna trovare soluzioni a tutti i problemi.

Era la fine della giornata sul bus
E non avevo parole per descrivere la luce
Il precisamente del cielo e le ruote delle nuvole
Come si suppone che il paradiso esista
Si suppone che il reale esista
Le nuvole all’inizio delle montagne
Le montagne erano piene di alberi
E niente affatto vuote come le avrei disegnate se mi avessero chiesto
Disegna una montagna
Una luce tra cielo e nuvole e montagne
Una luce giurassica
Una luce come quel tipo di immagini
Di cinema e dinosauri
Il collo diplodoco della luce
Il cielo suo scheletro di assoluto.

Era uno di quei soli da grande vetrata di stazione, d’estate a fine giornata. Un sole provinciale. Con il suo tutto cielo un po’ più in là. Pelli nude in punta di valigia. Ancora era l’estate e la piccola Francia. Andare e venire a sud a nord come si piega il gomito – perchè non si può piegare il cuore. Era l’estate lunga dei treni. L’estate calabrone dei Flixbus che si pick up all’aeroporto, kiss and vai a lungo. Vorrei Dio una fuga estiva nell’estate, come fuga dal corpo quando il cielo corto di ogni coscienza acconsente finalmente a spalancare le sue braccia immense.

da Là où dansent les éphémères. Anthologie collective (2022)

Éphémère et père

[…]

Souvent le père disait
Qu’il aimerait se réincarner
En chat de village, sauvage mais nourri,
– J’avais moi, déjà, du mal
À finir cette vie-là
Comme venir à bout de son assiette

Le père fourrait en douce un T-shirt dans les petites cages
du baby-foot
Pour que le but compte sans la balle avalée
Et j’avais, comme ça, des défaites infinies.

Quand le père prenait sa guitare, c’était, il disait :
« Pour m’entraîner pour ma prochaine vie
Quand je serai musicien »
Et que « les vies ne se font pas en une seule vie »,
Mais moi je ne voulais comme vie
Que celle de la pièce avec dedans mon père.

La mère a dit
Qu’on est tous
Traversés par des espérances très profondes
Même ceux qu’on imagine pas, ils sont traversés par des
espérances très profondes.
Et j’ai regardé ma mère,
Et c’était effectivement, sur ou en elle,
Plutôt une espérance que de l’espoir
Comme y’a parfois pas besoin du soleil pour qu’y ait la
lumière, tant il a déjà brillé, et la mer suffit à faire le soleil,
J’ai regardé ma mère avec son espérance
Et comme elle était claire.
Et ma mère aussi me regardait.
Et ça se voyait
Qu’elle espérait pour deux
Et que moi, il suffisait de vivre.

Chapeau sur la tête, la mère analysait :
« En même temps il me protège du soleil
Mais aussi il me donne chaud. »

Avec ces chaussures légères,
Quand je marche sur les pierres
On fait connaissance à chaque pas –
A dit la mère avec sa façon très à elle
De mystère clair.

Mon père m’a demandé
Tu te souviendras de nous vieux
Ou de nous jeunes ?
Mais moi j’avais même oublié
Qu’un jour il faudrait
Faire l’effort de m’en souvenir.

Comment tu décrirais un coquelicot ?
Alors, pour rire, mon petit frère a répondu sérieusement :
Rouge.
Et, peut-être un peu plus grave, mon grand frère a rajouté :
Ils sont fragiles.

Effimera e padre

[…]

Spesso il padre diceva
Che avrebbe voluto reincarnarsi
In un gatto di paese, selvaggio ma nutrito
– Io invece, facevo già fatica
A finire questa vita
Come a venire a patti con il proprio piatto

Il padre nascondeva una maglietta nelle piccole porte
del calcetto
Perchè il goal contasse, senza che venisse inghiottita la palla
E così, avevo delle sconfitte infinite

Quando il padre prendeva la sua chitarra, era, diceva:
«Per allenarmi alla mia prossima vita
Quando sarò musicista»
Perché «le vite non si fanno in una sola vita»,
Ma io non volevo altra vita
che quella dello spettacolo dove c’è mio padre.

