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“Agarrate bien, que vienen curvas”. La katana di Gata Cattana contro la violenza sistemica

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Kamelia Sofia El Ghaddar, vincitrice della call for translators “Poesia e Violenza”.

“Una punky che cantava Flamenco ad Adamuz” La Gata, Ana Sforza, Ana tout court, sono solo alcuni degli appellativi di Gata Cattana, ciascuno a evidenziare una brillante sfaccettatura delle sue doti artistiche e della sua poliedrica personalità creativa. Poetessa, cantante, rapper, politologa e femminista andalusa, Ana Isabel Garcia Llorente nasce ad Adamuz, comune di circa 4500 abitanti a Cordoba, in Andalusia, nel giorno 11 maggio 1991.

Andalusista convinta, fa della sua breve, ma intensa produzione poetica e musicale uno strumento di critica feroce, sovversione e rivendicazione contro ogni tipo di violenza poiché l’oppressione sistemica che Gata Cattana subisce, come donna del Sud immersa in una realtà capitalista, antimeridionalista e etero-patriarcale, la costringe in una condizione subalterna. La poesia di Ana si fa attraversare da un’esperienza del mondo ed una conoscenza fortemente situate, veemente e carnale è il prodotto di una forte connessione con la terra di provenienza. Quella terra retrograda e sottosviluppata che è l’Andalusia agli occhi del Nord, che si manifesta nei testi della poetessa nel grande uso di variazioni linguistiche e di registro. Ana non ha paura di essere considerata una malhablá (malparlante), sfoggia con fierezza i suoni di una lingua che si discosta dal castigliano, ovvero lo spagnolo standard e scambia, smonta, accorcia, tronca, ribalta sillabe e parole come fa con la violenza dei pregiudizi nei confronti del Sud della Spagna e del mondo.

La passione che ribolle negli scritti di Ana, recitati in tanti luoghi pubblici, privati, politicamente connotati e non, è quella di una figura che sceglie di guardare l’ingiustizia negli occhi e combatterla con violenta grazia. Sono molti i riferimenti a figure femminili emblematiche della storia greca, romana, egizia. A partire dal passato e sempre orientata verso Sud, Ana si impegna a delineare una genealogia di donne dal carattere sovversivo e anticonformista rispetto ai costumi dell’epoca. Nonostante gli elementi che compongono l’immaginario della poetessa siano carne che si disfa, corpo, mani, terra, pane, sangue, dissanguarsi, l’intento politico dell’autrice è quello di trascendere i confini del verbo e del corpo per combattere l’universalità della violenza. Ana Sforza era il suo io più introspettivo, ma Gata Cattana, come afferma lei stessa, “è la guerra”. I riferimenti alla violenza sono molteplici, come quella incarnata da Salomè, l’energia erotica di Satine, Femme Fatale, come la bellicosità di Atena. La vita del capitalismo occidentale è la moderna schiavitù di “Como Amana Los Pobres”, dove i sogni sono frustrati dai padroni. Si tratta sempre di violenza, come nell’esclusione delle donne dallo spazio pubblico, nella sessualizzazione e nella colonizzazione operata nell’imperialismo che Ana vuole vedere crollare, dopo aver sparso sangue in “Teodora, Agripina, Satine, Medusa, Salomè”. La parola, la poesia che costringe ad investigare nell’Io e a condensare l’universo in poche righe sono (anch’esse) violente.

L’eredità che Ana Isabel ci lascia il 2 marzo 2017 a Madrid quando muore di shock anafilattico all’età di 26 anni è quella di un’agitatrice culturale, appassionata di mitologia greca il cui impegno contro la violenza patriarcale, razzista, capitalista è stato sferrato a colpi di rime a penna, la sua katana. Il messaggio imperituro di Gata Cattana nei tre album musicali autoprodotti di cui l’ultimo postumo, una raccolta di poesie autoprodotta La Escala de Mohs (2016) in seguito ripubblicata da Aguilar nel 2019, un’opera postuma No Vine a Ser Carne (2020) la rende eterna. Il carattere intertestuale dei testi di Ana accende la sua lotta contro la violenza ancora attiva. Ana Isabel non c’è più, ma Gata è qui con noi che siamo armate di Cattana.

Un ringraziamento di cuore ad Ana Llorente, madre dell’autrice e Mónica Adán, editrice per la fiducia e la disponibilità.


Da La Escala de Mohs (Aguilar, 2019)

CON LAS MANOS

No aman de igual forma
los ricos y los pobres.

Los pobres aman con las manos
Los pobres aman en la carne y con gula,
en las peores estampas,
en condiciones famélicas
y con todo en su contra.

Los pobres aman sin bonitos decorados.
Entienden de lunes y de tedios domingueros
y de gastos imprevistos de facturas
y de angustias que embisten, mes a mes, a quemarropa.

El amor de los pobres no sale por la ventana
aunque el dinero entre por la puerta
(que nunca entra)
(aunque no haya ventanas).

Los pobres han aprendido
a amarse a oscuras por eso mismo.
Han aprendido a amarse malalimentados,
malvestidos, malqueridos,
porque el hambre agudiza el ingenio
y en sus jardines también crecen las flores
(aunque no haya jardines).

Los pobres han aprendido a aprovechar los vis a vis
entre jornada y jornada de trabajo
(aunque no haya trabajo)
y saben darse placeres nunca tasados,
de valor incalculable,
y han aprendido a disfrutar las circunstancias
y la sopa de sobre,
el viejo colchón y la cuesta de enero.

Y parece que su amor se yergue
indestructible a pesar de;
a pesar de las miles de plagas,
de los sueños frustrados
y fracasos andantes,
de las crisis cíclicas
y de hambrunas
y de guerras,
más valiente que Heracles,
más Odiseo que Odiseo.
Y parece que su amor se extiende
y se multiplica
al ritmo que se multiplican los pobres,
al ritmo que se multiplican los infortunios
y los desastres naturales que golpean siempre
en las casas de los pobres.

Y ese amor está a la altura de Urano,
a la altura de Urano y de Gea juntos,
y es la única arma que tienen los pobres
para defenderse.

Por eso han aprendido a cultivar flores
y a cantar bien sus penas,
y han inventado las mejores obras
y los mejores instrumentos.
Por eso entienden de arte
y saben encontrarlo donde lo haya,
aunque no lo haya,
(que siempre lo hay).

Y han aprendido a aprovechar el carisma
y la jerga,
y a escribir poemas inmortales
sobre amores complicados,
y saben de cosquillas,
y saben de boleros,
y saben de desnudos
y de darlo todo,
que no es más que lo puesto:
las manos y la lengua,
la forma de otear al horizonte
y los cánticos en contra del patrón.

Yo siempre he amado de esta manera.

Yo te amo como aman los pobres,
y me temo
que durante mucho, mucho tiempo
esto seguirá siendo así.


CON LE MANI

Non amano allo stesso modo
i ricchi ed i poveri.

I poveri amano con le mani
I poveri amano nella carne e con ingordigia,
negli scenari peggiori,
in condizioni fameliche e con tutto contro.

I poveri amano senza bei fronzoli.
Ne sanno di lunedì e di accolli domenicali
Di spese improvvise di fatture
e di angoscia che si infrange, mese dopo mese, a bruciapelo.

L’amore dei poveri non esce dalla finestra
nonostante il denaro entri dalla porta
(che poi non entra mai)
(anche quando le finestre non ci sono).

I poveri hanno imparato
ad amarsi al buio proprio per questo.
Hanno imparato ad amarsi malnutriti,
malvestiti, mal amati,
poiché la fame acutizza l’ingegno
e anche nei loro giardini crescono i fiori
(anche quando i giardini non ci sono).

I poveri hanno imparato a sfruttare gli incontri di sfuggita
tra una giornata e l’altra di lavoro
(anche quando non c’è il lavoro)
E sanno darsi piaceri mai tassati,
dal valore incalcolabile,
e hanno imparato a godere delle circostanze
della zuppa avanzata,
il vecchio materasso e il rincaro a gennaio.

E pare che il loro amore si erga
indistruttibile nonostante;
nonostante le migliaia di piaghe,
i sogni frustrati
i continui fallimenti,
le crisi cicliche
le carestie
le guerre,
più coraggiosi di Eracle,
più Odisseo che Odisseo.

E pare che il loro amore si estenda
e si moltiplichi
nella misura in cui si moltiplicano i poveri,
Nella misura in cui si moltiplicano gli infortuni
ed i disastri naturali che colpiscono sempre
le case dei poveri.

E quell’amore è all’altezza di Urano,
all’altezza di Urano e Gea insieme,
ed è l’unica arma che i poveri abbiano
per difendersi.

Perciò hanno imparato a coltivare fiori,
e a canticchiare bene le proprie pene
e inventarono le migliori opere,
i migliori strumenti.
Perciò ne sanno di arte
e sanno scovarla ovunque sia,
anche quando non c’è
(che poi c’è sempre).

Ed hanno imparato a sfruttare il carisma,
il gergo,
scrivere poesie immortali
di amori complicati,
e ne sanno di solletico
e di canti popolari
di nudità
e di cedere tutto,
che non è niente più di ciò che hanno addosso:
le mani e la lingua,
il modo di scrutare l’orizzonte
ed i cori contro il padrone.

Io ho sempre amato così.

Io ti amo come amano i poveri,
e temo
che per molto, molto tempo
continuerò ad amarti così.


DESAPARICIONES

Escribo desapariciones
Me deshago
me deshilacho por todas
las extremidades.

Me desprendo de la carne,
me miro de lejos,
me desato de la gravitas
y sacrifico la lengua y la voz,
el olfato;
me mato el nervio.

Sólo es una forma de descoserse,
de desencontrarse,
de desangrarse.
Tal vez la mejor forma de desangrarse,
pero no más.
Fue un desastre aprenderlo,
un des-lastre.

¡Qué desilusión! ¡Qué desidia!
¡Qué desamparo absoluto!

Si yo sólo gobernaba la palabra;
si mi templo, la palabra,
y más epístolas que San Pablo,
si yo purita oratoria y huesos,
si sólo discurso y polémica,
y de tanta retórica
y tanta dialéctica se volvió inocua,
perdió el sentido y el significado,
y yo misma asistí a su entierro
sin sentirme una pizca culpable.

Entre todos la matamos
y ella sola se murió.

Sólo se escribe lo que no está,
lo que ya no queda,
lo que es necesario apuntar
porque se olvida.

Yo solía utilizarla para inventar rutas y puertos,
de mensajes en botellas de ornamento y armamento,
de batallas y manuscritos para mis nietos.

Ahora sólo me deshago.
Escribo desapariciones.
La utilizo como si fuera Krökodil.
Me utiliza, me disuelve,
me desvincula,
pero sólo es un remedio paliativo,
como la religión.

Lamentablemente,
sólo es otra forma de descoserse,
de desangrarse.
Tal vez la mejor.


SCOMPARSE

Scrivo scomparse
Mi disfo
Mi sfilaccio da ogni
Estremità

Mi disfo della carne
Mi guardo da lontano
Mi sgancio dalla gravità
E sacrifico lingua e voce,
l’olfatto
mi ammazzo il nervo.

È solo un modo di scucirsi,
Disconoscersi,
dissanguarsi.
Forse il modo
Migliore di dissanguarsi
Ma nulla più.
Capirlo fu un disastro
Sgretolarsi un peso di dosso.

Che disillusione! Che disincanto!
Che disperazione assoluta!

(Ed) io che dominavo solo la parola,
il mio tempio, la parola,
e più lettere che San Paolo
io che ero solo pura orazione
e ossa
che ero solo discorso e polemica
a causa di tanta retorica
e tanta dialettica diventò innocua
perse il senso e il significato
e io stessa assistetti alla sua sepoltura
senza sentirmi un briciolo colpevole.

Insieme la ammazzammo
Lei sola morì

Si scrive solo di ciò che non c’è
Ciò che non rimane,
ciò che è necessario segnare
perché si dimentica.

Io la usavo di solito per inventare percorsi e porti
Messaggi in bottiglia di ornamento e armamento,
di battaglie e manoscritti per i miei nipoti.

Ora solo mi dissolvo
Scrivo scomparse
La uso come se fosse Krokodil,
Mi usa, mi dissolve
Mi svincola,
ma è solo un rimedio palliativo
come la religione

Sfortunatamente
È solo un modo come un altro di scucirsi,
di dissanguarsi.
Forse il migliore.


TEODORA, AGRIPPINA, SATINE, MEDUSA, SALOME

Yo hubiera sido la puta suprema,
la Satine,
la Agripina,
nunca Penélope, esa no.
Yo no mato bajito
ni tengo tanta paciencia.
No me quedo esperando.
Yo hubiera sido Teodora de Bizancio,
Olimpia de Epiro, la madre de Alejandro,
la neurótica, la loca Juana
y la violenta Salomé.
Hubiera corrido la sangre, carajo,
habrían caído los imperios.
Que se joda Agamenón.
Que se calle el César cuando hable Cleopatra,
igual que calla Tutmosis cuando habla Hatshepsut;
la primera de las nobles damas,
la faraona de las dos tierras
por designios de Amor.
Yo hubiera sido Evita,
no por la sonrisa abierta y diplomática,
no por la apariencia sofisticada y elegante,
sino por el pico de oro, la estrategia,
la estrategia Robin Hood y espontánea.
Yo hubiera sido Atenea,
por los ojos garzos
y la prepotencia;
por la beligerancia.

TEODORA, AGRIPPINA, SATINE, MEDUSA, SALOME

Io sarei stata la puttana suprema,
Satine,
Agrippina,
Penelope mai, quella no.
Io non mi muovo nell’ombra
E non ho quella pazienza.
Non rimango ad aspettare.
Io sarei stata Teodora di Bisanzio
Olimpia di Epiro, la madre di Alessandro
La nevrotica, Giovanna La Pazza,
la violenta Salomè.
Avrei versato sangue, diamine
Sarebbero crollati gli imperi.
Che si fotta Agamennone.
Che stia zitto Cesare quando parla Cleopatra
Come tace Tutmosis quando parla Hatsheput
La prima delle nobildonne
La faraona delle due terre
Per volere di Amore.
Io sarei stata Evita,
non per il sorriso aperto e diplomatico,
né per il portamento sofisticato ed elegante,
bensì per la lingua di velluto, la strategia
la strategia spontanea alla Robin Hood.
Io sarei stata Atena,
per gli occhi celesti
e la prepotenza;
per la belligeranza.


ENGAÑO

Podría bañarte ahora mismo
De palabras pantanosas y cínicas
Y conducirte a mi tela de araña,
pasito a pasito, haciendo que
disfrutes del cebo y que relamas
el jugo que rezuma
la herida
que ha de matarte.


INGANNO

Potrei cospargerti proprio ora
Di parole paludose e ciniche
E attirarti nella mia ragnatela
Passo dopo passo, lasciando che
ti goda l’esca, che assapori
Il nettare espulso
Dalla ferita
Che ti sarà mortale.

