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Su “Saggio sulla paura” di Fabrizio Miliucci

Nota di lettura a cura di Riccardo Frolloni.

La paura è una delle emozioni primordiali, animali, e viene controllata dall’amigdala. Alla paura l’animale reagisce con il combattimento o con la fuga. La paura spinge alla sopravvivenza, è un potentissimo impulso vitale. Miliucci ha «deciso di scrivere un saggio sulla paura», perché «lei non mi dice più niente». Questo lei minuscolo, minimo, cui il poeta si riferisce e che scompare nell’opera, come qualcosa o qualcuno da non pronunciare. Qualcosa di pauroso: lei.

Ma ci può essere spazio per la paura in un libro che inizia così?: «Caro Carlo, // io mi volevo ammazzare […]». Il Carlo a cui si rivolge il poeta è un altro poeta, Carlo Bordini, morto. Dunque subito capiamo il tono e il tema: è un dialogo tra morti, o meglio, tra chi lo è sul serio e chi lo vorrebbe. Un dialogo impossibile con una sorta di Doppelgänger, o una dialettica negativa, dove tutto della vita (gli affetti, la famiglia, il ricordo, la scrittura, il lavoro, il senso) sappiamo cosa non è, vediamo manifesta la sua scandalosa e violenta mancanza di umanità, la sua perfetta inumanità: «Il mio stato cosciente è un verminaio oscuro e pauroso. Faccio finta di niente, / mi distraggo e mi rassicuro dicendomi che il solo pensiero non è un sintomo grave». A primo impatto, i modelli più semplici da ritracciare sono Simone Cattaneo e Salvatore Toma, per la violenza e la truculenza, ma anche Bernard-Marie Koltès per il dramma del doppio che c’è nella Solitudine dei campi di cotone (1986). D’altra parte torna insistente anche il lavoro dello stesso Bordini, La pura superficie (2017)di Guido Mazzoni, o a tratti anche una certa calibratissima puerilità che ricorda Stefano Dal Bianco, soprattutto quello della «distrazione»: unica via di fuga, forma di conoscenza, ma una conoscenza inutile per Miliucci; infatti, suicida è chi chiude i conti con la paura, il mancato-suicida è chi cerca una distrazione per sopravvivere a questa.

L’opera si divide in sei parti: Il presente domani; ErroriCittà aperta; La dolce vita agra; La deficienza; Il bene chiaro. Vediamo il personaggio-poeta procedere in una lunga autoanalisi, sembra quasi sentirlo ragionare ad alta voce, con la sua lingua naturale, la lingua dell’Es, sboccata e tagliente, non filtrata, sbrindellata, e così passa da anglismi («global warming»; «human skills») a dialettismi («fammi ‘sto piacere»), dal linguaggio tecnico psicoanalitico a quello filosofico: «Penso che non pensarci è stato come non pensare a me / che mi penso in continuazione, come una specie di parente lontano». La forza di queste poesie sta proprio nel giusto squilibrio che l’autore riesce a creare, nella ricerca di una «nuova educazione» tramite la scrittura poetica. Il verso a volte è breve, a volte lunghissimo, altre volte è una prosa, muta continuamente e la sua metamorfosi è coincidente col dettato. Ripercorre i traumi dell’infanzia, la violenza antica che si tramanda di generazione in generazione, quel mulinello di dolore che porta alla «certezza del disastro». Perciò la vita e la scrittura sono solo un mezzo di «distrazione del pensiero schizofrenico» e un modo per «interrogarsi sul male». D’altronde questo è un Saggio sulla paura, un verse-essay, con una sua presunta scientificità poetica, e come tale deve essere letto. La tensione poetica-filosofica-psicoanalitica si rispecchia (distorta, incrinata) nella realtà, descritta cinematograficamente, nella Roma-città aperta, producendo di fatto un rovescio del reale, dove realtà, coscienza, incoscienza, memoria, veglia, sogno, dialettica tra fuori e dentro, sono un tutt’uno nel laboratorio narrativo e poetico dell’opera-saggio.

Saggio sulla paura è un libro nero, crudissimo, dove la speranza non viene mai dichiarata apertamente e dove il combattimento (o la fuga, tra i due non c’è distinzione) se c’è è nel persistente tentativo della scrittura e negli affetti, o meglio, in alcuni di essi, in Giulia, «unico mio contatto col reale» e nella famiglia, dove è possibile  resistere a una vita tragicamente umana.