La madre ha detto
Che siamo tutti
Attraversati da speranze molto profonde
Anche quelli che non immaginiamo, sono attraversati da
speranze molto profonde.
E ho guardato mia madre
E c’era in effetti, sopra o dentro di lei,
Più che una fede una speranza
Come a volte non c’è bisogno del sole perché ci sia la
luce, perché ha già brillato tanto, e basta il mare a fare il sole,
Ho guardato mia madre con la sua speranza
E quanto era chiara.
E mia madre anche mi guardava.
E si capiva
Che sperava per due
E io, bastava che vivessi.

Cappello in testa, la madre analizzava :
«Mi protegge dal sole, ma allo stesso tempo
Mi tiene anche caldo.»

Con queste scarpe leggere,
Quando cammino sulle pietre
Ci conosciamo ad ogni passo
Ha detto la madre, con quel modo tutto suo
Di chiaro mistero.

Mio padre mi ha chiesto
Ti ricorderai di noi da vecchi
O di noi da giovani ?
Ma io mi ero pure scordata
Che un giorno avrei dovuto
Fare lo sforzo di ricordarmene.

Come descriveresti un papavero ?
Allora, per scherzare, mio fratello più piccolo ha risposto seriamente:
Rosso.
E, forse con più gravità, mio fratello più grande ha aggiunto:
Sono fragili.

Da se coltiner, grandir (2022)

Premier amour

Je t’emmènerai vers un petit village
Plein de cloches à midi
Qui n’en finissent pas
Comme si c’était midi
Le seul véritable événement.

Prends-moi toute et vivante,
Comme dans ton Counter-Strike, ramasser chaude
encore
L’arme du mort.

Et je m’avancerai vers toi, mon incompréhensible
amour,
Comme sur la dalle immense s’avance
Pour la première fois
Le traducteur en face de son poète.

Regarde-moi comme aux vitres teintées il faut
Coller nez et passer son propre reflet pour
Accéder, derrière, au paysage…

Colle ton ventre à mon dos
Et que commence dans le lit
La nuit d’un fruit de mer.

Sédentarise-toi dans mes bras
Comme un matin les hommes découvrent le feu
Et le soir les hommes s’assoient autour du feu.

Ta main, le ciel,
C’est simple
De mourir.

Et je regarde ton sexe et il est doux comme une oreille
d’âne.
Et je respire avec ton sexe, assoiffée comme pardon une
vieille dame qui ne veut plus que de l’eau sans dent.
Et je tiens ton sexe comme dans la rue deux hommes se
voient et se serrent la main.
Et après je rêve de ton sexe comme je le regarde et respire
avec lui et le tiens.

La dame dans l’église a remercié le mort
Pour tout ce qu’il avait fait de ses mains,
« Merci
Pour tout ce que tu as fait de tes mains. »
C’était je crois
La plus belle phrase trouvée.
Que les morts sont ceux
Qui ont fini de faire des choses de leurs mains,
Et qu’on peut remercier.

Primo amore

Ti porterò in un piccolo villaggio
Pieno di campane a mezzogiorno
Che non la smettono mai
Come se fosse mezzogiorno
L’unico vero evento.

Prendimi intera e viva
Come nel tuo Counter-Strike, raccogliere calda
ancora
L’arma del morto.

E ti verrò incontro, mio incomprensibile
amore,
Come sulla lastra immensa va incontro
Per la prima volta
Al suo poeta il traduttore.

Guardami come ai vetri oscurati bisogna
Incollare naso e passare per il proprio riflesso
Per accedere, dietro, al paesaggio…

Incolla la tua pancia alla mia schiena
E che nel letto inizi
La notte di un frutto di mare.

Sedentarizzati nelle mie braccia
Come un mattino gli uomini scoprono il fuoco
E la sera gli uomini si siedono intorno al fuoco.

La tua mano, il cielo
È semplice
Morire.

E guardo il tuo sesso ed è dolce come un orecchio
d’asino.
E respiro con il tuo sesso, assetata come, scusa, una
vecchia signora che non vuole altro che acqua senza denti.
E stringo il tuo sesso come due uomini per strada
si vedono e si stringono la mano.
E dopo sogno il tuo sesso, come lo guardo e respiro
con lui e lo stringo.

La signora nella chiesa ha ringraziato il morto
Per tutto quello che aveva fatto con le sue mani,
«Grazie
Per tutto quello che hai fatto con le tue mani».
È stata credo
La più bella frase trovata.
Che i morti sono coloro
Che hanno finito di fare delle cose con le mani,
E che possiamo ringraziarli.

