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Lingue di fuoco e nuovi glossari: tre poesie di Seán Hewitt

Introduzione e traduzioni a cura di Andrea Bergantino, vincitore della prima Call for Translators per l’inglese.

Seán Hewitt, nato nel 1990, è critico letterario e insegna letteratura inglese e irlandese al Trinity College di Dublino. La sua prima raccolta integrale di poesie, Tongues of Fire, è stata pubblicata nel 2020 e ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Laurel Prize. La poesia di Seán Hewitt si sviluppa intorno a una costellazione di temi ricorrenti, diversi ma interconnessi attraverso i versi, tra cui il rapporto con le proprie origini, l’immersione nella natura, ricordi ed esperienze di vita quotidiana, nonché rielaborazioni di miti irlandesi, come quello dell’esilio di Suibhne. Oltre al rapporto con la natura e al dialogo con la propria storia personale, i versi di Hewitt contengono anche eco religiose e riferimenti alla sfera della sessualità, un tema, quest’ultimo, che si ritrova anche nel memoir All Down Darkness Wide, che esplora l’identità queer dello scrittore.

Delle tre poesie proposte di seguito in traduzione, accompagnate dall’originale, due sono tratte da Tongues of Fire, “Evening Poem” e “Oak Glossary”, mentre “Ancestry” è stata pubblicata su Poetry nel 2013. “Ancestry/Discendenza” e “Evening Poem/Poesia della sera” condividono la rievocazione di eventi e scene passati, che al tempo stesso è l’esplorazione di legami familiari, della propria storia personale. Partendo da stimoli quotidiani quali profumi e piccole azioni, questi componimenti evocano relazioni più profonde tra genitori e figli, vecchie e nuove generazioni. Tali connessioni non mancano in “Oak Glossary/Glossario delle querce”, dove l’albero si sostituisce all’uomo e al suo linguaggio, pur condividendo con lui vibrazioni e legami non sempre visibili in superficie. Questi versi di Seán Hewitt scavano per riportare alla luce rapporti e dinamiche naturali tramite allusioni poetiche: lasciano intendere, suonano familiari, ma non disvelano parole e verità ultime.


da poetry (2013)

Ancestry

The damp had got its grip years ago
but gone unnoticed. The heads of the joists feathered slowly in the cavity wall
and the room’s wet belly had begun to bow.

Once we’d ripped the boards up, it all came out: the smell, at first, then the crumbling wood gone to seed, all its muscles wasted.
You pottered back and to with tea, soda bread,

eighty years shaking on a plastic tray.
One by one we looked up, nodded, then slipped under the floor. We moved down there like fish in moonlight, or divers round an old ship.

Discendenza

L’umidità aveva stretto la sua presa anni prima, inosservata. Le estremità dei travetti
si erano sbriciolate nell’intercapedine
e il ventre bagnato della stanza si stava curvando.

Una volta rotti i pannelli, venne tutto fuori: l’odore, all’inizio, poi il legno vecchio ormai marcio, le fibre disfatte.
Tu andavi e venivi portando tè e pane,

ottant’anni che tremano su un vassoio di plastica.
Uno a uno abbiamo alzato lo sguardo e annuito, poi ci siamo infilati sotto il pavimento. Ci siamo mossi lì sotto come pesci
che nuotano intorno a una vecchia barca, alla luce della luna.

da tongues of fire (2020)

Evening Poem

What a world of apparitions: stifled warmth of the greenhouse, scent of tomatoes, my mother and I working closely

to shimmy the pots loose. Split sack of soil on the bench, glow
of a tealight in the jar,

and not a word between us. It is hard to tell where heaven starts, and where it ends:
me, a foot taller, standing

where her father stood,
and outside, look: the dove, like a paper lantern, is bobbing in the apple-blossom.

Poesia della sera

È un mondo di apparizioni:
il calore compresso della serra,
il profumo dei pomodori, mia madre e io che lavoriamo vicini

scuotendo i vasi.
Sacchi di terreno tagliati sulla panca, il bagliore
di una candela nel vetro,

e non una parola tra noi. È difficile dire dove il cielo comincia e dove finisce: me ne sto, solo più alto,

dove stava suo padre,
e fuori, guarda: una colomba,
come una lanterna di carta, dondola tra i fiori del melo.

Oak Glossary

In the language of the oak, sky is made by shivering the leaves to produce a hushing sound.
In winter, of course, sky is silent.

God is felt in the phloem and xylem as a deep echo of water – a low noise that must be observed by placing
an ear to the bark. For oaks, chanting

(which is akin to song) is produced via rhythms of air brought in and out of the branches in slow succession. On still days, song is not possible.

The familiar words, such as child, man, woman, are unknown, having fallen quiet from disuse. In oak, essential nouns include soil,

water and time – these are produced from their element. Water is a high and gentle noise of clearest quality which results from branches dripping.

For soil, or earth, a fastening of the roots can be felt as a low tension underfoot. Time, on the other hand, is more visual than aural, and is distinguished into

its linear and circular conceptions. As is well-known, circular time
in oak is communicated
most vividly at the site of a knot

or where the core has been exposed. The linear variety is felt only
on occasion. For this, sap is produced and is made to run from the body.

Glossario delle querce

Nella lingua delle querce, cielo
si fa scuotendo le foglie
per produrre un suono sommesso.
In inverno, naturalmente, cielo non si pronuncia.

Dio si sente in floema e xilema
come un’eco d’acqua profonda – un rumore basso da osservare poggiando
l’orecchio alla corteccia. Per le querce, cantare

(che è simile a canzone) si produce
tramite ritmi d’aria portata dentro e fuori dai rami in lenta successione.
Nei giorni di quiete, canzone non si può dire.

Le parole familiari come bambino, uomo, donna sono sconosciute, cadute in disuso. Per le querce
sostantivi essenziali includono suolo,

acqua e tempo – queste sono prodotte dai loro elementi. Acqua è un rumore alto e gentile di qualità chiarissima
che proviene dai rami grondanti.

Per suolo, o terra, si possono sentire
le radici allacciarsi, una tensione sotto i piedi. Tempo, invece, è più visivo
che uditivo, e si distingue nelle

sue concezioni lineari e circolari.
Com’è noto, il tempo circolare
tra le querce si comunica
nel più vivido dei modi nel punto di un nodo

o dove la parte centrale è esposta.
La varietà lineare si sente solo occasionalmente. Per questa si produce la linfa e la si fa scorrere dal corpo.

Copertina di Tongues of Fire di Seán Hewitt

Su “Autoritratto con sciame d’api” di Jan Wagner

Nota di lettura a cura di Beatrice Magoga.

Dopo la pubblicazione integrale di Variazioni sul barile dell’acqua piovana (Regentonnenvariationen, 2014), Jan Wagner torna in Italia con Autoritratto con sciame d’api, un’antologia interamente dedicata alla sua opera, dall’esordio di Prove di trivellazione in cielo (Probebohrung im Himmel, 2001) alla più recente Il live butterfly show (Die live butterfly show, 2018). Il progetto Bompiani, curato da Federico Italiano, prende le mosse dall’edizione originale tedesca del 2016, aggiungendovi una serie di più o meno rilevanti modifiche, comunque concordate da autore e curatore assieme.

Se anche un’antologia offre, per sua costituzione, una lettura “frustrata” dalla mancanza dei testi esclusi, quello che in un certo senso si guadagna è una comprensione agile ed estesa dei movimentidelle posture e delle attitudini del poeta. Nel caso di Jan Wagner, il profilo autoriale è almeno doppio. Si seguono, da un lato, gli spostamenti di un poeta-viaggiatore o poeta-turista che gravita attorno a oggetti noti, a piante e animali esotici o locali («bustina di té, carpe, pomodori, agurkai, tucano»), che retrocede al passato per dare voce a eventi e personaggi della storia («il passero di Guericke, saint-just, colombo»), e che si muove di luogo in luogo per annotare «il muto linguaggio delle cose» (p. 69), «la scrittura / dell’alga» (p. 71) (ricordando «las vegas, ecloga di eberhardzell, australia»). Dall’altro, il gusto è decisamente quello di un cultore dell’arte culinaria.

Con buona disinvoltura, Jan Wagner si cimenta nel ricercare una sempre nuova “farcitura” per le forme ormai canonizzate della tradizione (ci si imbatte facilmente in sonetti, sestine, haiku, terzine in rima dantesca), prendendo come punto di partenza l’occasione di poesia offertagli dal ricordo, dal vissuto personale e collettivo, da un dettaglio qualsiasi del circostante. Il risultato per ogni singola lirica sarà allora qualcosa di non molto diverso dalle «diciotto sfogliate ripiene» (catena di componimenti dedicati a diciotto tipi di sfoglia) che ci vengono servite come prova di «immaginazione e giudizio» (p. 129) del cuoco virtuoso.

Alla varietà degli argomenti, alla grande cura formale e musicale del testo, si accompagna un tono carezzevole, elegante, a tratti ironico, che governa con estrema grazia metafore e associazioni di pensiero, senza mai azzardare attacchi sarcastici né compiacersi di minuziose e indelicate descrizioni dell’orrido, anche quando il soggetto ritratto è la carcassa di un animale («geco») o la bottega di un macellaio («macellaio»).

Il lirismo di Wagner, con una coerenza tale da essersi mantenuto pressoché invariato negli anni, si presta, quindi, a una lettura indubbiamente piacevole e “gustosa” per quella vena barocca che lo contraddistingue, e insieme invita, come suggerisce Italiano, «ad aguzzare la vista, a sentire di più» (p. 335). Eppure, per alcuni – e il dibattito animatosi in Germania lo fa intuire – potrebbe non essere sufficiente.