Copertina de La Escala de Mohs di Gata Cattana (Aguilar, 2019)
La Escala de Mohs di Gata Cattana (Aguilar, 2019)

In teoria e in pratica | Marco Simonelli

Le risposte di Marco Simonelli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Devo confessare che ogni mio libro ha avuto un processo di costruzione diverso. Per quanto riguarda il mio ultimo libro, Bestiario, ho deciso a priori di utilizzare una doppia quartina a rima incatenata: l’idea alla base è quella di sperimentare il più possibile all’interno di una forma fissa. La decisione di scrivere sugli animali è avvenuta in ambito laboratoriale: da vent’anni ormai tutti i miei testi sono presentati a uno sparuto gruppo di amici-lettori competenti che arricchiscono il processo compositivo con interpretazioni e consigli. Mi riesce difficile parlare di maestri di costruzione, credo che sia l’opera stessa a dettare modalità ed esigenze espressive, credo si debba principalmente desumere le necessità dell’opera dall’opera stessa. Come dicevo, ho sperimentato diversi approcci compositivi e diversi metri: in Palinsesti giocavo con la metrica e personaggi televisivi in disarmo, Will era un canzoniere di sonetti elisabettiani, Firenze Mare era composto da poemetti fra l’elegiaco e il confessionale. Adesso sto ultimando quella che io chiamo la mia trilogia metrica, iniziata con Litania nervosa e proseguita con Bestiario. Attualmente sto lavorando alla stesura del terzo pannello. Sono pronto a scommettere che, una volta terminata, mi imbatterò in altre forme e altri contenuti ma ora non riesco a prevederli. Se dovessi dare un consiglio sulla costruzione interna di un’opera suggerirei di stare con l’idea principale il più possibile, estraendo da una visione anche vaga dell’insieme quanti più dettagli possibili, usando molto la fantasia per coprire i vuoti, senza aver paura di arrivare all’insignificanza: sono rischi che vanno corsi.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Leggere un libro di poesie come un diario intimo è pericoloso: si rischia di sovrapporre la persona dell’autore all’io monologante, scambiare un pronome per un individuo. C’è gente che se ne innamora. Siamo consapevoli della dose di fiction necessaria a costruire un io convincente sulla pagina, persino i maestri del confessional americano (Plath, Sexton, Lowell) stabilivano una distanza fra l’io poetante e l’io anagrafico. Tuttavia non credo che la finzione o l’invenzione siano attributi necessari allo scrivere in versi: la poesia non inventa, scopre. Scopre territori a volte inesplorati, scopre fenomeni umani complessi, scopre la stessa lingua di cui si compone. Nella mia scrittura l’uso dell’io è riservato alle prosopopee. L’invenzione potrebbe essere una rampa di lancio ma non è mai un punto di arrivo.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Ho esordito con un paio di plaquette fra loro molto diverse, avevano una certa grazia ma erano comunque derivative, troppo influenzate da scritture forti che all’epoca esercitavano su di me un innegabile fascino. La mia voce ha cominciato ad avere una sua fisionomia più definita con Sesto Sebastian – Trittico per scampata peste, un poemetto ideato per essere letto ad alta voce (quindi scrittura-per-pubblico). Fu il mio coming out poetico col quale prendevo un poco le distanze da quanto c’era stato prima e stabilivo alcune costanti della mia scrittura come l’utilizzo della metrica, l’ironia mordace, il prevedere un ascolto. Come ho detto prima, tutti i miei testi da vent’anni a questa parte sono ascoltati e discussi da un gruppo laboratoriale che ormai conosce stili e stilemi delle altrui scritture. Se un testo non ha mordente, lo si individua e sopprime in poco tempo. Alle volte un testo può miracolosamente resuscitare grazie all’aiuto e ai suggerimenti del gruppo. Per quanto riguarda un pubblico più vasto – stiamo parlando del famoso pubblico della poesia, vale a dire i poeti stessi – mi interessa sempre ciò che hanno da dire qualora si siano dati la pena di leggere. Sono sempre pronto ad ascoltare. Come sono sempre pronto a seguire poi una strada che porta altrove.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Mi ispirerei a una performance di Marina Abramović: legherei il poeta alla sedia e permetterei al pubblico di interagire con lui tramite una serie di oggetti a disposizione che possono dare piacere o dolore: una piuma, un martello, una rosa, del cotone, un coltello, del miele, una pistola… Se il poeta sopravvive alle pulsioni del pubblico allora potrà leggere qualche poesia.

Galassie

Racconto di Deborah Guarnieri.

La catenina d’oro che suo padre portava al collo al momento dell’incidente la madre gliel’aveva infilata nella borsa in camera mortuaria, poco dopo che il medico di famiglia le aveva infilato nella stessa borsa un flaconcino di gocce che la sua migliore amica aveva definito non proprio omeopatiche. Avrebbe potuto girarla due volte attorno alla caviglia per farci una cavigliera, tre volte attorno al polso per farci un braccialetto, ma aveva preferito conservare la catenina lì, sul fondo della borsa.

Per la città era un periodo brutale, la violenza assopita si risvegliava ciclicamente, si sollevava dall’asfalto come il miasma di una pestilenza. Si finiva accoltellati sul viale per una carta di credito o per goliardia. Ogni volta assumeva una forma diversa e quella era la volta dei coltelli e del sangue. Accadeva di notte quindi si scoraggiava la vita notturna. Questa, l’unica misura adottata. Per lei non era un problema, per lei non era un problema niente. Lei ora la notte dormiva. Usciva per comprare le gocce, usciva per andare dalla psichiatra a farsi prescrivere altre gocce. Dal fondo della borsa la catenina la fissava con occhi di biscia.

Sperimentava da settimane, testava una quantità sempre differente, guardava le meduse dissolversi nell’acqua poi andava a rannicchiarsi sul letto, sopra il lenzuolo, aspettava che l’intonaco bianco del muro si espandesse in uno spazio infinito intorno al suo corpo, una nuvola di ovatta che la avvolgeva al punto che non vedeva più niente se non quel bianco accecante. Prima di ogni nuova prescrizione la psichiatra le domandava a cosa pensasse durante quei pomeriggi che trascorreva distesa e lei rispondeva: a niente, mangiava il minimo essenziale perché l’annebbiamento non si dissipasse, perché la nuvola di ovatta al massimo si sfilacciasse. Dalla finestra della cucina osservava la luce assumere il colore e la consistenza dell’albume dell’uovo, appollaiarsi sui rami addensata in blocchi cubici. Si accorgeva del calo dell’effetto dal sopraggiungere di una visione, un tunnel, lei camminava in questo tunnel, doveva essere un tunnel lunghissimo perché le pareti non convergevano mai verso l’occhio giallo dell’uscita. Mentre vagava in quella foschia lo aveva incontrato, lui era nero, tutto nero, le iridi nere si confondevano con le pupille. Si erano guardati e si erano riconosciuti, si erano visti attraverso immediatamente; toccandosi, avevano trovato conferme. Insieme si sarebbero saziati. Insieme sarebbero stati invincibili.

Mangiavano caramelle schifose perché i denti non si sarebbero cariati, non dormivano perché non avrebbero sentito stanchezza. Lei non era tornata più a casa, non aveva più bisogno di una casa. Fumavano e i polmoni non sarebbero anneriti, fumavano in continuazione e se la passavano, se la poggiavano l’un l’altro sulle labbra, sputandosi nella bocca si scambiavano la saliva. Si fermava a scrutarlo per cercare di capire se le piacesse davvero la sua faccia, ma non era la bellezza del corpo, qualche pura simmetria a ispirarli; era il fatto che la sua figa fosse piccola e calda e il suo cazzo sempre duro, che le mani di lui, prima o poi, dovessero ritrovare le sue cosce, quelle mani grandi che le lasciavano galassie nere verdi e viola, quelle mani grandi che la picchiavano e quel cazzo duro che la fotteva fino allo stremo, fino a quando non restava che il suo involucro da usare, mentre lei trapassava, si elevava in quello stato beato della semi-incoscienza.

Si erano stabiliti in un buco di quaranta metri quadri con poche finestre non esposte a est, frigido come uno scantinato, avevano preso a uscire soltanto di notte perché la luce non guastasse il loro ordine. Il giorno impone le proprie leggi mentre la notte si può plasmare. Si addormentavano, non era cosa voluta ma una conseguenza, l’apice dell’amplesso e della perdita di coscienza, lo facevano per ore, le sue mani sul torace, tutto il suo peso premuto sul torace, quando lei rinveniva, se faceva buio, uscivano, vagavano per la città perché i piedi non avrebbero fatto male, i calli non sarebbero spuntati, anche se lei portava sempre stivaletti con il tacco quadrato, i piedi non facevano mai male.

Più volte era successo che, tornati a casa, lei sfilasse lo stivaletto e trovasse il sangue. Sangue secco impregnava le calze e la pelle intorno alle unghie. Era sempre il piede sinistro a sanguinare. Dopo le botte, le galassie nere verdi e viola comparivano a sinistra, dopo le sberle era l’occhio sinistro ad andare, per un istante, fuori fuoco. Ricordava una visita dal ginecologo, poco dopo averlo conosciuto, crampi da sudori freddi l’avevano assalita all’inguine sinistro, e giù per tutta la gamba sinistra, il ginecologo le aveva infilato la sonda e le aveva comunicato che a ovulare era stato il suo ovaio sinistro. Il male si insinua sempre a sinistra. La destra è di Dio.

A tratti la folgorava il pensiero che stesse succedendo qualcosa alla sua parte sinistra ma lo ignorava. Se fossero rimasti insieme lei non sarebbe marcita. Era tornata a vedere i colori, grazie a lui, grazie a loro insieme vedeva a colori e non più il bianco accecante, e non più il tunnel. I colori della notte e delle galassie non la ferivano, non erano invadenti, squillanti, la notte nella città era nera, rosso carminio e verde scuro, soprattutto verde scuro, verde muschio, la notte nella città era gocciolante e frigida come lo scantinato, così che nemmeno lo sbalzo di temperatura li poteva colpire. Il sottopassaggio della stazione era il posto più umido della città. Aveva quell’odore di tessuto bagnato asciugato male, e macchie di piscio, e un rimbombo da latrina. Era un posto da evitare. Si circumnavigava il quartiere, pur di non passarci. Forse, erano da attribuire a quell’umidità i miasmi della violenza.

Aveva capito subito che qualcosa non andava perché il sottopassaggio era giallo e verde acido. Ascoltava i loro passi, i suoi tacchi quadrati e pensava che se stavano insieme non sarebbe successo niente, siamo insieme e non ci succederà niente, e gli strizzava la mano. Erano usciti con il buio, come al solito, come sempre, avevano seguito la corrente e la musica che trascinava, aveva piovuto e i marciapiedi luccicavano, avevano svoltato due o tre angoli ma la musica proveniva dall’altra parte dei binari, al di là dell’edificio della stazione, non potevano vederla, potevano solo sentirla. Il sottopassaggio era la via più breve, lui aveva detto: due minuti e saremo di là, due minuti, che saranno mai due minuti, bastava trattenere il respiro prima di entrare, sarebbe riuscita a trattenerlo due minuti. Ma quel giallo e il verde acido incrinavano la bolla, stavano forando la loro bolla, crick, un uovo che si buca, aveva accelerato il passo perché la bolla non si crepasse, continuando a trattenere il respiro, se siamo insieme non ci succederà niente, ma dovevano uscire, non le piaceva restare nel tunnel, lì le pareti convergevano verso l’occhio dell’uscita quindi dovevano uscire, tornare ai colori rassicuranti della notte. Rosso carminio, verde scuro, verde muschio. Erano lì che li aspettavano.

Era lì che li aspettava. Stava appoggiato al muro e lo avevano superato fingendo che non ci fosse. Avevano visto quel che c’era da vedere: un uomo macilento, ma un telaio agile, nervoso. Li aveva attaccati alle spalle.

Lui gli aveva sferrato un pugno, sapeva quanto le sue mani potessero far male, era lei a chiederlo: di più di più. Lo aveva messo a terra e gli si era seduto sopra. L’aveva guardata. Non aveva detto niente ma lei aveva sentito è il tuo turno. Quegli occhi neri nerissimi le stavano lasciando il posto. I colori della città erano baluginati nei suoi, tutti mescolati, cerchietti vorticanti, no non glielo avrebbero portato via, aveva alzato il piede, aveva sbattuto le palpebre, no non le avrebbero tolto anche lui, aveva affondato il piede, il tacco quadrato nello zigomo, no non avrebbe perso anche lui, l’uomo macilento aveva spalancato la bocca nel tentativo di morderle la caviglia, non voleva tornare nel tunnel, aveva alzato, affondato, di nuovo alzato, affondato, aveva sentito le ossa spezzarsi sotto il tacco quadrato. L’uomo era rimasto immobile con la bocca spalancata, la mascella frantumata. Da allora non erano più stati visti. La notte erano rientrati nel buco e si erano seduti sul letto; a gambe incrociate, lui, in ginocchio, lei, dietro di lui. Aveva afferrato la biscia dal fondo della borsa. Aveva chinato la testa e gli aveva annusato i capelli, la nuca, il collo fino all’orlo della maglietta. Sì, era umido, ora, quell’odore umido di sudore dimenticato addosso. Aveva portato il naso sopra la spalla, aveva inspirato, su di sé non riusciva a sentirlo ma era sicura di avere addosso anche lei, ora, quell’odore, l’umidità. Aveva sollevato la catenina d’oro, le estremità tra pollice e indice, gliel’aveva posata sul petto, aveva chiuso il fermaglio dietro il collo.

Le radici della violenza sulla punta della lingua: Eva Maria Leuenberger

Introduzione e traduzioni dal tedesco a cura di Dafne Graziano, vincitrice della call for translators “Poesia e Violenza”.

Eva Maria Leuenberger (1991) è nata a Berna e attualmente vive a Bienne. È stata finalista al concorso «open mike» di Berlino nelle edizioni 2014 e 2017 e vincitrice del premio «Weiterschreiben» della città di Berna nel 2016. Nel 2019 ha pubblicato per la casa editrice Droschl dekarnation, la sua prima raccolta di poesie, che le è valso, tra i vari premi, il «Basler Lyrikpreis». Nel 2021 è uscita, sempre per Droschl, la sua seconda raccolta, kyung.

Ciò che colpisce dei versi di Leuenberger è l’uso di una lingua scarna e al contempo vivida, che attinge all’essenza della parola per scandagliare la realtà e rivelarne l’essenza più autentica, anche tramite la scelta di temi non convenzionali. Nonostante kyung sia solamente il secondo lavoro della poeta, nella raccolta si nota già uno stile ben definito, che viene qui portato a un ipotetico punto di non ritorno rispetto all’opera precedente. Infatti, se in dekarnation l’autrice mette in luce la brutalità di una natura personificata e senza bellezza, il cui corpo simbolico viene progressivamente scarnificato e ricondotto a una forma primordiale tramite il bisturi della lingua, in kyung la dissezione della parola opera su un corpo umano, quello dell’artista e scrittrice Theresa Hak Kyung Cha, violentata e uccisa a New York negli anni Ottanta a pochi giorni dalla pubblicazione del suo primo e unico romanzo, Dictée (1982). Ripartendo dall’attimo in cui si consuma la tragedia, Leuenberger recupera i capi di quel filo spezzato prematuramente, mettendo in luce «la chiarezza della violenza» e rievocando nei suoi versi «una voce morta da anni» attraverso immagini ricorrenti nella poesia di Leuenberger e già consolidate dall’uso (corpi che cadono a terra, mani attorno al collo, ali che spuntano dalle scapole) che le conferiscono un’atmosfera a tratti onirica e perturbante. In sottofondo, va e viene l’eco dei brani tratti da Dictée, opera multilingue e innovativa con cui l’autrice traccia un toccante parallelismo.