L’orrore più grande

Racconto di Giuliano Tomarchio.

«Cosa ci sta succedendo, Chris? Che sta succedendo a tutti quanti?».

Juliana si spinse oltre il bracciolo della poltrona per ispezionare il volto di Chris, pallido e chino sul pavimento, mentre affondava le unghie nella stoffa verde dell’imbottitura. Chris non si mosse. Aveva gli occhi puntati verso un abisso sottostante che vedeva solo lui, una zona negativa nel suo salotto che stava risucchiando via tutta la luce delle sue pupille, e la vita che un tempo c’era dietro di esse. Cristiano “Christian” Della Rocca, considerato un tempo il miglior investigatore privato di New York, sagace ma un po’ burbero, era ormai ridotto a un guscio vuoto di dubbi e incertezze, messo di fronte a un caso che non aveva né capo né coda, un’orgia di elementi indiziari disseminati in un viale di cadaveri: la sua esistenza.

Cos’è successo, caro Chris? Dov’è finita la tua arguzia, la tua battuta sagace sempre a portata, il tuo intuito trascendentale in grado di connettersi a un mondo paranormale oltre le soglie della percezione umana? Nella tua carriera hai affrontato sette assassine, novelli alchimisti, demonologi e dementi, fattucchieri e omicidi telepati e hai sempre trovato una soluzione elegante quanto conveniente e improvvisa come un fulmine a Catacumbo… Ma che soluzione darai all’insolubile, stavolta?

La New York esoterica si era aperta al tuo terzo occhio, i suoi misteri erano diventati la tua quotidianità. Ebbene, ora ti viene presentato un mistero ben più grande, che non trascende soltanto il mondo empirico, ma la tua realtà. Te ne è stato dato un semplice assaggio, eppure appari così inerme! Guardati: non riesci nemmeno a sollevare lo sguardo sulla tua amata, Juliana Jade, una donna impetuosa, corvina, tutta nervi, istinto e sentimenti. La sua voce è rotta dal pianto, ma non riesci neanche a guardarla. Chris, povero idiota, come farai a raccontarle l’indicibile, a spiegarle per filo e per segno i risvolti del caso, con voce calma e superba come un padre che parla alla figlia seienne, come facevi ogni volta?

Ma eccoti muto, immobile, in attesa che qualcuno ti metta le parole in bocca.

«È… una maledizione? È opera di Flynt?» Juliana tentò di spezzare il silenzio abbozzando un ragionamento, tornando ai vecchi schemi, a un passato radioso e leggero di indagini e congetture.

Ma no, cara Juliana: non è uno stratagemma di Eugene Theodore Flynt, diabolica nemesi del tuo amante e massonico maestro dell’Occulto. No, nessuna di quelle scemenze. Persino tu, però, ingenua Mrs. Jade, iniziavi a collegare i puntini del grande schema di questo orrore innominabile. Benché mancasse una ragione, non poteva essere un caso; non potevano essere solo un insieme di eventi contingenti tutte le sventure che vi erano capitate.

Era iniziato con la morte di Alistair Moore, l’ufficiale britannico che, al contrario del nostro “detective”, era rimasto nelle forze dell’ordine della città, da sempre sospinto da un forte e disgustoso senso del dovere. Ma non per questo avevano smesso di essere amici. I migliori, anzi. Fu una tragedia quando, nel ’29, la Borsa crollò e il nobile Alistair si tolse la vita con un colpo di pistola al cuore perché inondato da debiti che avrebbero afflitto almeno cinque generazioni dopo di lui. Tutto a causa di quegli investimenti edilizi a Manhattan che tu, Chris, il suo più grande confidente, gli avevi consigliato di fare!

Una vera tragedia. Così come quella che colpì Alice Della Rocca, la cara sorella, vispa, geniale, mai quieta e dall’orientamento sessuale ambiguo. Ah, Alice era una grande inventrice, fautrice di decine di apparecchiature pseudo-scientifiche che avrebbero fatto arrossire il Dottor Frankenstein, ma che di certo ti hanno aiutato, caro Chris, a risolvere decine di casi senza che tu mostrassi un pizzico di gratitudine, duro e distaccato come sei. Peccato che una di quelle stesse diavolerie l’abbia trasformata in uno scarafaggio fotofobico. Chissà che non sia quello che tu abbia schiacciato per errore, eh, Chris?