La glorificazione del dettaglio, l’impressione di rifuggire l’attualità per ritirarsi nel privato e nella perfezione della forma hanno esposto Wagner alle critiche di chi vede nella sua poesia il ritorno a un “escapismo Biedermeier” accomodante, decorativo, che abbellisce la realtà e si rifiuta di opporre resistenza al già dato e al già scritto. La questione è tutta politica: c’è da generare un urto (intenzionale e forse addirittura violento) tra lingua, mondo e pensiero, o da dare voce a un sentimento più mite e rischiosamente “reazionario” dei luoghi e del tempo? È pure possibile che la poesia se ne infischi dell’uno e dell’altro, e chieda solo di esistere.


da achtzehn pasteten (diciotto sfogliate ripiene)
18
(quittenpastete)

wenn sie der oktober ins astwerk hängte,
ausgebeulte lampions, war es zeit: wir
pflückten quitten, wuchteten körbeweise     
       gelb in die küche

unters wasser. apfel und birne reiften
ihrem namen zu, einer schlichten süße –
anders als die quitte an ihrem baum im
       hintersten winkel

meines alphabets, im latein des gartens,
hart und fremd in ihrem arom. wir schnitten,
viertelten, entkernten das fleisch (vier große
       hände, zwei kleine),

schemenhaft im dampf des entsafters, gaben
zucker, hitze, mühe zu etwas, das sich
roh dem mund versagte. wer konnte, wollte
       quitten begreifen,

ihr gelee, in bauchigen gläsern für die
dunklen tage in den regalen aufge-
reiht, in einem keller von tagen, wo sie
       leuchteten, leuchten

18
(torta di mele cotogne)

quando l’ottobre le appese tra i rami,
protendenti lampioni, fu tempo: noi a raccogliere
mele cotogne, che a ceste montavano
       in cucina, gialle,

sotto l’acqua. mele e pere maturavano,
onorando i loro nomi, verso una dolcezza
semplice – al contrario della cotogna sull’albero
       nel più remoto angolo

del mio alfabeto, nel latino del giardino,
dura e strana nel suo aroma. tagliammo,
squartammo, snocciolammo la carne (quattro mani
       grandi e due piccole),

indistinti nel vapore della centrifuga, demmo
zucchero, calore, olio di gomito per qualcosa che
crudo in bocca falliva. chi poteva, voleva comprendere
       le mele cotogne,

la loro gelatina, in bulbosi vasetti di vetro
allineati sugli scaffali per i giorni bui,
in uno scantinato di giorni, dove loro
       splendevano, splendono.

Su “Nove” di Agostino Bertani

Nota di lettura a cura di Adriano Giuffrè.

Nove (2021) di Agostino Bertani non è un libro che verrebbe pubblicato a puntate su Oggi – anche perché è lungo solo 63 pagine –, ma potrebbe benissimo essere pubblicato da TIC, cosa che infatti è successa. Se fossi stato nella redazione, comunque, io probabilmente mi sarei opposto. E siccome è più comune che ti vengano a chiedere conto e ragione di un giudizio negativo piuttosto che di uno positivo, ho deciso di trasformare in una nota critica quella che sarebbe dovuta essere un’amichevole recensione. E quindi via col linguaggio accademico e con la posa da critico severo ma oggettivo.

La cifra stilistica, la presenza di temi tipici e il generale approccio speculativo e un po’ cerebrale di Nove rendono la vita del recensore molto facile quando si tratta di rintracciare le sue influenze letterarie. Del resto lo stesso Bertani, in un’intervista di presentazione del libro, le individua soprattutto in due autori, Samuel Beckett e Thomas Bernhard. Rispetto a loro, l’andamento della prosa si distingue per un’ulteriore contrazione della diegesi a favore della mimesi, per la sintassi essenziale e per il lessico ridottissimo e prevedibile, al limite del banale. Questa sorta di ascetismo formale si rifrange sulla superficie testuale attraverso una slegatura quasi totale degli episodi in cui si muovono, o piuttosto parlano, i personaggi, alla cui permanenza è esclusivamente affidata la coesione del libro.

Il minimalismo di Bertani non risparmia né il luogo dell’azione: non c’è modo di scoprire se si tratti di una stanza, o magari di un palcoscenico, né i personaggi stessi. Infatti, se ne incontrano solo tre (fatta eccezione per gli hapax di Casimiro e dell’ispettore Cavallo): AlfredAlbert e Manfred. Presentati insieme fin dalla prima pagina, l’assonanza dei nomi suggerisce una loro parziale sovrapponibilità, come se formassero una specie di assurda trinità. D’altra parte, come i nomi propri sembrano avvicinare i loro portatori fino a farli collassare l’uno nell’altro, così il senso sfuggente delle parole che usano li rende vicendevolmente estranei. Come già si indovina, per quanto la struttura franta del libro permetta l’emersione di tematiche correlate o eccentriche, il perno di Nove è il linguaggio, la sua funzione comunicativa e il suo rapporto con il reale.

Ma l’andatura erratica del testo rende molto complesso suggerire un quadro d’insieme senza rischiare approssimazioni troppo grossolane. Perciò, chiedo alla lettrice la pazienza di sopportare la close reading di una pagina (la numero 44) che veicola in nuce il senso generale del libro.

Parla Alfred, che narra la storia della parola a partire dal suo arrivo sulla terra. La proiezione del racconto «all’inizio dei tempi», che a orecchie occidentali evoca l’attacco del Genesi (In principio creavit Deus..), prepara a una narrazione eziologica o teogonica, con quanto di stilizzato, ma anche di assertivo, le è consono. E dal versante retorico le aspettative vengono tutto sommato rispettate, specialmente se si guarda al modello biblico, nella sintassi per lo più paratattica e nella ripetizione a breve distanza, che schiva l’uso di sinonimi e pronomi, di parole-chiave di elementare semplicità (in ordine di frequenza: parola, parole, terra, pace). Ma lo spirito intimo di questo modello narrativo non è tradito, è irriso. Non si fa in tempo a definire il proprio orizzonte d’attesa che tocca ristrutturarlo, già a partire dall’incipit, dove al riferimento biblico si aggiunge l’inciso «che non è mai l’inizio vero dei tempi». L’innesto contraddittorio compromette la credibilità di un racconto che si presentava come veridico, dal momento che svela un misterioso abisso temporale precedente alla durata, che si sospetta irrilevante, su cui la parola esercita la propria autorità. Quell’obbligo di rispetto reverenziale che la forma dell’attacco pareva rivendicare, perciò, viene irreparabilmente meno. 

Ma di seguito, Alfred ci informa che «la parola ha piantato la sua tenda sulla terra» e che «questa parola è una pianta che ha messo le radici nella terra». Non è necessario conoscere il signor Saussure o il signor Lacan per riconoscere in quest’immagine un’idea sostanzialmente referenzialista del linguaggio, per esempio del tipo esposto nelle Confessioni (poi giustamente ma cordialmente criticato dal Wittgenstein delle Ricerche), secondo cui in buona sostanza non c’è frattura tra parola e realtà. Ponendo nuovamente al centro la pienezza del linguaggio, come già visto con l’incipit mitico, Bertani compie quindi per la seconda volta una brusca inversione di rotta.

Ma il testo continua ad evolversi in maniera inaspettata con la seconda metamorfosi. Da pianta che era, la parola prende la forma di un animale. Dopo aver messo le ali e aver spiccato il volo, la bestia inizia a generare dalla bocca una prole di nuove parole (ma Bertani scrive figli, dimenticando che parole è femminile), che a loro volta ne generano altre. Questo nugolo linguistico si abbatte sull’umanità, schiacciandola a terra. La terra sembra avere qui un significato antitetico rispetto alla prima occorrenza. Dove infatti si trattava di una aderenza di parola e natura, si insedia un immaginario vagamente neoplatonico, il cui fulcro è il binarismo unità/molteplicità, e i cui termini corrispondono, rispettivamente, alle coordinate cielo/terra sull’asse verticale, a quelle positività/negatività su quello assiologico. Questo comporta da una parte la collocazione della parola, a questo punto una specie di ibrido tra Logos e Uno plotiniano, dentro un orizzonte trascendente in cui funge da matrice inattingibile; dall’altra il riconoscimento della condizione di assoggettamento e prostrazione dell’umanità, incapace di far fronte all’esplosione terrena del linguaggio.

Fino a questo punto la pagina sviluppa il conflitto tra decostruzione e ricomposizione del rapporto lingua-mondo. Ma la chiusa del brano inaugura un contrasto diverso. Alcuni, continua Alfred, trovano riparo all’interno della tenda lasciata vuota e silenziosa dalla parola. Ma questo precario rifugio può offrire soltanto un sollievo incerto, «perché nasce sempre sotto la tenda della parola». Vale a dire, al netto delle tautologie care alla prosa di Bertani, che si tratta di un silenzio che inevitabilmente evoca la parola come suo polo dialettico.

Ora, questa coppia di relazioni, quella cioè di lingua piena e lingua vuota da una parte, e di lingua-tormento e silenzio-pace dall’altra, rappresenta le due direttrici principali del libro. Ed è solo dopo averle riconosciute che si fanno più accoglienti alcuni passi altrimenti impervi. Tra questi, il desolante incipit è un buon esempio della prima:

Quando esce Alfred entra Albert, ma non Manfred.
Quando esce Albert, entra Manfred, ma non Alfred.

completato a distanza di una pagina da una terza proposizione che chiude la triade di personaggi:

Quando esce Manfred, entra Alfred, ma non Albert.

e da una quarta, nella pagina ancora seguente, di carattere generale:

Alfred, Albert e Manfred non s’incontrano mai tutti insieme.

Ciò che si deduce da questi assiomi è una sequenza di coppie fisse che parte da Alfred-Albert (per decisione arbitraria dell’autore), continua con Albert-Manfred e termina con Manfred-Alfred, per poi ricominciare. Sembrerebbe dunque che questo sistema triadico di implicazioni debba governare il ritmo delle interazioni tra i personaggi. Senonché a pagina 11 «Esce Albert, entra Alfred»; a pagina 13 «Esce Manfred, entra Albert»; a pagina 19 «esce Manfred, esce Albert» ed «entra Alfred» e così via: la dura lex imposta all’inizio rivela subito la sua impotenza. Alla luce del racconto della parola, dunque, la strategia di Bertani si rivela sempre la stessa, quella di convocare un codice carismatico per smantellarne le pretese di verità.

La seconda direttrice è efficacemente esemplificata da wuammolWuammol è una parola pronunciata da una voce ignota che esce da un registratore, oggetto di misteriosa origine su cui si incardinano alcune delle pagine più ispirate degli ultimi capitoli. La voce lo presenta come «l’unica cosa che mi sento di dire» (58), sebbene per sua stessa ammissione non significhi niente, come non significano niente tutte le altre parole: «se non ci fosse la parola albero, pensi che non esisterebbero gli alberi?» (58). Wuammol è però l’unica parola disposta a sacrificare la propria referenzialità per mostrare in bella vista la piaga del non-senso. Ed è per questo che può cavalcare i venti, salire sulle montagne, fare il giro del mondo e avventurarsi nell’esplorazione intergalattica (59). È insomma nel momento in cui rinuncia alla pretesa di essere una parola e lambisce il confine del silenzio, quando diviene pura enunciazione, che la parola acquisisce una corporalità che le permette di esplorare il mondo. Perciò, Wuammol si colloca nella crepa tra lingua e silenzio, assumendo le caratteristiche di un’entità di confine che permette di evadere la gettatezza nel simbolico (Heidegger), riabbracciare il naturale e conquistare il piacere perduto. Ma coerentemente con l’allegoria della tenda, Wuammol si rivela un tentativo fallimentare, e la gioia promessa dal silenzio un obiettivo inarrivabile. Finito il nastro, Alfred fracassa il registratore nel tentativo di distruggere le parole, ma Albert gli si oppone, lo colpisce, lo lega e inaugura il delirante monologo finale, che lascio alla curiosità delle lettrici.

