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Penelope se ne va: estratti da un poema di José Gardeazabal

Introduzione e traduzioni dal portoghese a cura di Vassilina (Vasiliki) Avramidi.

 «Penélope, con su bolso de piel marrón y sus zapatos de tacón y su vestido de domingo» cantava Joan Manuel Serrat già nel 1969, e questa precisa immagine viene ripresa nella copertina di un’altra versione iberica dell’eroina omerica, quella di Penélope Está de Partida (2022) di José Gardeazabal (Prémios Autores SPA, 2023). Pubblicata presso Relógio d’Água in contemporanea con Da Luz Para Dentro, i due libri-gemelli di lirica, entrambi nella ricerca del come si parli del corpo desiderante, del cosa si intraveda nel buio. Mentre però in Da Luz Para Dentro l’io, il tu e il noi rimangono generali, astratti, in Penélope Está de Partida gli interlocutori sono ben chiari: Penelope, stanca ormai di aspettare, sta per cominciare il suo viaggio e lascia questo bigliettino in versi a Ulisse.

Ma l’antica veste dell’epica non è adatta a questo personaggio, cui la maggior parte della trama si sviluppa all’interno di una sola stanza, la sua camera da letto. Lei opta per un viaggio lirico e si sbarazza degli aggettivi imposti dalla tradizione. Lo stesso vale per il noto stratagemma della tela che qui non porta a nulla («tecia tecia e nada acontecia»). L’attenzione si sposta invece sulla difficile creazione del soggetto femminile: attraverso un gioco continuo con i verbi riflessivi, in questo long poem Penelope cerca di stabilire la propria identità e di mettere in atto la propria volontà pur vivendo nella perenne mancanza di un dialogo. Infatti, questa riscrittura non propone una rottura (come fanno, per esempio, Meadowlands di Louise Glück o Penelope’s Confession di Gail Holst-Warhaft): le parentesi lasciano a Ulisse la porta aperta, senza però garantire che dentro casa ci sarà la donna che lo aspetta.


Da Penélope Está de Partida (2022)

ainda tenho um pé na epopeia
por pouco tempo
duas malas na mão
ou seja   estou de mãos livres
até aqui tecia   tecia   e nada acontecia
agora aqui   em breve desapareço
sem raiva nem ruído
por ti não espero mais   nem em literatura
(deixo a porta aberta para entrares)
já recebi todos os presentes
fui todos os adjetivos
viajaste-me por muito tempo
acho-me demasiado cheia das coisas de dentro
já conversei tudo com a mobília
tecida e entretida   tornei-me pouco a pouco uma história
odisseia   se vista de fora
é bom que fábulas assim cheguem ao fim

sto ancora con un piede nell’epopea
per poco 
due valigie in mano
cioè   ho le mani libere
fin qui tessevo    tessevo    e nulla accadeva
adesso qui   tra poco sparisco
senza rabbia né rumore
non ti aspetto più   nemmeno in letteratura 
(lascio la porta aperta così entri)
ho già ricevuto tutti i presenti
sono stata tutti gli aggettivi
mi hai viaggiata a lungo
mi trovo troppo piena di cose da dentro
ho già discusso di tutto con i mobili
intessuta e intrattenuta   diventai a poco a poco una storia
odissea   se vista da fuori
favole così fanno bene a finire


desapareceste-me em todas as direções
só te via no escuro
e de olhos fechados
o quarto tão negro
eu tão imóvel
que todas as manhãs acordava feita fotografia a preto-e-branco

mi dileguasti in tutte le direzioni
ti vedevo solo nel buio
e a occhi chiusi
la stanza tanto nera
io tanto immobile
che tutte le mattine mi svegliavo fatta fotografia in bianco e nero


de longe tornaste-te voyeur
em viagem    a vista é a melhor amiga de imaginação
chamo-te      distante   apequenas-te
de pé num navio       as mãos nas orelhas
não me ofereces a atenção das sereias
és enorme e erras
o teu mapa é o meu calendario
sozinha        pareço-me demasiado comigo
sonhei com o anonimato
a literatura oral agarrou-se a mim
com ambições de epopeia

da lontano diventasti voyeur
in viaggio     la vista è la migliore amica dell’imaginazione
ti chiamo      distante   rimpicciolisci
in piedi su una nave   le mani alle orecchie
non mi presti attenzione da sirena
sei enorme e erri
la tua mappa è il mio calendario
sola              rassomiglio troppo a me
ho sognato dell’anonimato
la letteratura orale si è aggrappata a me
con ambizioni di epopea


tornei-me substantivo
desejo adjetivos como quem escapa à noite de um palácio
olha     cansei-me de me elogiarem o olhar e os joelhos
olhar é coisa de velhos
e eu envelheço
sou o avesso de uma viagem
a minha vida foi o contrário de uma paisagem
conheço demasiado o meu corpo
e cansei-me de saudade
(as duas coisas)
a minha autobiografia é um quarto só para mim
tenho a aparência de filme mudo
aquele silêncio de legenda
sinto-o
fantasmas acariciam-me a testa
sem coragem para a pele do resto do corpo
sinto-o

diventai sostantivo
desidero aggettivi come chi scappa di notte da un palazzo
guarda   sono stanca degli elogi del mio sguardo, dei ginocchi
guardare è cosa da vecchi
e io invecchio
sono l’inverso di un viaggio
la mia vita è stata il contrario di un paesaggio
conosco troppo il mio corpo
e sono stanca di saudade
(entrambe le cose)
la mia autobiografia è una stanza tutta per me
il mio aspetto è di film muto
quel silenzio da sottotitolo
lo sento
fantasmi mi accarezzano la testa
senza coraggio per la pelle del resto del corpo
lo sento

Copertina di Penélope Está de Partida di José Gardeazabal
José Gardeazabal, Penélope Está de Partida, Relógio D’Água, 2022

Su “Tutte le poesie” di Antonella Anedda

Nota di lettura a cura di Alessandro Farris.

Al netto delle giuste e legittime polemiche riguardanti i grandi gruppi editoriali e il loro ruolo nel diffondere una determinata idea di poesia o tracciare un fantomatico canone del contemporaneo, è difficile negare che ancora oggi la pubblicazione dell’opera più o meno completa di un poeta o una poetessa da parte di una casa editrice di grandi dimensioni rappresenti un argomento importante a sostegno della sua “canonizzazione”; se non altro, la pubblicazione di un’antologia presso un grande editore può garantire una certa diffusione del nome del poeta, anche al di fuori dei circoli degli addetti ai lavori.
Vista la difficoltà di reperire alcune raccolte di Antonella Anedda ormai fuori catalogo (una su tutti: Notti di pace occidentale, Donzelli, 1997), e considerata l’attenzione accademica che le è stata riservata e i consensi pressoché unanimi che la sua produzione ha incontrato, peraltro in una maniera trasversale e al di là della divisione tutta italiana e talvolta manichea tra ricerca e lirica, nel suo caso un volume antologico era ormai atteso da anni.

Pubblicato nel settembre 2023 da Garzanti all’interno della sua storica collana I Grandi libri, Tutte le poesie di Antonella Anedda è il definitivo coronamento di un percorso singolare e importante nel panorama poetico italiano; un’operazione che ha offerto ad Anedda la possibilità di rivedere il proprio corpus di testi per modificare, correggere o cassare alcuni componimenti. Non poteva essere altrimenti per un’autrice che ha fatto della ricerca della “parola esatta” un vero e proprio topos della propria poesia, e al contempo ha immaginato la scrittura come una continua e necessaria interrogazione metalinguistica. Va comunque detto che le modifiche fatte da Anedda, quando non vanno a eliminare del tutto un componimento, non sono mai radicali e interessano in modo particolare le sue prime tre raccolte. Se tuttavia si vanno a confrontare i libri e i relativi testi nelle versioni originali con le versioni accolte nel volume del 2023, è possibile individuare, proprio guardando alle correzioni di Anedda, alcune delle direttive fondamentali della sua scrittura.

Prima di tutto, però, il libro raccoglie in 564 pagine tutte le sei raccolte in versi dell’autrice: Residenze invernali (Crocetti, 1992), Notti di pace occidentale (Donzelli, 1999), Il catalogo della Gioia (Donzelli, 2003), Dal balcone del corpo (Mondadori, 2007), Salva con nome (Mondadori, 2012) e Historiae (Einaudi, 2018); va anche rilevata la presenza della valida prefazione di Rocco Ronchi, che pone l’accento su quello che col passare degli anni si è rivelato sempre più come uno dei veri nuclei della poetica aneddiana: la riflessione sul soggetto, sulla soggettività e sul suo rapporto con il mondo e più in generale con l’alterità. Già in Residenze invernali, esordio aneddiano che Amelia Rosselli definì in una rarissima recensione «un quasi capolavoro», e che fa uso di un tono decisamente più oracolare e astratto rispetto agli altri libri dell’autrice, appaiono versi del tipo «levo la preghiera di un umano / che vuole diventare oggetto»; il binarismo tra organico e inorganico, umano e oggetto, mondo concreto e tangibile e mondo astratto e interiore diverrà un tema sempre più centrale e pervasivo di raccolta in raccolta.
Procedendo con la lettura appare infatti chiaro come l’ottica aneddiana si sia configurata nel tempo come decisamente anti-antropocentrica: si giunge a un testo come «Nuvole, io», in Historiae, e alla scomparsa definitiva della propria identità umana nel vagabondaggio a-logico, libero e liberatorio di Geografie (Garzanti, 2021), non compreso però nel volume del 2023. Ragionamento sull’io e sul soggetto che però rifiuta la semplice scappatoia della reductio a un noi o a una presunta impersonalità (che, come ha osservato più volte Guido Mazzoni, è di fatto impossibile vista l’ineludibile componente personale della forma), e piuttosto costruisce su questa tregua sempre momentanea dal peso dell’io un sistema poetico, etico, estetico.

Tornando alle varianti, è senz’altro da rilevare la tendenza di Anedda ad asciugare determinati passaggi tramite l’eliminazione di sintagmi o intere frasi; è invece rarissima la tendenza opposta, volta allo sviluppo del testo in lunghezza (presente giusto in alcuni componimenti di Salva con nome). In Residenze invernali, in particolare, è molto frequente l’assimilazione dei versi composti da una sola parola (che tenderebbero a conferire una certa gravitas ad alcuni componimenti di questo libro) al verso successivo e più lungo, così da smorzare il tono aulico e austero che domina l’intero esordio aneddiano.

Ma tu
muovi una luce
la prima della sera […]

Ma tu muovi una luce
la prima della sera […]

tremore
di fuochi tra le pietre […]

tremore di fuochi tra le pietre […]

Abbiamo sollevato il mento
lampade legno e vuoto
gambe intorpidite dai letti
miseria
non muschio bianco
non luce d ’acqua tra i cespugli. […]

Abbiamo sollevato il mento
lampade legno e vuoto
gambe intorpidite dai letti
miseria non muschio bianco
non luce d ’acqua tra i cespugli. […]

D’altronde, come si accennava prima, Anedda è sempre stata molto cauta nell’uso delle parole e della lingua, una lingua-coltello (per usare una formula introdotta in Salva con nome) che va maneggiata con attenzione e richiede una grande consapevolezza su quando è meglio tacere: «Lo capite da sole parole, / non vi posso più mostrare / con voi faccio del male […] / dunque parole siate buone, andate nel silenzio / abbasserò la voce fino in fondo» (Historiae, 2018). Di pari passo con queste varianti riguardanti la versificazione, nelle versioni nuove di alcuni componimenti dei primi due-tre libri dell’autrice si può riscontrare anche una minore enfasi metafisica.