Costruiamo questa vita monca
fatta di atti mancati poche possibilità tirare avanti.
Gli orizzonti che vediamo non sono lineari, hanno una piega
in mezzo come delle V infinitamente espanse.

Passiamo il sabato a discutere i difetti di un bilocale sulla Casilina
ipotizziamo che trasferirsi ancora più in periferia abbasserebbe la rata del mutuo
attraversiamo Alessandrino Torre Maura Giardinetti e non vediamo niente.

Ma non è alienazione, è qualcosa che non sappiamo spiegare.
Il tempo si ammucchia fuori dalla finestra, il lavoro si assottiglia
come una candela, identità privata e collettiva diventano ogni giorno più divaricate.

Nel legno della nostra convivenza, un parassita ha dissodato un solco.

Potremmo alzare la testa e vedere cosa è fuori, ma fuori
è lo specchio irriflesso di quello che è dentro, ovvero un bisogno
in cui siamo giocati fino all’ultimo lembo di pelle.

Sei poesie di Gerardo Rodríguez Salas

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Matteo Cardillo.

Per definizione, l’anacronia è uno sfasamento temporale, un errore lungo la linea del tempo. In ambito narrativo, provoca uno stridore tra fabula e intreccio. Nel processo temporale di dilatazione e cristallizzazione di eventi, persone e cose, la memoria diventa il cursore attraverso il quale potersi muovere tra passato e presente senza smarrirsi nelle anacronie dell’assenza. In Anacronia (Valaparaíso Ediciones, 2020), prima raccolta poetica dello scrittore e accademico granadino Gerardo Rodríguez Salas, presente e passato sono due dimensioni simultanee, le superfici speculari di un nastro di Moebius che pur non toccandosi si confrontano, si intersecano e si criticano a vicenda, con il fine ultimo di raggiungere una catarsi (forse) impossibile: il superamento del trauma per la perdita di una persona amata. La persistenza della morte riecheggia costantemente nel presente, ma è anacronistica se accostata alla vita che continua a fluire indisturbata. Il libro è strutturato come un viaggio a ritroso; nel primo componimento, Odisea, che inaugura i molteplici riferimenti omerici presenti nella raccolta (si veda Sirenas, prima poesia qui tradotta), si salpa – o si fugge – dal presente per raggiungere il passato e scendere a compromessi con un dolore irrisolto. Il filo conduttore capace di cucire insieme le varie immagini che come schegge emergono dai testi di Anacronia è biografico e famigliare: nonne che preparano fette di anguria per rinfrescarsi dalla calura estiva, traversate oltreoceano, salme sporche di olio di motore, grida soffocate, notti dove il silenzio della solitudine si fa ingombrante, fantasmi silenziosi, e soprattutto un legame spezzato da una morte improvvisa, quella del fratello Javi in un incidente di moto nel 2001. Sono stati necessari vent’anni a Rodríguez Salas per verbalizzare il dolore e trovare gli strumenti per una lunga, riconciliatoria elaborazione. Al viaggio nella cartografia interiore della memoria si accompagna il viaggio reale in Nuova Zelanda, culla della cultura e della mitologia Maori, nonché patria di Katherine Mansfield, una scrittrice di riferimento per Rodríguez Salas. Nella poesia Leslie, l’autore intrattiene un dialogo intertestuale con i carteggi e i diari della scrittrice neozelandese, che aveva perso il fratello Leslie Mansfield durante la prima guerra mondiale. L’esperienza e le parole di un’autrice amata diventano lo specchio in cui riflettere il trauma della propria perdita. Così, dopo vent’anni e in terra straniera, si dispiega il lavoro del lutto, che è il lavoro per eccellenza della scrittura.


Anacronìa, pubblicato in Spagna nel novembre 2020 presso l’editore Valparaíso e finalista nella sezione poesia del XXVII Premio Andalucía de la Crítica è il secondo libro di Gerardo Rodríguez Salas. Risale al 2017, infatti, l’esordio in prosa Hijas de un sueño (Esdrújula), una raccolta di racconti in cui l’autore restituisce visibilità alla cultura e alla memoria orale andaluse, ambientando le storie a Candiles, un paese fittizio che può ricordare nelle atmosfere e nelle figure femminili la Macondo spazzata via dal vento di cui scriveva García Marquez.