Questo è quanto ha da dire Nove: i problemi del senso del linguaggio e dell’angoscia di chi lo abita non ricevono risposta. E dopotutto noi lettrici e lettori smaliziate un po’ ce lo aspettavamo. Ma mi dispiace che Bertani si sia infilato in questo discorso novecentesco già stanco da morire, prevedibile e, almeno per me che ci ho dovuto scrivere sopra, pure un po’ noioso. Perché alla fine della lettura sono rimasto con l’impressione che Nove sarebbe potuto essere un libro molto diverso. Di tanto in tanto, infatti, fa capolino un’ispirazione lirica, completamente incoerente col resto, che apre dei veri spazi di autenticità. E manco a dirlo, quando capita c’è di mezzo l’amore (sempre in versione pessimismo cosmico eh, non sia mai che ci si conceda cinquanta centesimi di gioia):

[…] ci siamo conosciuti all’Osteria dell’Angolo, lei stava bevendo un bicchiere di vino rosso, mi sono seduto e le ho chiesto se voleva mangiare con me, lei mi ha detto, voglio fare l’amore, io sono stato zitto, il cuore mi batteva forte, mi sono alzato e sono uscito dall’osteria, ho cercato dentro di me una stanza da letto e non l’ho trovata, sono rientrato e seduto al tavolo di fronte a lei c’era un uomo altissimo, quando ho provato ad avvicinarmi, lui senza voltarsi ha allungato il braccio che sembrava infinito e con la mano mi ha fatto segno di fermarmi, io mi sono bloccato, e così si è fermato anche l’amore, io sono innamorato, ma l’amore non c’è, è volato via con le sue ali nere e nessuno può sapere dove sia finito. Alfred dice, nessuno lo sa.

Nessun paesaggio si riflette: due poesie di Arai Takako

Introduzione e traduzioni dal giapponese a cura di Edoardo Occhionero.

È il marzo 2011 quando, a pochi giorni di distanza dal terribile terremoto che ha scosso la terra del Tōhoku, si verifica il meltdown del terzo reattore della centrale Daiichi di Fukushima. Di fronte alla catastrofe non ha tardato nemmeno la risposta della poesia (perché, in fondo, la letteratura nasce anche in simili circostanze: basti pensare alla testimonianza in versi sulla bomba atomica da parte di Kurihara Sadako, o a quella di Ishimure Michiko sul disastro chimico di Minamata del 1956).  

In simili tentativi di documentazione della realtà, rientra anche Letti e telai (2013) di Arai Takako che, protesa con uno sguardo sconcertato sui resti di una terra devastata, si domanda che cosa valga la pena recuperare, talvolta trasformando il sarcasmo in una caustica critica verso coloro che detengono le responsabilità dell’incidente. Così la scarpa spaiata di katahō no kutsu diventa metonimia di migliaia di cadaveri trascinati a riva dalla corrente, e in Galapagos il paesaggio spettrale e tossico della centrale nucleare si contrappone all’eden terrestre rappresentato dall’arcipelago equadoregno del titolo.

Poche voci all’interno del panorama della poesia giapponese si distinguono per la loro esplicita posizione di impegno civile e di anticonformismo. Tra queste c’è quella di Arai che presenta un Giappone diverso da quello dei ciliegi in fiore o delle rane che saltano nei vecchi stagni. È un Giappone che si preoccupa più dello “tsunami di recessione” che della salvaguardia dei propri cittadini, è il Giappone del kaso (esodo dalla campagna) e dello shōshi (calo della natalità).

Lo smascheramento della nazione idilliaca avviene attraverso un uso plastico e a volte sperimentale della lingua giapponese. Itō Hiromi al riguardo scrive: “[…] non conosco nessun’altra donna che ha avuto così successo nel trovare una lingua indigena [土着的なことば], affilandola con precisione chirurgica, e usandola per parlare con una voce così vivida”. Arai infatti torce il verso fino al massimo livello di espressività (si vedano, per esempio, l’associazione “nerume/Uniqlume” e le numerose rime in –bō). È poi consuetudine imbattersi in frammenti dialogici, in inflessioni dialettali e in tecnicismi del linguaggio settoriale, con l’intenzione di amplificare il raggio di azione della poesia. Un altro strumento di riverberazione – impareggiabile – è l’adozione e la coniazione di omofoni/omografi (come la coppia 中性子 e 中精子 (chūseishi) in cui il primo designerebbe sia il neutrone sia la persona intersex mentre il secondo rappresenterebbe un hapax, in quanto è attestata unicamente la forma 精子, “spermatozoo”).


Arai Takako (新井高子,1966 –), originaria della prefettura di Gunma (più precisamente della città di Kiryū, famosa per la produzione di stoffe), attualmente abita a Yokohama ed è professoressa associata dell’Università di Saitama dove insegna lingua giapponese agli studenti internazionali. Tra le sue opere si menzionano Haō bekki (“Vita separata del sovrano”, 1997),  Tamashii dansu (“La danza dell’anima”, 2007) – per cui è stata insignita del Premio Oguma Hideo –, e Betto to shokki (“Letti e telai”, 2013). Nelle sue raccolte poetiche non mancano i riferimenti autobiografici all’infanzia trascorsa nella fabbrica di tessuti del padre, e in particolare alla condizione di vita e al lavoro delle donne. Per anni, dall’inizio delle politiche di modernizzazione post-bellica, l’occupazione nell’attività tessile è stata di esclusivo dominio femminile, fino all’esternalizzazione in paesi in via di sviluppo avvenuta verso la fine del secolo scorso. I versi di Arai ripercorrono quindi il declino del paesaggio industriale, si affacciano sulle numerose mani che hanno continuato a compiere i gesti consueti anche dopo la chiusura della fabbrica. Perché questa ha forgiato le loro vite.


Da Letti e telai (2013)

片方の靴

紅いひなげしが咲いていました
浜辺に、
片方だけ、皮靴が打ち上げられておりました
縛ったままの靴ひもでした
.
花びらのあさつゆを
ひなげしが 身をしならして垂らしたら
息づきます、かすかに、
精いっぱい振りこぼしたら
あけようとする、
目ぶたを
泥靴が、
.
古井戸のように深い目に、
おそらく
景色は映っていない
記憶さえ
ぐっしょり濡れて、
ひなげしは さすってみるほかありません
葉を伸ばし
胸のような靴の甲を、
 ––––– 砕くことはできないよ、波も 
    流せない
    すりへった踵と
    皺が、
    たぐり寄せるのです、
   はぐれたひとの眼ざしを
 浜辺まで、
ひなげしが覗きこめば
いっそう透きとおり、
井戸の底に
小魚の背びれのような、火が、
.
  ––––– 消せないさ
     存在のおくの、正直なほそい光は
     海もまた、
     巨きな瞳だから、
.
    あのとき
   うるんで疾走しながら、
  怒濤しながら
 どんな光を放ったか
沖へ、
飲まれていく、もう片方は
.
   ––––– かこうとする、ひと輪の
      蒼い火を、
      見たでしょうか
      いわしの群れの目が、
.
また揺れてるね
いいえ、
.
風だよ
裸のひなげしが立っていました
花びらを、
井戸に降らして
.
へその緒なのです
靴ひもの
その先は、
つかもうとする瞳の底まで
.
這って、

La scarpa spaiata

Il papavero rosso è in fiore,
Sulla riva,
Spaiata, solo una scarpa di pelle trascinata dalle onde,
I lacci ancora annodati
.
Mentre il papavero si flette sgrondando
La rugiada dai petali,
La scarpa imbrattata
Tira un sospiro, leggero
Mentre il fiore si scrolla,
La scarpa apre
Le palpebre
.
In occhi profondi come un vecchio pozzo
Forse
Nessun paesaggio si riflette
Perfino la memoria
È bagnata fradicia,
Al papavero non resta allungate le foglie,
Che accarezzare
Il dorso della scarpa, ora simile a un torace
.
––––– Non puoi rompermi! Neppure le onde
Riescono a trasportarmi
Col mio tacco logoro
E le grinze,
Riavvolgono lo sguardo
Del bambino che l’ha persa di vista
Fino alla riva,
Se il papavero sbirciasse
Nel letto del pozzo
Vedrebbe un fuoco ancora più trasparente
Come la pinna dorsale di un minuscolo pesce
.
––––– Il mare non può spegnere la luce
Integra e sottile, dal fondo della mia esistenza
Perché il mare
È un enorme pupilla
.
Quale luce deve aver emesso
In quel momento
Velata di lacrime, mentre procedeva
Verso il largo,
E infuriava la burrasca,
Inghiottita, già spaiata
.
––––– L’anello di fiamma verde
Disegnato attorno ai miei occhi
L’avrà visto
Il banco di sardine?
.
Ondeggia ancora il papavero
No
È il vento
Nudo, sta in piedi
Facendo cadere i petali
Nel pozzo
.
La punta del laccio
È un cordone ombelicale
A cui il bambino prova ad aggrapparsi
Fino al fondo delle pupille
.
Striscia giù

ガラパゴス

茶飲みばなしだろ!、景気って
お伽ばなしだよ!、株相場は
やらかしてよ、
  もっと、揶揄化してよ
うんざりだね
黒づくし、ユニクロづくしは

台なしだよ!、エロスが
出しっぱなしだろ!、タナトスを
いかしてよ、
  もっと、異化してよ
ケータイの 引っきりなし、
マイクロソフトの 人でなしに

   ––––– 着さしてもらえて なかったんじゃアありませんか?
      国民服しか、
      震災のずっと前から
      わたしたち、
      不況という 津波 ばっかし恐怖して、

防護服です、
ソレは
打たれ強いのです、
高波に
6メートルまで 耐えられます
いいえ、
水着 と言っちまおうか
冷たいグローバル
グロテスクなグローバリズムの 胎内で
溺れそう
リーマンに、
サラリーマン
欲しがりません
申しません
もう しません、やりません
女子も、男子も、中性子
生殖しない ユニセックス
   ほら、
  分裂する、
 中精子は、
なかなか融合しないんです、って

放りっぱなしだろ!、核分裂も
野ざらしだぞ!、原発ドームの 胎内も
燃料棒が、安全帽が、卵細胞が、けちん坊が、どろぼうが、
冷房が、暖房が、
赤ンぼうが、仏(ほとけ)ンぼうが、大海原に浮かぼうが、叫らぼうが、
原子炉建屋がぶっ飛ぼうが、
堤防が、陰謀が、官房が、
 アンビリーバボーが、
 インクレディボーが、
東電が、
  ユニクロ着込んで
 防御する、
津波

  コンドームで
 発電する、
半減期
で いいのか?