Non sorprenderà infatti che un altro cambiamento comune soprattutto in Residenze invernali e Notti di pace occidentale sia l’eliminazione di allusioni più o meno esplicite ad angeli, croci et similia. Lungi da Anedda essere mai stata una poetessa religiosa; piuttosto, come più volte rimarcato dall’autrice stessa, questo tipo di suggestioni hanno a che vedere con immagini provenienti dall’arte moderna e la sua iconologia (Anedda è storica dell’arte e iconologa di formazione) che si innestano sul dettato dei singoli testi. Il tono più “spiritualistico” che alcune di queste immagini rischiavano di conferire ai testi è qua abbondantemente cassato: l’unica trascendenza che viene ricercata in tutto il volume, e che è sempre stata quella veramente importante all’interno del percorso di autrice di Anedda, è la non-trascendenza della tregua, quella del momento di pieno distacco dall’io, della dispersione in qualcos’altro: nel non organico e nel paesaggio, nell’immagine e nella contemplazione, nello studio e nella testimonianza della storia e soprattutto della geografia.
Da qui l’estasi laica dello stare al mondo in maniera consapevole, l’etica dell’ascolto e la resistenza silenziosa alla costante anestetizzazione della percezione che caratterizza il momento storico in cui Anedda scrive. Ed è
proprio in questa contemplazione consapevole (che è di fatto lo stato privilegiato della poesia) che può trovare spazio tutto l’insieme delle immagini e delle tematiche aneddiane: le isole e i continenti, la storia e la geografia, la lingua sarda e il latino, la tregua e la perdita.

Si accennava prima all’importanza della geografia in Anedda; il volume omonimo del 2021, così come i precedenti libri non in versi (non semplicemente libri saggistici né raccolte di prose poetiche ma oggetti ibridi e difficilmente definibili), tra i quali vale la pena ricordare almeno La vita dei dettagli (Donzelli, 2008) e Isolatria. Viaggio nell’arcipelago della Maddalena (Laterza, 2013), non è compreso in Tutte le poesie. Questo è un peccato vista l’importanza fondamentale di questi testi per comprendere la poetica dell’ autrice. Certo, siamo di fronte a una scelta valida, che già il titolo (Tutte le poesie, non Tutte le prose o L’opera completa) dichiara in modo esplicito; e certo includere la produzione non in versi dell’autrice avrebbe reso poco maneggiabile un volume che già così supera le 500 pagine. Resta però auspicabile la pubblicazione di una futura opera omnia che raccolga i sei libri “gemelli” delle sei raccolte di poesia. Sono questi tra i libri più suggestivi, sperimentali e interessanti del panorama lirico italiano contemporaneo, più vicini all’opera della sempre inclassificabile autrice canadese Anne Carson che alla generazione dei coetanei di Anedda. Ci troveremmo dinanzi a un’opera che potrebbe aver titolo “Tutte le prose” e potrebbe offrire un reale sguardo d’insieme sulla produzione dell’autrice sardo-italiana, che, dal canto suo, alle parole “prosa” o “poesia” ne ha sempre preferito una più precisa: scrittura.


Da Notti di pace occidentale

Non volevo nomi per morti sconosciuti
eppure volevo che esistessero
volevo che una lingua anonima
– la mia –
parlasse di molte morti anonime.
Ciò che chiamiamo pace
ha solo il breve sollievo della tregua.
Se nome è anche raggiungere se stessi
nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino.
Non ci sono che luoghi, quelli di un’isola
da cui scrutare il Continente
– l’ oriente – le sue guerre
la polvere che gettano a confondere
il verdetto: noi non siamo salvi
noi non salviamo
se non con un coraggio obliquo
con un gesto
di minima luce.

Da Dal balcone del corpo

Paesaggio

Mi avvicinai a un ramo carico di neve
dove uno dei corvi piegava sotto le zampe il legno.

Diventai quel dondolio di grigio e nero.
E quel diverso verde (misto di salvia e gelo)
che avanzava con un tocco di livore sulle nubi.

Vidi me stessa dentro quel purgatorio.

Tutto era paesaggio. La rabbia: un tumulo.

L’incertezza – a mucchi: una collina.
Il disamore: alberi con ombre intirizzite.

“Osserva” disse l ’ombra nel cespuglio più vicino,

“la nebbia inghiotte il tuo dolore.
Impara nel tuo spazio mortale
imparando si sfiora il paradiso.”

Sì, risposi e la luce diminuì l’ira del mattino
divise il mio corpo dal rancore
impose alle ombre di tacere.
E un tagliante azzurro prese – era già paradiso? –
il posto del paesaggio, della prima persona.

Da HISTORIAE

Nuvole, io

I.

Il documento viene salvato, lo schermo torna grigio,
lo stesso grigio topo del cielo.
Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica
ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome.
Al massimo lo declino al plurale. Dico noi
e mi sento falsamente magnanima.
Dire voi e tu mi dà disagio come accusare.
La terza persona mi confonde ogni volta con il sesso.
Alla fine torno all’io che finge di esistere,
ma è una busta come quelle usate per la spesa
piena di verdure o pesce surgelato.
Io con l’io mi nascondo
chiamando a raccolta quello che sappiamo:
abbiamo paura, ancora non è chiaro come finirà la storia.
Dunque riapro la finestra dello schermo,
ritrovo il documento, esito davanti alla tastiera.
Salvo in una nube l’insalvabile.

“Et je n’avais aucun mot pour décrire la lumière”: alcune poesie di Milène Tournier

Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Raphael Louvet.

“J’écris comme
Hurlent les singes face à la montagne et la montagne
Leur rend leur cri”

“Scrivo come
le scimmie urlano davanti alla montagna e la montagna
restituisce loro il grido”

In questo modo e in quel giorno, nei suoi Poèmes en Dieu, Milène Tournier descrive il suo lavoro di scrittura. Dico ‘in quel giorno’, perché si tratta di una scrittura plastica, mutevole, che si gonfia di tutto ciò che, giorno per giorno, incontra sul suo cammino. 

Milène Tournier è nata nel 1988 a Nizza, dov’è cresciuta. Ha studiato teatro e discusso, nel 2017, una tesi intitolata Figures de l’impudeur: dire, écrire, jouer l’intime 1970-2016. Da allora, si dedica tra le altre cose alla scrittura poetica e teatrale. Ad oggi, è una delle voci più peculiari del panorama poetico francese, in ragione tanto della sua scrittura incarnata quanto della costanza con cui questa si manifesta. Ha pubblicato infatti tre raccolte in tre anni (L’autre jour, 2020; Je t’aime comme, 2021; Se coltiner grandir, 2022), tutte per l’editore Lurlure. Tournier è molto presente anche ‘fuori’, sui palchi e negli spazi dove la poesia si dice e si vive collettivamente. Il suo lavoro procede in varie direzioni. I testi che qui presentiamo tendono a volte verso la prosa autobiografica, evocando l’affetto familiare, l’età adulta, e l’ingresso nei trent’anni, altre volte si concentrano sull’erotismo, l’amore o l’esperienza della sua fine. 

Si tratta, soprattutto, di una poesia fatta per essere detta. Quotidianamente, Tournier scrive e pubblica su Youtube anche delle videopoesie, che trovano la loro materia grezza nelle lunghe passeggiate urbane e nei vagabondaggi; nelle immagini raccolte casualmente, con cui la voce si mette a dialogare (Ce que m’a soufflé la ville, 2023, éditions Castor Astral). Ne sale un canto caratterizzato da una leggera malinconia e radicato nella quotidianità, attento alla sua straordinaria banalità e al mormorio delle creature e delle cose che la popolano. Sono testi attraversati da istanti che non sarebbero stati percepiti né percepibili, se non passando attraverso quell’ascolto e quello sguardo attenti, tipici della vita poetica, cioè della vita ordinaria trasformata, se non addirittura orientata, dall’azione di vigilanza della poetessa.


Da L’autre jour (2021)

Poèmes de famille

On m’enterrera sous une autre époque que celle sur laquelle tout à l’heure je suis née. Mes mains ont cherché le visage de ma mère, le trou sur la vitre. Sur les tables à langer officielles ou de fortune, aire d’autoroute, lit d’invité, et pour que ne criât plus ma bouche qui criait, son nez a lu mon front de droite à gauche, de gauche à droite, comme une langue s’indécise. Trente ans durèrent trente ans. Mes bras prennent des bras dans leurs bras le soir, quand la lune prend le ciel. Il y a quelqu’un, précis comme un miracle, entre la lourde vitre du monde et le long trou du moi. Ma mort aura bientôt étalé et rapproché mes dizaines. Les mondes sont de très grands prématurés. J’attends ensemble la fin de la fin du monde.

Poesie di famiglia

Mi seppelliranno sotto un’epoca diversa da quella in cui poco fa sono nata. Le mie mani hanno cercato il viso di mia madre, il buco sulla finestra. Su fasciatoi ufficiali o di fortuna, aree di servizio, letti per gli ospiti, perché la mia bocca urlante non urlasse più, ha letto con il naso la mia fronte da destra a sinistra, da sinistra a destra, come una lingua s’indecide. Trent’anni durarono trent’anni. Le mie braccia prendono delle braccia tra le braccia la sera, quando la luna prende il cielo. C’è qualcuno, preciso come un miracolo, tra il pesante vetro del mondo e il lungo buco dell’io. La mia morte avrà presto disposto e avvicinato le mie decine. I mondi sono dei grandi prematuri. Aspetto insieme la fine della fine del mondo.

Poèmes urbains

On est loin à la fois de la mort et de la naissance
On survole en RER des cimetières
La nuit vient dans le ciel tout doucement
Pareille chaque soir
Les gamines couchent les Barbies par terre et parlent de château
Les nez coulent
Il faut trouver résolutions à tous les problèmes.

C’était la fin de journée dans le bus
Et je n’avais aucun mot pour décrire la lumière
Le précisement du ciel et les roues des nuages
Comme on suppose que le paradis existe
On suppose que le réel existe
Les nuages sur le début des montagnes
Les montagnes étaient pleines d’arbres
Et pas du tout vides comme je les aurais dessinées si on m’avait demandé
Dessine une montagne
Une lumière entre ciel et nuages et montagnes
Une lumière de Jurassique
Une lumière comme ce genre d’images-là
De cinéma et dinosaures
Le cou diplodocus de la lumière
Le ciel son squelette d’absolu.

C’était l’un de ces soleils de grande verrière de gare, en fin de journée l’été. Un soleil provincial. Avec son tout ciel un peu plus loin. Les peaux nues en bout de valises. C’était l’été encore et la petite France. D’aller et venir sud et nord comme on plie son coude – parce qu’on ne peut pas plier son cœur. C’était l’été long des trains. L’été bourdon des Flixbus qu’on pick up à l’aéroport, kiss and longtemps roule. Je voudrais Dieu faire une sortie d’été l’été, comme sortie de corps quand le ciel raccourci de chaque conscience consent enfin à grand ouvrir ses bras immenses.

Poemi urbani

Siamo lontani sia dalla morte che dalla nascita
Sorvoliamo cimiteri sulla RER
La notte arriva dolcemente nel cielo
Uguale ogni sera
Le bambine coricano le Barbie per terra e parlano di castelli
I nasi colano
Bisogna trovare soluzioni a tutti i problemi.

Era la fine della giornata sul bus
E non avevo parole per descrivere la luce
Il precisamente del cielo e le ruote delle nuvole
Come si suppone che il paradiso esista
Si suppone che il reale esista
Le nuvole all’inizio delle montagne
Le montagne erano piene di alberi
E niente affatto vuote come le avrei disegnate se mi avessero chiesto
Disegna una montagna
Una luce tra cielo e nuvole e montagne
Una luce giurassica
Una luce come quel tipo di immagini
Di cinema e dinosauri
Il collo diplodoco della luce
Il cielo suo scheletro di assoluto.