Da Anacronìa, 2020

Sirenas

No conseguí decir que estabas muerto.
Se trabó la palabra en mi garganta,
aquel olor a túmulo y a flores,
a cirios apagados, tu sonrisa
deshilada en el manto misterioso
que te envolvió en el sueño.
Te anunciaron sirenas
prendiendo la calzada,
que olía a sangre y gasolina.
¿Quién escapa a su canto?
¡Atadme al mástil
pues no respondo, marineros!
Nada hacia la ambulancia nuestra madre
sin salvavidas,
se derrite la cera en sus oídos.
Aquella tarde rueda en mi cabeza,
resbala por laderas escarpadas
la pesadilla, veo aún
la cicatriz del quitamiedos
y el casco rojo.
No conseguí decir que estabas muerto.

Sirene

Non sono riuscito a dire che eri morto.
La parola mi si è aggrappata in gola,
quell’odore di tumulo e fiori,
di ceri spenti, il tuo sorriso
sfilacciato nel misterioso mantello
che ti ha avvolto nel sonno.
Ti hanno annunciato le sirene
incendiando la strada,
che sapeva di sangue e benzina.
Chi sfugge al loro canto?
Legatemi all’albero
che non rispondo, marinai!
Nuota verso l’ambulanza nostra madre
senza salvagente,
le si scioglie la cera nelle orecchie.
Quel pomeriggio rotola nella mia testa,
scivola lungo pendii ripidi
l’incubo, vedo ancora
la cicatrice del guardrail
e il casco rosso.
Non sono riuscito a dire che eri morto.

Palabras de papel

Busco palabras,
nombrar este dolor
que se despeña
por un catálogo de voces mudas,
sentimientos de aceite que flotan en el agua
podrida que me anega.
Busco palabras,
nombrar la mariposa
que vuela lejos, lejos de estas páginas
reales y eruditas,
frías como el papel
que me hace cortes en los dedos.
Busco palabras que te invoquen,
palabras que
huelan a ti,
suenen a ti,
sepan a ti,
pero las letras se hacen humo
y el fuego quema tanto
que no sé si la bruja que crepita
tendrá tu rostro
o el mío.

Parole di carta

Cerco parole,
per dare un nome a questo dolore
che precipita
per un catalogo di voci mute,
sensazioni di olio che fluttua nell’acqua
marcia che mi sommerge.
Cerco parole,
che diano nome alla farfalla
che vola lontano, lontano da queste pagine
reali ed erudite,
fredde come la carta
che mi lascia tagli sulle dita.
Cerco parole che ti invochino,
parole che
odorino di te,
che suonino come te,
che sappiano di te,
ma le frasi vanno in fumo
e il fuoco brucia così tanto
che non so se la strega crepitante
avrà il tuo volto
oppure il mio.

Escalera de agua

No hay grito más atroz que el del silencio
ni arrullo más genuino que el del agua,
no hay diques que contengan el ayer,
ni saltos, ni fronteras arbitrarias,
no hay olvido en el musgo ni rigor en la roca,
no bajo los peldaños, ni lloro por tu ausencia,
pues soy gota del río cristalino
que, fundida en tus dedos, abraza la ciudad.

Scala d’acqua

Non c’è grido più atroce del silenzio
né una nenia più genuina dell’acqua,
nessuna diga per contenere ieri,
nessun salto, nessun confine arbitrario,
non c’è oblio nel muschio né rigore nella roccia,
non scendo i gradini, né piango la tua assenza,
ché io sono una goccia del fiume di cristallo
che, fusa tra le tue dita, avvolge la città.

Hongi

Aquella noche no llovía
sólo en la calle.
Compartimos la cama como extraños
– la misma lluvia,
la misma pena –
pues ni el sol de tu pecho
prendió el cuarto anegado
mientras tus palmas
achicaban el agua de la alcoba
lamiéndome la piel.
Aquella noche no llovía
sólo en la calle.
Dejaste en el olvido
la hombría de tu tribu para entrar
en mis pupilas, para abrir
las puertas de tu mundo.
Rozamos la nariz y respiramos
– la misma brisa
al mismo tiempo.
Aquella noche no llovía
sólo en la calle.
En mi pueblo llovía, y en el tuyo
– la misma lluvia –
y el arca que forjamos
en la penumbra
surcó las olas.

Hongi

Quella notte non ha piovuto
solo in strada.
Abbiamo condiviso il letto come estranei
– stessa pioggia,
stesso dolore –
perché nemmeno il sole sul tuo petto
ha illuminato la stanza allagata
mentre i tuoi palmi
stavano tirando fuori l’acqua dall’alcova
lambendomi la pelle.
Quella notte non ha piovuto
solo in strada.
Hai lasciato nell’oblio
la virilità della vostra tribù per entrare
nelle mie pupille, per aprire
le porte del tuo mondo.
Ci strofiniamo il naso e respiriamo
– stessa brezza
allo stesso tempo.
Quella notte non ha piovuto
solo in strada.
Nel mio paese pioveva, e nel tuo
– stessa pioggia –
e l’arca che abbiamo forgiato
nell’oscurità
ha cavalcato le onde.