わたしたち

Galapagos

Un discorso da bar, l’andamento del mercato!
Delle favolette, le quotazioni in borsa!
Avanti, fallo!
                       Deridili ancora di più!
Ne ho abbastanza
Di tutto questo nerume, di tutto questo Uniqlume

Rovinato! Eros
Trascurato! Thanatos
Resuscitali!
                    Scomponili ancora di più!
Questi cellulari incessanti
Questo Microsoft disumano

––––– Ciò che ci avete fatto indossare     non erano forse
            Le nostre divise nazionali?
          Prima del terremoto
            Noi
            Terrorizzati solo dallo     tsunami     di recessione

Questa
È la nostra tuta protettiva
La nostra resistenza
Ai cavalloni
Alti 6 metri     sopportiamo
No
Non è più   un costume da bagno?!
Sembra annegare
Il freddo globale
Nel grembo   del grottesco globalismo
Alla Lehman Brothers
I salarymen
Non vogliono nulla
Non dicono nulla
Non fanno nulla, non fanno più nulla
Ragazze, ragazzi, non-binary
Nessuna procreazione         unisex
                    Ecco
          La divisione
    Dicono che non si fonderanno
Gli spermio-neutroni

Sono stati abbandonati a loro stessi! Anche la cariocinesi
Lasciata esposta! Pure il ventre del reattore,
La barra combustibile (nenryōbō), gli elmetti antinfortunio (anzenbō),
                       [gli ovociti (ransaibō), gli spilorci (kechinbō), i furfanti (dorobō),
gl’impianti di condizionamento (reibō), i termosifoni (danbō),
Gl’infanti (akanbō), i defunti (hotokenbō),  
                       [che affiorano sul grande oceano (ukabō), lì lì per gridare (orabō),
L’edificio di contenimento divelto (buttobō),
I frangiflutti (teibō), i complotti (inbō), il segretariato (kanbō),
Unbelivabō
Incredibō
La TEPCO
             Indossa il suo Uniqlo
        A baluardo
Dello tsunami
         Nel dome
Si produce energia elettrica

Nei nostri condom
C’è mezza vita
È abbastanza?

Noi

Su “Atlante di chi non parla” di Maddalena Lotter

Nota di lettura a cura di Gianluca Furnari.

Ampliando gli intenti delle opere precedenti in una direzione più scopertamente metafisica, Atlante di chi non parla (Nino Aragno, 2022) di Maddalena Lotter dà ancora l’impressione di un libro che funziona perfettamente a dispetto – o in ragione – del suo «lirismo neoclassico» (Davide Castiglione), che si sostanzia di un dettato dimesso e di un’immaginazione spontanea.

Il libro si snoda lungo tre sezioni, dalle «Migrazioni» funebri della prima parte, incentrata sul tema della «bestia moribonda» (p. 15) (farfalle, cicale, uccelli, cani, etc.), alla «cosmogonia negativa» (p. 53) di «Il testimone», poemetto conclusivo in quattrodici movimenti su una caproniana «fuga di Dio», passando per le «Storie di animali grandi», ove l’ambientazione oscilla tra un museo di storia naturale e i fondali oceanici.

Fil rouge del libro, più che la natura, è una sua deformazione mitico-fiabesca: sprofondando nel mondo che descrive in una sorta di animismo infantile, l’io lirico coincide talora con l’animale (di qui il titolo), fino al paradosso dei cetacei che, durante una traversata, osservano gli uomini che li osservano stupiti («Ci guardano da una nave ferma come per capire», p. 38). Spesso anziano, come la megattera di p. 41, il cetaceo serba memoria delle proprie fasi evolutive («Ora come un’onda / scivolano le pinne antiche zampe», p. 36), e la sua identità, più collettiva che individuale, sembra scaturire da una preistorica sedimentazione.  

Il tema del soffio vitale che percorre le membra altrimenti inerti («viene tutto dal greco, è un vento», p. 19) può sfociare, come già in «Questioni naturali», in un tono «sentenzioso» (Marco Malvestio), eppure esso appare neutralizzato dal respiro fiabesco, dando vita, tutt’al più, a paralogismi affabulatori come quello di p. 50 («Un altro nome di ciò che muta è movimento, / solo ciò che si muove è vivo, / io sono vivo, ciò che vuole essere vivo / ama la distanza»), ove, se c’è una perentorietà, essa sembra quella del bambino che pensa fra sé e sé a voce alta (connotata in senso infantile, del resto, è la stessa locuzione «animali grandi»).

In alcune poesie de «Il testimone» parla il dio creatore, l’animale più grande di tutti: non però il dio biblico («io non sono un legislatore», p. 51), ma un dio ovidiano, che crea il mondo un po’ a caso, compiacendosi delle sue intuizioni, e il cui atto supremo è quello di negarsi e «mancare» (p. 55), in linea con una nozione di «distanza» quale presupposto di vitalità e comunicazione.

Il segreto di questa poesia, che si conferma tra le più vivaci della scena contemporanea, è forse nelle chiuse, spesso in metri dispari (con prevalenza di endecasillabi e novenari), ove il testo trova un’armonica composizione e squaderna scenari nascosti, lontani nel tempo e nello spazio: «si è aperta un’immagine nitida: / me stessa invecchiata. / Arrivavo sola sulla spiaggia, / ma non quella, un’altra assurda, sconfinata» (p. 20).


Da «Il testimone»:

VI

volavo da una parte all’altra
incastrando opali neri nella roccia
lo facevo un po’ per impegno
e un po’ per esuberanza
come quando, felice di aver pensato il sole,
mi gettai all’indietro in una tempesta di gemme
e minerali, pioggia d’ambra, ametista, quarzo
satelliti di madreperla e di topazi
dal mio corpo celeste
aprivo la bocca e ridevo e li mangiavo

Su “Macchine del diluvio” di Stefano Massari

Nota di lettura a cura di Graziana Marziliano.

Macchine del diluvio è la quarta raccolta poetica di Stefano Massari (Roma, 1969), pubblicata a Marzo 2022 per MC edizioni nella collana Gli insetti. La sezione iniziale della raccolta, «primi dodici morti (1969-1996)» – insieme alla seconda sezione «figure del diluvio» e all’«(antefatto)» – contiene poesie composte dal 2010 al 2016. Le ultime due sezioni, «macchine del diluvio» e «diario nostro», contengono liriche elaborate dal 2016 al 2021. Questa raccolta di Stefano Massari si pone in un momento particolare della produzione dell’autore: guardando alle prime tre pubblicazioni – diario del pane, libro dei vivi, serie del ritorno – che costituiscono una specie di trittico, Macchine del diluvio arriva dopo un momento di silenzio autoimposto, un silenzio che l’autore stesso credeva definitivo.

È interessante vedere come il testo si apra con delle parole trascritte durante una seduta spiritica: «raccontare non è facile. le mie rinunce – le piango / ancora», in cui emerge sin da subito il tema della raccolta: chiamare chi c’è dall’altro lato, far riapparire figure che continuano a bruciare e consumarsi nella mente di coloro che vivono. La sezione d’apertura «primi dodici morti (1969-1996)» contiene dodici componimenti, ciascuno relativo all’esperienza di una morte – anche non diretta, cioè raccontata per bocche di altre persone, con uno scarto di tempo – di un personaggio. Non si tratta necessariamente solo di una morte corporale, ma anche esistenziale e generazionale, infatti, l’arco temporale indicato nel titolo comincia con l’anno di nascita dell’autore e il fatto che al centro del primo componimento (la prima delle dodici morti) ci sia l’io lirico bambino dà l’idea che la nascita stessa coincida con un elemento mortifero, con qualcosa di mancante in nuce.

I personaggi di questa prima sezione sono fantasmi familiari dal destino coatto, che ripetono le loro azioni in un esercizio di sfinimento cieco. Uno di questi è la madre, figura che pulisce e protegge. È lei che abita le stanze asfittiche della poesia «con gli occhi abituati al buio e le finestre sbarrate per paura dei topi dei servi e del caldo // con le unghie masticate fino all’alba e tutto il nervo del secolo addosso»; è incastrata in un meccanismo di ripetizioni senza uscita: «io non ho più fede in niente / ma non posso». La madre si muove nel testo di apertura con gesti di fatica e protezione che continuano a ripetersi senza interruzione né possibilità di un altro tipo di azione nella storia.

Αlla figura della madre se ne sovrappone un’altra, più oscura e laterale: il padre, di cui sentiamo il rumore delle bestemmie e dei pugni sulle porte di casa prima ancora di vederlo comparire nel buio. A completare questo albero genealogico disfatto sono i parenti di secondo grado, «il padre del padre» e «la madre della madre»: figure in macerie, deliranti, che sono separate e in contrapposizione rispetto ai figli «perduti e mai nati» le cui esistenze non sono nemmeno abbozzate, ma rimangono limitate all’ipotesi, all’assurdo.

ΙΙ
poi la madre della madre   cullava qualcuno
che per sempre non c’era   fissava qualcosa
che per sempre spariva   stretta nella camicia
che puzzava di bianco  la notte mi pisciava
di fianco e piangeva   e si strappava i capelli
e chiamava madre sua figlia

un po’ d’acqua e nient’altro  signora
tanto da questo male   nessuno ritorna
signora

In mezzo a questa folla, tra fantasmi e apparizioni, si situa un noi, un soggetto plurale con radice anagrafica: «noi / gli interrotti   condannati a tradire / addestrati a sparire». Tra i suoi interlocutori troviamo i fratelli e le sorelle, che sono stati spazzati via prima del tempo («crani di fratelli e le sorelle   liquefatti troppo presto / troppo presto»). I loro strumenti di sparizione ritornano più volte nel testo: la corda, le siringhe, gli aghi sporchi. Queste sparizioni si inseriscono nelle due sezioni centrali («figure del diluvio» e «macchine del diluvio»), in cui si possono intravedere apparenti echi storici riconducibili agli anni Ottanta e Novanta («le leggi di falciare le vene» «le grandi femmine sovrane» «di urina e rivoluzione»).