Definita dalla Berliner Zeitung «(una voce) unica nel suo genere», quella di Leuenberger è a tutti gli effetti una poesia non convenzionale, che, se anche non si illude di poter cancellare la violenza che pervade la realtà, sceglie però di metterla a nudo, di sezionarne i vari strati, fino a estrarne il cuore pulsante. Con la stessa precisione chirurgica, i suoi versi si incidono nella mente di chi legge e lasciano ferite destinate a cicatrizzarsi senza mai scomparire del tutto.


Da kyung (Droschl, 2021)

die stimme

stößt löcher in die zeit

die grenzen verwischen

die pronomen verwischen

gesichter in der nacht

die toten körper im parkhaus

            eine frau verschwindet

            in den pixeln eines bildschirmes

als wäre die zeit

ein klarer fluss

            der rückwärts fliesst

als wäre die zeit

als wäre der schnee

als wüsste der körper

die eigene zukunft


la voce

pianta buchi nel tempo

spariscono i confini

spariscono i pronomi

volti nella notte

i corpi morti nel parcheggio

            una donna scompare

            nei pixel di uno schermo

come se il tempo fosse

un fiume limpido

            che scorre all’indietro

come se il tempo fosse

come se la neve fosse

come se il corpo conoscesse il proprio futuro


hier ist dein körper – dein pfund aus fleisch

                               my love, regarde-moi –

du beneidest die klarheit der gewalt.

here it is. der tiefste punkt der nacht.

du beneidest den klaren grund,

die wurzel, aus der den tod in den bauch wächst

klarheit und kasualität.

es tut dir leid.

es tut mir leid.

                        die haut

                                       sehnt sich nach feuer


ecco il tuo corpo – la tua libbra di carne

                               my love, regarde-moi –

invidi la chiarezza della violenza.

here it is. il punto più profondo della notte.

invidi il motivo chiaro,

la radice da cui nel tuo ventre cresci la morte

chiarezza e casualità.

ti dispiace.

mi dispiace.

                         la pelle

                                        si strugge

                                     di desiderio per il fuoco


die frau beobachtet ihren körper

das publikum schaut sie an

während ihr körper

sich öffnet, zu etwas altem, oder neuem

                                   interdiffusion der zeit

du beobachtest das publikum

beobachtest das publikum, das dich anschaut

während dein körper sich öffnet

aus dem schultern wachsen flügel

im mund klingt ein neuer ton

eine parade aus schönen toten mädchen

mit glocken im mund

klingelnd wie farrähder

die füße zerschnitten

aus den knöcheln

wachsen räder

und die flügel

aus den schulterblattern


la donna osserva il proprio corpo

il pubblico la guarda

mentre il suo corpo

si apre, a qualcosa di vecchio, o di nuovo

                        interdiffusione del tempo

osservi il pubblico

osservi il pubblico che ti guarda

mentre il tuo corpo si apre

dalle spalle spuntano ali

in bocca un suono nuovo

una parata di belle ragazze morte

con campane in bocca

suonano come biciclette

i piedi tagliuzzati

dalle caviglie

spuntano ruote

e le ali

dalle scapole


theresa hak kyung cha hatte schwarze haare.

meine haare sind rot.

ich suche einen körper

und finde ihn unter einer decke

aus schwarzem haar

er ist spröde

bricht wie die zweige im unterholz

splittert unter dem gewicht einer hand

eine hand

rau wie rinde

ich suche einen körper

und sehe die hände um den hals

die haare auf dem asphalt

blaugelb

purpur

und schwarz

deine haare

               sind schwarz


theresa hak kyung cha aveva i capelli neri.

i miei sono rossi.

cerco un corpo

e lo trovo sotto una coperta

di capelli neri

è fragile

si spezza come i rami nel sottobosco

si frantuma sotto il peso di una mano

una mano

ruvida come corteccia

cerco un corpo

e vedo le mani attorno al collo

i capelli sull’asfalto

giallo-blu

porpora

e nero

i tuoi capelli

                 sono neri


die gesichter legen sich übereinander

ein vielzahl von körpern

schaut hinter ihren augen hervor

und dort ist die neue zeit

die glocken klingeln

die zahnrähder drehen

ein körper fällt

am boden eines parkhauses

schwebend

mit beiden füβen fest in der erde

luft 

oder wort


i volti si sovrappongono gli uni sugli altri

una moltitudine di corpi

sbuca da dietro i loro occhi

e là c’è il tempo nuovo

le campane suonano

gli ingranaggi girano

un corpo cade

a terra in un parcheggio

mentre fluttua

con entrambi i piedi saldi a terra

aria

o parola


die haare einer frau    sind rot

                                               oder schwarz

eine frau                     ist ein schwarzes loch

eine leerstelle             gefüllt mit rotem haar

die haare sind rot

            flimmernd im nebel

                                   ohne haut und körper


i capelli di una donna   sono rossi

                                                   o neri

una donna                   è un buco nero

uno spazio vuoto        farcito di capelli rossi

i capelli sono rossi

            tremolanti nella nebbia

                            senza pelle né corpo

Copertina di Kyung di Eva Maria Leuenberger

Su “Arca di Noè” di Gianna Manzini

Nota di lettura a cura di Eleonora Negrisoli.

Nella primavera di quest’anno Rina Edizioni ha ripubblicato Arca di Noè, raccolta di racconti di Gianna Manzini ormai da decenni fuori catalogo. I racconti erano già, in parte, apparsi in Animali sacri e profani (Casini, 1953), ma trovarono la loro versione definitiva nell’edizione Mondadori del 1960, con il titolo Arca di Noè.

L’operazione editoriale di Rina sembra collocarsi entro due tendenze critiche ben precise. La prima riguarda il recupero di autrici dimenticate o escluse dal canone letterario, a cui la critica e l’editoria italiana e internazionale stanno finalmente dedicando crescente spazio. Rina Edizioni, appunto, nasce con questo esatto obiettivo, come ci ricorda il Manifesto posto in calce a tutte le pubblicazioni della casa editrice. Riscrivere la storia letteraria si configura come azione necessaria per restituire voce a chi è stata tolta e, quindi, per guardare al contemporaneo da un altro punto di vista, adottando una stortura imprescindibile per la comprensione della sua complessità. Cambiare postura, dunque, ma anche cambiare forma: per stare dentro questa complessità occorre assumere una struttura rizomatica. Si assiste infatti – ed ecco la seconda tendenza – a una crescente ibridazione dei saperi. Tra le varie relazioni possibili – con i femminismi, la teoria queer, gli studi postcoloniali, e così via –, la critica letteraria stabilisce connessioni anche con l’ecologia e gli animal studies. E qui arriviamo a Gianna Manzini, che in tempi non sospetti aveva scritto di animali[1] attraverso uno sguardo inconsueto.

Benché i racconti dell’Arca di Noè riflettano una prospettiva antropocentrica e specista (implicita nella forma mentis novecentesca), il continuo riferirsi in modo didascalico a certe pratiche umane che violano la soggettività animale – ad esempio la caccia, la pesca, la sperimentazione scientifica – provoca nel lettore la sensazione dello straniamento. Questo meccanismo narrativo riesce a decostruire la percezione automatizzata che ci abitua a considerare gli animali proprietà dell’umano. È normale, leggendo Manzini, domandarsi che effetto faccia a una trota moribonda giacere su un piatto, oppure pensare alle gabbie dello zoo come prigioni, o ancora definire l’invenzione del cappone sopruso e delitto: è la narratrice-autrice a dichiararcelo. Il suo sguardo si posa sugli animali con interesse quasi scientifico, nel tentativo di comprendere i gesti di creature vicine ma sconosciute: «che festa,» – scrive in Il mio bestiario, prefazione alla raccolta – «sapere esattamente, con precisione, in tutte lettere, che cosa vuol significare un’ala quando appena si solleva e si ricompone serrandosi»[2].

Nei racconti la relazione tra umano e animale si consuma quasi interamente nello sguardo (John Berger, parecchi anni dopo, scriverà Perché guardiamo gli animali?), ed è attraverso quella osservazione che la scrittrice individua nel legame con gli animali «qualcosa di più vasto e segreto»[3]. Essi sembrano custodi di un qualche sapere iniziatico, di un oltre a cui in pochi, capaci di incanto e compassione, possono accedere: «ecco che, non si sa come, un granello di vita ignorata vien proiettato di sorpresa al centro di una splendente emozione. Queste fortune capitano di rado; a me, di tanto in tanto con gli animali. Fortune; non arbitrii coscienti; non invenzioni»[4]. Manzini intuisce nell’alterità animale la possibilità di aprirsi a una verità nascosta, a un mistero di cui queste creature, seppur attraverso il silenzio, si fanno messaggere.

Emilio Cecchi aveva definito Manzini animalista[5], e questo ci dice molto sull’originalità che la sua scrittura deve aver rappresentato per la letteratura italiana. Tuttavia, il rischio di sovrainterpretazione è molto alto: nell’Arca di Noè non c’è un messaggio politico esplicito, né è facilmente desumibile come invece in altre opere sul tema animale. È però indubbio che in questo bestiario l’esistenza animale venga riconosciuta al di là di quella umana, invertendo automaticamente la tendenza che ci ha abituato a considerare gli animali oggetti da asservire. Manzini non esorta a adorare gli animali, né proteggerli, ma mi sembra significativo concludere con la potente metafora contenuta nel penultimo testo della raccolta, Il sangue del leone. La protagonista fa un sogno ispirato a un episodio agiografico, rappresentato su una sua vecchia cartella da scrivere: San Girolamo si reca nel deserto, dove resta per tre anni. Qui, un giorno, arriva un leone che mette in fuga quasi tutti i monaci. Girolamo rimane e, riconoscendo nella zampa del leone una spina, gliela leva e cura la ferita.

L’immagine a cui probabilmente Gianna Manzini fa riferimento nel racconto Il sangue di leone: Giovanni di Paolo (Siena, 1403-1482), San Girolamo medica la zampa del leone, 1436, 44,5 x 32 cm, Archivio di Stato di Siena.

[1] Per comodità, da ora in avanti con il termine “animali” ci si riferirà a tutti gli animali non-umani.
[2] G. Manzini, Il mio bestiario, in Arca di Noè, Rina Edizioni, Roma 2023, p. 8.
[3] Ivi, p. 6.
[4] G. Manzini, Pascolo a Carbonin, in Arca di Noè, cit., pp. 141-142.
[5] Cfr. E. Cecchi, Manzini animalista, in Letteratura italiana del Novecento. Vol. 2, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1972, pp. 926-928.

“Si ergono (…) devastati i figli dell’amore”. La salvezza non è la destinazione: amore e distruzione nelle poesie di Marina Maggi

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Virginia Ciampi.

Quindi presa la fanciulla per mano, le disse: «Talitha cumi»; che tradotto vuol dire: «Fanciulla, ti dico: Alzati!». – Marco 5:4

«Talitha cumi», il verso biblico all’inizio di Toda belleza amante que colapsa di Marina Maggi, è una duplice esortazione. Per l’autrice significa, prima di tutto, risorgere da una peste fatale: l’amore. Dall’amore ci si cura amando: il verso ordina anche di amare ancora.

Nel racconto biblico si compie un miracolo, la fanciulla si alza e cammina. Nell’opera ciò non avviene, ma il miracolo si compie lo stesso, non portando, tuttavia, alla salvezza. Seguendo questa interpretazione, i titoli delle tre sezioni appaiono significativi; La nausea del presagio, Salvezza e Il peso del miracolo raccontano il percorso che la febbre d’amore traccia, ovvero quello suggerito dalla citazione di Dylan Thomas nella prima parte: From love´s first fever to her plague… . In questo percorso ciò che importa non è la salvezza: questa è qualcosa che si attraversa, non la destinazione definitiva. Così, la salvezza è l’amore e insieme la distruzione che esso comporta:

il sogno
chino su di sé, perfetto
nella sua menzogna inconfutabile
è un pozzo
dove sentir morire il palpito sacro
con tutta la salvezza della luce
dove affondare nell’ora della gioia.

Il sogno è ciò che conta, e non viene contemplata una esistenza senza amore: vi si preferisce l’annullamento dell’esistenza, l’amare senza esistere. E Marina sembrerebbe essere cosciente di ciò da sempre: ha una voce amorosa potente, che si rifà alla poesia di Lorca, di Dylan Thomas e, infine, alla tradizione biblica, ed ha come risultato una lirica mistica, tragica ma estremamente sensuale.

La sensualità è data anche dai riferimenti naturali, evocativi e alcune volte particolari della natura argentina, come il jacaranda di Noviembre II, gli alami del Salmo descarriado. La natura dei sensi è centrale: si parla spesso di fiori, di usignoli feriti, spezzati, di vento, acqua, fuoco, luce e, soprattutto, sangue. Il sangue scorre dalle vene tagliate ed è il sintomo di una malattia, la peste amorosa, che devasta chi ne è affetto. È un elemento molto utilizzato nella seconda sezione dell’opera, in cui avviene la morte del malato, ovvero dell’innamorato: è anche il simbolo del sacrificio di chi ama; la salvezza è morte che porta al sacro. Nella terza sezione il miracolo non porta alla resurrezione o alla creazione di qualcosa, ma alla redenzione, completa affermazione della sacralità. Il peso del miracolo è il sacrificio che genera il sacro.

La sacralità avvolge chi è stato ucciso o devastato dall’amore e anche la gioventù, perché l’amore provato in gioventù è l’unico in grado di uccidere l’innamorato, di incidere la storia di ognuno (la citazione di Dylan Thomas all’inizio della seconda sezione del libro è: Who kills my history?). La gioventù, dunque, è sacra in virtù della sua fragilità e della potenza delle sue pulsioni ed emozioni, ma anche per la sua finitezza e per la sua condizione effimera. Come il sogno, essa è febbre, alterazione e delirio e determina la nostra esistenza. Ci muoviamo, nei momenti cruciali e più autentici della nostra vita, in uno stato di disperazione che, allo stesso tempo, riesce a farci librare sopra tutto e a toccare altezze impensabili, come scrive l’autrice in Febbre:

Potete vedere che mi immergo,
felice, sotto le acque,
mentre sento che cammino sopra di esse.

Il miracolo della nostra distruzione si compie. È l’amore che ci fa morire, ma è l’amore che conta. Marina esprime ciò con una lingua immaginifica, incisiva e mai banale, che ricorda la potenza dei versi biblici ma fluisce con leggerezza.


Noviembre II

Ya ves, jacarandá, la misa la dio el viento.
Es como si enterrase para siempre la risa,
no sé a dónde volver para encontrar mi sangre.

En lo perdido hallo, inexistente y fijo,
bellísimo tu rostro, como un puñal de sueño:
qué poderosa es la memoria de la carne.