Nunca

El olvido es el pájaro que vuela
bajo el suelo
sumido en las raíces infinitas
del árbol deshojado.
El olvido es la anciana con los ojos vacíos,
las arañas que tejen nuevos párpados
cerrados, nuevos duendes
que urden bruma
en las ramas del mito.
El olvido es el diente que desgarra la noche
que sangra moribunda,
que llora gotas negras
que no se ven pero que gritan
sin voz y que arden húmedas
dentro, muy dentro…
¿Quién es la antípoda de quién
si tú saltaste al mar desde aquel árbol
saliéndote del mapa sin dejar
siquiera anchura a este vacío?
El recuerdo es la sombra
torpemente zurcida a los talones
y el olvido la piedra
que no termina nunca de caer.

Mai

L’oblio è il passero che vola
sotto terra
affondato nelle radici infinite
dell’albero spogliato.
L’oblio è la vecchia con gli occhi vuoti,
i ragni che tessono nuove palpebre
chiuse, nuovi elfi
che intrecciano la nebbia
tra i rami del mito.
L’oblio è il dente che lacera la notte
che sanguina moribonda,
che piange lacrime nere
che non si vedono ma che urlano
senza voce e bruciano umide
dentro, nel profondo…
Chi è l’antipodo di chi
se ti sei lanciato in mare da quell’albero
uscendo dalla mappa senza lasciare
nessun margine a questo vuoto?
Il ricordo è l’ombra
maldestramente rammendata ai talloni
e l’oblio la pietra
che non smette mai di cadere.

Copertina di Anacronía di Gerardo Rodríguez Salas

Il fantasma in gola: quattro poesie di Doireann Ní Ghríofa

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Beatrice Masi e Marta Olivi.

Doireann Ní Ghríofa, poeta, saggista e romanziera nata a Galway nel 1981, scrive e traduce (e si autotraduce) in gaelico-irlandese e in inglese. I suoi testi sono un continuo dialogo tra due vocabolari e due identità, accordati come i fonemi di una lingua che suona insieme due partiture.

La sua prima raccolta esce nel 2011 e si intitola Résheoid, ossia pietra lunare (“moonstone” in inglese). Solo nel 2015 viene pubblicato Clasp, il suo esordio in lingua inglese, a cui segue nel 2021 la sua più recente raccolta To Star the Dark. Anche nelle poesie in inglese (“béarla”), il gaelico (gaeilge”) resta presente, agendo sul tessuto del pensiero e nella  composizione delle immagini. Il suo debutto in prosa, A Ghost in the Throat (2020), assottiglia all’estremo il limite tra le due lingue. Nel testo, Doireann ripercorre i passi e le parole di un’altra poeta, Eibhlín Dubh Ní Chonaill, nata nel 1743 e autrice di Caoineadh Airt Uí Laoghaire, un’elegia che narra l’uccisione del marito per mano degli inglesi e il dolore straziante per la sua perdita. Doireann raccoglie le parole di Ebhlín e le traduce in inglese, facendo delle due lingue e di se stessa un ponte per una storia dimenticata.

Le poesie, le prose e i saggi di Doireann Ní Ghríofa sono parole fatte di carne, di strati di pelle, di muscoli, di vene e di sangue. I suoi versi ripercorrono incessantemente la linea di congiunzione tra la vita e la morte del corpo, tra la nascita e la dissoluzione, per sostare in alcuni punti e percepirli appieno: gli attimi dopo il parto, il momento in cui uno sconosciuto incide punti di sutura sulla pelle, o le notti insonni, quando la scrittura è una presenza viva che scalfisce l’epidermide e le ossa. Non c’è traccia di paura nei suoi testi: la morte, “bás”, e la nascita, “breith”, sono incontri corporei, e vengono accolte come si accolgono le foglie che cadono in inverno o il giallo della ginestra che sboccia nel grigio della brughiera.

Nulla nell’opera di Doireann Ní Ghríofa è scindibile dalla carne, e come in “harvesting vellum” – la prima poesia qui proposta in traduzione – la pelle umana diventa pergamena, e i testi si inscrivono nelle cellule, quelle antiche e dimenticate, quelle nuove, e quelle che devono ancora nascere.