Il soggetto plurale al centro della raccolta si caratterizza come superstite, sospeso in una frattura tra generazioni e fa i conti – attraverso tentativi di catalogazione – con ciò che rimane e ciò che si è perso durante il diluvio.

Il noi collettivo che è rimasto vivo deve raccogliere le morti improvvise e non assimilate degli scorsi decenni. Deve chiedere un perdono per chi è sparito troppo presto (e anche per se stesso) e deve farlo utilizzando un lessico di preghiera. La materia del testo – riferita, storica, concreta – viene incastrata in un edificio di parole sacre, tuttavia, questo campo semantico della sacralità è continuamente corrotto e sporcato dalle evidenze della storia: «poveri cristi e criste   con le iene in testa / e lo sporco di dio   sottopelle».

Ad attraversare tutta la raccolta è un monito, un giuramento infedele «che ogni cosa  verrà generata ancora». Le figure tramiti di questa promessa di rigenerazione, le portatrici, sono le figure femminili («la nuda impaurita trafitta», «l’innamorata», «l’insanguinata», «la testimone», «la bambina con la morte» o «che piove senza pace e aspetta / sulle soglie») vengono poste come elementi liminari, spiragli di un futuro possibile, ma inefficaci, perché la rigenerazione si inceppa già nei suoi presupposti.

Ciò si spiega con il fatto che questa collettività femminile ha due funzioni principali: la prima consiste in uno sguardo retroattivo che serve a ribadire l’impotenza dei padri, che però è sempre santa («sulle gole delle sorelle che baciano / il padre morto   come un talismano»). La paternità è un’eredità sfuggita di mano («alla destra di nostro padre terminale»): la sua impossibilità si configura nei confronti di un soggetto lirico che deve riconoscersi oggi nel ruolo di padre: «uova / di maschio mangiate sulle schiene / sporche e sfinite di padri prede e pietre / come pezzi di corpi che non nasceranno mai più» o almeno i padri non sono più distanti, lontani, incomprensibili e intraducibili e sono finalmente dei «padri impauriti   che sorvegliano / la schiena del mondo   e battono le mani le mattine / nere di freddo   e si preparano   all’odio e al lavoro /al cospetto dei giudici e i loro denti   inauditi».

I personaggi più insoliti e interessanti che appaiono nella sezione centrale «macchine del diluvio» abitano un paesaggio infetto e desolato, hanno le sembianze di macchine organiche: «i grandi acciai animali scavatori»«gli uccelli fissi e idioti»«il verme cardanico», «la sorella carotide metallica»; in questa categoria si potrebbe includere lateralmente anche dio stesso: «chiunque tu sia   perduto dio   incompiuta bestia».

In Macchine del diluvio la scrittura si configura come un’operazione in minuscolo, in cui le spaziature sono le  vene – spezzate dalla continua tensione – del corpo orizzontale del testo. «Una poesia contratta» la definisce Pasquale di Palmo, direttore della collana, i cui versi si articolano per blocchi sintagmatici. Guardando la struttura dei componimenti, verrebbe da notare che la terza sezione «macchine del diluvio» e la prima parte della quarta sezione «(roma-corale)», rispetto alle precedenti, presentino una più accentuata contrazione dei testi (di tre o quattro versi): qui i sintagmi nominali si accalcano evidenziando una maggiore urgenza del dire. Questi sono i testi più recenti, composti dal 2016 al 2021.

i morti ce li portiamo in bocca
non sappiamo come altro fare

La quarta sezione, «diario nostro», prosegue rannicchiandosi in un’intimità cercata: dalla pluralità di figure delle altre sezioni si passa a un dialogo tra una coppia di sopravvissuti: «la nostra notte / lentissima   assurda verticale   ora che ci raggiunge / ci semina e ci crede illesi   ci lascia riposare». La raccolta si chiude sui toni di un dolore nudo e onesto, girato di schiena. Viene quasi da pensare che quelle dodici morti iniziali non siano effettivamente figure necessarie, attraverso cui si deve passare ogni notte, prima di trovare – o nella speranza di trovare – il sonno o il perdono.

Macchine del diluvio è un tentativo di scavo e riconciliazione con un mondo dal quale si è stati per molto tempo disconnessi, chiusi in solitudine. Quando si tira fuori la voce dopo un periodo di silenzio, la bocca è impastata e il peso della sillabazione si percepisce maggiormente, ma quel composto ritmico e materico che era in attesa preme per uscire – le parole allora si rivelano necessarie.

da (roma-corale)

XVII
chiunque tu sia allora sillaba contro sillaba
corpo madre cardinale   giura che posso
ancora pronunciare questo ennesimo addio
curvo come un diluvio   un digiuno   una febbre
un calendario di prede e regole del bene
che finalmente posso entrare   nell’unica tua
temperatura dell’alba1    perfetta e finale


  1. N.d.A.: «temperatura dell’alba» è un verso di Carlotta Cicci. ↩︎

Come le cicale: tre poesie di Phoebe Giannisi

Introduzione e traduzioni acura di Valeria Cassino, vincitrice della prima Call for Translators per il greco moderno.

“Sono una chimera, un essere ibrido tra animale e macchina, una poeta, un’architetta. La mia poetica si esprime inevitabilmente con i mezzi a mia disposizione, senza censurarne la molteplicità”. Nata ad Atene nel 1964, Phoebe Giannisi è poeta e architetta, ha un dottorato in Lettere Classiche e insegna presso l’Università della Tessaglia. Fondatrice e co-editrice della rivista “Mavro Mouseio” negli anni ’80, attualmente è membro della redazione di “FRMK”, rivista biennale di poesia, critica letteraria e arti visive, punto di riferimento nel panorama poetico greco contemporaneo, di cui Giannisi è una voce di spicco.

La sua ricerca si concentra sui confini tra poesia e performance, identità e metamorfosi, tempo e memoria, e indaga i legami della poesia con il corpo, la voce e lo spazio. Giannisi si inserisce nella tendenza tipica della poesia greca contemporanea definita come diakallitechnikotita, ovvero “trasversalità fra le arti”: il suo lavoro è frutto di un dialogo continuo fra espressioni artistiche diverse, parte da modelli archetipici per declinarli in nuove forme ed espanderli attraverso la sperimentazione transmediale. La lingua di Giannisi è disadorna, minimalista; tratteggia immagini apparentemente disarticolate fra loro, ma architettate con cura artigianale, che esplorano con icastica immediatezza la relazione del linguaggio con lo spazio urbano e naturale.

Dal 1995, anno del suo esordio con Achinoi (“Ricci di mare”), ha pubblicato otto raccolte poetiche, alcune delle quali sono state tradotte anche in inglese e in tedesco. Giannisi è stata inoltre inclusa nelle antologie di poeti greci contemporanei Futures. Poetry of the Greek Crisis (2015), a cura di Theodoros Chiotis, e Austerity Measures. The New Greek Poetry (2016), a cura di Karen Van Dyck.

Le poesie presentate in questo contributo appartengono alle raccolte Omirika (Kedros, 2009) e Rapsodia (Gutenberg, 2016). Omirika intreccia la mitologia classica con l’esperienza moderna; personaggi, episodi e luoghi dell’Odissea sono i diversi tasselli della narrazione, che crea in questa raccolta un io polifonico attraverso cui parlare di temi come l’amore, lo straniero, la maternità, il viaggio, la memoria, la nostalgia. Ispirandosi inoltre alla tradizione orale dell’epica, Giannisi modella la propria poetica sperimentando con il ritmo, il suono, la ripetizione. Rapsodia è un’opera composita che racchiude più di cento poesie ed è il culmine di un progetto che comprende manoscritti poetici, performance, video, mostre e installazioni multimediali, fra cui spicca Tettix (“cicala” in greco antico), che si ispira all’associazione della figura del poeta con quella dell’insetto attraverso l’antica mitologia greca, la filosofia e la poesia.


Da Oμηρικά (2009)

Προοίμιο

μία πέτρα στον βυθό άσπρη
σειρές από γαλάζια χαλίκια το μούτρο
πάνω τους μες στο νερό
η αναπήδηση της βάρκας στα κύματα
πάνω στα κύματα ταχύτητα του αέρα η ώθηση
πετάμε
ένα μοναχικός γλάρος στην ξέρα
συνέλευση γλάρων οι γλάροι κρώζουν ασταμάτητα
κατά περιόδους
σιωπούν
όπως τα τζιτζίκια
ο ασταμάτητος βόμβος τους απότομα παύει την ώρα
της μεγαλύτερης αιθρίας της ζέστης του μεσημεριού
με το αυτοκίνητο ο βόμβος των τζιτζικιών πιο συχνός
πιο συνεχής
πιο γρήγορος
τα ξέχασες όλα
δεν μπορείς να θυμηθείς
το πώς
αρχίζεις να ξεχνάς το τι
Ας ήτανε το πώς μια επανάληψη του τι
η λήθη των στιγμών για σένα φάρμακο
ενάντια
στου αμετάκλητου την λύπη
με καλυμμένο το κεφάλι σε τόπο αχαρτογράφητο
ακούς του εαυτού σου τον τραγουδιστή
λέξεις του Κανενός
δαήμονος ανδρός περιπλανήσεις
αέρα θάλασσα λάθη ανεπίστρεπτα δώρα
να αριθμεί
ξέρεις καλά ότι η σειρά των τι είναι εαυτός
αλλά άραγε να έμαθες πως η σειρά των πώς
είναι ο άνεμος;

Proemio

una pietra sul fondo bianca
serie di sassolini azzurri la faccia
su di loro dentro l’acqua
il sobbalzare della barca fra le onde
velocità sulle onde la spinta del vento
voliamo
un gabbiano solitario sulla secca
adunanza di gabbiani i gabbiani gracchiano senza sosta
di tanto in tanto
tacciono
come le cicale
il ronzio senza sosta interrompe brusco il tempo
di maggior chiariore del caldo di mezzogiorno
con la macchina il ronzio delle cicale più costante
più continuo
più veloce
hai dimenticato tutto
non riesci a ricordare
il come
inizi a dimenticare il cosa
Se solo il come fosse una ripetizione del cosa
l’oblio degli attimi per te medicina
contro
la tristezza dell’irrevocabile
con il capo coperto in un luogo senza mappa
ascolti il cantore di te stesso
mentre conta
parole di Nessuno
il vagare di un uomo navigato
aria mare errori irreversibili doni
sai bene che la serie dei cosa è il sé
ma hai forse imparato che la serie dei come
è il vento?