Era uno di quei soli da grande vetrata di stazione, d’estate a fine giornata. Un sole provinciale. Con il suo tutto cielo un po’ più in là. Pelli nude in punta di valigia. Ancora era l’estate e la piccola Francia. Andare e venire a sud a nord come si piega il gomito – perchè non si può piegare il cuore. Era l’estate lunga dei treni. L’estate calabrone dei Flixbus che si pick up all’aeroporto, kiss and vai a lungo. Vorrei Dio una fuga estiva nell’estate, come fuga dal corpo quando il cielo corto di ogni coscienza acconsente finalmente a spalancare le sue braccia immense.

da Là où dansent les éphémères. Anthologie collective (2022)

Éphémère et père

[…]

Souvent le père disait
Qu’il aimerait se réincarner
En chat de village, sauvage mais nourri,
– J’avais moi, déjà, du mal
À finir cette vie-là
Comme venir à bout de son assiette

Le père fourrait en douce un T-shirt dans les petites cages
du baby-foot
Pour que le but compte sans la balle avalée
Et j’avais, comme ça, des défaites infinies.

Quand le père prenait sa guitare, c’était, il disait :
« Pour m’entraîner pour ma prochaine vie
Quand je serai musicien »
Et que « les vies ne se font pas en une seule vie »,
Mais moi je ne voulais comme vie
Que celle de la pièce avec dedans mon père.

La mère a dit
Qu’on est tous
Traversés par des espérances très profondes
Même ceux qu’on imagine pas, ils sont traversés par des
espérances très profondes.
Et j’ai regardé ma mère,
Et c’était effectivement, sur ou en elle,
Plutôt une espérance que de l’espoir
Comme y’a parfois pas besoin du soleil pour qu’y ait la
lumière, tant il a déjà brillé, et la mer suffit à faire le soleil,
J’ai regardé ma mère avec son espérance
Et comme elle était claire.
Et ma mère aussi me regardait.
Et ça se voyait
Qu’elle espérait pour deux
Et que moi, il suffisait de vivre.

Chapeau sur la tête, la mère analysait :
« En même temps il me protège du soleil
Mais aussi il me donne chaud. »

Avec ces chaussures légères,
Quand je marche sur les pierres
On fait connaissance à chaque pas –
A dit la mère avec sa façon très à elle
De mystère clair.

Mon père m’a demandé
Tu te souviendras de nous vieux
Ou de nous jeunes ?
Mais moi j’avais même oublié
Qu’un jour il faudrait
Faire l’effort de m’en souvenir.

Comment tu décrirais un coquelicot ?
Alors, pour rire, mon petit frère a répondu sérieusement :
Rouge.
Et, peut-être un peu plus grave, mon grand frère a rajouté :
Ils sont fragiles.

Effimera e padre

[…]

Spesso il padre diceva
Che avrebbe voluto reincarnarsi
In un gatto di paese, selvaggio ma nutrito
– Io invece, facevo già fatica
A finire questa vita
Come a venire a patti con il proprio piatto

Il padre nascondeva una maglietta nelle piccole porte
del calcetto
Perchè il goal contasse, senza che venisse inghiottita la palla
E così, avevo delle sconfitte infinite

Quando il padre prendeva la sua chitarra, era, diceva:
«Per allenarmi alla mia prossima vita
Quando sarò musicista»
Perché «le vite non si fanno in una sola vita»,
Ma io non volevo altra vita
che quella dello spettacolo dove c’è mio padre.

La madre ha detto
Che siamo tutti
Attraversati da speranze molto profonde
Anche quelli che non immaginiamo, sono attraversati da
speranze molto profonde.
E ho guardato mia madre
E c’era in effetti, sopra o dentro di lei,
Più che una fede una speranza
Come a volte non c’è bisogno del sole perché ci sia la
luce, perché ha già brillato tanto, e basta il mare a fare il sole,
Ho guardato mia madre con la sua speranza
E quanto era chiara.
E mia madre anche mi guardava.
E si capiva
Che sperava per due
E io, bastava che vivessi.

Cappello in testa, la madre analizzava :
«Mi protegge dal sole, ma allo stesso tempo
Mi tiene anche caldo.»

Con queste scarpe leggere,
Quando cammino sulle pietre
Ci conosciamo ad ogni passo
Ha detto la madre, con quel modo tutto suo
Di chiaro mistero.

Mio padre mi ha chiesto
Ti ricorderai di noi da vecchi
O di noi da giovani ?
Ma io mi ero pure scordata
Che un giorno avrei dovuto
Fare lo sforzo di ricordarmene.

Come descriveresti un papavero ?
Allora, per scherzare, mio fratello più piccolo ha risposto seriamente:
Rosso.
E, forse con più gravità, mio fratello più grande ha aggiunto:
Sono fragili.

Da se coltiner, grandir (2022)

Premier amour

Je t’emmènerai vers un petit village
Plein de cloches à midi
Qui n’en finissent pas
Comme si c’était midi
Le seul véritable événement.

Prends-moi toute et vivante,
Comme dans ton Counter-Strike, ramasser chaude
encore
L’arme du mort.

Et je m’avancerai vers toi, mon incompréhensible
amour,
Comme sur la dalle immense s’avance
Pour la première fois
Le traducteur en face de son poète.

Regarde-moi comme aux vitres teintées il faut
Coller nez et passer son propre reflet pour
Accéder, derrière, au paysage…

Colle ton ventre à mon dos
Et que commence dans le lit
La nuit d’un fruit de mer.

Sédentarise-toi dans mes bras
Comme un matin les hommes découvrent le feu
Et le soir les hommes s’assoient autour du feu.

Ta main, le ciel,
C’est simple
De mourir.

Et je regarde ton sexe et il est doux comme une oreille
d’âne.
Et je respire avec ton sexe, assoiffée comme pardon une
vieille dame qui ne veut plus que de l’eau sans dent.
Et je tiens ton sexe comme dans la rue deux hommes se
voient et se serrent la main.
Et après je rêve de ton sexe comme je le regarde et respire
avec lui et le tiens.

La dame dans l’église a remercié le mort
Pour tout ce qu’il avait fait de ses mains,
« Merci
Pour tout ce que tu as fait de tes mains. »
C’était je crois
La plus belle phrase trouvée.
Que les morts sont ceux
Qui ont fini de faire des choses de leurs mains,
Et qu’on peut remercier.

Primo amore

Ti porterò in un piccolo villaggio
Pieno di campane a mezzogiorno
Che non la smettono mai
Come se fosse mezzogiorno
L’unico vero evento.

Prendimi intera e viva
Come nel tuo Counter-Strike, raccogliere calda
ancora
L’arma del morto.

E ti verrò incontro, mio incomprensibile
amore,
Come sulla lastra immensa va incontro
Per la prima volta
Al suo poeta il traduttore.

Guardami come ai vetri oscurati bisogna
Incollare naso e passare per il proprio riflesso
Per accedere, dietro, al paesaggio…

Incolla la tua pancia alla mia schiena
E che nel letto inizi
La notte di un frutto di mare.

Sedentarizzati nelle mie braccia
Come un mattino gli uomini scoprono il fuoco
E la sera gli uomini si siedono intorno al fuoco.

La tua mano, il cielo
È semplice
Morire.

E guardo il tuo sesso ed è dolce come un orecchio
d’asino.
E respiro con il tuo sesso, assetata come, scusa, una
vecchia signora che non vuole altro che acqua senza denti.
E stringo il tuo sesso come due uomini per strada
si vedono e si stringono la mano.
E dopo sogno il tuo sesso, come lo guardo e respiro
con lui e lo stringo.

La signora nella chiesa ha ringraziato il morto
Per tutto quello che aveva fatto con le sue mani,
«Grazie
Per tutto quello che hai fatto con le tue mani».
È stata credo
La più bella frase trovata.
Che i morti sono coloro
Che hanno finito di fare delle cose con le mani,
E che possiamo ringraziarli.

L’orrore più grande

Racconto di Giuliano Tomarchio.

«Cosa ci sta succedendo, Chris? Che sta succedendo a tutti quanti?».

Juliana si spinse oltre il bracciolo della poltrona per ispezionare il volto di Chris, pallido e chino sul pavimento, mentre affondava le unghie nella stoffa verde dell’imbottitura. Chris non si mosse. Aveva gli occhi puntati verso un abisso sottostante che vedeva solo lui, una zona negativa nel suo salotto che stava risucchiando via tutta la luce delle sue pupille, e la vita che un tempo c’era dietro di esse. Cristiano “Christian” Della Rocca, considerato un tempo il miglior investigatore privato di New York, sagace ma un po’ burbero, era ormai ridotto a un guscio vuoto di dubbi e incertezze, messo di fronte a un caso che non aveva né capo né coda, un’orgia di elementi indiziari disseminati in un viale di cadaveri: la sua esistenza.

Cos’è successo, caro Chris? Dov’è finita la tua arguzia, la tua battuta sagace sempre a portata, il tuo intuito trascendentale in grado di connettersi a un mondo paranormale oltre le soglie della percezione umana? Nella tua carriera hai affrontato sette assassine, novelli alchimisti, demonologi e dementi, fattucchieri e omicidi telepati e hai sempre trovato una soluzione elegante quanto conveniente e improvvisa come un fulmine a Catacumbo… Ma che soluzione darai all’insolubile, stavolta?

La New York esoterica si era aperta al tuo terzo occhio, i suoi misteri erano diventati la tua quotidianità. Ebbene, ora ti viene presentato un mistero ben più grande, che non trascende soltanto il mondo empirico, ma la tua realtà. Te ne è stato dato un semplice assaggio, eppure appari così inerme! Guardati: non riesci nemmeno a sollevare lo sguardo sulla tua amata, Juliana Jade, una donna impetuosa, corvina, tutta nervi, istinto e sentimenti. La sua voce è rotta dal pianto, ma non riesci neanche a guardarla. Chris, povero idiota, come farai a raccontarle l’indicibile, a spiegarle per filo e per segno i risvolti del caso, con voce calma e superba come un padre che parla alla figlia seienne, come facevi ogni volta?

Ma eccoti muto, immobile, in attesa che qualcuno ti metta le parole in bocca.

«È… una maledizione? È opera di Flynt?» Juliana tentò di spezzare il silenzio abbozzando un ragionamento, tornando ai vecchi schemi, a un passato radioso e leggero di indagini e congetture.

Ma no, cara Juliana: non è uno stratagemma di Eugene Theodore Flynt, diabolica nemesi del tuo amante e massonico maestro dell’Occulto. No, nessuna di quelle scemenze. Persino tu, però, ingenua Mrs. Jade, iniziavi a collegare i puntini del grande schema di questo orrore innominabile. Benché mancasse una ragione, non poteva essere un caso; non potevano essere solo un insieme di eventi contingenti tutte le sventure che vi erano capitate.

Era iniziato con la morte di Alistair Moore, l’ufficiale britannico che, al contrario del nostro “detective”, era rimasto nelle forze dell’ordine della città, da sempre sospinto da un forte e disgustoso senso del dovere. Ma non per questo avevano smesso di essere amici. I migliori, anzi. Fu una tragedia quando, nel ’29, la Borsa crollò e il nobile Alistair si tolse la vita con un colpo di pistola al cuore perché inondato da debiti che avrebbero afflitto almeno cinque generazioni dopo di lui. Tutto a causa di quegli investimenti edilizi a Manhattan che tu, Chris, il suo più grande confidente, gli avevi consigliato di fare!