Noviembre sin amor noviembre para nadie,
cayendo sin derrumbe, eterna colapsada
ácida, amanecida, enferma de paciencia;

el cáncer de la espera, perro negro sin alba,
y yo nombrando el aire, colmada de limosnas,
cándida en el ocaso, oscura mariposa,
cadáver incendiado que resucita y canta.

Novembre II

Vedi, jacaranda, la messa l’ha detta il vento.
È come se sotterrasse per sempre il riso,
non so dove tornare per trovare il mio sangue.

Nelle cose perdute scopro, inesistente e fisso,
bellissimo il tuo volto, come un pugnale di sogno:
ché potente è la memoria della carne.

Novembre senza amore novembre per nessuno,
che io cado senza dirupo, eterna collassata
acida, insonne, ammalata di pazienza;

il cancro dell’attesa, cane nero senza alba,
ed io che nomino l’aria, colma di elemosine,
candida nel tramonto, oscura farfalla,
cadavere incendiato che resuscita e canta.

Salmo descarriado

Atraviesan
desnudos en su visión
los campos arruinados.
Descalzos, desalados,
salvados para siempre
del golpe imperdonable de la juventud.

El sueño
inclinado sobre sí, perfecto
en su mentira irrefutable
es un pozo
donde sentir morir el pálpito sagrado
con todo lo salvaje de la luz
hundiéndose en la hora de la dicha.

Se yerguen
como álamos ausentes calcinados
los estragados hijos del amor

Salmo dannato

Attraversano
nudi nella loro visione
i campi in rovina.

scalzi, smaniosi
salvi per sempre
dal golpe imperdonabile della gioventù

il sogno
chino su di sé, perfetto
nella sua menzogna inconfutabile
è un pozzo
dove sentir morire il palpito sacro
con tutta la salvezza della luce
dove affondare nell’ora della gioia

Si ergono
come alami assenti bruciati
devastati i figli dell’amore.

Fiebre

Pueden ver que me hundo
feliz, bajo las aguas,
sintiendo que camino sobre ellas

Febbre

Potete vedere che mi immergo,
felice, sotto le acque,
mentre sento che cammino sopra di esse.

Nostalgia del retorno

Cuando te vayas
se abrirán los párpados de la sangre y el agua,
se precipitará el pulso hasta quebrar el alba
y los huesos desnudos florecerán sin miedo.

Cuando te vayas
vendrá mi cruel infancia a torturar los muertos,
las heridas sedientas delirarán su fuego
y Eva será mordida por ingenuas manzanas.

Cuando te vayas
volverán los aniquiladores secretos,
las estatuas de viento bailarán con tu ausencia
hasta marearla.

Cuando te vayas
el corazón tomado por el cáncer del verbo
hará versos hambrientos,
rimas sucias y heladas.

Cuando te vayas
mendigaré veneno
para no tener que ver volver la primavera,
y soñaré suicidios de alturas colapsadas.

Sé qué sucederá cuando te vayas
porque partiste ya, lejos:
yo fui la que robó la costilla del tiempo
para que regresaras.

Nostalgia del ritorno

Quando te ne andrai,
si apriranno le palpebre del sangue e dell’acqua,
si precipiterà il battito fino a spaccare l’alba,
e le ossa nude fioriranno senza paura.

Quando te ne andrai,
verrà la mia crudele infanzia a torturare i morti,
le ferite assetate delireranno il loro fuoco,
ed Eva sarà morsa da mele ingenue.

Quando te ne andrai
torneranno i segreti distruttori,
le statue del vento balleranno con la tua assenza
fino a nausearla.

Quando te ne andrai
Il cuore preso dal cancro del verbo
scriverà versi famelici,
rime sporche e gelate.

Quando te ne andrai
mendicherò veleno
per non dover vedere tornare la primavera,
e sognerò suicidi da altezze collassate.

So cosa succederà quando te ne andrai,
perché sei già partito, lontano;
sono stata quella che ha rubato la costola del tempo
perché tornassi.

Toda belleza amante que colapsa

El cauce desangrado de la luz
soñó la adolescencia de tu nombre.
Tu ausencia iba clamando ya en los ojos
la golondrina herida de mi sangre.

Y si tuve otra edad,
aquélla fue tu infancia;
tu infancia, un claroscuro que en mi boca
se presagiaba flor apabullante.

Fui fantasma extasiado bajo el cielo perenne
y galería exacta y puñal desterrado
y eterna duermevela de los labios errantes.

Noches de estío azul, sin pronunciarme ángel
le prometí a mi muerte la sombra de tus manos.
El aliento esculpí del viento nacarado,
forjé tu forma indemne desgarrándome el aire.

Verano nuestro, pájaro por siempre herido,
sobrevolá lo inútil del aliento saciado;
vienen hasta nosotros los días implorantes,
los últimos espasmos de juventud sagrada.

Tutta la bellezza amante che collassa

Il canale dissanguato della luce
sognò l’adolescenza del tuo nome.
La tua assenza già richiamava negli occhi
la rondine ferita del mio sangue.

E se mai ho avuto un’altra età,
quella fu la tua infanzia;
la tua infanzia, un chiaroscuro che nella mia bocca
si presagiva fiore travolgente.

Fui fantasma estasiato sotto il cielo perenne
e galleria esatta e pugnale bandito
ed eterno dormiveglia delle labbra erranti.

Notti di azzurra estate, senza annunciarmi angelo
promisi alla mia morte l’ombra delle tue mani.
Il respiro scolpì dal vento perlaceo,
forgiò la tua forma indenne strappandomi l’aria.

Nostra estate, usignolo ferito per sempre,
sorvola l’inutilità dell’alito sazio;
si avvicinano a noi i giorni imploranti,
gli ultimi spasmi della gioventù sacra.

In teoria e in pratica | Quaderni italiani di poesia contemporanea

Le risposte degli autori del Sedicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea all’inchiesta a cura di Raggi γ.

Raccogliamo le risposte di alcuni autori compresi nel sedicesimo volume dei Quaderni italiani di poesia contemporanea di Marcos y Marcos: Marilina Ciaco, Dimitri Milleri, Stefano Modeo, Noemi Nagy, Antonio Francesco Perozzi.


1)  Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo?  Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

MC: Guardando al mio lavoro dall’interno, e dunque da una prospettiva inevitabilmente limitata, posso dire che la componente progettuale e in parte “aperta” dei miei lavori è tuttora pregnante. A questa spinta se ne contrappone però un’altra uguale e contraria, complementare direi, che potrei definire “chiusa” o formalizzante. Mi sembra importante fissare uno spazio linguistico e percettivo sulla pagina, che parte dalle parole, dal sintagma o dalla frase, per poi dare vita a una concrezione relativamente stabile che è fatta anche di ritmi e di immagini, di corpi, di materia congelata «nella sua quasi sparizione vibratile», come scriveva Mallarmé. È su questa stabilità relativa, credo, che si fonda una fase importante del “fare” poetico. Una fissazione precaria che deve fare i conti, di continuo, con il sospetto di un’indicibilità di fondo, con l’incombere di un’assenza. Questo spazio, in qualche modo, deve vedersi, deve emergere dalla pagina e circoscrivere un qualcosa attraverso dei confini formali più o meno categorici, anche se magari è soltanto un appiglio teorico iniziale – penso agli Spazi metrici di Amelia Rosselli, e insomma, anche se decidi di non rispettare quella regola, deve essere una sovversione consapevole, devi sapere che c’è. Il «devi», naturalmente, riguarda una questione soggettiva di autocoscienza, la scrittura in sé non deve nulla. L’unico consiglio possibile è sapere chi sei e che cosa vuoi fare con quello che scrivi. Che l’approccio cambi in termini di singole pratiche o strategie espressive è un fatto strutturale, la nostra condizione umana e vivente impone la fluttuazione (a volte creativa, proficua, a volte soltanto sfibrante), ma ci sono poi due o tre stelle fisse che secondo me ogni autor3 seri3 mantiene costanti nel tempo. Certo, esistono spiriti fortemente monisti, diciamo pure un po’ petrarchisti – l’iterazione tematica e l’ossessione formale sono spie testuali di un tale atteggiamento, lo sappiamo – e spiriti pluralisti, rabelaisiani, forse più allegri. Conoscere il proprio posizionamento (culturale, sociale, etico, estetico, epistemologico, in vari sensi e secondo una molteplicità di assi) è cruciale ai fini della solidità e della credibilità dell’opera nel suo complesso. In ogni caso, nonostante tutti gli sforzi costruttivi immaginabili, ci sarà sempre, tanto in un singolo testo quanto nel progetto generale di un libro, qualche parte che sfugge al controllo di chi scrive, e penso sia giusto salvaguardare questo residuo caotico-magmatico, lasciar andare, qualche volta o sempre, il flusso della scrittura, accettare l’ignoto.

DM: Procedendo a ritroso e selezionando un po’ le domande, per me conta la coincidenza. Intendo dire che ogni materiale testuale, nel contesto dell’opera in cui si sta facendo, può assumere una ristretta gamma di configurazioni possibili, giuste. I vari attori che ruotano intorno all’Opera durante la gestazione cercano di capire cosa desidera essere, quale creatura deve e vuole essere. Quando l’illusione di esattezza diventa abbastanza solida da produrre il senso di necessità, vuol dire che gli apparati dell’Opera hanno una vita autonoma. È davvero così? L’opera è viva? Non credo, non importa. Quel che importa è che lo faccia credere.

SM: Questa nuova silloge Partire da qui ha cominciato a prendere corpo circa sette anni fa. Dopo aver pubblicato La terra del rimorso, sapevo che molti discorsi che gravitavano intorno a quella piccola raccolta non si erano in me conclusi. Al contempo mi ero reso conto, attraverso le letture degli altri, di quali fossero i limiti di quella plaquette e su cosa dovevo lavorare. Bisognava imparare a limare, misurare, saper riconoscere e riagganciare i fili con una tradizione. Ogni autore infatti, che lo voglia o meno, mentre scrive ricostruisce delle linee di tradizione; utilizza cioè, attraverso ciò che ha letto e recepito in un sistema di interazioni tra passato e presente, ciò che per lui è proficuo nel momento in cui scrive. Fondamentale in questi anni per me è stata dunque la riscoperta di una tradizione legata ai miei luoghi d’origine. Sono dovuto ripartire da lì per comprendere alcune mie scelte lessicali, la propensione ad un ritmo, l’uso di alcune immagini. Da questo studio sono nate ad esempio le curatele delle poesie di Raffaele Carrieri Un doppio limpido zero. Poesie scelte 1945 – 1980 (Interno Poesia) e di Pasquale Pinto La terra di ferro e altre poesie (marcos y marcos).
In tutto questo appare chiaro come i miei testi siano stati contaminati e abbiano attraversato innumerevoli fasi. Il lavoro di riscrittura nel corso degli anni è imprevedibile, è il gioco delle varianti, i testi seguono il loro corso incrociando letture, suggestioni, intuizioni, sino a quando s’impongono all’orecchio con la loro forma e spesso anche con un contenuto del tutto diverso dal proposito iniziale. Certo, può capitare anche che un verso, suggerito dalle letture del momento o da un preciso intento d’intonazione, si presenti immediatamente con un suo ritmo o una sua metrica e che io decida di conservarlo, di dargli seguito. Inoltre, personalmente condivido spesso ciò che scrivo con amici poeti o persone che conoscono il mio percorso. Questo mi aiuta a mettere in dubbio ciò che scrivo, stana quello che non riuscirei o non vorrei vedere, mette a dura prova il narcisismo. Se dovessi dare un consiglio a qualcuno direi proprio questo: nel lavoro di scrittura il poeta non deve essere mai del tutto solo. Un libro di poesia, prima di essere pubblicato, deve passare sotto diverse mani. Questo semplice consiglio vale ancor di più dal momento che pochissimi editori o persino curatori di collane si preoccupano di leggere sul serio ciò che pubblicano. Il modo migliore per rispettare ciò che si scrive credo sia questo: confrontare aspettative e risultati, accogliere le stroncature, dialogare e, se è il caso, rinsaldare le proprie posizioni.

NN: Mi piace pensare al libro possibilmente come sempre in fieri: un libro che non si chiude può prestarsi a sempre nuove riletture. Questa secondo me è una condizione necessaria perché vi sia opera poetica: la conservazione di un certo grado di apertura intrinseca.
Poi, certamente, il confine stabilito dall’atto della pubblicazione è importante: traccia una linea di demarcazione, ferma l’istantanea di un’intenzione autoriale. Ma è bene che sia permeabile – e qui forse è anche la formazione filologica a parlare: la passione per gli avantesti, la problematizzazione della nozione di compimento.
Per fare un esempio, all’interno di questo Quaderno mi affascina molto l’operazione di Milleri, che di fatto ha riscritto la propria precedente raccolta. Questo è un caso estremo, certo, ma esemplificativo della possibilità di risonanza e di movimento del testo poetico.
Per quanto riguarda la mia (breve) esperienza: sicuramente la silloge con cui esordisco all’interno del Quaderno si trova tutt’ora allo stato di un testo in costruzione. Questo credo possa essere – non soltanto, ma anche – un bene. Non so dire se, come o quando troverà una prosecuzione, che pure sembra chiedere.
Ma non so dirlo anche perché, per quanto riguarda la costruzione di questa, ancora precaria, forma macrotestuale, prima sono venuti i testi. Un fil rouge li ha intrecciati in seguito: rileggendoli a una certa distanza, anche temporale, sono emerse con inattesa chiarezza le tappe di un percorso, fissate però soltanto a quest’altezza nelle diverse e successive sezioni che ora compongono la raccolta.
Il lavoro sul macrotesto, dunque, è stato a posteriori, non a priori. La forma, per me, è stata dettata dai testi.

AFP: Personalmente tendo a adottare modalità differenti in base al progetto. Questo perché mi muovo contemporaneamente su terreni diversi della scrittura e ciò comporta confrontarsi con diverse necessità e possibilità. Ciò che posso individuare come costante, tuttavia, è una tensione tra macro-struttura e singolo testo, con un polo che attrae più dell’altro in base alla situazione.
Ad esempio ne Lo spettro visibile ho lavorato molto a monte: ho disegnato un quadro di ciò che volevo trattare, articolandolo in sezioni; poi i testi hanno seguito le ragioni di questo prospetto, certo suscitando di volta in volta imprevisti e nuove prospettive, che però io poi ho accolto o scartato, comunque piegato e collocato obbedendo allo schema iniziale, che almeno nelle sue direttive centrali, quindi, è rimasto stabile. Per bottom text, la raccolta presente nel Sedicesimo quaderno italiano, invece, la spinta dall’alto è stata meno forte, e le tre sezioni del libro sono state pensate contemporaneamente (cioè in maniera interconnessa) alla stesura dei testi/episodi.
Anche per quanto riguarda la forma dei singoli testi, poi, tendo ad agire in modi diversi in base all’obiettivo del lavoro, e in questo la risonanza tra micro e macro è – o mi impegno a fare che sia – percepibile. Ancora, nello Spettro, volendo ragionare di poesia e scienza, ho lasciato entrare materiale grezzo, desunto da saperi specialistici, all’interno dei versi; al contrario in bottom text, volendo esplorare percorsi più allucinati e post-umani, ho lavorato su nitidezza e (apparente) limpidità razionale. Apprezzo (anche da lettore, intendo) i libri compatti e consapevoli. Che possono essere anche compatti nella loro deliberata auto-trasgressione o inaffidabilità interna, è lo stesso; purché il libro possa costruire una sua (eventualmente anche anti-)intelligenza, una sua circonferenza di senso.
Visti questi contrasti, e percependo il mio stesso lavoro ancora in via di definizione (forse all’infinito, non so, oppure spero), non mi sento quindi nella posizione di poter dare consigli veri e propri. L’unica cosa che mi viene da suggerire, appunto, è di guardare a questa tensione tra struttura ed entropia, o tra razionalità e immaginazione. Mi sembra che buoni libri (almeno a mio gusto) emergano da questa conflittualità, in grado di smarcarsi tanto da un’impostazione meccanicamente esecutiva (obbedienza a dettami estetici auto- ma anche etero-imposti) quanto dallo spontaneismo puro, che rischia di far ripiegare la scrittura a un livello pulsionale, di raggio ristretto, poco spendibile sul piano dell’intelligenza o esperienza collettiva.