Da Ραψωδία (2016), sezione “Τέττιξ”

Γενέθλια

Φαγουρίζουνε τα φτερά όταν βγαίνουν;
όταν από την έξοδο της κοιλιάς
έβγαλες πρώτα το κεφάλι
και σπρώχνοντας από τον πόνο
πετάχτηκες έξω στο φως
για να φωνάξεις
ήταν τα μάτια σου ανοιχτά;
άκουσες τα λόγια αυτών
που σε κρατούσαν βοηθώντας
όλο το σώμα συστραμμένο
μαζεμένο τα πόδια λυγισμένα
και η μέρα ζεστή;
μία γυναίκα γεννούσε
στου αυτοκινήτου της το πάτωμα–
κάθε μεγάλωμα άραγε
πονάει σαν το πρώτο;
δεν μεγαλώνει κανείς
με τον ίδιο ρυθμό αδιόρατα;
ή μήπως μετά από περιόδους στάσης
αίφνης η κίνηση σε κατακτά
κι αυξάνεσαι και ανυπόφορα αλλάζεις;
πετάς από πάνω σου
σαν το λουλούδι τα πέταλα
μέσα στη δρόσο που ρουφάς
κάτι παλιό και ξανά;
κατοικημένος
από της νύχτας τις αγωνίες
ανοίγεις τα πρωινά σου μάτια
ανάποδα να κοιτάξεις τον κόσμο;
έχεις μαζέψει τ’ άστρα τα κρατάς
στα χέρια τα σκορπάς
στο χώμα την άμμο
έχεις ψηλώσει πια
το δέντρο εσύ
στη μικρή σου σκιά μάς χωράς
πιο ελαφρούς τώρα πιο ελαφρούς

Compleanno

Prudono le ali quando spuntano?
quando dall’uscita del ventre
hai tirato fuori prima la testa
e spingendo dal dolore
sei saltato fuori alla luce
per urlare
avevi gli occhi aperti?
hai sentito le parole di quelli
che ti tenevano aiutando
il corpo tutto attorcigliato
raggomitolato le gambe piegate
e la giornata calda?
una donna stava partorendo
sul tappetino della sua macchina –
forse ogni crescita
fa male come la prima?
non si cresce
con lo stesso ritmo impercettibilmente?
o forse dopo periodi di stasi
all’improvviso il movimento ti possiede
e cresci e cambi insopportabilmente?
ti scrolli di dosso qualcosa di vecchio
come un fiore i petali
nella rugiada che succhi
ancora e ancora?
abitato
dalle ansie della notte
apri gli occhi mattutini
per guardare il mondo sottosopra?
hai raccolto le stelle le tieni
in mano le spargi
sulla terra sulla sabbia
ormai sei diventato alto
l’albero tu
nella tua piccola ombra ci contieni
più leggeri ora più leggeri

Sezione “Τ-ώρα”

Η παρούσα στιγμή

Ι

Ο άνεμος ο φέρων τις φωνές
δροσίζοντας σαλεύει το μανίκι
κουνάει του φουστανιού την άκρη
ενώ στην άσφαλτο
μπροστά στις ρόδες
χορεύει το σπουργίτι με την πεταλούδα

ΙΙ

Ανοίγω το στόμα να μιλήσω
αλλ’ αυτό σφίγγει τα δόντια
κοχύλι εσύ
λέξη κρυμμένη
στο βυθό θαμμένη
μαλάκιο
ακίνητο στην άμμο
με τις κεραίες
προς τα μένα να σαλεύουν

ΙΙΙ

Γιατί η στιγμή είναι ασύλληπτη
καθόλου παρούσα
το «παρόν»
«αυτό που είναι εδώ»
χώρος αντί για χρόνο
η γλώσσα την έλλειψη μιλά

ΙV

Γιατί διαφεύγει του νοήματος η γλώσσα
τα λόγια μου
η σκυτάλη
ένα χαλίκι
δανεισμένα
αόριστα θυμίζουν μίαν άλλη παρουσία
πριν από εμένα
να ανοίγει δρόμο
κι ο δρόμος όταν ξαναπατηθεί
είναι δικός μου
και δεν είναι
κι ο δρόμος όταν ξαναπατηθεί
έγινε λάκκος
για να πέσω

V

Γιατί το χέρι που γράφει
τα λόγια
μιλά μία φωνή
μοιράζει νέμει
το πιο δικό σου φέροντας
κι ας είναι δανεισμένο
μοιράζει
τον χρόνο σε κομμάτια
μοιράζει προεκτείνει
πέρα από όλους εμάς
καλὰ καὶ ὕψι βιβὰς
τα πόδια ψηλά με ρυθμό
μουσική
προς τον άλλο
ανοίγεται
προς τον ουρανό
καθαρή αγάπη
μέσα στην έλλειψη
απολλώνειος χορός

πάνω στην προκυμαία το φεγγάρι
αρνείται με τη σειρά του να βγει

L’attimo presente

I

Il vento foriero di voci
rinfrescando muove la manica
agita il lembo dell’abito
mentre sull’asfalto
davanti alle ruote
il passero balla con la farfalla

II

Apro la bocca per parlare
ma quella stringe i denti
conchiglia tu
parola nascosta
sul fondale sepolta
mollusco
immobile sulla sabbia
con le antenne
che si muovono verso di me

III

Perché l’attimo è inafferrabile
affatto presente
il “presente”
“ciò che è qui”
spazio anziché tempo
la lingua dice l’assenza

IV

Perché la lingua del senso rifugge
le mie parole
il testimone
un sassolino
prestate
indefinite ricordano un’altra presenza
prima di me
che spiana la strada
e la strada quando si calpesta ancora
è mia
e non lo è
e la strada quando si calpesta ancora
è diventata una fossa
dove cadrò

V

Perché la mano che scrive
le parole
dice una voce
divide distribuisce
portando ciò che è tuo
anche se è in prestito
divide
il tempo in frammenti
divide estende
oltre tutti noi
a passi rapidi e eleganti
le gambe in alto a ritmo
musica
verso l’altro
si apre
verso il cielo
amore puro
dentro l’assenza
danza apollinea

sopra il molo la luna
quando è il suo turno si rifiuta di spuntare

Su “Totem” di Silvia Tripodi

Nota di lettura a cura di Antonio Francesco Perozzi.

Totem di Silvia Tripodi (Tic Edizioni, 2021) eredita il modus della “prosa in prosa” e lo piega in direzione di una postura teorizzante, che pure nella sua frammentarietà traccia le linee di uno schema e affronta (più o meno frontalmente) la sfida tra immagine e parola, nuovi media e letteratura , evento e traccia.

Da un punto di vista stilistico, il libro fa proprie molte caratteristiche della prosa in prosa. La brevità; la reductio sistematica delle elevazioni epico-retoriche (anche tramite un “rientro” delle interrogative: «Cosa ha fatto Guadagnino in questi mesi. Ha girato la sua fiction, non credo»); una pratica della nominazione stralunata, lievemente mossa; una sfiducia nei confronti dell’assertività diretta e marmorea. Questo impianto fa sì che anche le parti più “filosofiche” appaiano come calate nell’ambra, chiare eppure opache. Del resto il libro conserva una certa carica metalinguistica («Alcune parole chiave come falso, strategia, dinamica […] hanno perso il loro significato originario, la loro credibilità») e quindi una mira autoproblematizzante, che si percepisce soprattutto nel momento in cui il discorso vira sull’immagine.

Ciò avviene in particolare seguendo due piste. La prima riguarda Guadagnino, verso cui si nutre quasi un’ossessione («Occuparsi esclusivamente del look di Luca Guadagnino, studiare i suoi gusti, scegliere i suoi vestiti, sperare nell’impossibile»), ma che è ridotto più che altro a una funzione («effetto Guadagnino o dell’intimità strutturata»). In quanto orchestratore di immagini e “desiderato” insieme, Guadagnino funziona sia come obiettivo verso cui tende il soggetto, sia come architetto delle immagini che regolano la sua esperienza. Ne consegue che la coscienza del soggetto appare quasi plasmata dall’“effetto Guadagnino”.

La seconda pista è quella del Grande Fratello. In realtà, il programma non viene mai citato (lo riconosciamo a partire dalle scene descritte) e perciò evapora, diventa un abitare l’immagine (i partecipanti sono, come si sa, costantemente osservati), un’antropologia della vita calata dentro la scena. Così leggiamo a proposito di un concorrente: «Quanta volontà di compiacere gli autori c’è in lui? In quale percentuale le sue azioni, le sue decisioni, i suoi discorsi, le sue parole e anche le sue crisi di ansia, vengono influenzate dalla regia, vengono indotte o manipolate?»

È su tale piano (della coscienza e dell’immagine che si abitano a vicenda) che si innesta il Covid, il discorso-orizzonte cui tende tutto il “detto” degli ultimi anni eppure in grado di mantenere inespressi i suoi fantasmi, di diventare esso stesso un non-detto, uno step della storia che compromette, se nominato, la fluidità della rappresentazione («Come se non fosse esistito, come se non ci fosse, non bisogna esibirlo nella narrazione»). In questa ambigua trasparenza, allora, il Covid si intreccia alla scrittura, diventa il campo di prova per una nuova dicibilità non compromessa al montaggio nascosto, non epica: «una narrazione in frammenti in differita».

Crema la conosco attraverso un film. Non ci sono mai stata. In una tarda mattinata estiva, assolata, per le strade assolate di Crema. Andare in bicicletta fino al centro, andare al bar tabacchi comprare le sigarette. Tornare indietro, verso casa. La curva fiancheggiata da alberi, assolata. Le ombre corte, fa caldo. La luce estiva, accecante, definitiva. Non ho mai visto Crema, solo attraverso i fotogrammi di un film. E se fosse un’altra città, credo che probabilmente riuscirei a pensarla con la stessa intensità. O forse no. No.