Una vera tragedia. Così come quella che colpì Alice Della Rocca, la cara sorella, vispa, geniale, mai quieta e dall’orientamento sessuale ambiguo. Ah, Alice era una grande inventrice, fautrice di decine di apparecchiature pseudo-scientifiche che avrebbero fatto arrossire il Dottor Frankenstein, ma che di certo ti hanno aiutato, caro Chris, a risolvere decine di casi senza che tu mostrassi un pizzico di gratitudine, duro e distaccato come sei. Peccato che una di quelle stesse diavolerie l’abbia trasformata in uno scarafaggio fotofobico. Chissà che non sia quello che tu abbia schiacciato per errore, eh, Chris?

Persino Malleus Cole, il tuo mentore, il paziente professore la cui mente non è più tornata dal viaggio nel sovrannaturale, l’uomo saggio e mite che ti ha insegnato tutto, non è scampato alla catena di tragedie. Ormai definitivamente impazzito, vaga per le sale di un istituto psichiatrico in attesa di una lobotomia che lo salvi da se stesso e dalle creature demoniache che sono venute a fargli visita.

Ma come è potuto accadere tutto questo? Quale la causa comune di questi destini?

Questa è la parte più crudele dell’orrore, Chris. Che tu sai. Tutto.

Chris, senza staccare lo sguardo dal vuoto in cui la sua anima stava precipitando, porse la Lettera a Juliana. Il pezzo di carta giallastra sembrava un brandello di carne tumefatta, strappata a un corpo morto di recente. Benché la stanza fosse illuminata dalle ampie finestre in stile vittoriano, la Lettera rimaneva nell’ombra. Juliana avvicinò la mano tremante al foglio sospeso per aria. Una volta che lo ebbe fra le mani, Chris lo lasciò andare con sollievo, come si abbandona un carico pesante. Juliana avvicinò la lettera al volto. Quando, infine, trovò il coraggio di guardare la pagina, vide parole scritte col sangue, in una grafia folle. Immediatamente, la carta le tagliò le dita, un tuono echeggiò nella valle più vicina e una porta di quercia sbatté da qualche parte. Non ebbe bisogno di leggerla; il contenuto della Lettera, semplicemente, le invase la mente, come una macchia di inchiostro riversata su un foglio bianco.

«Cosa… come può essere… Chris… Io…»

Ora sapeva anche lei. Avresti voluto risparmiarle l’Orrore, Chris, un ultimo gesto disperato di amore, quell’amore profondo che non le avevi mai dimostrato, che non sei capace di esprimere. Ma era tardi. Tardi come lo è per me. Pare che la “Saga del Detective Maleficarum” sarà il mio unico lascito a questo mondo. Diciotto romanzi e centinaia di racconti brevi con protagonista il grande Chris Della Rocca, l’indagatore dell’incubo più amato dalle sessantenni. Il più dozzinale rifacimento di una parodia malfatta di Sherlock Holmes, unito al morboso gusto gotico di un’ambientazione sovrannaturale ed esoterica nella New York degli anni Venti e poi Trenta. Un’idea partorita a forza fra sangue e feci per pagarmi l’affitto e un condizionatore decente. Ero addirittura entusiasta quando, quel tredici ottobre, giorno da maledire in ogni calendario, ricevetti la telefonata dell’editor Fronelli, o “Frodelli”, come lo chiamo io. Tale fu l’entusiasmo che firmai qualsiasi foglio, in triplice copia, firmai senza leggere e firmai col sangue.

Quel sangue che adesso macchia quella Lettera, caro Chris.

“Un successo editoriale”, lo chiamarono. Un fulmine a ciel sereno; altro che Catatumbo… E quando iniziarono ad arrivare tutti quei soldi, pensai davvero di avercela fatta. Di aver vinto il gioco. Ma ero stato giocato. Sono dovuti passare trent’anni per accorgermene. Poi altri quindici. Fu a quel punto che capii che non mi avrebbero fatto scrivere mai più nient’altro che questo. Che la mia reputazione si basava solo su “quello del Detective Della Rocca”. Che ero disprezzato e deriso in qualunque circolo letterario, considerato, al più, uno scaltro e viscido opportunista, quando non un mediocre plagiatore. Soprattutto, capii di essere stato maledetto quando mi resi conto che la saga non avrebbe mai avuto fine. Che ero legalmente obbligato a “non far cessare l’esistenza finzionale” dei miei protagonisti. In altre parole, non posso farvi fuori. Furbo, il Frodelli, ad avermi ingabbiato fin dal principio e ad avermi costretto a scrivere abomini a metà fra l’italiano e l’inglese, per via di una qualche infernale linea editoriale che ancora oggi non comprendo. Ormai non ha neanche più senso cercare un cavillo, una scappatoia legale. Potrei anche uscirne con facilità, con un avvocato decente. Ma che senso avrebbe? Nessuno mi prenderà mai più sul serio, neanche se mi mettessi a scrivere un Infinite Jest o una nuova Recherche – e non ho neanche più la forza o la capacità di farlo; ho procrastinato abbastanza a lungo da non sapere più perché scrivevo. E siamo del tutto onesti, almeno fra noi: non sarei mai stato in grado di farlo. Vedi, Chris? La tua ragion d’essere si riduce a una nota a piè di pagina di un contratto e all’indolenza di un vecchio amareggiato! Dovrai vivere avventure scadenti e mal strutturate fino alla fine dei miei giorni. Purtroppo, godo di ottima salute e il mio stile di vita benestante mi garantisce l’accesso alle migliori cure. No, la tua leggenda non è destinata a concludersi. Uscirà presto anche una di quelle dannate serie televisive su di te, caro Chris. Per mesi ho avuto a che fare con quegli idioti di sceneggiatori americani, pieni di domande insulse, predicatori di neologismi pomposi e senza senso.

No, non posso ucciderti, Chris Della Rocca. Posso, però, con la scusa del genere, dell’orrore cosmico crescente, catapultare te e ciò che ami in un incubo senza fine. Posso renderti insopportabili quei tuoi baffetti ispidi; posso farti cadere quei quattro peli che ti sono rimasti in testa. Forse posso gambizzarti, devo controllare il contratto. Soprattutto, posso maledirti con la conoscenza. La consapevolezza di vivere in un inferno letterario, sottoprodotto della mente di uno scrittore indegno di questo nome, ti accompagnerà in ogni tuo gesto. È una questione editoriale, vedi; non potrai mai suicidarti e scappare dall’orrore. I tuoi “fan” non me lo perdonerebbero.

Per il resto, non preoccuparti: ho già pensato alla tua prossima battuta. Una chiosa efficace – ma non troppo, non vorrei alzare il livello – per “confortare” la tua donna.

Chris, incapace persino di produrre liquido lacrimale, con gli occhi secchi e sbarrati si alzò e andò a prendersi un sigaro Montecristo, una nuova marca con cui aveva sostituito i suoi amati Romeo y Julieta, che non riusciva più a trovare da nessuna parte. Fumare un sigaro lo aiutava sempre a pensare e distendersi. Ma il sigaro, non appena toccò le sue labbra, gli lasciò una sensazione di viscidume e acido in bocca. Lo allontanò amareggiato e si massaggiò i folti baffi con le dita, un altro dei suoi gesti più amati, quasi una firma; ma i suoi stessi peli lo punsero, e avvertì una crescente irritazione sopra il labbro. Juliana era affondata nella sua poltrona verde acido. Stava anch’ella sprofondando nel medesimo abisso del suo amato. La nausea crescente dentro di lei si stava trasformando in disprezzo. Disprezzo silenzioso e strisciante. Disprezzo per Chris. Egli si voltò e, senza espressione alcuna, recitò come un automa una frase inserita a forza nel suo processore.

«Nella mia vita, ho affrontato ogni tipo di orrore. Ma adesso siamo precipitati nel più grande… ed esso è ovunque.»

E non poté che sospirare. Anzi, no. Non sospirò affatto. Se lo tenne tutto dentro, insieme al putrido sapore del Montecristo.


Giuliano Tomarchio ha studiato cinema e sceneggiatura, ma la sua vera passione è fare Mexican Mule. Ha pubblicato diversi racconti sulla rivista «MALPELO» e un paio su «Spaghetti Writers»; un suo scritto è sfuggito alla censura dell’imminente antologia “Limonə” di «Malgrado le Mosche». Dice di scrivere per l’audiovisivo; ma questo è facile dirlo.

In teoria e in pratica | Gaia Giovagnoli

Le risposte di Gaia Giovagnoli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1)  Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo?  Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Per il primo libro di poesia, Teratophobia (‘Round Midnight Edizioni), l’iter è stato lento e dilatato nel tempo. Ci sono all’interno testi anche molto vecchi, risalenti al 2009. La costruzione del libro, diviso in sezioni tematiche, è stata a posteriori: ho lavorato sul materiale che avevo a disposizione, scritto nel tempo, e ho provato a creare un filo rosso che legasse testi a volte molto lontani per intenti e struttura.

Babajaga (Industria & letteratura) invece è un libro nato già con l’idea di creare un poemetto, e questo ha fatto sì che sia più unitario anche nel risultato. Non solo: ha uno stampo narrativo. Ci sono poesie in prima persona e poesie in terza, alternate, e sezioni che cercano di seguire la traccia della storia tradizionale della strega del folklore russo.

Ogni libro credo sia un discorso a sé, completamente, e il mio approccio alla costruzione potrebbe cambiare nel tempo. Non credo esista una formula vincente da poter applicare in ogni singolo caso perché il risultato sia più o meno riuscito. Non saprei dunque cosa consigliare se non ascoltare l’intento di quello che si sta scrivendo e assecondarlo.

2)  Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Credo che ogni scrittura sia anche finzione, perché implica un gioco di proiezioni tra un io di chi scrive e un io scritto, automaticamente personaggio (che sia dissimulato o meno non fa alcuna differenza). Non sono mai sovrapponibili, l’autore/narratore e l’autore/protagonista, perché nello stesso momento in cui si applica la scrittura l’io diventa narrante, e quindi finzionale. Personalmente, quando scrivo c’è un costante ricorso all’invenzione, e credo che non si possa fare altrimenti.

3)  Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Ho letto tanto e disordinatamente. Amai Anne Sexton, e la amo ancora. Scoprirla penso abbia dato una bella svolta al mio modo di scrivere. Se parliamo di incontri “veri”, fondamentale per me è stato conoscere Isabella Leardini, che mi invitò a Parco Poesia quando ancora non avevo pubblicato nemmeno un verso. L’operazione di scouting che ha svolto con il suo festival è stata un’occasione virtuosa. Le critiche che le hanno sempre fatto sono state miopi, e a mio parere molto sterili. Per noi nuovi poeti è stato bello poterci incontrare (ci sono amicizie che durano da allora), ma anche incontrare grandi della scrittura e le loro voci. Per me fu fulminante ad esempio incrociare dal vivo Milo De Angelis.

Il mio esordio è stato sicuramente un modo per iniziare un discorso, per capire un po’ anche cosa voler dire e come. Nonostante lo consideri per certi versi un po’ acerbo, oggi, un po’ troppo ostico, era importante che uscisse. Mi ha dato modo di capire che vorrei rendere anche la poesia più comprensibile al lettore; ho oggi un’attenzione diversa alla fruibilità.

L’effetto del pubblico influenza quello che scrivo quindi nella misura in cui vorrei creare cose che abbiano un significato, e per farlo devono essere utilizzabili, comprensibili. La bolla invece non mi ha condizionata granché, credo. Mi piace leggere cosa scrivono gli altri, i testi, ma un po’ meno i pareri. Con il tempo mi rendo conto sempre di più di provare molta noia, mi affatico prima.