2)  Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

MC: Un elemento di finzione in senso lato, per quanto non definitorio della poesia, penso sussista in diversi casi di scrittura poetica, o comunque di prosa non narrativa, non romanzesca. Per quanto mi riguarda vivo tutto questo come un qualcosa di contingente, può esserci come non esserci, e quando c’è è uno dei tanti strumenti che abbiamo a disposizione pescando dalla proverbiale “cassetta degli attrezzi” della letteratura. Questa componente di artificio, o più precisamente di deviazione dal “fatto vero”, credo sia però funzionale, nel contesto della scrittura poetica, a rendere la propria singolarissima e relativissima “verità” più condivisibile, a darle un respiro che può diventare – perlomeno in potenza – intersoggettivo. Del resto, la porzione di realtà alla quale abbiamo (o crediamo di avere) accesso nel corso di un’esistenza si rivela assai limitata, e nonostante ciò si tende a sopravvalutare l’idea stessa di verità, come se esistesse davvero una forma di conoscenza oggettiva e immutabile che aspetta soltanto di essere intercettata dal nostro sguardo. E invece siamo sempre influenzati dai sistemi di rappresentazione che adottiamo, dai paradigmi interpretativi. Questo accade anche (soprattutto) per la propria biografia, vale a dire per l’autonarrazione continua e falsamente unitaria della propria coscienza. La deviazione, anche soltanto a partire da qualche dettaglio, aiuta a immaginare scenari alternativi e a ricordarci che quella che viviamo ogni giorno è una parte – parte come insieme di maschere, persona in senso etimologico, e parte infinitesimale di un incommensurabile “tutto”.

DM: Provo un certo disagio a discorrere entro l’opposizione finzione-testimonianza. Il testo è un device, quello che accade in chi legge è innanzitutto potestà di chi legge. Le facoltà simulative e rappresentative sono incorporate, specifiche per ognuno. Non siamo in tribunale: non possiamo indagare sul contenuto di verità di chi scrive, né regolare l’esperienza di chi legge. Resta l’intensità, la profondità dell’esperienza stessa. Ma non quella di chi scrive impacchettandola, quella che un’opera realizza nei singoli. Per questo espressione e finzione mi sono indifferenti: a me interessa far vivere qualcosa di vero entro i confini della testualità.

SM: Il più dannoso dei pregiudizi è quello secondo cui la poesia serva a esprimere sé stessi. L’essere umano compie costantemente operazioni immaginifiche, utilizza cioè il pensiero metaforico per leggere e inventare il mondo. La poesia attinge a una sapienza che fa riferimento ai propri sensi, alla propria memoria. In questo senso è chiaro che un io sia imprescindibile. L’io però sappiamo che è fatto di moltissimi piani e cassetti, e compito del poeta deve essere quello di mettere in dialettica le parti diverse di sé. Inoltre ci si può mettere a disposizione, si può mediare senza nascondersi e accogliere le voci degli altri; l’io può essere – anzi lo è inevitabilmente – plurale. La mia raccolta è percorsa da numerose voci, messe spesso tra virgolette, che nulla hanno a che fare con la mia ʻʻrealtà biograficaʼʼ ma che allo stesso tempo fanno parte di una mia naturale sintassi metaforica. Ad esempio Ulisse, Pulcinella sono solo alcuni dei personaggi che attraversano questa nuova raccolta.

NN: Si deve parlare di finzione poetica.
Identificare la soggettività che si esprime – anche in prima persona – all’interno di un testo letterario con quella autoriale è un errore tanto diffuso da portarci a parlarne nei termini, appunto, di senso comune.
Sin dalle origini della nostra letteratura, nel testo poetico convergono topoi canonizzati, tramandati nei secoli e chiaramente divergenti dal reale vissuto degli autori. Oggi non è diverso.
Poi è ovvio, nella scrittura si parte dal sé, inevitabilmente: il mondo viene filtrato dal punto di vista del soggetto che ne fa esperienza e non potrebbe essere altrimenti. Tuttavia, da qui diventa necessario ampliare lo sguardo. Cercare una via che conduca al superamento dei confini ristretti dell’introspezione in direzione di una parola comune. Parola che – anche in virtù della sua autenticità, per apparente paradosso – può, e forse deve, essere finzionale, se non bugiarda.
In quello che scrivo l’invenzione ricopre un ruolo importante. E non credo sia necessario o utile in alcun modo distinguere quanto vi è di autobiografico da quanto di finzionale. Ma sicuramente quello della finzione – a cui giungo spesso attraverso gli strumenti immaginativi del sogno o dell’allucinazione – è un meccanismo mediante il quale mi sembra possibile aprire delle crepe nella superficie del puramente referenziale. Da qui prende forma una delle possibili vie che tentano di condurre oltre alla pura percezione soggettiva.

AFP: Il problema dell’immaginazione (intendo così la finzione) non riguarda solo la poesia ma l’intera – io credo – nostra epoca. Perché coincide con un contenitore che ospita varie controversie culturali (decisive): detto concisamente, la possibilità di immaginare un’alternativa allo status quo. Una necessità (urgenza) incalzata, in modi diversi, dall’emergenza climatica e dal confine sempre più labile tra realtà e finzione, ma anche da contraddizioni della modernità non ancora risolte, come, su tutte, quella tra capitale e lavoro.
Pur occupando uno spazio marginale all’interno del contesto culturale, anche la poesia si misura oggi con queste dinamiche. E il senso comune che fa della poesia un esercizio del sé sicuramente non aiuta: tenendone comunque sempre presente la motivazione storica (cioè non iperuranica, ma chiaramente connessa alla configurazione della civiltà borghese), non ho problemi ad accettare il lavoro sul soggetto come possibilità della poesia. Il problema è quando questo soggettivismo diventa una linea dominante, dominatrice, che soffoca possibilità diverse, e chiude appunto la poesia in una dialettica pericolosa tra l’individuo (a questo punto biograficamente sottolineato) e la sua ricezione.
Si può, quindi, e anzi si deve, parlare di possibilità immaginative/finzionali della poesia (con o senza apporto esplicito di un io agente) e soprattutto della specificità dell’immaginazione poetica, che si compie – a differenza di quella narrativa, presa qui in linea di massima – nella manipolazione della lingua. Un’immaginazione scaturita, quindi, (o almeno innervata) dagli scarti del linguaggio, dalle visioni o glitch che essi possono aprire. Mi sembra che in modi diversi tutte le raccolte del Sedicesimo quaderno abbiano a che fare, più o meno coscientemente, con questa prospettiva. Al netto di una capacità rappresentativa solo parziale (come è per ogni antologia), direi sia il segno di qualcosa.

3)  Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

MC: Non ho mai pubblicato il primo libro di poesie che scrissi fra i venti e i ventiquattro anni, Sinapsi, finalista al Premio Pagliarani del 2019: quella, insieme alla rassegna RicercaBo del 2017, furono le uniche due occasioni in cui il non-libro fu presentato a un pubblico come potenziale opera prima, che poi di fatto non giunse mai a un’esistenza piena, o perlomeno non in quella forma. Per farlo esistere ho scelto di smembrarlo e di trasformarlo in un lavoro collettivo insieme a Giorgiomaria Cornelio e a Giuditta Chiaraluce: Intermezzo e altre sinapsi (Edizioni volatili, 2020) è anche il frutto di questo processo di decostruzione del mito dell’opera prima. Come molt3 sapranno, Edizioni volatili è un progetto di esoeditoria. Il mio primo libro prodotto e distribuito da un circuito editoriale più canonico è stato Ghost Track (Zacinto, collana Manufatti poetici, 2022) ed è anche il primo progetto di scrittura individuale che considero compiuto. A sua volta Ghost Track è poi confluito come prima sezione ne Gli anni del disincanto (Sedicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2023), e credo che quest’ultimo lavoro segni una tappa importante nella mia maturazione come autrice. Una raccolta più stratificata e complessa che sono felice sia stata accolta nel contesto del Quaderno. A posteriori e a un occhio esterno, quanto è accaduto dal 2016 (la mia prima lettura in pubblico) a oggi potrebbe persino apparire come un percorso “lineare”. Eppure, la paradossalità del caso vuole che io non abbia un’opera prima, bensì tre momenti della mia scrittura che corrispondono a tre raccolte molto diverse.
Il contatto con la “bolla”, il coro, o semplicemente con alcun3 autor3 che stimo molto mi ha senz’altro aiutato; il confronto e la lettura reciproca rappresentano dei passaggi significativi per chiunque, credo. Trovo molto utile esplicitare e discutere le proprie istanze di poetica, vagliare affinità e divergenze con l3 altr3, mettere a fuoco con maggiore chiarezza qual è la propria voce o le proprie voci coesistenti. Questione diversa è lo scrivere per un pubblico specifico o per facilitare una forma di consenso, di qualunque tipo essa sia. È un’operazione che non mi interessa e la ritengo esteticamente inconsistente, oltre che inutile. La semplificazione è escludente, denota una sfiducia di fondo in quel lettore potenziale che potrebbe essere chiunque. È banale ribadirlo, ma si scrive per nessuno e per tutt3.

DM: Per me la reazione esterna è tutto, la condizione migliore è quella di non avere solo qualche ossessione da difendere, così da poter trovare presto qualcosa che funzioni. L’Opera non è mai finita, non è mai abbastanza, quindi direi che il mio esordio rappresenta il punto più alto della mia capacità  immaginativa di allora. Infatti l’ho riscritto. Tutt3 l3 autor3 (o 3 lettor3) con cui vengo a contatto e che mi dicono qualcosa sul mio lavoro per me hanno ragione, ogni critica è accolta, ogni considerazione è giusta. C’è un limite, certo, ma è un nucleo molto profondo: tutto il resto può sparire ora.

SM: Ho esordito nel 2018 con una plaquette di venticinque poesie. Quei testi posseggono un’urgenza – e di conseguenza un’ingenuità – un certo nervosismo, riflettono la realtà che vivevo quando li ho scritti. Per questo definirei in parte quel lavoro come la presa di parola di un autore. Paolo Febbraro che ha scritto la prefazione alla silloge inserita nel Sedicesimo quaderno, è solito dire: «Quando scrive il poeta è un ispirato, e quando pubblica è un intellettuale». È un’affermazione che condivido e che ho imparato col tempo a fare mia. Nel mezzo infatti vi è tutto un processo di analisi e autocritica, un lavoro di consapevolezza e comprensione, di possibili letture di ciò che si è scritto, in cui ogni poeta deve rispondere ai tanti poeti che lo hanno preceduto. È un lavoro di formazione che si ripropone ogni volta per ogni testo, per ogni verso, e che richiede responsabilità.    
Riguardo il pubblico, se consideriamo che perlopiù è composto da altri poeti, allora posso affermare che certamente il confronto, e non l’effetto, può influire sulla mia scrittura.

NN: Per quanto riguarda la formazione, senza dubbio: ho avuto fortuna.
Innanzitutto, quella di incontrare i giusti maestri, che hanno saputo indirizzarmi sin da molto giovane. Indirizzare – in primo luogo – nel senso di aprire uno spiraglio su quello che significava pensare di avviare un percorso di questo tipo. Ma anche su quello che non poteva e non doveva significare, altrettanto importante, se non di più. E poi, fondamentale, indirizzare nel senso di aprire un orizzonte di letture fino ad allora sconosciuto, fornendo al contempo gli strumenti per ampliarlo autonomamente.
In seguito, fondativo è stato il dialogo. L’incontro con persone che mi hanno permesso di sfinirle facendo loro leggere e rileggere i testi, ricevendo riscontri anche feroci, che invitavano a buttare tutto e ricominciare da capo. Questo, credo, sia stato e resta ad oggi fondamentale: l’ascolto e il confronto, basati sull’apertura e la fiducia reciproca.
In tale dimensione di collettività dialogante si inserisce del resto anche il mio esordio, trovando spazio all’interno del Sedicesimo quaderno della Marcos y Marcos insieme ad altre sei voci autoriali. Al timore generato dalla consapevolezza di star prendendo parola – un gesto che implica un certo inevitabile grado di violenza e richiede quindi di prendersene la responsabilità – si affianca così l’incoraggiamento di non essere soli.
Quindi, sì: sicuramente il rapporto con la “bolla” ha sortito un effetto sulla mia scrittura, ma – credo – nei termini di un fertile e generoso dialogo a più voci coltivato negli anni.

AFP: In realtà, il mio avvicinamento alla scrittura non si è compiuto subito sul terreno della poesia. I miei interessi erano in prima battuta filosofici, incentrati sull’elaborazione di un pensiero più che sullo stile; poi ho iniziato a interessarmi alla narrativa, e solo al terzo step, con l’università, alla poesia. Questo ha comportato, per me, un certo ritardo nelle letture (specie di autori contemporanei), nella formazione, ma forse anche una percentuale di “selvatichezza” nella scrittura, che non giudico del tutto negativa – occorre saperla dosare, e io spesso non ci sono riuscito, ma concede anche la possibilità di seguire percorsi non tracciati, e perciò, magari, interessanti. Se devo descrivere il formarsi della “mia voce” (espressione che non amo, lo confesso) devo quindi mettere accanto alla poesia le letture filosofiche o scientifiche, che si sono fortemente proiettate (penso a Derrida per Essere e significare o a Darwin per Lo spettro visibile) sulla mia scrittura.           
A proposito di questa “selvatichezza” (che possiamo intendere dunque come un misto di ingenuità e originalità) si può poi aprire proprio il discorso sulla “bolla” (più che sul pubblico, non esistendo – o quasi – un pubblico di poesia che non ne sia anche autore): quando si entra in un circuito è inevitabile che se ne venga condizionati; e anche qui, sia in bene (la condivisione, l’utilità dello sguardo esterno, l’ampliamento di riferimenti), sia in male (il rischio di agire adeguandosi al gusto dominante di una bolla, se non addirittura per compiacerlo). Perciò uno degli elementi su cui più secondo me occorre riflettere, quanto a contesto (oltre che testo) poetico, è il paradigma algoritmico: visto che la community poetica – come le altre – agisce sui social, essa risulta inevitabilmente guidata dai parametri algoritmici tramite cui i vari portali costruiscono i feed, quindi le relazioni e gli scambi, degli autori (me compreso, ovviamente). Che ci sia un’influenza algoritmica della community sugli stili dei singoli è ai miei occhi una cosa visibile, ma di cui non si discute abbastanza.        
Tutto ciò mi permette poi di rispondere alla domanda sul giudizio del proprio percorso e del proprio esordio: dacché le strutture algoritmiche (unite a quelle già esistenti di tipo mediatico e editoriale/economico, quindi anche ideologico) influenzano le scritture, si continua a coltivare anche il mito – nato negli anni ’80 – dello scrittore giovane, e dunque dell’esordio. Dico mito perché di questo si tratta: una narrazione che, per obiettivi commerciali, punta i riflettori sull’esordio come manifestazione di un genio precoce (ad esempio) e finisce per farne uno status, quindi un termine di paragone, un termometro. Anche sulla scorta di un’auspicabile decostruzione di questo mito efficientista e giovanilista, guardo alle mie prime prove con uno sguardo (credo) equilibrato: passaggi, certamente superati, ma che, a prescindere dal loro valore intrinseco o contestuale, hanno portato il mio percorso dov’è ora. Mi piace l’idea di sperimentazione come un tracciarsi la strada da soli, quindi anche sbagliando. Credo nella scrittura come test. Respingo l’idea, ancora dominante, dell’oggetto-libro sacralizzato, della pubblicazione infallibile.