Rasi al suolo e post-testuali. Su “Soggetti a cancellazione” di Lorenzo Mari

Nota di lettura a cura di Fabrizio Maria Spinelli.

È noto come per Lacan il soggetto non possa mai realizzarsi sul piano dell’enunciato, ma solo su quello dell’enunciazione. Da qui l’origine di quelle frasi vertiginose come «il significante rappresenta il soggetto per un altro significante» che ci piace tanto citare nei nostri paper, ma soprattutto l’abitudine, nei bizantini diagrammi che costellano il Seminario e gli Scritti, di rappresentare il soggetto come barrato, scisso, separato, più o meno così: $Proprio laddove il soggetto viene designato dall’enunciato (dalla catena significante), esso viene a mancare, si afferma come manque-à-être. Smarrisce il proprio essere, viene squalificato. Una volta che il significante (afferente al simbolico, cioè al territorio dell’Altro, del linguaggio socializzato) nomina il soggetto, esso si eclissa, scompare nel momento che appare: come un cliché, come una cosa che smette di sembrarci vera una volta che la verbalizziamo. Il soggetto lacaniano è perciò un soggetto a cancellazione.

Soggetti a cancellazione è il titolo della nuova (bella) raccolta di Lorenzo Mari, uscita per Arcipelago Itaca, nella collana Lacustrine diretta da Renata Morresi. Il libro si presenta con un insolito formato A4, e, fin dal primo sguardo, appare evidente che giochi tanto sulla iconotestualità (impaginazione, parole cancellate, testualità esplosa – soprattutto nella notevole sezione Monte dei cocci, dove frammenti saggistici e note idiosincratiche si agglutinano intorno al testo della poesia (?), rimandando a quel labirinto tipografico che è, in alcuni suoi punti, House of Leaves di Danielewski), che sull’ipertestualità (le pagine sono corredate di QRcode, talvolta anch’essi cancellati o frantumati, ‘glitchati’, che rimandano al sito montedeicocci.wordpress.com e a una stanza virtuale, una piana verde circondata da collinette, tipo il primo livello di un videogioco – una schermata di Minecraft o del primo Doom – dove in una visuale in prima persona l’utente può muoversi tra monumenti a forma di QRcode e registrazioni audio di Corrado Costa).

Piccola nota autobiografica, che però dice molto su come un simile oggetto (post-)testuale modifichi le abitudini di lettori. Ho un cellulare molto vecchio, con la memoria ingolfata, che uso praticamente solo per condividere meme (che sono costretto a cancellare repentinamente) con un ristretto gruppo di persone (no, lettore, non rispondo mai alle chat) e prendere appunti. Sono perciò stato costretto a cancellare un cospicuo numero di fotografie (aridi paesaggi greci, dozzine di gatti, meme sul calcio che raccontano la mia vita meglio di un romanzo, video di ricci, screenshot di call per convegni o di copertine di libri tradotti da amici) per scaricare un lettore di QRcode che mi permettesse di godere pienamente del libro.

Già da questa sommaria descrizione apparirà evidente come l’operazione di Mari metta in primo piano, usando ancora termini lacaniani, il «perceptum» rispetto al «percipiens», anzi, sottolinea come sia il primo a istituire il secondo e non viceversa (non c’è un soggetto originario e autentico che si esprime, ma è quanto enunciato che crea una piattaforma ricevente che potremmo chiamare, per mancanza di altri termini “soggetto”). Mari: «Tutta la lotta con i pronomi contro i pronomi/ per farla finita con il canto a soggetto». Con il canto a soggetto, ma non con il canto. Uno dei temi che informano il libro, e che costituiscono il filo sottile che lo lega alle altre opere dell’autore (soprattutto Querencia) è quello della lallazione, cioè dell’articolazione prefonematica di suoni elementari ripetuti (con il conseguente piacere orale che tale ripetizione comporta; vale la pena notare che per Lacan il processo di soggettivizzazione inizia quando il neonato entra nel linguaggio, ossia nel simbolico; la lallazione è una sorta di soglia). Ciò non significa che la poesia di Mari si risolva nell’informale o in un fonosimbolismo spinto, ma è tuttavia ancora presente, nella sua pratica ipercontemporanea, un forte orecchio metrico, una tensione al canto, una preminenza del somatico rispetto al semantico che domina alcune sezioni del libro (soprattutto Délibáb e Vertigo/Lai; nella prima c’è una poesia che è una vera e propria danza dei prefissoidi).

Tuttavia, ciò che contraddistingue Soggetti a cancellazione rispetto ai libri precedenti, è la varietà e l’eclettismo. C’è la lallazione, appunto, ma anche la lirica fredda e percussiva (fatta di bassi e di ritmi metallici) di Malco, la poesia che si esaurisce nella chiosa accademica di Monte dei cocciuna sezione concettuale in pieno stile uncreative writing statunitense (la traduzione automatica di un discorso di Godard preso da una live su Instragram, dove ci sono associazioni luminose come questa: «Ti ho pensato molto perché/ hai commentato molto»), una sezione dedicata alle traduzioni di un poeta spagnolo che sembra uscito dalla penna di Bolaño (un realvisceralista ante litteram, dotato di una consistenza ontologica sottile e fantasmatica, tipicamente sudamericana, nonostante sia nato a Madrid), di cui Mari riproduce filologicamente anche la pagina Wikipedia, con tanto di impaginazione html (il poeta si chiama Carlos Salamón, e forse è il destinatario dell’Urlo di Ginsberg, forse non è mai esistito, forse c’entra con un progetto di sparizione della fauna avicola; se, come scrive Ben Lerner nel suo primo romanzo, «i nomi propri dei governanti sono distrazioni dai sistemi economici concreti», i nomi dei poeti – dimenticati o mai esistiti – che funzione sociale hanno?).

Insomma, Soggetti a cancellazione è un libro molto vario, molto stratificato, molto complesso, che prova a mappare (solo io ci vedo un intento enciclopedico?) il paesaggio di quella che potremmo chiamare lirica 2.0, cioè il canto (non totalmente serio, non totalmente ludico) di un mondo sovraesposto alle immagini e alle informazioni, dove anche il dominio della merce si è spostato nell’immateriale, dove è crollato il discrimine tra fattuale e virtuale, dove la soggettività è il risultato delle nostre ricerche su Google.

Di seguito alcuni appunti sparsi.

Versi che mi sono piaciuti di più: «Si potevano ancora/ scambiare i rumori della strada/ per rumori della strada».

Hype: una sezione del libro riporta delle citazioni tratte dal delizioso poemetto eroicomico (rigorosamente in ottave) La Vaiasseide, scritto da Giulio Cesare Cortese nel 1612 in dialetto napoletano. Il PDF della prima stampa è consultabile online.

Quanti anni ha Lorenzo Mari: 38.

Bergeriana: Délibáb, prima sezione del libro, si occupa di miraggi. Parla di piani, piani inclinati, sirene, campanili ed orizzonti. A un certo punto, mai nominato, verso la fine, compare Ulisse. L’Ulisse dantesco, che cerca di navigare fino al termine della terra piatta, e la sua ciurma deve resistere al canto delle sirene (il canto a soggetto, la cadenza dei pronomi). Solo che il piano su cui naviga è una pellicola. Lo schermo del cellulare. Le onde del mare sono i pixel. La terra piatta è lo smartphone che ho in mano. Oltre il quale c’è l’immagine di un campanile rovesciato. Una fata morgana. La montagna del purgatorio.

Un’altra manciata di versi: «Ancora disastra il mondo/ […] ne abbiamo fatto ragione/ canto e alfabeto soprattutto/ ci rassicuriamo perché/ l’abbiamo scritto».

sequenza di malconon si compone: non sa fumare
dello spazio che fumare riempie di ictus
il canto che fumare potrebbe
fumare come una riserva
altamente disponibile e in cerchio
per ogni tipo di combustione fumare
senza risoluzione o quasi come
un lapsus o un’altra forma
questo dovrebbe almeno
smettere perché ai suoi molti figli
squadrando il cammino da parte a parte
il padre aveva lasciato soltanto una cassa
piena di carte
si pensava a un tesoro
che invece si poteva semplicemente
fumare poi se n’era andato ridendo
si ricordava che era pieno
di vita fino alle punte
dei polmoni alle punte dei fiori
e lasciando solo una cassa
da fumare disse amore mio
poi correggendosi amori miei
di mio resta questo
pieno ma proprio soltanto
di carte e cartine per

             [dire e far dire: c’ero anch’io]


Post ScriptumSoggetti a cancellazione è stato letto sotto l’effetto di Ambien, uno pseudobenzodiazepinico abbastanza blando (almeno per come lo uso io), e si è prestato davvero in modo mirabile a una simile lettura (eccitata, piena di immaginazione, di confini sfocati, ma anche di un certo acume paradossale). I libri di poesia andrebbero catalogati sulla base del tipo di sostanza a cui si adattano meglio. Un saggio andrebbe poi scritto sul rapporto tra antidepressivi e poesia (se i farmaci ci rendono più sopportabile la vita, influenzano – ma in che termini – anche il nostro modo di rappresentarla, o, come fa la poesia, di farla riaccadere ritualmente) e, ovviamente, tra antidepressivi e recensioni di libri di poesia.

Su “Poesie per Pasolini” a cura di Roberto Galaverni

Nota di lettura a cura di Patrizio Andrisano.

Nel lungo anno del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, nulla credo meriti più attenzione di Poesie per Pasolini a cura di Roberto Galaverni, pubblicato a marzo da Mondadori nella collana Lo Specchio. Un’antologia che raccoglie i poeti in ordine alfabetico, secondo un criterio di trasversalità, e pone sullo stesso piano i contributi dei grandi maestri e dei poeti più recenti. Chiunque come il sottoscritto abbia avuto modo di incontrare Pasolini lungo il proprio percorso di studi comprenderà presto, dinanzi a questo ‘pseudocanzoniere’, le potenzialità di un’opera che emerge chiara e spontanea dalle profondità del Novecento e traccia una volta per tutte la mappa dell’intrico di rapporti che legava il poeta delle ceneri a tutto il sistema-letteratura del suo tempo. Se da un lato è infatti visibile l’immagine stinta del Pasolini contro tutti, dall’altro emerge con grande forza (mai così tanta, quasi un’eco) l’effige opposta del tutti per Pasolini, che fa della raccolta un involontario, eppure largamente giustificato, percorso di espiazione collettiva nei confronti del poeta che, come scrive Galaverni, «per tutti e più di tutti ci ha provato» (Galaverni, p. XIII)1.