4)  Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Le renderei più performative e coinvolgenti, riducendo l’intervento critico (o eliminandolo del tutto, quando la discussione sul testo rischia di “ingoiare” il testo stesso, mettendolo in secondo piano). Proverei a modularle molto sul modello delle presentazioni di prosa, che sono accoglienti. Il rischio noia dovuto all’incomprensibilità della discussione è altissimo in poesia, e questo va contro ogni interesse.

Su “L’amore da vecchia” di Vivian Lamarque

Nota di lettura a cura di Lorenzo Di Palma.

In un saggio del 1927 intitolato Breve relazione su 400 (quattrocento) giovani poeti lirici, Bertolt Brecht scherza non senza preoccupazione sulla possibilità che «qualsiasi tedesco sia in grado di scrivere una poesia». Quasi cento anni più tardi le parole di Brecht sembrano trovare conferma anche in Italia.

Con la candidatura di 135 poeti – autori della quasi totalità dei libri di poesia pubblicati lo scorso anno – nasce la sezione poesia del Premio Strega. C’è da dire subito che nonostante la mole di partecipanti la cinquina finalista mantiene una certa coerenza anagrafica. Composta in maggioranza da autori settantenni (quattro su cinque), suggerisce la smania della giuria di colmare il più in fretta possibile il ritardo rispetto all’omologo premio di prosa. Si ha l’impressione infatti che il Premio Strega Poesia nasca con l’intento di suggellare l’esistenza di lunghe e proficue carriere piuttosto che come riconoscimento al miglior libro di poesia; stessa malattia che aveva già contagiato i giurati del Premio Strega tra gli anni ’70 e ’80, quando vennero premiati libri minori di autori affermati (Tommaso Landolfi, Mario Pomilio, Primo Levi).

Essendo il Premio Strega il più rappresentativo dei gusti del ceto medio dei lettori, si potrebbe soprassedere sulla qualità dei libri finalisti, come d’altronde si fa da anni per la cinquina dei romanzi, ridotta a selezione di testi non troppo ardui in grado di accattivare anche il lettore occasionale. C’è da ammettere però che lo Strega è sempre stato un catalizzatore capace di favorire e accelerare la creazione di tendenze spesso deleterie che potrebbero riproporsi anche nel mondo della poesia che, per scarsità di mezzi e per esiguità di pubblico, aveva continuato a sopravvivere nei suoi esiti più vitali grazie soprattutto all’impegno di editori medio/piccoli, ovvero gli esclusi dalla cinquina finalista (con l’unica eccezione di Italic Pequod).

Questo è un discorso strettamente collegato all’idea ormai sorpassata che le grandi case editrici svolgano un ruolo decisivo nel filtraggio e nella selezione qualitativa dei libri di poesia. Così si legge a caratteri cubitali sul sito de Lo Specchio Mondadori:

Di qui si irradia il canto della nostra lirica, qui giungono le voci nuove della giovane poesia e si affiancano ai grandi nomi già noti in tutto il mondo continuando la gloriosa tradizione italiana attraverso i secoli e i tempi.

Peccato che la politica editoriale de Lo Specchio sia oggi condotta all’insegna della stanchezza e della disillusione: la prestigiosa collana Mondadori trova appena le forze per pubblicare pigre riproposizioni di libri del Novecento con nuove vesti grafiche o nuovi libri di autori che nel Novecento hanno prodotto il meglio della loro opera (Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Giuseppe Conte, Paolo Ruffilli, Giancarlo Majorino ecc.). In questa ultima categoria rientra uno dei cinque libri finalisti al Premio Strega Poesia, L’amore da vecchia (Mondadori, 2022), undicesimo libro di Vivian Lamarque.

Il libro è diviso in nove sezioni; la prima, intitolata «I nomi degli amanti», è quella in cui è trattato l’argomento del titolo. La poetessa descrive in terza persona un innamoramento reale o immaginario per un personaggio più giovane, identificato soltanto dal soprannome “Ics”. Il «Fascino discreto degli amori non corrisposti» è trattato in maniera impressionistica attraverso la descrizione di paesaggi sentimentalmente evocativi (una spiaggia innevata; l’attesa di una stella cadente il 10 agosto) e con una serie di poesie consequenziali sottotitolate delirio 1, delirio 2… che tratteggiano scenari di ipotetici incontri tra i due amanti («Strano le era parso di intravederlo sul volo / per Cagliari»). Da questo punto in poi il libro prende una piega naturalistica con le successive due sezioni («Poesie con foglie» e «Gli animali addormentati»). Le farfalle, i pesciolini, i fiori di lino, i prati servono da impulso per alcune riflessioni sulla vita e sulla morte. Non mancano citazioni dirette ai classici della poesia italiana (Giacomo Leopardi nella poesia sulla siepe; Umberto Saba nella poesia sulla capra). La sensazione è che i testi di queste due sezioni trovino una loro funzione all’interno del libro soltanto attraverso una sommaria coerenza tematica. Più in generale si ha l’impressione che il libro non sia altro che una grande autoantologia cucita con perizia sovrapponendo toppe rappresentative dei temi cari alla Lamarque.

Proseguendo nella lettura di questo bignami lamarquiano, troviamo infatti la sezione dedicata alla famiglia, con poesie su figlia, nipote, madre, fratello e sorella, padre biologico e padre adottivo («Padre padre che facevi il Vigile del fuoco»); la sezione dedicata all’infanzia, con i ben noti riferimenti all’adozione e alla compresenza di più figure genitoriali, forse il vero fulcro di tutta la poetica di Vivian Lamarque dai tempi di Teresino (1981); la sezione dedicata al cinema («Come nel film»), caratterizzata dalla ripetizione, all’inizio di ogni componimento, del titolo della sezione stessa («Come nel film Le Ballon rouge…»; «Come nel film La spiaggia di Lattuada…»; «Come nel film Giochi proibiti…»).

Alcune recensioni al libro hanno evidenziato con fin troppo entusiasmo come la poesia della Lamarque sia rimasta negli anni uguale a se stessa, efficace e sincera. Infatti, al centro delle analisi letterarie che ora appaiono più aggiornate, c’è la tendenza a favorire lo studio dell’efficacia piuttosto che la ricerca del senso, suggerendo l’idea che la letteratura debba essere in qualche modo utile, curativa, e allo stesso tempo non troppo invischiata in questioni formali che allontanano i lettori e restituiscono un’immagine non veritiera della realtà. Assai singolare e indicativa di questa confusione mi pare l’accusa che si muove spesso ad alcuni poeti di essere dei tecnicisti, maniaci delle strutture, innamorati del linguaggio. Sappiamo bene che per diventare popolare la poesia deve semplificarsi, vestirsi di quegli indumenti che la classe media dei lettori riconosce all’istante, e in questo la rima baciata, l’uso sostenuto della similitudine, l’impiego del vezzeggiativo/diminutivo (in L’amore da vecchia se ne contano più di cinquanta su un totale di centosette testi), l’onomatopea, l’anafora, la domanda retorica, risultano gli strumenti più efficaci.

Per quanto riguarda il generale mood del libro, la poesia della Lamarque è continuamente blandita dal suo corrispettivo in prosa, ovvero il feuilleton, il romanzo d’appendice che si attiene a un registro piano e che mette in scena personaggi fortemente caratterizzati nel bene o nel male, immersi in
scenari ricchi di pathos e facilmente inquadrabili nel discorso mainstream contemporaneo: il covid («Come un Covid / nuociamo al mondo.»); la guerra («Oh di nuovo. / Un Paese in dolore / tanti Paesi in dolore»); gli immigrati («Hanno attraversato mille e uno mari / e uomini-squali per approdare infine / su questa casa mobile…»); Whatsapp («e ogni tanto anche un wapp / con dentro metà di un paterno / sorriso…»).

Per concludere direi che l’impianto realistico e a bassa temperatura formale, l’apparente assenza di una vera e propria coerenza tra le sezioni, il ripetuto utilizzo di cliché letterari, il recupero a piene mani di temi da libri precedenti dell’autrice, inseriscano di diritto L’amore da vecchia nel calderone dei libri stanchi ma considerati autorevoli per fattori esterni che non riguardano direttamente il testo. Certo, il libro di Vivian Lamarque non è l’unico a presentare evidenti mancanze, nemmeno tra gli altri della cinquina dello Strega Poesia. Sono forse l’entusiasmo per una nuova pubblicazione dopo sei anni di silenzio, forse il prestigio che giustamente l’autrice si è guadagnata nel corso del tempo che concorrono a far scambiare, come accade spesso, libri superflui per capolavori insuperabili, o addirittura “necessari”.


ALLA SUA ETÀ

Alla sua età
è normale morire.
Nessuno si meraviglia
se uno alla sua età
muore.
Nessuno.
Ma lei sì!
Lei che sarei io, sì.
Sì, lei si meraviglierà,
io mi meraviglierò.
Tanto!

DAVIDE E IL TRAM

Sentinella del secondo piano
guarda il nipote avviarsi
lungo e magro con venti chili
di libri verso la fermata.
Spicciati lei dice al tram, guarda
che fila ti sta aspettando e uno
di loro ha una luce accesa non vedi?
Sono i suoi anni, gli luccica
come astro la giovinezza.
Ma non capisce il tram la parola
astro e nemmeno anni
e tantomeno giovinezza, infine lento
giunge il 14 col suo lungo muso verde
e spalanca le porte e inghiotte
tutti anche lui e poi riparte e poi sparisce
ma lei dalla finestra lo vede nel tram
in piedi e poi seduto, con la sua luce accesa.

COME NEL FILM «NOSTALGIA» (2022)

Come nel film Nostalgia che all’inizio Favino
compra una spugna e poi con la spugna piano
piano lava la sua mamma vecchina e ci incanta
e poi ancora più avanti quando danzando
molto timidamente sorride e noi si pensa
che bello finirà così il film?
Così nella vita tanto speriamo che bene
finisca una cosa. E guardiamo Oreste che nel bel
buio della notte da lontano si avvicina al suo amico
Favino. Per abbracciarlo e fare pace?

Un cristallo di neve, un gatto morto – Intervista a Mircea Cărtărescu

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Fausto Paolo Filograna. Traduzione dall’inglese di Chiara Ciarpelli. Foto di Juan Manuel Serrano Arce.

Pluricandidato al Premio Nobel, universalmente considerato uno dei più importanti scrittori contemporanei. Inoltre poeta, saggista rumeno, dotato di una poetica assimilabile all’opera di Joyce,  Kafka, Pavic e, soprattutto, Thomas Pynchon, Mircea Cărtărescu (Bucarest, 1956) è stato esponente di spicco della Blue Jeans Generation. Oggi è considerato il più importante autore romeno contemporaneo. In questa intervista l’autore racconta l’importanza dell’ultimo suo libro pubblicato in Italia: Melancolia.

Su Melancolia (La nave di Teseo, 2022)

1) L’infanzia appare spesso nei tuoi libri, penso soprattutto ai tuoi monumentali romanzi Abbacinante e Solenoide, ma non ne è mai stata protagonista. In questo libro è il tema principale. Ho trovato singolare che nel momento in cui parli di questo tema adotti la forma frammentaria del racconto. Ci puoi spiegare questo passaggio? 

Melancolia non è direttamente collegato a Orbitor (Abbacinante, N.d.T.) e Solenoid (Solenoide, N.d.T.), anzi, è un tentativo di sfuggire alle strutture molto complesse e intricate di quei grandi romanzi. È un libro neoromantico e surrealista, nel segno di Giorgio De Chirico e H. C. Andersen. I cinque racconti sono fiabe metafisiche, chiuse ermeticamente nel loro enigma. Melancolia” è il libro più puro finora. Lo amo per il suo stile, la stranezza e l’atmosfera di innocenza.