4)  Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

MC: Mi piacerebbe una maggiore partecipazione del pubblico. A giugno di quest’anno abbiamo presentato La distinzione di Gilda Policastro insieme ad Alberto Bertoni alla Libreria Alaska di Milano e c’è stato un momento di lettura collettiva che ho apprezzato molto.

DM: Dall’esperienza che ho avuto con lay0ut, ho capito che imposterei le presentazioni come momenti performativi e trasformativi, non come la presentazione di un prodotto. La poesia vocalizzata chiama la multimedialità, e il momento teatrale della sua presentazione può essere un’occasione di mostrarne il potenziale, liberarla dai suoi stereotipi. Mi è capitato di sentir leggere un testo di Peter Gizzi tradotto e inserito nel nostro ultimo cartaceo (Sono hackeratə): la voce era autotunata, un producer sonorizzava la lettura improvvisando un tappeto armonico. È stato assurdo, come ascoltarlo per la prima volta. Questo vorrei per le presentazioni: che andando via si potesse pensare ho ascoltato una poesia “davvero” per la prima volta.

SM: Non ho un’idea in particolare delle presentazioni di poesia, non saprei dire quale modalità sia più funzionale rispetto ad altre.

NN: Credo sarebbe bello far parlare i testi.
Trovo un po’ soffocanti le presentazioni in cui a diventare preponderante è il discorso critico e teorico. Preferirei si articolassero piuttosto come momenti di ascolto reciproco.

AFP: Sono due le lamentele che mi capita più spesso di ascoltare a proposito delle presentazioni: che non si leggono abbastanza testi; che c’è poco spazio per la riflessione critica. Benché opposte, le due preoccupazioni mi sembrano ruotare attorno allo stesso problema, e cioè al fatto che la poesia occupa uno spazio intermedio tra l’arte e l’attività intellettuale. Questo comporta che, in base alla sensibilità e all’interpretazione della poesia che ha chi la conduce, la presentazione spesso pende o verso una delegittimazione del discorso intellettuale – a volte inteso come estraneo, come zavorra, rispetto a una presunta purezza o spontaneità della parola poetica – o, al contrario, verso un assottigliamento del ruolo dei testi, in una pratica che ha più a che vedere con la filosofia, a quel punto, che con la letteratura.
Personalmente mi colloco lontano da entrambi questi poli. Ciò che della poesia suscita interesse in me è esattamente il suo essere una crasi tra arte e attività intellettuale, cioè tra distorsione o squilibrio e razionalità all’interno del linguaggio. E questo conflitto è ciò che vorrei emergesse dalle presentazioni di poesia, che sicuramente soffrono il peso di due modelli (quello della performance autoriale da una parte e quello del convegnismo accademico dall’altra), ovvero il focus su un’esperienza che è costruita dal testo e che però produce un discorso intellettuale e culturale oltre se stesso. La presentazione, per uscire da questa impasse (e tacendo ora della sua funzione altrettanto controversa di spot commerciale), dovrebbe essere in grado di costruire un momento di esperienza e discorso, cioè di concentrazione nel presente veicolata dal testo e, a partire da quella, intelligenza spendibile per progetti a venire.

Su “bottom text” di Antonio Francesco Perozzi

Nota di lettura a cura di Lorenzo Di Palma.

Qualche mese fa è stato pubblicato il sedicesimo Quaderno italiano di poesia contemporanea di Marcos y Marcos. Volendo per il momento accantonare il discorso sull’utilità di questa operazione editoriale che ormai si ripete da più di trent’anni, c’è da ammettere che l’antologia – per quanto eterogenea – si mantiene su uno standard qualitativo piuttosto alto. Un dato significativo è la presenza tra gli autori antologizzati di tre dottorandi in materie umanistiche (Michele Bordoni, Marilina Ciaco, Noemi Nagy) e una in sociologia dei media (Alessandra Corbetta) su sette totali. Dei tre autori rimanenti, due (Antonio Francesco Perozzi, Stefano Modeo) sono laureati in filologia moderna, mentre l’ultimo (Dimitri Milleri) è maestro di chitarra. Questo dato è di per sé spiegabile con il coinvolgimento diretto di alcuni dei membri del comitato di lettura nel mondo accademico, ma la questione rimane problematica. Se è vero che ogni Quaderno misura la temperatura poetica del biennio precedente alla sua pubblicazione, forse dovremmo porci la domanda da un altro punto di vista: è possibile scrivere un libro di poesia in Italia senza una laurea magistrale in filologia?

La figura del poeta addottorato (o poeta critico) prolifera nelle università italiane in maniera inversamente proporzionale a quella del romanziere letterato; basti citare due dei più grandi romanzieri italiani contemporanei, Francesco Pecoraro e Vitaliano Trevisan, il primo architetto e il secondo difficilmente incasellabile in categorie di sorta. Non è un caso quindi se in Italia il lettore di poesia è sempre più antropologicamente simile allo scrittore di poesia (fino al sospetto allarmante che il primo gruppo coincida con il secondo), mentre il mondo del romanzo continua pullulare e, in casi eccezionali, a travalicare i confini nazionali. Il discorso si lega ad una sempre più chiara abdicazione della poesia al suo mandato sociale, un fenomeno incominciato alla fine del 1800 che ha lentamente reso la poesia e il teatro periferiche all’interno del sistema delle arti letterarie, in favore del romanzo. Questo ha prodotto una reazione istintiva dei poeti che si sono armati nell’ultimo secolo di strumenti critici così sofisticati da poter essere maneggiati soltanto con le pinze di un dottorato di ricerca.
Tra i sette autori, il caso di Antonio Francesco Perozzi è interessante perché mostra una rapida e netta trasformazione di segno opposto. Rispetto al suo precedente libro, uscito appena l’anno scorso, in bottom text Perozzi si riappropria della prima persona singolare che era praticamente assente in Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022), un libro che faceva dell’impersonalità tipica di alcune scienze lo strumento stilistico predominante.
Leggendo bottom text, invece, si ha l’impressione che il personaggio che dice io (modellato sul vero Antonio Perozzi) offra al lettore il suo sguardo su un mondo in cui un antropocene futuribile ha preso le strada lenta e silenziosa dell’apocalisse. Sono quasi del tutto assenti le figure umane: al loro posto una sfilza di oggetti inanimati (la ferraglia, le travi, gli arnesi di falegnameria, il televisore LG, un assortimento di oggetti di metallo).

Installazioni è il titolo della prima sezione, e proprio come delle installazioni questi oggetti esistono, e il loro senso è ricavato dal solo fatto di esistere. La loro esistenza è in realtà una persistenza, in quanto «Con il boom economico ci siamo innamorati / delle cose tangibili e difficili da eliminare», e continuamente «tocchiamo con mano che più niente / è destinato a sparire». In ogni caso, la desolazione è giustificata dal fatto che come sempre l’espressione di una prima persona coincide con qualcosa di antisociale e asimmetrico. Per il personaggio che agisce su uno sfondo urbano e industrializzato come la periferia della provincia italiana, l’esperienza del mondo e l’esperienza di sé arrivano quasi a identificarsi («Ho un’immagine che mi sono costruito da solo»).

Un punto centrale per la comprensione del libro è il fatto che Perozzi riesca ad essere uno scrittore “impegnato” senza cadere nel vecchio inganno dell’impegno a tutti i costi che porta alcuni poeti a plasmare opere così vistosamente superate dalla propria vocazione sociale da essere quasi illeggibili; in breve: opere in cui è palese la prevalenza della politica sull’arte, della funzione sul senso. In bottom text invece, il lettore è continuamente suggestionato da situazioni quotidiane, uno slice of life spesso ambientato tra le mura domestiche (la seconda sezione è intitolata stanze), non sempre accoglienti («Al contrario, le pareti costruiscono / l’odio per i romanzi, i porno preferiti, / la noia, il sonno, non parlare più coi genitori»).

Le poesie di Perozzi non sono dei bignami patetici sui recenti fatti di cronaca nera o sugli ultimi sviluppi della critica marxista o del mondo di internet, ma sono dei quadri in cui questi elementi agiscono da catalizzatori, pur mantenendo un alto grado di poeticità. Il cortocircuito deriva dal fatto che l’individualità del poeta, della sua casa, della sua stanza, dei suoi pensieri non è che una costruzione collettiva posticcia, la stessa che è alla base del concetto di meme di cui il “bottom text” è la parte sottostante, quella da riempire a piacimento con frasi sempre nuove che garantiscono all’ultra-individualismo una ultra-serialità. Il meme irrompe nel testo con la stessa franchezza di una schiera di case popolari, tutte identiche e diverse («Alcune abitazioni possono essere lette / come fossero dei meme») e porta con sé la distruzione dei due cardini fondanti del sistema artistico occidentale, ossia l’unicità e l’originalità dell’opera, a cui contrappone l’emergere prepotente e incontrollato della creatività amatoriale.

Meme

Il meme infatti, proprio come la poesia, non funziona mai in maniera referenziale (vero o falso), ma in maniera metaforica, e la sua metafora si traduce tutta nella conoscenza o meno della chiave d’accesso, nel senso di appartenenza del lettore. Appena cerchiamo di interrogarlo, il meme si dissolve, diventa pervasivo come un virus. In definitiva, il suo capitale simbolico è spendibile nella pervasività piuttosto che nella persuasione.

L’algoritmo ci ha lasciato in dono
gli stessi sogni, dalle sponde del letto
facciamo tutti gli stessi sogni:
l’inquadratura è sovraesposta, tagliata male,
e ognuno si riconosce in sé, e dappertutto,
si riconosce in ogni altro, è il centro del sogno.

Per concludere, bottom text è un libro agile, fresco, consapevole, che non cede alle lusinghe dell’impegno letterario spicciolo, né ai virtuosismi della letteratura astratta e accademica. L’autore pare aver interiorizzato il meglio della temperie poetica recente derivata, in parte, da La pura superficie di Guido Mazzoni e della linea autofinzionale in prosa che ha in Walter Siti il suo capostipite italiano e forse, come nel caso di Siti, è bene che il lettore capisca al più presto, guardandosi allo specchio, che è Antonio Francesco Perozzi, come tutti.


Sistema di valori

Il grande invisibile si trova qui,
nei soldi. A cena rinneghiamo
che l’alta finanza si fotta di noi:
così limpido è l’amore
che ci vuole a produrre un sistema di valori
capitali, che sono in mezzo alla gente,
che si trasformano imitandoci.
Tutto ciò che si vede o sente o mangia,
anche la passione per il nuoto o l’eternit,
può essere convertito nella sua larva,
in qualcosa che resta
anche se l’uso ne sforma le parti.
Questa notizia ci rasserena; sorrido dopo tempo
a mio padre. Riponiamo i barattoli nel frigo
e tocchiamo con mano che più niente
è destinato a sparire.

Campi di telefonia mobile

L’aria è di proprietà della Vodafone
e di altre compagnie telefoniche.
Lo scopro una mattina senza campo
dalle parti di Carsoli: quasi un’apnea
non ricevere più voci dallo spazio.
Ma ora la salute dell’aria è scoperta
un artificio: trattiene in verità dei flussi,
delle reti trasparenti al di sopra delle teste,
che tessono tra loro conversazioni, avvocati
consultati, madri apprensive, i fatti più oscuri
della storia recente.
Quindi tutto ciò che le persone hanno detto è sospeso
nell’aria. Un sogno sarebbe un magnete
in grado di intercettare, se sollevato, l’onda del linguaggio.
Sapere così, con un bastone,
chi ha messo le molotov nella Diaz.

Rasoterra nella realtà e nella lingua: alcune poesie di Mosab Abu Toha

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Camilla Marchisotti

Ci si accorge subito, leggendo Mosab Abu Toha, che le cose nelle sue poesie sono davvero cose: gli alberi sono davvero alberi, non token bucolici su cui proiettare significati altri; le case sono davvero case e i bambini davvero bambini, non personaggi o simboli dell’infanzia; le bombe, soprattutto, sono davvero bombe, non metafore. Che nel suo Things you may find hidden in my ear (City Lights, 2022) le cose siano proprio così come appaiono non è il segno di un’ingenuità poetica da libro d’esordio, ma una scelta formale ben precisa, una modalità di enunciazione e posizionamento che è la regola aurea e terribile della sua scrittura. Dico terribile, perché dal punto della mappa in cui l’autore si colloca e scrive, e cioè da quella Gaza in cui è nato, i bambini sono spesso morti, feriti o menomati (come in “Seven fingers” o “We deserve a better death”); le case sventrate e il paesaggio deformato dalle bombe, dagli aerei, dai droni, dai proiettili e dalle schegge di granata che, realissimi, coprono e gareggiano con il rumore di vento, alberi e uccelli. L’una e l’altra dimensione, naturale e guerresca, convivono nel vocabolario poetico di Abu Toha e nel soundscape del suo cielo palestinese, fino a confondersi e sovrapporsi con effetti a volte stranianti. Tenere insieme questi elementi apparentemente inconciliabili è quello che fa tutti i giorni l’irreale realtà di Gaza, e che di conseguenza deve fare il poeta sulla pagina. Così, Mosab è l’occhio che ha visto e che vede; il corpo che ha patito e la memoria che registra, elenca le date dei massacri e i nomi delle vittime, ricordando anche per gli altri, come per i nonni morti con la speranza di poter tornare un giorno a Yaffa nella casa abbandonata a forza nel 1948, di cui si racconta in “My grandfather and home”. Mosab è anche l’orecchio che ha sentito e che sente: fortissima la dimensione sonora, una sorta di aurality da guerra permanente che infatti ritorna anche nel titolo del libro e nel componimento omonimo (“Things you may find hidden in my ear”); così come frequente, tra gli oggetti, è la radio. Questa attenzione al reale non vuol dire che al libro manchi una dimensione immaginifica, onirica o surreale, anzi (si vedano per esempio, qui, “The wall and the clock” e “Notebooks”); o che non ci si permetta, a volte, di allargarsi o salire liricamente (in “A litany for “one land””), ma è sempre un dire che evita i rischi della retorica, della pornografia del dolore e della banalizzazione.