Ora, cercare di comprendere la portata di questo provarci o poetico cimento della durata di un’intera vita da Pasolini, è sia il fulcro operativo attorno al quale ruotano le intenzioni del curatore sia il motivo che spinge il tema Pasolini ad affermarsi come sottogenere poetico; almeno, laddove risulti vero che in qualche misura «dire la propria su Pasolini – e non fa differenza se per incensarlo o metterlo al muro – per molti ha significato e tuttora significa dire la propria anche sulla poesia in quanto tale» (ivi, p. VI). I poeti di questa raccolta, in apparenza gli involontari autori del testo, non solo si esprimono sul mito Pasolini che sviscera a sua volta il mito pasoliniano – e tanto basterebbe –, ma riflettono su un certo modo di fare poesia che Pasolini ha sistematicamente aggirato, più di tutti e per tutti. In fondo non sarebbe neanche corretto definirli autori involontari, trattare questa raccolta come un apocrifo codice Pasolini, in quanto, seppure con le dovute eccezioni, queste poesie (elegie, poemetti, epigrammi, epistole, haiku…) nascono da una vera necessità poetica mossa per (o contro) ragioni di passione e ideologia: il tema costante, quello della diversità; s’intende, della diversità nella poesia, come scrive Elsa Morante: «la tua vera diversità era la poesia. È quella l’ultima ragione del loro odio» (Morante p. 106).

Dunque, se alcuni componimenti ricordano il Pasolini delle inchieste giornalistiche, o il Pasolini della memoria, o azzardano il what if del cosa direbbe oggi se fosse vivo – ne sono un esempio Pasolini di Giuseppe Conte e Se tu potessi vedere l’Italia di Gianni D’Elia – è vero che, nel loro insieme, i testi rivelano un certo stato del pentimento collettivo, per non aver compreso l’angoscia vera di chi ebbe «l’ansia di toccare il cuore al mondo» (Ferretti p. 53), perché, aggiunge sempre Massimo Ferretti in Lode d’un amico poeta, «il tuo sangue non vive in questi lacci» (Ibid). E non solo i «lacci» di Ferretti, la «prigione» di Franco Fortini o la «rete» di Ignazio Buttitta, ma altre, moltissime, immagini simili definiscono il limen oltre il quale nessuno come Pasolini s’è mai spinto, uno starci, spiega Eugenio Montale in Lettera a Malvolio, del poeta nella realtà. Qui starebbe il motivo della diversità di cui parlano Fortini, Matteo Marchesini, Alda Merini, Montale, Morante, Mario Luzi, Elio Pagliarani (per citarne alcuni), del poeta che, ribadiamolo, per tutti e più di tutti ha abitato il confine fra poesia e vita, fra mondo interno e realtà. È innegabile, nessuno come Pasolini ha sottoposto a maggior tensione il punto di contatto fra la parola e la cosa, fino all’esito estremo che rende la poesia all’impoetico ipercinetico di Trasumanar e organizzar (1971): raccolta di versi non spendibili dai poeti delle generazioni successive, niente meno che il braccio armato dell’ininterrotta belligeranza del loro autore. Tuttavia, se da una parte la voce immensa di Montale sminuisce l’ossessione pasoliniana per una poesia efficace definendola un’«astuzia» – e sempre da quella parte della barricata Fortini scrive: «non conoscerò che me stesso / ma tutti in me stesso. / La mia prigione vede più della tua libertà» (Fortini p. 66) – altri prendono parte al grande disegno che questo libro riscrive, e a partire da un corpus sterminato di poesie, che è un canzoniere in morte e in vita lungo il quale si tocca il massimo grado dell’espiazione di un innegabile fariseismo poetico. Porto l’esempio di Mario Luzi:

Pasolini?
Ho pensato a lui più volte
[…]
Ci sono modi diseguali di stare nella equità dei tempi,
nella stessa storia, avendone tormento.
Ci sono modi e modi di vivere quella disuguaglianza.
Tutti erano in lizza, questo generava dramma.
[…] Lui agonista
Non aveva scampo. Lo incalzavano
due erinni: la disperazione
e la vitalità, fameliche ugualmente,
lo mordeva la sua intelligenza.
La perduta integrità del mondo
diceva scritta nella sua rovina,
ed era, credo, fieramente vero,
narcisisticamente anche lo era,
e sacrificalmente, spero (Luzi pp. 79-80).”

Non l’astuzia di chi «rifiuta le distanze» (Montale p. 95), non scorciatoia, ma verità; e anche Pagliarani rimprovera se stesso per non aver creduto: «potrò mai perdonarmi / che quel grido quel vento altro che a effetto, altro che artificiale / erano le tue stimmate / era nelle tue viscere / ti era consubstanziale» (Pagliarani p. 117). La stessa rivelazione di una verità connaturata alla figura di Pasolini che aleggia anche nelle parole di Paolo Bertolani: «leggendoti dicevamo / che anche se avevi torto / avevi ragione» (Bertolani p. 20)2.

Ora, le strade che questo libro apre parrebbero infinite, e difficile sarebbe portare qui un’analisi completa del testo. Mi limiterò dunque ad approfondire solo un altro elemento di quest’opera che credo possa completare quanto detto sinora. Vorrei dire qualcosa circa il significato delle stimmate delle quali scrive Pagliarani, fare il punto sul tema del sacrificio che forse ha più a che fare con Dostoevskij che non col Cristo dei Vangeli.

Leggendo si fa strada l’idea che il compromettersi con la realtà, ossia lo snodo che spinge la voce di Pasolini a divergere da quella degli altri sia anche, in un certo senso, la salvezza degli altri; come regola generale, infatti, accettare un compromesso ha sempre un prezzo, anche in poesia, e come s’è visto: «tutti erano in lizza, questo generava dramma». Eppure, non tutti sono disposti ad adottare lo statuto dell’«ossimoro permanente» (Montale p. 95), pochi si spingono tanto in là da confondere arte e vita, e con lo scopo di ridurre lo iato che separa la parola dalla cosa. Luzi ripensa a Pasolini e lo vede in ciò «sacrificalmente» vero, la sua voce come una parola incisa sottopelle, stigma di verità. Giudici è attraversato dalla medesima presa di coscienza quando scrive: «io qui rauca memoria del nodo / che per noi liberava la tua voce» (Giudici p. 70). Inutile girarci attorno: Pasolini libera gli altri poeti dal fardello di una poesia che esce fuori da sé fino a cagionare la propria stessa dispersione, si immerge nel magma più di Luzi, nella palude più di Sanguineti. Perciò, credo che l’immagine del criminale dostoevskiano sia la più adatta a spiegare il servizio che Pasolini rende alla società dei poeti (forse alla società intera), nel concretizzare per tutti il desiderio indicibile di ognuno. Tutti vogliono delinquere, uccidere, rubare e per Dostoevskij il criminale che compie l’atto è una specie di valvola di sfogo per l’intera società, è un santo che permette a tutti gli altri di non agire. In modo analogo, Il poeta delle primule è colui che sporca le proprie mani sacrificandosi, che viene poi condannato per aver liberato la voce di tutti contro il mondo dei padri; lo stesso mondo di padri (borghese, fascista, capitalista) che vibrava, ora sì per interposta persona, l’ultimo colpo di tavoletta che uccise Pasolini; almeno, così negli illuminati versi di Alberto Moravia:

Ti sei chinato e con te
Si è chinato tuo padre e tutti gli altri padri
d’Italia
hai raccolto la tavoletta
e poi hai vibrato il colpo
e con te l’hanno vibrato tuo padre
e tutti gli altri padri (Moravia p. 109).

Il reale insomma è il luogo che fagocita la poesia di Pasolini, giunta addirittura in forma di lirica dagli anni di Casarsa, e in seguito piegata a crescenti nuove violenze per farne l’arma di un’estenuante lotta patricida. Una poesia di Attilio Lolini dal titolo La versione di Dostoevskij rompe allora ogni dubbio:

mi ha detto ammazzami
tutte le notti cercava un assassino
senza trovarlo mai

[…]
vedrai diceva ne trarranno
ovvie conclusioni

nei miei occhi aveva visto un nonsoché
un’antichissima malattia
una sfida da altri mai raccolta

come in un tale mitja che non so chi sia
che come me diceva lui era santo (Lolini p. 76).

L’«antichissima malattia» è il complesso di Edipo, ed Edipo è parte di un’imago interiore che assimila anche le figure di Cristo e Narciso a costituire il trittico fondamentale degli scritti giovanili di Pasolini, – dove anche l’immedesimazione con Cristo ha un taglio perlopiù edipico: è il figlio che per la legge del padre è costretto a separarsi per sempre dalla madre. La «sfida» a cui invece allude, dando almeno per plausibile la conversazione con Lolini, è quella del parricidio, una sfida che Pasolini raccoglie sin da bambino e poi nella poesia, e non per se stesso soltanto quanto anche per i suoi fratelli putativi – gli altri poeti di questo libro, bloccati dalla formalizzazione del verso – che perciò esprimono tra le righe un certo senso di colpa nei confronti del poeta solo contro il mondo; proprio come Ivan Karamazov per il fratello Dimitrij (Mitja), perché se Mitja l’ha fatto, certamente, Ivan l’ha desiderato.

Qui Pasolini parla di Dimitrij Karamazov ma parla di sé, come del fratello accusato ingiustamente di aver assassinato il padre, condannato per aver fatto (ma in verità il vero assassino è Smerdjakov) quel che tutti desiderano. E Pasolini a questa missione ha sacrificato la propria poesia come nessun’altro. È «il poeta che più di tutti e per tutti ci ha provato».

Non so se le genziane viola sino al blu di Proserpina
fioriscono a Casarsa
ma certo di primo autunno sui monti
che ferisce e ventila il tagliamento bambino.
Non un brindisi funebre
un mazzo di genziane miste a felci
vogliono le tue ossa – non le tue ceneri –
che ancora inquietano e consolano
noi in attesa
di ricordarti di dimenticarti (Bertolucci p. 27).


  1. Roberto Galaverni, Introduzione in Roberto Galaverni (a cura di), Poesie per Pasolini, Mondadori, Milano, 2022. Tutti i testi poetici citati di seguito sono tratti dal medesimo volume. Per maggiori informazioni sui testi citati si rimanda alla sezione «Notizie sui testi». ↩︎
  2. Leséndote a diséve / che ‘ncò se t’avi torto / t’avi rasòn. ↩︎