Ho scritto Melancolia quando avevo sessant’anni, come una sorta di richiamo e rielaborazione del mio primo libro di prosa, Nostalgia, scritto trent’anni prima. In entrambi l’infanzia e l’adolescenza sono il tema principale, entrambi sono scritti archetipici composti da cinque storie, la prima e l’ultima delle quali costituiscono un prologo e un epilogo dei libri veri e propri. I racconti non sono affatto brevi, alcuni sono piccoli romanzi, tra i migliori che abbia mai scritto: “REM” e “I gemelli” in Nostalgia, “Le pelli” in Melancolia. Sono uno scrittore della vita interiore, di quella notturna, e penso che viviamo circondati da enigmi. Quando siamo bambini, tutto ci appare strano, poetico e onirico. Ecco perché mi interessa tanto quell’età paradisiaca.

2) Che relazione c’è tra il tema dell’infanzia e la tua età attuale?

L’età ha poco a che fare con la nostra vita interiore. Un artista, così come ogni persona creativa, è colui che è in grado di conservare il bambino dentro di sé fino alla vecchiaia. Cioè, una persona capace di non lasciarsi coinvolgere dal denaro, dal potere, dal prestigio, dalla politica e dalla cronaca, dal giudizio sugli altri e condurre la sua vita all’insegna della bellezza, della creatività, dei miracoli quotidiani. Infanzia e poesia sono la stessa cosa: una propensione per la delicatezza che si può trovare in una goccia di rugiada, in un’equazione, in un concetto filosofico, in una teoria scientifica, in Dio, in una graffetta, in un cristallo di neve o in un gatto morto. Viviamo tutti non solo in un sottomarino giallo, ma anche in un’enorme poesia: ogni bambino lo sa bene, ma gli adulti fanno del loro meglio per dimenticarlo e vivere nella noia, nell’avidità e nella turpitudine.

3) Il titolo di questo libro, Melancolia, rimanda a un contesto clinico e scientifico da cui hai sempre attinto. Ci vuoi raccontare perché hai usato un nome con una così lunga tradizione e soprattutto il nome di una malattia per un libro incentrato sull’infanzia?

Inizialmente, durante il Medioevo, la malinconia era effettivamente un concetto medico, tradotto come “la bile nera” (“Il sole nero della malanconia”, scrisse nei secoli Gérard de Nerval). Ci si riferiva a sentimenti di depressione, tristezza, impotenza e mancanza di motivazione di alcuni pazienti nelle primitive istituzioni di salute mentale. Ma dopo che Robert Burton scrisse la sua immensa opera, Anatomy of Melancholy, divenne un concetto culturale con un’enorme influenza sullo sviluppo del pensiero e delle arti europee (la letteratura romantica, ad esempio, non è concepibile senza questo concetto). Uno scrittore che aspira a essere fondamentale o universale non può ignorare i suoni più profondi dell’animo umano, i suoni gravi della solitudine, della tristezza e della depressione. Tutti questi definiscono l’eterna malinconia.

I bambini non conoscono la malinconia (sebbene ci siano studi clinici sulla depressione nei bambini e negli adolescenti), perché vivono fuori dal tempo che corrompe ogni cosa. Ma l’infanzia è ancora molto legata a questo tema, perché ogni persona adulta che talvolta ha il coraggio di immergersi nella propria vita interiore percepisce la propria infanzia come un’enorme perdita, una patria perduta senza possibilità di ritorno. I ricordi d’infanzia scorrono come lava liquida dentro di noi, ma sono sepolti in profondità sotto la crosta della pelle adulta, del cervello adulto, della vita adulta, caotica e priva di senso. Sono sempre terribilmente malinconico quando sfoglio le foto sul mio computer: gli anni passano e non c’è modo di tornare indietro, e le poche foto in bianco e nero, sbiadite, di quando ero bambino sono ora come lame che mi trafiggono il cuore.

4) Proust appare nei meandri consci e inconsci della mente delle persone che leggono le tue opere. Addirittura il bambino del racconto “Le volpi” si chiama Marcel. Che relazione hai con la sua opera? Chi è Marcel?

Marcel in realtà sono io, Mircea, non Proust. Molti critici hanno oscillato tra due poli cercando di descrivere il mio lavoro e il mio metodo: Proust e Kafka. Ma mentre Kafka ha avuto, e tuttora ha, un’enorme influenza sulla mia vita quotidiana e artistica, non posso dire lo stesso di Proust. Ovviamente ho letto il suo libro diverse volte, a volte con piacere, altre volte con noia, e ammetto che è stato un grande scrittore, ma non sento una particolare affinità con il suo mondo. Non tutti gli autori che utilizzano frasi complesse ed elaborate sono proustiani, così come non lo sono tutti quelli che trattano della “memoria involontaria”. Nella letteratura rumena moderna degli anni ’30 e ’40 c’era un gruppo di scrittori che ammirava molto Proust e per questo venivano chiamati “il gruppo proustiano”. Ma leggendo i loro libri si scopre con sorpresa che nessuno di loro ha davvero compreso la novità del suo metodo e che nessuno ha seguito le sue orme. Orbitor (Abbacinante, N.d.T.), la mia opera più importante finora, può dare l’impressione di un libro “proustiano” perché è molto voluminoso e contiene frasi molto lunghe, ma il suo scopo non è quello di recuperare ricordi perduti, bensì di costruire un intero mondo dalla mia sostanza cerebrale, come il ragno che tesse la sua tela dai filamenti brillanti.

5) In un’intervista su L’indiscreto, fatta da Vanni Santoni, racconti di scrivere le tue opere su grandi quaderni. Che differenza c’è tra il funzionamento della tua mente e ciò che scrivi su quella carta?

Ho sempre scritto a mano, mi piace molto. È più intimo, più umano e ti concede più tempo per pensare e immaginare. Scrivo a mano il mio diario ormai da 50 anni, quindi sono piuttosto abituato a scrivere con la penna stilografica. Mi piace che le mie pagine siano belle, quindi detesto cancellare le parole o strappare le pagine. I miei manoscritti sono puliti, sembrano copie di un originale inesistente. Orbitor (Abbacinante, N.d.T.), ad esempio, ha 1500 pagine, ma non c’è una pagina strappata, ci sono poche parole cancellate, anzi è stato pubblicato senza modifica alcuna. Tutti i miei libri, anche quelli più grandi, sono la prima stesura. Inoltre, non esiste un piano o una sinossi e non uso alcuna documentazione. È tutto nella mia mente: i miei libri sono in realtà mappe o ologrammi della mia mente. Per me, scrivere è come rimuovere una pellicola bianca dalle mie pagine per rivelare il testo già scritto.

È vero che solo alcuni dei miei libri, come Solenoid (Solenoide, N.d.T.), Orbitor (Abbacinante, N.d.T.) e il mio diario, sono scritti a mano. Altri, come Melancolia o Theodoros, il mio ultimo libro, sono scritti al computer. Questo perché dopo aver compiuto 60 anni ho perso la pazienza necessaria per scrivere a mano. Ma il resto – nessun editing, nessun piano, nessuna documentazione – è rimasto invariato. Forse perché sono uno dei pochissimi scrittori al mondo che ancora crede nell’ispirazione, nel senso più letterale del termine: la sensazione che qualcuno di molto più saggio e dotato di me mi detti effettivamente ciò che scrivo. Il vero scrittore non è mai solo, così come il fantino da solo non vince mai le corse: ha bisogno di un cavallo per farlo.

6) Qual è il tuo rapporto di scrittore con la Romania? 

“Nessuno è profeta nella propria patria”, dice il proverbio, ed è proprio così. Negli ultimi vent’anni mi sono ritrovato ad essere molto più apprezzato all’estero che nel mio paese e nella mia cultura. Tuttavia, vivo ancora in Romania nonostante le molte avversità e mi piace molto vivere tra i miei connazionali. C’è un sottile strato di persone ben istruite, che comprano ogni sorta di libro, partecipano a tutti gli eventi culturali, concerti, spettacoli teatrali e festival e sono veri cittadini del mondo. Tra loro ho dei buoni amici, che rendono la mia vita nel mio paese molto piacevole. Oltre a viaggiare molto all’estero, partecipo attivamente alla vita culturale e letteraria del mio paese, partecipo a molti eventi sul palcoscenico, a festival di poesia o narrativa, do letture delle mie opere in molte città. È bello risiedere nel proprio Paese, indipendentemente da quanto si viaggia e da quanto si è trattati male a casa propria. Senti di appartenere ad un posto, senti di essere tra le persone che ami.

7) Chi ti conosce tramite i social sa che hai una predilezione per un certo tipo di camicie, con un certo tipo di disegno. Lo stesso tipo di disegni si trova spesso, in varie forme – mentali, organiche, metafisiche – nei tuoi romanzi. Desideri avere quei disegni anche sul corpo, nella tua vita non letteraria di Mircea Cărtărescu?

Sono già impressi sul mio corpo, tatuati su ogni singolo centimetro della mia pelle. I miei simboli e disegni mentali avvolgono il mio corpo come una toga viola. Le persone che mi conoscono e mi amano li percepiscono come abiti reali, sottili, leggeri e pieni di colori cangianti.

8 Quali sono i tuoi autori viventi preferiti? Sembra che tra gli scrittori della tua generazione ci sia una certa preferenza per gli autori morti. Ci puoi dire cosa pensi di questo?

Gli autori morti sono solo quelli mediocri. Gli altri, a cominciare da Omero e Virgilio, sono ancora vivi dopo migliaia di anni. Non mi interessa se un autore è morto o vivo, cinese o etiope, donna o uomo, etero o gay. Discrimino solo tra autori che riesco a leggere e autori che non riesco a leggere.

Eppure, sono pieno di gioia al pensiero che sto ancora calpestando lo stesso suolo e respirando la stessa aria di alcuni degli déi del mio Pantheon interiore, come Mario Vargas Llosa, Thomas Pynchon, Paul Auster, Dacia Maraini, Bob Dylan o Salman Rushdie. Sono felice e grato di essere loro contemporaneo.


Melancolia è composto di Tre storie – incorniciate da due evocativi racconti brevi – che affrontano alcuni grandi temi come la paura del cambiamento, la solitudine, l’amore con l’immaginazione del ragazzo e lo stile del grande scrittore. I tre racconti riguardano altrettante fasi: l’infanzia, perché “è nell’infanzia che ha inizio la melancolia, quel sentimento che ci accompagna per tutta la vita, quella sensazione che nessuno ci tiene più per mano”, l’età della ragione e l’adolescenza. Quando la madre esce per fare la spesa, un bambino di cinque anni è convinto che non tornerà. Marcel, invece, ha otto anni e vive in simbiosi con l’adorata sorellina Isabel, in un mondo in cui gli adulti sembrano non essere altro che presenze fugaci. Ivan di anni ne ha quindici e si sente l’uomo più solo dell’universo. In un armadio conserva le pelli che, di anno in anno, crescendo, ha dovuto cambiare. Quando incontra Dora e se ne innamora inizia a chiedersi se anche le donne, come gli uomini, cambiano pelle.

Mircea Cărtărescu  ha vinto molti premi, tra cui l’Internationaler Literaturpreis a Berlino (2012), lo Spycher in Svizzera (2013), il premio di Stato per la Letteratura europea conferito dalla Repubblica austriaca (2015), il premio Gregor von Rezzori  Città di Firenze (2016) e il Prix Formentor (2018). È stato inoltre più volte segnalato per il premio Nobel. In Italia Voland ha pubblicato i romanzi Travesti (2000), la monumentale trilogia di Abbacinante, consistente in L’ala sinistra (2007), Il corpo (2015) L’ala destra (2016); Perché amiamo le donne (2009) e Nostalgia (2012, vincitore del Premio Acerbi). Nel 2021 Il Saggiatore pubblica Solenoide, da molti considerato il suo capolavoro, mentre nel 2022 esce per La nave di Teseo Melancolia. Altrettanto importante, sebbene in Italia poco considerata, è la sua produzione in poesia, rappresentata in italiano da Il poema dell’acquaio, edito per Nottetempo nel 2015. La sua produzione finora tradotta in Italia è opera interamente del traduttore Bruno Mazzoni, professore ordinario dell’Università di Pisa.