Ed è tanto più sorprendente, questa capacità di stare rasoterra nella realtà e nella lingua, se si pensa che il poeta sceglie, per le sue poesie, non l’arabo (madrelingua spesso definita “sick”, malata come il popolo che la parla), ma l’inglese, a cui mancano le lettere necessarie per pronunciare correttamente il suo nome (come ci viene spiegato in “Mosab”), e che marca anche linguisticamente una situazione fisica, una condition ormai cronicizzata di displacement (uno dei numi tutelari del libro è Edward Said, a cui è dedicata “Displaced”). Mosab Abu Toha si è laureato in lingua e letteratura inglese, ha insegnato inglese nelle scuole della UNRWA (United Nations Relief and Works Agency) dal 2016 al 2019, ha studiato in America come visiting fellow e visiting librarian, ha fondato la Edward Said Library, la prima biblioteca di lingua inglese a Gaza. Questa lingua seconda gli permette di trovare e di tenere, lungo tutti i testi, la corretta misura enunciativa. Si tratta di una lingua su cui il poeta spesso ragiona mentre scrive, ma le riflessioni metaletterarie nel libro sono estranee alla freddezza dell’esercizio di stile: anche le parole sono cose, e le poesie mattoni con cui si costruiscono le case; soltanto con la penna in mano si è umani e non spettri.


Da Things you may find hidden in my year (2022)

My grandfather and home

i
my grandfather used to count the days for return with his fingers
he then used stones to count
not enough
he used the clouds birds people

absence turned out to be too long
thirty-six years until he died
for us now it is over seventy years

my grandpa lost his memory
he forgot the numbers the people
he forgot home

ii
i wish i were with you grandpa
i would have taught myself to write you
poems volumes of them and paint our home for you
i would have sewn you from soil
a garment decorated with plants
and trees you had grown
i would have made you
perfume from the oranges
and soap from the skys tears of joy
couldnt think of something purer

iii
i go to the cemetery every day
i look for your grave but in vain
are they sure they buried you
or did you turn into a tree
or perhaps you flew with a bird to the nowhere

iv
i place your photo in an earthenware pot
i water it every monday and thursday at sunset
i was told you used to fast those days
on ramadan i water it every day
for thirty days
or less or more

v
how big do you want our home to be
i can continue to write poems until you are satisfied
if you wish i can annex a neighboring planet or two

vi
for this home i shall not draw boundaries
no punctuation marks

Mio nonno e casa

i
mio nonno contava i giorni del ritorno con le dita
poi usò le pietre per contare
non bastava
usò le nuvole uccelli persone

l’assenza si rivelò troppo lunga
trentasei anni finché non morì
ora per noi oltre settanta

mio nonno perse la memoria
dimenticò i numeri le persone
dimenticò casa

ii
nonno vorrei essere con te
avrei insegnato a me stesso come scriverti
poesie interi volumi e avrei dipinto casa nostra per te
ti avrei cucito dalla terra
un vestito decorato con piante
e alberi che avevi fatto crescere
ti avrei confezionato
profumo dalle arance
e sapone dalle lacrime di gioia dei cieli
impossibile pensare a qualcosa di più puro

iii
vado al cimitero ogni giorno
cerco invano la tua tomba
sono sicuri di averti seppellito
o sei diventato un albero
o forse sei volato via con un uccello verso il nulla

iv
metto la tua foto in un vaso di terracotta
la innaffio ogni lunedì e giovedì al tramonto
mi hanno detto che in quei giorni digiunavi
durante il ramadan la innaffio ogni giorno
per trenta giorni
o di meno o di più

v
quanto la vuoi grande questa nostra casa
posso continuare a scrivere poesie finché non sarai soddisfatto
se vuoi posso aggiungere uno o due pianeti vicini

vi
per questa casa non traccerò confini
nessun segno di punteggiatura

The wall and the clock

There is always that clock on the wall.
Every time I step into my room, I feel
curious, want to take it down, see
what’s behind its face.
I want to see how old it has become.
My father bought it when I was a child.
I want to count its teeth
to know its age.

But the clock doesn’t get old.
The numbers never change,
Only I do.

And then there’s the rocking chair,
and I am sitting in it, just me
in the room, rocking back and forth
doing nothing but
imagining the wall shouting to the clock,
“Stop ticking! You’re hurting my ears.”

I look at the cracks in the paint on the wall.
It’s more than just the sound of the clock.
Shrapnel holes stare at me
whenever I enter the room.

(The clock wasn’t harmed in that attack.)

I hurry to pull the batteries out of the clock.
I whisper to it:
I’ll take you to the doctor,
even though it’s not only you who’s sick.

The paint stops peeling.
I take the clock to the clockmaker,
ask him to make it soundless.
He removes the clock’s vocal cords,
patches its mouth shut.
I didn’t see the teeth,
didn’t ask the doctor.

At home, I put the batteries back.
The clock works silently.
It adds to the silence in the room.

I settle back into my chair, read some poems aloud
to break off the threads of silence that dangle
from the ceiling.

A cold night breeze seeps through the holes in the wall.
I tear out some pages I’ve finished reading,
stuff them into the small, shapeless non-closable windows.

I am two hours late for work the next day.

The clock wasn’t set right after its “treatment”.
Surely it would’ve alerted me
if it were capable of speech.

Number 4 falls from the clock’s face
when I try to adjust the time.

As if a front tooth has fallen out.

Four days later,
my brother Hudayfah
passes away.

L’orologio e il muro

C’è sempre quell’orologio sul muro.
Ogni volta che entro in camera, mi
incuriosisco, vorrei tirarlo giù, vedere
cos’ha dietro alla faccia.
Voglio vedere com’è invecchiato.
Mio padre l’ha comprato che io ero un bambino.
Voglio contargli i denti
conoscere i suoi anni.

Ma l’orologio non invecchia.
I numeri non cambiano.
Soltanto io.

E poi c’è la sedia a dondolo,
e io sono seduto qui, soltanto io
nella stanza, dondolo avanti e indietro
non faccio nulla, se non immaginare
il muro che grida all’orologio,
“Smettila di ticchettare! Mi fai male alle orecchie”.

Guardo le crepe nell’intonaco sul muro.
Non è solo il suono dell’orologio.
Buchi di granata mi fissano
ogni volta che entro in camera.

(L’orologio non è rimasto ferito in quell’attacco.)

Veloce, tiro fuori le pile dall’orologio.
Gli sussurro:
ti porto dal dottore,
anche se non sei solo tu a essere malato.

L’intonaco smette di creparsi.
Porto l’orologio dall’orologiaio
gli chiedo di renderlo silenzioso.
Rimuove le corde vocali all’orologio,
gli chiude la bocca.
Non ho visto i denti,
non ho chiesto al dottore.

A casa, rimetto dentro le pile.
L’orologio funziona in silenzio.
Che si aggiunge al silenzio della stanza.

Torno alla mia sedia, leggo poesie ad alta voce
per rompere i fili di silenzio che pendono
dal soffitto.

Una brezza serale e fredda filtra dai buchi sul muro.
Strappo delle pagine già lette,
le infilo in quelle piccole finestre senza forma, impossibili da chiudere.

Il giorno dopo vado a lavoro con due ore di ritardo.

L’orologio non era stato riprogrammato bene dopo la “cura”.
Sicuramente mi avrebbe avvertito
se avesse potuto parlare.

Il numero 4 cade dalla faccia dell’orologio,
quando provo ad aggiustare il tempo.

Come se gli fosse caduto un incisivo.

Quattro giorni dopo,
mio fratello Hudayfah
muore.

A litany for “one land”

After Audre Lorde

For those living on the other side,
we can see you, we can see the rain
when it pours down on your (our) fields, on your (our) valleys,
and when it slides down the roofs of your “modern” houses
(built atop our homes).

Can you take off your sunglasses and look at us here,
see how the rain has flooded our streets,
how the children’s umbrellas have been pierced
by a prickly downpour on their way to school?

The trees you see have been watered with our tears.
They bear no fruit.
The red roses take their color from our blood.
They smell of death.

The river that separates us from you is just
a mirage you created when you expelled us.

IT IS ONE LAND!

For those who are standing on the other side
shooting at us, spitting on us,
how long can you stand there, fenced by hate?
Are you going to keep your black glasses on until
you’re unable to put them down?

Soon, we won’t be here for you to watch.
It won’t matter if you blink your eyes or not,
if you can stand or not.
You won’t cross that river
to take more lands,
because you will vanish into your mirage.
You can’t build a new colony on our graves.

And when we die,
our bones will continue to grow,
to reach and intertwine with the roots of the olive
and the orange trees, to bathe in the sweet Yaffa sea.
One day, we will be born again when you’re not there.
Because this land knows us. She is our mother.
When we die, we’re just resting in her womb
until the darkness is cleared.

For those who are not here anymore,
We have been here forever.
We have been speaking but you
never cared to listen.

Litania per “un’unica terra”

Come Audre Lorde

Per quelli che vivono dall’altra parte,
possiamo vedervi, possiamo vedere la pioggia
quando cade sui vostri (nostri) campi, sulle vostre (nostre) valli,
quando scivola lungo i tetti dei vostri edifici “moderni”
(costruiti sulle nostre case).

Potreste togliervi gli occhiali da sole e guardare noi, qui,
come la pioggia ci ha invaso le strade
come gli ombrelli dei bambini sono stati perforati
da un acquazzone pungente sulla via di scuola?

Gli alberi che vedete le nostre lacrime li hanno innaffiati.
Non danno frutto.
Le rose rosse hanno il colore del nostro sangue.
Puzzano di morte.

Il fiume che ci separa è solo un miraggio
che avete creato quando ci avete espulso.

È UN’UNICA TERRA!

Per quelli che stanno dall’altra parte
e ci sparano, ci sputano,
per quanto tempo ancora ve ne starete là, recintati dall’odio?
Continuerete a indossare i vostri occhiali neri finché
non potrete più toglierli?

Presto, non saremo più qui per farci guardare da voi.
Non importerà se sbatterete o no le palpebre
se potrete stare o meno in piedi.
Non attraverserete quel fiume
per prendere altre terre
perché svanirete nel vostro miraggio.
Non potete costruire una nuova colonia sui nostri cimiteri.

E da morti,
le nostre ossa continueranno a crescere
per raggiungere e allacciarsi alle radici dell’ulivo
degli aranci, e bagnarsi nel dolce mare di Yaffa.
Un giorno, quando non sarete qui, noi di nuovo nasceremo.
Perché questa terra ci conosce. È nostra madre.
E da morti, stiamo soltanto riposando nel suo ventre
finché farà più chiaro.

Per quelli che NON sono più qui,
noi siamo qui da sempre.
Da sempre noi parliamo ma voi
non avete mai voluto ascoltare.

We deserve a better death

We deserve a better death.
Our bodies are disfigured and twisted,
embroidered with bullets and shrapnel.
Our names are pronounced incorrectly
on the radio and TV.
Our photos, plastered onto the walls of our buildings,
fade and grow pale.
The inscriptions on our gravestones disappear,
covered in the feces of birds and reptiles.
No one waters the trees that give shade
to our graves.
The blazing sun has overwhelmed
our rotting bodies.

Meritiamo una morte migliore

Meritiamo una morte migliore.
I nostri corpi sfigurati e storti,
ricamati con proiettili e schegge.
I nostri nomi pronunciati male
alla radio e alla televisione.
Le nostre foto, sui muri dei palazzi,
sbiadiscono e diventano pallide.
Le iscrizioni sulle nostre lapidi scompaiono,
coperte da feci di uccelli e rettili.
Nessuno innaffia gli alberi che ombreggiano
le nostre tombe.
Il sole rovente ha sopraffatto
i nostri corpi marcescenti.

Seven fingers

Whenever she meets new people, she sinks
her small hands into the pockets of her jeans,
moves them
as if she’s counting
some coins. (She’s just lost seven
fingers in the war.) Then she
moves away,
back hunched,
tiny as a dwarf.

Sette dita

Ogni volta che incontra persone nuove, affonda
le sue piccole mani nelle tasche dei jeans
le muove
come se contasse
monete. (Ha appena perso sette
dita in guerra). Poi si
allontana,
la schiena curva,
piccola come un nano.

Displaced

In memory of Edward Said

I am neither in nor out.
I am in between.
I am not part of anything.
I am a shadow of something.
At best,
I am a thing that
does not really
exist.
I am weightless,
a speck of time
in Gaza.
But I will remain
where I am.

Dislocato

In memoria di Edward Said

Non sono né dentro né fuori.
Sono in mezzo.
Non sono parte di niente.
Sono l’ombra di qualcosa.
Alla meglio,
sono una cosa che
non esiste
davvero.
Sono senza peso,
un bruscolo di tempo
a Gaza.
Ma rimarrò
dove sono.

Notebooks

I walk carefully on the beach, look to
see if a child’s footsteps lie ahead,
a child who’s lost a leg, or two,
or can no longer hear the waves.


This angel of death just turned my body into pieces
and took my soul. It
left me lying there on the bloody ground,
my fingers resting on a neighbor’s broken window.
It didn’t look back to see if I was smiling or crying,
or if my mouth was even intact.
It just wanted my soul.
My family was out looking for my body.


During the night airstrikes, all of us turned
into stones.


When I hear the explosion, I can smell the sand, sand that blows through the still air
to gather on my windowsill.
I can hear the little dog that barks whenever the branches of an almond tree stir.
He thinks it’s a bird trying to scare him. Is it time to play?
The thick dust falling onto the tree and the dog, and blowing in through my window,
clears the confusion.


I turn off the lights at night so the F-16s
and their bombs don’t catch me,
so the dust doesn’t race in to cover my new clothes,
so the bullets don’t hit my shoulders
when they cut through the skinless air.


I walked down the road and saw a tree.
I wrote a poem about its slim branches and vivid leaves,
a robin in its nest, watching a baby
in a stroller, a mother rolling up her sleeves.

The next day, I walked down and found the tree not there.
I hurried to my room, looked for the poem in my notebook.
The page was torn out.

I return to that road.
No tree.
I go back to my room.
The notebook is not there.

I look into the mirror,
and see a specter of my younger self.
I squat to pick up my pen from the floor.
The mirror follows me,
and shatters on my head.
I wake up.


Raindrops slip into the frying pan
through a hole in a tin roof.


We left the house,
took two blankets,
a pillow, and the echo
of the radio with us.


Why is it when I dream of Palestine,
that I see it in black and white?


People say silence is a sign of consent.
What if I’m not allowed to speak,
my tongue severed, my mouth sewn shut?


Even the pens wanted to write about what they heard,
what shook them when they were napping
in the early afternoon.


The grave was brimming with sand
and prayers and stories that fell from visitors passing by.


It’s been noisy for a long time
and I’ve been looking for a recording
of silence to play on my old headphones.