Persino Malleus Cole, il tuo mentore, il paziente professore la cui mente non è più tornata dal viaggio nel sovrannaturale, l’uomo saggio e mite che ti ha insegnato tutto, non è scampato alla catena di tragedie. Ormai definitivamente impazzito, vaga per le sale di un istituto psichiatrico in attesa di una lobotomia che lo salvi da se stesso e dalle creature demoniache che sono venute a fargli visita.

Ma come è potuto accadere tutto questo? Quale la causa comune di questi destini?

Questa è la parte più crudele dell’orrore, Chris. Che tu sai. Tutto.

Chris, senza staccare lo sguardo dal vuoto in cui la sua anima stava precipitando, porse la Lettera a Juliana. Il pezzo di carta giallastra sembrava un brandello di carne tumefatta, strappata a un corpo morto di recente. Benché la stanza fosse illuminata dalle ampie finestre in stile vittoriano, la Lettera rimaneva nell’ombra. Juliana avvicinò la mano tremante al foglio sospeso per aria. Una volta che lo ebbe fra le mani, Chris lo lasciò andare con sollievo, come si abbandona un carico pesante. Juliana avvicinò la lettera al volto. Quando, infine, trovò il coraggio di guardare la pagina, vide parole scritte col sangue, in una grafia folle. Immediatamente, la carta le tagliò le dita, un tuono echeggiò nella valle più vicina e una porta di quercia sbatté da qualche parte. Non ebbe bisogno di leggerla; il contenuto della Lettera, semplicemente, le invase la mente, come una macchia di inchiostro riversata su un foglio bianco.

«Cosa… come può essere… Chris… Io…»

Ora sapeva anche lei. Avresti voluto risparmiarle l’Orrore, Chris, un ultimo gesto disperato di amore, quell’amore profondo che non le avevi mai dimostrato, che non sei capace di esprimere. Ma era tardi. Tardi come lo è per me. Pare che la “Saga del Detective Maleficarum” sarà il mio unico lascito a questo mondo. Diciotto romanzi e centinaia di racconti brevi con protagonista il grande Chris Della Rocca, l’indagatore dell’incubo più amato dalle sessantenni. Il più dozzinale rifacimento di una parodia malfatta di Sherlock Holmes, unito al morboso gusto gotico di un’ambientazione sovrannaturale ed esoterica nella New York degli anni Venti e poi Trenta. Un’idea partorita a forza fra sangue e feci per pagarmi l’affitto e un condizionatore decente. Ero addirittura entusiasta quando, quel tredici ottobre, giorno da maledire in ogni calendario, ricevetti la telefonata dell’editor Fronelli, o “Frodelli”, come lo chiamo io. Tale fu l’entusiasmo che firmai qualsiasi foglio, in triplice copia, firmai senza leggere e firmai col sangue.

Quel sangue che adesso macchia quella Lettera, caro Chris.

“Un successo editoriale”, lo chiamarono. Un fulmine a ciel sereno; altro che Catatumbo… E quando iniziarono ad arrivare tutti quei soldi, pensai davvero di avercela fatta. Di aver vinto il gioco. Ma ero stato giocato. Sono dovuti passare trent’anni per accorgermene. Poi altri quindici. Fu a quel punto che capii che non mi avrebbero fatto scrivere mai più nient’altro che questo. Che la mia reputazione si basava solo su “quello del Detective Della Rocca”. Che ero disprezzato e deriso in qualunque circolo letterario, considerato, al più, uno scaltro e viscido opportunista, quando non un mediocre plagiatore. Soprattutto, capii di essere stato maledetto quando mi resi conto che la saga non avrebbe mai avuto fine. Che ero legalmente obbligato a “non far cessare l’esistenza finzionale” dei miei protagonisti. In altre parole, non posso farvi fuori. Furbo, il Frodelli, ad avermi ingabbiato fin dal principio e ad avermi costretto a scrivere abomini a metà fra l’italiano e l’inglese, per via di una qualche infernale linea editoriale che ancora oggi non comprendo. Ormai non ha neanche più senso cercare un cavillo, una scappatoia legale. Potrei anche uscirne con facilità, con un avvocato decente. Ma che senso avrebbe? Nessuno mi prenderà mai più sul serio, neanche se mi mettessi a scrivere un Infinite Jest o una nuova Recherche – e non ho neanche più la forza o la capacità di farlo; ho procrastinato abbastanza a lungo da non sapere più perché scrivevo. E siamo del tutto onesti, almeno fra noi: non sarei mai stato in grado di farlo. Vedi, Chris? La tua ragion d’essere si riduce a una nota a piè di pagina di un contratto e all’indolenza di un vecchio amareggiato! Dovrai vivere avventure scadenti e mal strutturate fino alla fine dei miei giorni. Purtroppo, godo di ottima salute e il mio stile di vita benestante mi garantisce l’accesso alle migliori cure. No, la tua leggenda non è destinata a concludersi. Uscirà presto anche una di quelle dannate serie televisive su di te, caro Chris. Per mesi ho avuto a che fare con quegli idioti di sceneggiatori americani, pieni di domande insulse, predicatori di neologismi pomposi e senza senso.