“La costruzione di una città comune” – Intervista ad Agustín Fernández Mallo

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Federico Di Mauro.

Su Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus (Interno Poesia, 2023)

Copertina di Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus di Agustín Fernández Mallo

A giugno 2023 ho intervistato sul suo libro poetico d’esordio Agustín Fernández Mallo, uno dei più importanti scrittori contemporanei in lingua spagnola.

Yo regreso siempre a los pezones y al punto 7 del Tractatus è oggi disponibile allə lettorə italianə grazie ad Interno Poesia e al lavoro di ricerca della curatrice Lia Ogno, che ringrazio per avere reso possibile l’intervista e per il paziente lavoro di revisione.

Federico Di Mauro


D. Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus (Yo siempre regreso a los pezones y al punto 7 del Tractatus) è il suo libro d’esordio. Il libro, come ci informa Lia Ogno nella prefazione, risale al 2001 e viene pubblicato inizialmente a sue spese. Yo siempre regreso… mette in discussione molte delle convenzioni associate alla scrittura poetica, a partire dalla sua natura a metà strada tra narrativa, poesia e saggistica. Il libro è un canzoniere postmoderno composto da poesie in prosa, che si servono di una forma di versificazione molto particolare, costituita dall’interruzione della frase per via di incisi che si sovrappongono tra loro, creando una specie di movimento interno. Qual è stata l’accoglienza del libro in Spagna a quell’epoca? E come valuta questo libro a vent’anni di distanza?

R. Al tempo (2001) il libro ebbe un’eccellente ricezione, ma trattandosi di un’edizione indipendente la sua diffusione era limitata a piccoli circoli poetici spagnoli. Già allora i suoi lettori sostenevano che in quel libro vi fosse il germe di un nuovo modo di narrare e di far poesia rispetto a quelli noti. Solo anni dopo, quando fu ripubblicato da due case editrici importanti (Alfaguara e Seix Barral) fu possibile leggerlo in maniera più massiva, e la critica e il pubblico erano dello stesso parere. Da parte mia, posso solamente dire che io non scrivo ciò che voglio ma ciò che posso; io non potrei scrivere in un’altra forma, è la mia maniera di leggere e di scrivere il mondo, ed è chiaro che in quel libro di poesia erano già presenti molti dei punti chiave della mia letteratura successiva: la mescolanza di generi, l’unione senza pregiudizi estetici di alta e bassa cultura, un approccio a misticismi classici e contemporanei, la pubblicità di massa come materiale poetico, o l’inclusione delle scienze come metafora – non come argomento, non come trama. In breve, c’era già tutto ciò che ho poi continuato a fare in poesia, e che nei romanzi si è condensato in Nocilla dream e nella saggistica in Postpoesía (hacia un nuevo paradigma).

D. Se si trattasse di un romanzo, potremmo riassumerne così la trama del libro: dopo essere stato abbandonato dalla donna che amava, un uomo si rinchiude in una camera d’hotel di un’isola imprecisata, e osserva. L’uomo guarda con interesse e sospetto il mondo esterno, un paesaggio lunare alla De Chirico incomprensibile ed estraneo, osserva le fotografie in bianco e nero della donna, quasi una Milena kafkiana dai contorni di un’apparizione fantasmatica, oppure scruta dentro un’oscurità senza nome che si allarga sulla sua vita. Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus è un libro sulla solitudine, su quel che accade quando, esaurito l’eros, la vita diventa una perenne veglia, il legame amoroso un interminabile crepuscolo, l’amore una conversazione ininterrotta tra ombre. E tutto quel che resta da dire è quanto ammoniva Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen). La mia domanda riguarda l’isola come immagine della solitudine. Com’è lo spazio, com’è il tempo di questo libro? Qual è il tempo dell’assenza e dell’abbandono?

R. È curioso che dica questo, perché nel mio ultimo romanzo, El libro de todos los amores, affronto il tema della rottura amorosa come “l’interminabile crepuscolo” a cui Lei fa riferimento. L’idea che avevo 23 anni fa, quando scrissi Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus, e quella che ho oggi è essenzialmente la stessa e ha a che vedere con la costruzione di una città comune, come sempre avviene tra due amanti, e mi riferisco a una città simbolica, visibile unicamente da loro due. E mi sembra in sé già una specie di miracolo che nel mondo esista una cosa che possano vedere solo due persone, e nessun altro. Vale a dire, le coppie edificano delle vere e proprie città fatte di materia e affetti, costumi e riti unici e irripetibili; un linguaggio proprio. La peculiarità di questa città creata da entrambi – e credo che in ciò risieda l’originalità poetica e antropologica della mia idea – è che essa non si distrugge se la coppia si spezza, ma passi semplicemente a uno stato di città abbandonata, delle rovine che da qualche parte dovranno necessariamente seguire il proprio corso, la propria vita, ma in solitudine. Non sappiamo esattamente in che modo continui a mutare questa città, né che forma assumerà, quel che è certo, però, è che, per sempre scollegata dal mondo conosciuto, è una destinazione sentimentale che nessuno potrà più visitare. Neanche coloro che l’hanno costruita – gli ex-amanti – potranno più ripercorrerne le strade. Così questa città diventa, letteralmente, un luogo utopico, l’unico luogo realmente utopico, perché la sua disconnessione dalla realtà è tale e, allo stesso tempo, così violenta è la sua presenza, che nemmeno la politica reale – che come sappiamo ambisce a utopie ma finisce sempre per creare distopie – ha il coraggio di misurarcisi. Ed è allora che con questa città abbandonata possiamo cominciare a fare poesia, a immaginarla, a trasformarla, mediante la parola scritta, in “qualcos’altro”. Questa è un’idea che ho successivamente ripreso nel romanzo Nocilla lab, anche se l’ho declinata in maniera differente. In definitiva: lo spazio e il tempo del libro Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus è una sorta di amalgama di tutto questo, il che trasforma lo spazio e il tempo in una materia duttile, flessibile e complessa.

D. In Italia oggi il suo nome è collegato a Trilogia della guerra, pubblicato l’anno scorso dalla promettente casa editrice milanese Utopia, e che ha riscosso un enorme successo di pubblico e di critica. In quel suo libro abbiamo trovato uno degli esiti più riusciti di ricerca sulla forma romanzesca contemporanea. Lei è un autore eclettico, un instancabile sperimentatore di forme. È ancora interessato a esplorare i territori limitrofi di poesia e narrazione?

R. Quel che ho chiaro è che tutto ciò che scrivo è poesia, anche quando assume il formato di romanzo o di saggio. E dico questo perché, indipendentemente da quello che scrivo, parto sempre da metafore e da idee che sono poetiche al cento per cento. Quindi, naturalmente, sono ancora interessato a esplorare quei mondi ibridi, mondi collegati da reti di concetti e metafore. Per esempio, il volume che ho appena pubblicato El libro de todos los amores, partecipa di questa mescolanza, così come il mio trattato Teoría general de la basura (che in qualche modo contiene e supera Postpoesía) o il mio ultimo saggio La forma de la multitud. In tutte queste opere ci sono alte dosi di “pensiero poetico”, sempre nel tentativo di andare oltre il già consolidato, di fare passi estetici. Per me, ogni nuovo libro è un salto nel vuoto fatto con metafore, la metafora è un sistema di ricerca e di creazione del mondo. Il mondo non è là fuori ad aspettarci, il mondo si crea attraverso il linguaggio.

D. All’inizio del libro lei fa riferimento a quella frase di María Zambrano, secondo cui «ogni bellezza tende alla sfericità». Quest’opera per vocazione discontinua, che combina sistematicamente gli opposti (poesia e prosa, eros e riflessione metalinguistica) aspira a una forma di perfezione, di compiutezza, di bellezza nel caos. Questo ha a che vedere con la sua visione dell’universo che le deriva dalla sua formazione di fisico?R. Non saprei. Quel che so è che questo libro, più che aspirare alla perfezione aspira a una sorta di Realismo Complesso, che è il tentativo di narrare e di fare poesia con la nostra contemporaneità (cioè essere realista), e di farlo nel modo in cui oggi leggiamo e comprendiamo il contemporaneo, che non è altro che il pensiero complesso (attenzione!, non complicato; complesso e complicato sono due concetti molto differenti, in molti casi persino opposti). Ed è questo che credo abbia a che fare con la fisica, il modo di assumere in modo naturale una struttura dinamica della realtà, che io chiamo Realismo Complesso (si veda Teoría general de la basura), in cui gli oggetti e i sentimenti sono trattati in modo attivo, creatori di una realtà attuale e aperta, connessi in rete con centinaia di altre realtà simultanee. Non si tratta di una modalità nostalgica o romantica.

Fumo negli occhi

Racconto di Marco Parlato.

Ho una fascinazione per le case degli altri, mi basta stare sulla soglia per immaginare segreti nascosti in bella vista. Una finestra aperta, il pavimento profumato, la lavatrice in funzione, avviene sempre qualcosa di inconfessabile prima che una porta di casa venga aperta.

Così ho pensato sulle scale che portavano al primo piano. Dalla parete di vetromattoni sulla destra filtrava la sagoma di Martin Paredes. Sembrava stesse trafficando con i cuscini del divano. Giunto in cima alle scale l’ho trovato seduto con le mani sulle ginocchia.

Avrà pronunciato delle formalità rimaste inascoltate, perché mentre parlava mi sono accorto di non essermi portato dietro il coltello e allora il mio volto ha certamente rivelato le mie intenzioni. Sono momenti, questi, in cui crediamo alla telepatia, come quando sentiamo che il telefono sta per squillare, e squilla davvero. Questo mistero, per cui da uno sguardo Martin Paredes abbia capito, io non me lo spiego tuttora. Mi sono arrangiato con il trofeo che stava sulla scrivania. Sangue ovunque, le mie impronte, la macchina vista dai vicini, altre testimonianze, mi hanno preso subito.

Il commissariato puzza di muffa e di sudore, i visi dei poliziotti sono fieri, hanno il mento all’insù, perché il crimine fa marcire anche i palazzi e un buon poliziotto col marcio ci convive. Ma meglio lasciar stare le metafore, che in un commissariato sono pericolosissime.

Seduto e ammanettato nella stanza degli interrogatori, osservo il commissario Acuña avvicinarsi, sputarmi il fumo del cigarillo in faccia, non per sbeffeggiarmi, lo fa con chiunque, non distingue più il respiro dal fumo.

Vuole dirci cosa è successo?, mi chiede.

Il problema di un reo confesso è che tutti gli credono.

Ho difficoltà a organizzare una confessione, dovrei cominciare da ciò che conosco meglio: la mia fascinazione per le case degli altri, appena entrato in un appartamento immagino segreti nascosti in bella vista. Una scrivania ordinata, la cucina che profuma di limone, il letto rifatto e impeccabile. Cosa fa la gente, prima di aprirci la porta?

Così ho pensato sulle scale che portavano al primo piano. Attraverso la parete di vetromattoni sulla destra non vedevo Martin Paredes, ma sentivo il rumore dei bicchieri poggiati sulla scrivania. Giunto nello studio ho preso il whisky che mi ha offerto, abbiamo brindato.