Taccuini

Con cautela cammino sulla spiaggia, cerco
davanti a me l’impronta di un bambino,
un bambino che ha perso una gamba, o due
o che non può più sentire il suono delle onde.


Questo angelo della morte mi ha appena ridotto il corpo a pezzi
e si è preso la mia anima. Mi ha
lasciato lì disteso sul terreno sanguinoso,
le dita posate sulla finestra rotta di un vicino.
Non si è voltato per vedere se sorridevo o piangevo
o se la mia bocca fosse almeno intatta.
Voleva solo la mia anima.
La mia famiglia, fuori, cercava il mio corpo.


Durante i bombardamenti notturni, ci trasformammo tutti
in pietre.


Quando sento l’esplosione, annuso nell’aria ferma la sabbia, la sabbia che soffia
e si posa sul mio davanzale.
Posso sentire il piccolo cane che abbaia ogni volta che i rami di un mandorlo si muovono.
Pensa che sia un uccello che prova a spaventarlo. È tempo di giocare?
La polvere spessa che cade sull’albero e sul cane, e soffia dentro alla finestra,
chiarisce la confusione.


Di notte spengo le luci perché gli F-16
e le loro bombe non mi prendano,
perché la polvere non venga a ricoprire i miei vestiti nuovi,
perché i proiettili non mi colpiscano le spalle
quando tagliano l’aria senza pelle.


Camminavo per la strada e ho visto un albero.
Ho scritto una poesia sui suoi rami magri e le sue foglie brillanti,
con un pettirosso nel nido, che guardava un neonato
in un passeggino, una madre tirarsi su le maniche.
Il giorno dopo, sono ripassato e l’albero non c’era più,
sono corso in camera, cercavo la poesia nel mio taccuino.
La pagina era stata strappata.

Torno in quella strada.
Nessun albero.
Torno alla mia stanza.
Nessun taccuino.

Guardo nello specchio,
e vedo lo spettro di un me più giovane.
Mi piego per raccogliere la penna da terra.
Lo specchio mi segue,
mi si spacca sulla testa.
Mi sveglio.


Gocce scivolano nella padella
attraverso un buco in un tetto di latta.


Abbandonata la casa, abbiamo
preso due coperte,
un cuscino, e l’eco
della radio con noi.


Perché quando sogno la Palestina
la vedo in banco e nero?


La gente dice che il silenzio è assenso.
E se non mi permettono di parlare,
la lingua tagliata,
la bocca cucita?


Anche le penne volevano scrivere di ciò che hanno sentito,
di quel che le ha scosse mentre sonnecchiavano
nel primo pomeriggio.


Il cimitero brillava di sabbia
e preghiere e storie che cadevano dai visitatori di passaggio.


C’è rumore da così tanto tempo
e io sto cercando la registrazione
di un silenzio, da ascoltare nelle vecchie cuffie.

Things you may find hidden in my ear

For Alicia M. Quesnel, MD

I
When you open my ear, touch it
gently.
My mother’s voice lingers somewhere inside.
Her voice is the echo that helps me recover my equilibrium
when I feel dizzy during my attentiveness.

You may encounter songs in Arabic,
poems in English I recite to myself,
or a song I chant to the chirping birds in our backyard.

When you stitch the cut, don’t forget to put all these back in my ear.
Put them back in order as you would do with books on your shelf.

II
The drone’s buzzing sound,
the roar of an F-16,
the screams of bombs falling on houses,
on fields, and on bodies,
of rockets flying away –
rid my tiny ear canal of them all.

Spray the perfume of your smiles on the incision.
Inject the song of life into my veins to wake me up.
Gently beat the drum so my mind may dance
with yours,
my doctor, day and night

Cose che potresti trovare nascoste nel mio orecchio

Per Alicia M. Quesnel, Dottoressa

I
Quando apri il mio orecchio, toccalo
con gentilezza.
La voce di mia madre è ancora sospesa lì, da qualche parte.
La sua voce è l’eco che mi aiuta a ritrovare l’equilibrio
quando, nello sforzo dell’attenzione, vengo meno.

Potresti trovare canzoni in arabo,
poesie in inglese che recito a me stesso
o un mio canto per gli uccelli che cinguettano nel nostro cortile.

Quando ricucirai il taglio, non dimenticare di rimettere tutte queste cose nell’orecchio.
Ordinate, come faresti con i libri sul tuo scaffale.

II
Il ronzio dei droni
il boato di un F-16
le urla delle bombe che cadono sulle case
sui campi, sui corpi,
dei razzi che sfrecciano –
queste toglile dall’orecchio, dal suo canale stretto.

Sull’incisione, spruzza il profumo dei tuoi sorrisi.
Iniettami nelle vene la canzone della vita per svegliarmi.
Batti con gentilezza il timpano, così che la mia mente possa
ballare con la tua,
mia dottoressa, giorno e notte.

Mosab

My father gave me a difficult name.
Inside it sit two letters that don’t exist in English.

My father didn’t know I would
have English-speaking friends,
always asking how to pronounce my name,
or trying to avoid saying it.

But Dad, I like to hear others address me by name,
especially friends.

Even my name’s root means difficult.
A camel that is described as Mosab
is one that’s difficult to mount and ride.

But I’m not difficult in any way.
I will undress myself and show you
my shoulders, how dust has come to rest on them,
my chest, how tears have wet its thin skin,
my back, how sweat has made it pale,
my belly, how hair has covered my navel,
the spot where my mother fed me before birth.

The same spot, they say, the angel of death
will pierce to take away my soul.

And now, at night, my son’s head hurts
when he rests it on my belly.

And my clothes, I feel them loose,
while others see them tight on me.

When someone from the life insurance company calls
and pronounces my name in English,
I see the angel of death in the mirror,
with eyes that watch me
crumbling onto this foreign ground.

Mosab

Mio padre mi ha dato un nome difficile.
Dentro, siedono due lettere che non esistono in inglese.

Mio padre non poteva sapere
dei miei amici anglofoni
che chiedono sempre come pronunciarlo
o evitano di dirlo.

Ma papà, a me piace che gli altri mi chiamino per nome,
soprattutto gli amici.

Anche la radice del mio nome significa difficile.
Si dice che un cammello è Mosab
quando è faticoso da montare e cavalcare.

Ma io non sono per niente difficile.
Mi spoglierò e ti mostrerò
le mie spalle, come la polvere ci si è posata sopra,
il mio petto, come le lacrime hanno inumidito la pelle sottile,
la mia schiena, come il sudore l’ha resa pallida,
la mia pancia, come i peli hanno coperto l’ombelico,
il punto da cui mia madre mi nutriva prima di nascere.

Proprio il punto, dicono, che l’angelo della morte
bucherà per portarsi via la mia anima.

E ora, di notte, a mio figlio fa male la testa
quando la posa sulla mia pancia.

E i miei vestiti, li sento larghi,
mentre gli altri li vedono stretti su di me.

Quando qualcuno dell’assicurazione sulla vita chiama
e pronuncia il mio nome in inglese,
vedo l’angelo della morte nello specchio,
i suoi occhi che mi guardano
mentre crollo su questo suolo straniero.

A rose shoulders up

Don’t ever be surprised
to see a rose shoulder up
among the ruins of the house:
this is how we survived.

Spunta una rosa

Se dalle rovine della casa
vedi spuntare una rosa
tu non sorprenderti:
così siamo sopravvissuti.


Credit: Poetry from Things You May Find Hidden In My Ear. Copyright © 2022 by Mosab Abu Toha. Reprinted with the permission of City Lights Books. www.citylights.com

Si ringrazia Elaine Katzenberger di City Lights per la gentilezza e la disponibilità

In teoria e in pratica | Pietro Cardelli

Le risposte di Pietro Cardelli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Tu devi prendere il potere è un esordio, dunque sono obbligato a rispondere a questa domanda a partire da un’unica esperienza di scrittura di un’opera compiuta. Oltre ad essere un esordio, è anche un libro la cui gestazione è stata molto lunga, sia a livello di scrittura, sia di vicenda editoriale. I testi che lo compongono, infatti, sono stati scritti fra il 2013 e il 2022, e la pubblicazione del libro, per ragioni di mero contesto, ha subito un ritardo di quasi due anni rispetto alla prima uscita ipotizzata: dalla primavera 2021 alla primavera 2023. Tutti fattori, questi, che hanno accentuato gli elementi dinamici (di costruzione e movimento) di un lavoro che si voleva il più possibile chiuso e compiuto.

Per quanto mi riguarda, tale bisogno di compiutezza – valido in ogni fase di costruzione dell’opera e di sua organizzazione (sia a livello sincronico, di macro-struttura, sia diacronico, di organizzazione del materiale nel tempo) – non rispondeva a un semplice bisogno organizzativo, di superficie, e non era neppure un elemento irrelato fra i tanti che vanno a comporre la totalità-libro: era l’immagine di una stessa necessità attiva su tutti i piani del discorso e della lingua: di singolo testo, di sezione, di macro-struttura, ma anche: di stile, di postura, di strutturazione del centro enunciativo etc.

Un libro compiuto per un soggetto (e una voce) che – preda della propria nevrosi di (auto-)controllo e vittima di un senso di impotenza estremo e continuamente alimentato – vuole farsi soggetto, voce (e mondo) compiuto. Un obiettivo come una risposta: “compiutezza” significa anche comprensione, stabilità, prova del nove.

Ma “compiutezza”, per questo soggetto, era anche un modo per fermare il (e dunque uscire dal) tempo: acquisire una visione d’insieme, una lettura unificante, un punto “di approdo e di partenza insieme”. La sospensione di chronos rendeva allora possibile l’invenzione del nuovo: per la voce che parla, per il soggetto che la enuncia, per il mondo in cui essa vive.

In questo libro, dunque, il tentativo è sempre stato quello di tenere assieme tutto, dal singolo verso alla macro-struttura del libro fino al processo editoriale che lo ha riguardato. Tutto doveva tenersi come forma di auto-responsabilizzazione massima e ipotesi di una comprensione definitiva: un soggetto che costruisce un mondo perché vuole affermare un valore di verità («assoluta nella sua relatività», si diceva un tempo).

Tale postura, ovviamente, portava con sé tutto un carico di rischi a volte schivati, a volte elusi, a volte no. La crisi di questa postura, la sua messa in dubbio, è ciò che, ad un certo punto, mi ha spinto a riconoscere la fine di questo lavoro (e dunque mettere un punto al libro) e l’inizio di un periodo nuovo. Senza crescita, dentro e fuori dal testo, dentro e fuori dall’io, non può esserci nuova opera, nuovo senso.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Ho sempre pensato che, anche quando si parla di lingua, di poesia e di letteratura, non si possa prescindere dalle condizioni materiali, storico-economiche, che ci e la determinano. Farlo significa sprofondare nel soggettivismo, fino a perdere di vista sia il ruolo del poeta nella società di oggi (meno importante), sia il condizionamento di quest’ultima sulla sua voce (più importante).

È proprio da questa consapevolezza, inoltre, che credo possa essere costruito un io forte; ossia una poesia che sappia mettere in campo il proprio io in tutta la sua parzialità e che di questa parzialità faccia uso per spiccare il volo verso una voce oggettivata, non tanto impersonale quanto condivisa. Anche qui torna il tema di un’assunzione di responsabilità: riconoscere, nello stesso momento, la parzialità e l’insostituibilità del proprio filtro percettivo, nella scrittura e in tutto il resto.

Un tale tentativo necessita però di tutta una serie di contrappesi e di appigli per poter essere credibili, contrappesi e appigli che sono in primo luogo elementi di stile, l’unica via che abbiamo per mettere un freno credibile all’io e alla sua boria. È qui che ci giunge in soccorso la lingua, la Tradizione, dunque la poesia. Ciò che è sufficiente, per ora, è avere bene in mente l’obiettivo: partire dall’io per superarlo.

Per quanto mi riguarda, mi piace pensare all’io (qui come realtà biografica) come mero fornitore di materiale. Tutto quello che si fa con questo materiale è finzione poetica, quale che sia l’apparente aderenza dello scritto con il materiale iniziale prelevato. Il problema, poi, è come l’io (io-volontà, io-destino) riemerge da e in questa finzione: cosa resta – e quanto di impersonale, oggettivo e potenzialmente condiviso resta – dalla dialettica fra i momenti di posizione e quelli di sottrazione dell’io. Una risposta che può dare solo il lettore (inteso come soggetto collettivo) nel tempo. 

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

La mia formazione poetica è iniziata da bambino, prima delle elementari. Mia nonna, insegnante, oltre a leggermi e farmi leggere molta poesia, mi ha insegnato a scrivere (sembra assurdo ma è effettivamente così) attraverso piccoli esercizi di riscrittura di testi poetici più o meno conosciuti. Tale immersione forzata nella poesia, dopo un periodo di rigetto durato un bel po’ di anni, è riemersa attorno alla fine delle Scuole Superiori, quando ho ripreso in mano, con foga nuova, i poeti che avevo amato da bambino: i francesi (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud), gli spagnoli (Garcia Lorca, Machado, Jimenez, Alberti) e quello che – a quel tempo – era il mio trittico preferito della poesia italiana: Petrarca, Foscolo, Leopardi.

Successivamente ciò cha ha influenzato di più la mia scrittura è stato il trasferimento a Siena, dove ho avuto la fortuna di intercettare un ambiente culturale vivissimo, sia dentro sia fuori l’Università. È qui, per esempio, che ho incontrato alcune persone che hanno influenzato direttamente la mia crescita e la mia scrittura, consigliandomi libri da leggere, saggi da studiare, riviste da seguire, o più semplicemente coinvolgendomi in un percorso di elaborazione umana e intellettuale, di visione del mondo e del linguaggio, condivisa e collettiva. Penso subito, in questo senso, a Stefano Dal Bianco e a Guido Mazzoni, e con loro a Marco Villa, Simone Burratti, Alessandro Perrone e Andrea Lombardi, i redattori dell’allora “formavera”. È qui che ho iniziato a leggere cose nuove, italiane e straniere, e a modificare il mio modo di scrivere alla ricerca di una voce il più possibile autentica e il più possibile mia.

In questo senso sì, il rapporto con l’esterno – se così vogliamo chiamarlo – ha influenzato e continua ad influenzare moltissimo la mia scrittura, e per “esterno” potremmo intendere tutto quello che leggo (ovviamente con differenti intensità di condizionamento), ma anche tutto quello che vivo (e non solo strettamente legato alla poesia). Non credo, invece, che l’effetto sul pubblico influenzi il mio processo creativo, a meno che – per pubblico – non si intenda una cerchia ristretta di persone con cui ho sempre avuto la necessità di un reciproco confronto a partire dai propri testi. Infine sì, considero Tu devi prendere il potere la mia prima presa di parola come autore. Non darei, invece, lo stesso valore alle pubblicazioni sparse e spurie precedenti.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Sinceramente non credo che ci sia qualcosa da cambiare nelle “modalità” con cui si presenta un libro di poesia o si organizza una serata di letture. Credo che la differenza – e dunque la riuscita di un evento – risieda sempre in chi organizza quell’evento. Se a farlo è un soggetto serio (come collettività, nei suoi gradi di serietà, passione, capacità, impegno, credibilità), raramente si assiste ad eventi non necessari.