No, non posso ucciderti, Chris Della Rocca. Posso, però, con la scusa del genere, dell’orrore cosmico crescente, catapultare te e ciò che ami in un incubo senza fine. Posso renderti insopportabili quei tuoi baffetti ispidi; posso farti cadere quei quattro peli che ti sono rimasti in testa. Forse posso gambizzarti, devo controllare il contratto. Soprattutto, posso maledirti con la conoscenza. La consapevolezza di vivere in un inferno letterario, sottoprodotto della mente di uno scrittore indegno di questo nome, ti accompagnerà in ogni tuo gesto. È una questione editoriale, vedi; non potrai mai suicidarti e scappare dall’orrore. I tuoi “fan” non me lo perdonerebbero.

Per il resto, non preoccuparti: ho già pensato alla tua prossima battuta. Una chiosa efficace – ma non troppo, non vorrei alzare il livello – per “confortare” la tua donna.

Chris, incapace persino di produrre liquido lacrimale, con gli occhi secchi e sbarrati si alzò e andò a prendersi un sigaro Montecristo, una nuova marca con cui aveva sostituito i suoi amati Romeo y Julieta, che non riusciva più a trovare da nessuna parte. Fumare un sigaro lo aiutava sempre a pensare e distendersi. Ma il sigaro, non appena toccò le sue labbra, gli lasciò una sensazione di viscidume e acido in bocca. Lo allontanò amareggiato e si massaggiò i folti baffi con le dita, un altro dei suoi gesti più amati, quasi una firma; ma i suoi stessi peli lo punsero, e avvertì una crescente irritazione sopra il labbro. Juliana era affondata nella sua poltrona verde acido. Stava anch’ella sprofondando nel medesimo abisso del suo amato. La nausea crescente dentro di lei si stava trasformando in disprezzo. Disprezzo silenzioso e strisciante. Disprezzo per Chris. Egli si voltò e, senza espressione alcuna, recitò come un automa una frase inserita a forza nel suo processore.

«Nella mia vita, ho affrontato ogni tipo di orrore. Ma adesso siamo precipitati nel più grande… ed esso è ovunque.»

E non poté che sospirare. Anzi, no. Non sospirò affatto. Se lo tenne tutto dentro, insieme al putrido sapore del Montecristo.


Giuliano Tomarchio ha studiato cinema e sceneggiatura, ma la sua vera passione è fare Mexican Mule. Ha pubblicato diversi racconti sulla rivista «MALPELO» e un paio su «Spaghetti Writers»; un suo scritto è sfuggito alla censura dell’imminente antologia “Limonə” di «Malgrado le Mosche». Dice di scrivere per l’audiovisivo; ma questo è facile dirlo.

In teoria e in pratica | Gaia Giovagnoli

Le risposte di Gaia Giovagnoli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1)  Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo?  Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Per il primo libro di poesia, Teratophobia (‘Round Midnight Edizioni), l’iter è stato lento e dilatato nel tempo. Ci sono all’interno testi anche molto vecchi, risalenti al 2009. La costruzione del libro, diviso in sezioni tematiche, è stata a posteriori: ho lavorato sul materiale che avevo a disposizione, scritto nel tempo, e ho provato a creare un filo rosso che legasse testi a volte molto lontani per intenti e struttura.