Il sole che filtrava dalle finestre segava la stanza. Paredes mi ha fatto una domanda nell’ombra, ha aspettato la risposta nel fascio luminoso, poi è tornato nell’ombra con un passo all’indietro, la mano che si muoveva accanto al cassetto della scrivania… Ci credete che lo spionaggio aziendale esiste persino qui? L’imprenditoria provinciale è un pollaio di gallinacci spennacchiati, ma ho detto niente metafore, con le metafore un uomo si rovina. Meglio le faccende concrete, la bottiglia che si spacca sulla testa e poi il vetro che trapassa la gola di Martin Paredes; io che provo a cancellare le tracce, ma con un macello simile basterebbe un novellino per prendermi.

Infatti mi portano subito in commissariato, la stanza per gli interrogatori è la più puzzolente.

Insomma, vuole dirci che è successo?, chiede il commissario Acuña.

Mastica un bastoncino di liquirizia. Lo sanno tutti che non fuma più, i cigarillos fanno malissimo, ha detto il dottore, così dice la moglie. Ma tutti sanno che Acuña, quando risolve un caso, se ne va sul tetto del commissariato e si fuma un robusto. Sputa il fumo più in alto possibile perché vorrebbe riempirne il cielo, creare il proprio mondo grigio nel quale sarebbe l’unico a sapersi muovere.

Mi rendo conto che le parole si susseguono con poca efficacia, il racconto è incoerente, c’è davvero qualcuno che si fida dei rei confessi? Dovrei cominciare da ciò che sento davvero mio. Non c’è niente di più intimo di un delitto.

Confesso di avere una fascinazione per le case degli altri, mi basta stare in strada e osservare le facciate, le file di finestre attraverso le quali osservo teste, mezzibusti in movimento, dettagli dell’arredo e immagino i peggiori segreti appena sotto la linea del davanzale, segreti che vengono nascosti in bella vista non appena la porta dell’appartamento viene aperta. Segreti che stanno dietro la porta di villa Paredes. Mentre salgo le scale tocco la superficie liscia della parete di vetromattoni sulla destra e guardo la sagoma deforme di Martin Paredes al centro della stanza, nella mano ha un oggetto scuro, che cambia dimensione al mio scorrere da un mattone all’altro.

Abbasso il finestrino e accendo un cigarillo. L’aria è calda e immobile. Devo scacciare fuori il fumo che rimane nella macchina e mi pizzica gli occhi. Nel cielo il sole è ancora alto e non tutti i vicini sembrano essere partiti per le vacanze.

Un paio di ore, magari tre, poi suonerò al campanello di Martin Paredes, varcherò la porta e salirò le scale fino al suo studio, nel quale mi starà aspettando con una mano nella tasca, un sorriso imposto, un caffè dal sapore strano che mi pento già di avere bevuto.


Marco Parlato ha pubblicato romanzi e racconti. Nel 2015 è stato scelto come autore italiano per il progetto Scritture Giovani di Festivaletteratura di Mantova. I racconti più recenti sono apparsi sull’antologia Multiperso (pièdimosca edizioni), su Super Tramps Club e sul terzo numero di Quattro. foglio letterario (Nuova Editrice Berti). Vive e scrive a Foligno.

Crescita

Racconto di Caterina Iofrida.

Da qualche tempo passavo i miei pomeriggi in un bar che serviva la crema di caffè. Mi ero trasferita da poco, un mese appena, ed ero in cerca di punti di riferimento per costruirmi una routine. Era l’inizio dell’autunno ma faceva ancora caldo; in genere, ordinavo la crema subito e in seguito, a metà pomeriggio, un tè freddo. Andò così anche quel martedì, solo che il tè era finito e presi un bicchiere di vino bianco. Avevo appena bevuto il primo sorso quando avvertii un prurito alla mano. Era localizzato in un punto preciso, appena a destra della nocca del mio mignolo sinistro.

A prima vista, non c’erano punture di zanzara o screpolature in quel punto, né alcun segno di arrossamento. Mi grattai e decisi di provare a non pensarci, mi guardai attorno a lungo, poi bevvi un altro sorso. Il prurito però non si attenuava, anzi dopo il secondo sorso di vino si fece più intenso e persistente. Mi grattai di nuovo, portando via un po’ di pelle, e rimasi a fatica seduta a finire il mio vino, prima di precipitarmi casa a cercare una pomata lenitiva. Per allora, andava molto peggio, e pure con la pomata la situazione non migliorò.

Arrivò l’ora di cena e mi preparai una salsa di pomodoro, tagliai l’aglio a pezzetti, sminuzzai il peperoncino, non potendo fare a meno di interrompermi a intervalli regolari e grattarmi.

Dopo cena, guardai un film fino a metà, ma il prurito non mi permise di concentrarmi a sufficienza, così decisi di andare a dormire. Un’ora dopo, di addormentarsi non se ne parlava, così decisi di prendere qualche goccia del sedativo che conservavo per i momenti difficili. Riuscii a dormire sei ore di fila.

Sei mesi prima, nessuno avrebbe immaginato che di lì a poco mi sarei trasferita lontano dalla mia città natale. Non l’avevo mai lasciata per più di una ventina di giorni, e un certo numero di fatti pratici – una casa di proprietà, tre gatti, un marito – stavano là a indicare una certa propensione alla stabilità, che del resto io stessa non mi sarei sognata di negare. Apparentemente, la mia routine quotidiana era rimasta identica da una quindicina di anni, ma nell’ultimo periodo erano cominciate a succedere cose.

Una di queste era stata la sparizione del pettine: lo riponevo sempre nel primo cassetto del mobiletto del bagno, eppure una mattina non ce lo trovai, e da allora non ricomparve mai più. Avevo cominciato allora a servirmi di una vecchia spazzola, ma, usando quella, i miei capelli non assumevano lo stesso aspetto di prima, rimanevano più gonfi; inoltre, una volta terminato di pettinarmi, impiegavo qualche minuto in più a liberarla dei miei capelli rimasti impigliati. Sul momento, tuttavia, non avevo dato peso alla faccenda.

Il risveglio fu sgradevole: il prurito era fortissimo, e nel grattarmi sotto le coperte, ancora mezza addormentata, sentii qualcosa di diverso dal solito. Mi ripromisi di controllare una volta che fossi stata più presente a me stessa, quindi andai a lavarmi la faccia e misi la moka sul fuoco. Osservai con attenzione il quadratino di pelle tra la nocca del mignolo e quella dell’anulare e notai che ora c’era un piccolo bozzo, come un rigonfiamento.

Andai al lavoro e trascorsi l’intera mattinata in ufficio sforzandomi di non grattarmi troppo spesso e di concentrarmi, ma non andò molto bene. Il prurito aumentava e pure il rigonfiamento, dopo qualche ora, mi sembrava cresciuto. Mi chiedevo se fosse davvero così o se, invece, mi stessi suggestionando per il fastidio profondo che provavo. Di sicuro, ero spaventata. Cercai su Google il recapito di un dermatologo in città e presi un appuntamento, ma non avrei potuto vederlo prima di due settimane. Nel tardo pomeriggio ero molto nervosa e preoccupata, e al prurito si era aggiunto un leggero dolore nello stesso punto. Tornai a casa e, senza mangiare, presi direttamente il sedativo, in una dose doppia rispetto alla sera precedente.

Il mattino dopo non sentii la sveglia e aprii gli occhi a fatica solo intorno alle dieci e trenta, intorpidita e con una gran confusione in testa. Capii subito che c’era qualcosa di diverso: il prurito era sparito, e così il dolore. Non avvertivo più nulla. Sdraiata a pancia in su, estrassi la mano sinistra dalle coperte e me la portai davanti agli occhi. Non c’era traccia di arrossamenti o bozzi. Cominciavo a tirare un cauto sospiro di sollievo, eppure c’era ancora qualcosa. Ma cosa? Continuai a fissare la mia mano per qualche secondo, sbattendo le palpebre. Tra mignolo e anulare non c’era più il bozzo, ma qualcosa c’era: un dito.

Dopo il pettine, era stata la volta dei calici da vino. Non erano scomparsi tutti assieme, certo; della prima sparizione mi ero accorta soltanto per caso, e chi sa dopo quanto tempo: non li utilizzavo praticamente mai tutti e otto assieme. La sparizione del secondo calice era stata un inconveniente da poco, ma quando venne a mancare anche il terzo mi trovavo nel bel mezzo di una cena con altre due coppie, che nemmeno conoscevo bene, e non mi aveva fatto piacere bere vino da un bicchiere da acqua. Quando, alla fine, ne era rimasto uno solo, avevamo finito per non adoperarlo più, e l’assenza di calici, anche se sulle prime non ci avevamo fatto caso, aveva modificato l’atmosfera delle nostre cene. Non che non bevessimo più vino, ma non rimanevamo più a sorseggiarlo con calma parlando a lungo, tra una portata e l’altra o una volta terminato di mangiare.

In seguito Alberto, mio marito, un avvocato, aveva cominciato ad alzarsi spesso da tavola per andare a controllare il cellulare di lavoro nello studio, e io avevo preso a guardare serie tv dopo cena, con il mio portatile appoggiato sul tavolo di cucina e gli auricolari nelle orecchie. Avevo cominciato con una sola puntata alla volta, poi ero arrivata anche a tre o quattro di fila, per cui raggiungevo Alberto a letto molto tardi, quando lui già dormiva. Dopo le prime volte, lui non mi aveva più chiesto di che serie si trattasse, e pian piano avevamo smesso completamente di farci domande a vicenda.

Grassottello e più corto del mignolo, ma comunque dotato di tre falangi, il sesto dito della mia mano sinistra appariva turgido e aveva la pelle molto più morbida e liscia di quella che ricopriva il resto del mio corpo; era nuovo. Lo esaminai con curiosità, piegandolo, stendendolo, muovendolo a destra e a sinistra, avanti e indietro. A quanto pareva, non aveva nulla da invidiare alle altre dita: funzionava a meraviglia.

Il giorno della scoperta non andai più al lavoro: si era fatto tardi, e poi avevo troppe cose per la testa: se farmi fare dei guanti su misura e da chi, se mascherare il dito agli occhi degli altri e come – arrivata a sera, decisi di non farlo – e pure a come lo avrei usato. Non mi venne in mente nessun impiego preciso, eppure mi sentivo in qualche modo certa della sua utilità. Non avevo fretta di capire, comunque.

Dopo cena, mi versai del vino rosso nel calice che avevo comprato qualche giorno prima – uno solo, tanto per cominciare, per me – e andai a prendere lo smalto. Bevvi un sorso di vino, poi lentamente, con grande cura, tinsi di rosso acceso la piccola unghia del mio nuovo dito. Nella penombra della cucina, brillava come sangue vivo.


Caterina Iofrida è nata a Pisa il 16 gennaio del 1981, è una nottambula che di giorno fa la biologa e la notte scrive. Oltre alla lettura ama molto il cinema, coltiva entrambi come passione e non ha mai voluto studiarli, per non rovinarsi il gusto. È convinta che nulla sia stato mai scritto bene quanto le sceneggiature delle commedie di Lubitsch, tranne forse le serie tv di Amy Sherman-Palladino, ma sa che si tratta di un’affermazione contestabile. Scrive regolarmente solo da quattro anni e talvolta si chiede perché non abbia cominciato prima, ma soprattutto non ha più intenzione di smettere, perché la faccenda la diverte troppo. Suoi racconti sono usciti su riviste online e blog letterari come Malgrado le moscheNazione IndianaKairosQuaerereIn fuga dalla bocciofilaMicorrizeVoce del verboIl mondo o niente, sulla rivista cartacea Seconda Cronaca (Cupressus Editore) e in due antologie, Fiabe storte (Edizioni Il Foglio, 2017) e In virus veritas (MdS Editore, 2020).