Babajaga (Industria & letteratura) invece è un libro nato già con l’idea di creare un poemetto, e questo ha fatto sì che sia più unitario anche nel risultato. Non solo: ha uno stampo narrativo. Ci sono poesie in prima persona e poesie in terza, alternate, e sezioni che cercano di seguire la traccia della storia tradizionale della strega del folklore russo.

Ogni libro credo sia un discorso a sé, completamente, e il mio approccio alla costruzione potrebbe cambiare nel tempo. Non credo esista una formula vincente da poter applicare in ogni singolo caso perché il risultato sia più o meno riuscito. Non saprei dunque cosa consigliare se non ascoltare l’intento di quello che si sta scrivendo e assecondarlo.

2)  Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Credo che ogni scrittura sia anche finzione, perché implica un gioco di proiezioni tra un io di chi scrive e un io scritto, automaticamente personaggio (che sia dissimulato o meno non fa alcuna differenza). Non sono mai sovrapponibili, l’autore/narratore e l’autore/protagonista, perché nello stesso momento in cui si applica la scrittura l’io diventa narrante, e quindi finzionale. Personalmente, quando scrivo c’è un costante ricorso all’invenzione, e credo che non si possa fare altrimenti.

3)  Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Ho letto tanto e disordinatamente. Amai Anne Sexton, e la amo ancora. Scoprirla penso abbia dato una bella svolta al mio modo di scrivere. Se parliamo di incontri “veri”, fondamentale per me è stato conoscere Isabella Leardini, che mi invitò a Parco Poesia quando ancora non avevo pubblicato nemmeno un verso. L’operazione di scouting che ha svolto con il suo festival è stata un’occasione virtuosa. Le critiche che le hanno sempre fatto sono state miopi, e a mio parere molto sterili. Per noi nuovi poeti è stato bello poterci incontrare (ci sono amicizie che durano da allora), ma anche incontrare grandi della scrittura e le loro voci. Per me fu fulminante ad esempio incrociare dal vivo Milo De Angelis.

Il mio esordio è stato sicuramente un modo per iniziare un discorso, per capire un po’ anche cosa voler dire e come. Nonostante lo consideri per certi versi un po’ acerbo, oggi, un po’ troppo ostico, era importante che uscisse. Mi ha dato modo di capire che vorrei rendere anche la poesia più comprensibile al lettore; ho oggi un’attenzione diversa alla fruibilità.

L’effetto del pubblico influenza quello che scrivo quindi nella misura in cui vorrei creare cose che abbiano un significato, e per farlo devono essere utilizzabili, comprensibili. La bolla invece non mi ha condizionata granché, credo. Mi piace leggere cosa scrivono gli altri, i testi, ma un po’ meno i pareri. Con il tempo mi rendo conto sempre di più di provare molta noia, mi affatico prima.

4)  Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Le renderei più performative e coinvolgenti, riducendo l’intervento critico (o eliminandolo del tutto, quando la discussione sul testo rischia di “ingoiare” il testo stesso, mettendolo in secondo piano). Proverei a modularle molto sul modello delle presentazioni di prosa, che sono accoglienti. Il rischio noia dovuto all’incomprensibilità della discussione è altissimo in poesia, e questo va contro ogni interesse.

Su “L’amore da vecchia” di Vivian Lamarque

Nota di lettura a cura di Lorenzo Di Palma.

In un saggio del 1927 intitolato Breve relazione su 400 (quattrocento) giovani poeti lirici, Bertolt Brecht scherza non senza preoccupazione sulla possibilità che «qualsiasi tedesco sia in grado di scrivere una poesia». Quasi cento anni più tardi le parole di Brecht sembrano trovare conferma anche in Italia.

Con la candidatura di 135 poeti – autori della quasi totalità dei libri di poesia pubblicati lo scorso anno – nasce la sezione poesia del Premio Strega. C’è da dire subito che nonostante la mole di partecipanti la cinquina finalista mantiene una certa coerenza anagrafica. Composta in maggioranza da autori settantenni (quattro su cinque), suggerisce la smania della giuria di colmare il più in fretta possibile il ritardo rispetto all’omologo premio di prosa. Si ha l’impressione infatti che il Premio Strega Poesia nasca con l’intento di suggellare l’esistenza di lunghe e proficue carriere piuttosto che come riconoscimento al miglior libro di poesia; stessa malattia che aveva già contagiato i giurati del Premio Strega tra gli anni ’70 e ’80, quando vennero premiati libri minori di autori affermati (Tommaso Landolfi, Mario Pomilio, Primo Levi).

Essendo il Premio Strega il più rappresentativo dei gusti del ceto medio dei lettori, si potrebbe soprassedere sulla qualità dei libri finalisti, come d’altronde si fa da anni per la cinquina dei romanzi, ridotta a selezione di testi non troppo ardui in grado di accattivare anche il lettore occasionale. C’è da ammettere però che lo Strega è sempre stato un catalizzatore capace di favorire e accelerare la creazione di tendenze spesso deleterie che potrebbero riproporsi anche nel mondo della poesia che, per scarsità di mezzi e per esiguità di pubblico, aveva continuato a sopravvivere nei suoi esiti più vitali grazie soprattutto all’impegno di editori medio/piccoli, ovvero gli esclusi dalla cinquina finalista (con l’unica eccezione di Italic Pequod).

Questo è un discorso strettamente collegato all’idea ormai sorpassata che le grandi case editrici svolgano un ruolo decisivo nel filtraggio e nella selezione qualitativa dei libri di poesia. Così si legge a caratteri cubitali sul sito de Lo Specchio Mondadori:

Di qui si irradia il canto della nostra lirica, qui giungono le voci nuove della giovane poesia e si affiancano ai grandi nomi già noti in tutto il mondo continuando la gloriosa tradizione italiana attraverso i secoli e i tempi.

Peccato che la politica editoriale de Lo Specchio sia oggi condotta all’insegna della stanchezza e della disillusione: la prestigiosa collana Mondadori trova appena le forze per pubblicare pigre riproposizioni di libri del Novecento con nuove vesti grafiche o nuovi libri di autori che nel Novecento hanno prodotto il meglio della loro opera (Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Giuseppe Conte, Paolo Ruffilli, Giancarlo Majorino ecc.). In questa ultima categoria rientra uno dei cinque libri finalisti al Premio Strega Poesia, L’amore da vecchia (Mondadori, 2022), undicesimo libro di Vivian Lamarque.

Il libro è diviso in nove sezioni; la prima, intitolata «I nomi degli amanti», è quella in cui è trattato l’argomento del titolo. La poetessa descrive in terza persona un innamoramento reale o immaginario per un personaggio più giovane, identificato soltanto dal soprannome “Ics”. Il «Fascino discreto degli amori non corrisposti» è trattato in maniera impressionistica attraverso la descrizione di paesaggi sentimentalmente evocativi (una spiaggia innevata; l’attesa di una stella cadente il 10 agosto) e con una serie di poesie consequenziali sottotitolate delirio 1, delirio 2… che tratteggiano scenari di ipotetici incontri tra i due amanti («Strano le era parso di intravederlo sul volo / per Cagliari»). Da questo punto in poi il libro prende una piega naturalistica con le successive due sezioni («Poesie con foglie» e «Gli animali addormentati»). Le farfalle, i pesciolini, i fiori di lino, i prati servono da impulso per alcune riflessioni sulla vita e sulla morte. Non mancano citazioni dirette ai classici della poesia italiana (Giacomo Leopardi nella poesia sulla siepe; Umberto Saba nella poesia sulla capra). La sensazione è che i testi di queste due sezioni trovino una loro funzione all’interno del libro soltanto attraverso una sommaria coerenza tematica. Più in generale si ha l’impressione che il libro non sia altro che una grande autoantologia cucita con perizia sovrapponendo toppe rappresentative dei temi cari alla Lamarque.

Proseguendo nella lettura di questo bignami lamarquiano, troviamo infatti la sezione dedicata alla famiglia, con poesie su figlia, nipote, madre, fratello e sorella, padre biologico e padre adottivo («Padre padre che facevi il Vigile del fuoco»); la sezione dedicata all’infanzia, con i ben noti riferimenti all’adozione e alla compresenza di più figure genitoriali, forse il vero fulcro di tutta la poetica di Vivian Lamarque dai tempi di Teresino (1981); la sezione dedicata al cinema («Come nel film»), caratterizzata dalla ripetizione, all’inizio di ogni componimento, del titolo della sezione stessa («Come nel film Le Ballon rouge…»; «Come nel film La spiaggia di Lattuada…»; «Come nel film Giochi proibiti…»).

Alcune recensioni al libro hanno evidenziato con fin troppo entusiasmo come la poesia della Lamarque sia rimasta negli anni uguale a se stessa, efficace e sincera. Infatti, al centro delle analisi letterarie che ora appaiono più aggiornate, c’è la tendenza a favorire lo studio dell’efficacia piuttosto che la ricerca del senso, suggerendo l’idea che la letteratura debba essere in qualche modo utile, curativa, e allo stesso tempo non troppo invischiata in questioni formali che allontanano i lettori e restituiscono un’immagine non veritiera della realtà. Assai singolare e indicativa di questa confusione mi pare l’accusa che si muove spesso ad alcuni poeti di essere dei tecnicisti, maniaci delle strutture, innamorati del linguaggio. Sappiamo bene che per diventare popolare la poesia deve semplificarsi, vestirsi di quegli indumenti che la classe media dei lettori riconosce all’istante, e in questo la rima baciata, l’uso sostenuto della similitudine, l’impiego del vezzeggiativo/diminutivo (in L’amore da vecchia se ne contano più di cinquanta su un totale di centosette testi), l’onomatopea, l’anafora, la domanda retorica, risultano gli strumenti più efficaci.

Per quanto riguarda il generale mood del libro, la poesia della Lamarque è continuamente blandita dal suo corrispettivo in prosa, ovvero il feuilleton, il romanzo d’appendice che si attiene a un registro piano e che mette in scena personaggi fortemente caratterizzati nel bene o nel male, immersi in
scenari ricchi di pathos e facilmente inquadrabili nel discorso mainstream contemporaneo: il covid («Come un Covid / nuociamo al mondo.»); la guerra («Oh di nuovo. / Un Paese in dolore / tanti Paesi in dolore»); gli immigrati («Hanno attraversato mille e uno mari / e uomini-squali per approdare infine / su questa casa mobile…»); Whatsapp («e ogni tanto anche un wapp / con dentro metà di un paterno / sorriso…»).

Per concludere direi che l’impianto realistico e a bassa temperatura formale, l’apparente assenza di una vera e propria coerenza tra le sezioni, il ripetuto utilizzo di cliché letterari, il recupero a piene mani di temi da libri precedenti dell’autrice, inseriscano di diritto L’amore da vecchia nel calderone dei libri stanchi ma considerati autorevoli per fattori esterni che non riguardano direttamente il testo. Certo, il libro di Vivian Lamarque non è l’unico a presentare evidenti mancanze, nemmeno tra gli altri della cinquina dello Strega Poesia. Sono forse l’entusiasmo per una nuova pubblicazione dopo sei anni di silenzio, forse il prestigio che giustamente l’autrice si è guadagnata nel corso del tempo che concorrono a far scambiare, come accade spesso, libri superflui per capolavori insuperabili, o addirittura “necessari”.


ALLA SUA ETÀ

Alla sua età
è normale morire.
Nessuno si meraviglia
se uno alla sua età
muore.
Nessuno.
Ma lei sì!
Lei che sarei io, sì.
Sì, lei si meraviglierà,
io mi meraviglierò.
Tanto!

DAVIDE E IL TRAM

Sentinella del secondo piano
guarda il nipote avviarsi
lungo e magro con venti chili
di libri verso la fermata.
Spicciati lei dice al tram, guarda
che fila ti sta aspettando e uno
di loro ha una luce accesa non vedi?
Sono i suoi anni, gli luccica
come astro la giovinezza.
Ma non capisce il tram la parola
astro e nemmeno anni
e tantomeno giovinezza, infine lento
giunge il 14 col suo lungo muso verde
e spalanca le porte e inghiotte
tutti anche lui e poi riparte e poi sparisce
ma lei dalla finestra lo vede nel tram
in piedi e poi seduto, con la sua luce accesa.

COME NEL FILM «NOSTALGIA» (2022)

Come nel film Nostalgia che all’inizio Favino
compra una spugna e poi con la spugna piano
piano lava la sua mamma vecchina e ci incanta
e poi ancora più avanti quando danzando
molto timidamente sorride e noi si pensa
che bello finirà così il film?
Così nella vita tanto speriamo che bene
finisca una cosa. E guardiamo Oreste che nel bel
buio della notte da lontano si avvicina al suo amico
Favino. Per abbracciarlo e fare pace?