Da Clasp (2015)

harvesting vellum

peel away layers of skin
and find again

the hidden digits
once written on this wrist

blue ink on flesh, blue ink
over skin and vein,
blue ink of a number, a name

it’s still there, just as under layers
of lip

lies the fossil
of a first kiss.

raccogliere il vellum

stacca la pelle strato per strato
e ritrova

le cifre nascoste
scritte un tempo qui sul polso

inchiostro blu su carne, inchiostro blu
su pelle e vene,
l’inchiostro blu di un numero, un nome

è ancora lì, come sotto strati
di labbra

resta il fossile
di un primo bacio.

I carry your bones in my body

I carry you in my body
little skeleton
little skull
– nobody – nearlybody – my small someone.

I carry you in my body
little skeleton
little skull
somebody – nobody – a tangled knot, undone.

Porto le tue ossa nel mio corpo

Ti porto nel mio corpo
piccolo scheletro
piccolo cranio
– nessuno – quasiqualcuno – il mio piccolo qualcuno.

Ti porto nel mio corpo
piccolo scheletro
piccolo cranio
qualcuno – nessuno – un nodo intrecciato, disfatto.

Jigsaw

For months, all I knew of you
was a jumble of limbs, a muddle of joints
moving like shadows under my skin –
the prod of knee or elbow,
the roll of foot or hip.

When you slid from me          to me
I spent hours piecing your jigsaw
together in slow recognition –
how the arch of your foot
fit the hollow of my palm,
how your head nestled
into the curve of my neck.

We fit, you and I –
familiar stranger,
unknown made known.

Puzzle

Per mesi, tutto quello che sapevo di te
era un groviglio di arti, un garbuglio di giunture
che si muovevano come ombre sotto la mia pelle –
i colpetti delle ginocchia o dei gomiti,
la pressione del piede o del fianco.

Quando sei scivolata da me                 a me
ho passato ore a rimettere insieme i pezzi
del tuo puzzle riconoscendoli uno ad uno –
come la curva del tuo piede
combaciava con il palmo della mia mano,
come la tua testa si accoccolava
nell’incavo del mio collo.

Ci incastriamo, io e te –
estranea familiare,
sconosciuto che diventa conosciuto.

Da Star to the Dark (2021)

A Letter to the Stranger Who Will Dissect My Brain

For months, you worked
scissors and scalpel

through elbow and knuckle,
ligament and lung.

I felt you gasp, the morning
you folded my face back like a mask.

For you, my head was unsealed
by chisel and skull key, so that today,

you may raise the calvarium
and see my brain there,

cold, grey, under dura mater
and spider-web membrane.

For this moment, dear stranger,
I leave you a gift, a double word –

foscladh – its sylllables can both open
and throw sheet lightning.

Know that when you unlock my brain
with your blade, synaptic flashes

will flare over your own grey landscape.
Your brain will blaze bright,

alive and wild, and I,
I will be the light.

Lettera allo sconosciuto che mi dissezionerà il cervello

Per mesi, ti sei fatto largo
forbici e bisturi

per gomiti e nocche,
legamenti e polmoni.

Ti ho sentito sobbalzare, la mattina
che mi hai sfilato la faccia, come una maschera.

Per te, scalpello e chiave maestra,
la mia testa non aveva più sigilli, e oggi

puoi sollevare la calotta cranica
e vedere il mio cervello là,

freddo, grigio, sotto la dura madre
e le membrane sottili.

Per questo momento, mio caro sconosciuto,
ti lascio un regalo, una parola doppia –

foscladh – le sue sillabe sanno sia aprire
che lanciare fulmini dentro le nuvole.

Sappi che quando schiuderai il mio cervello
con la tua lama, lampi sinaptici

brilleranno sul tuo paesaggio grigio.
Il tuo cervello avvamperà,

vivo e selvaggio, e io,
io sarò la luce.

Su “Prossimo e remoto” di Eleonora Rimolo

Nota di lettura a cura di Lorenzo Di Palma.

Il quarto libro di poesie di Eleonora Rimolo, Prossimo e remoto (PeQuod, 2022), è corredato da una postfazione di Milo De Angelis, che con l’estrema sintesi dei grandi poeti esaurisce da solo tutti gli argomenti di un recensore. Mi limito soltanto a qualche riflessione sulle criticità stilistiche e sui punti di forza che a mio avviso meritano di essere messi in luce.

Il libro si presenta come un dialogo ininterrotto tra un Io femminile e un Tu ambiguo e cangiante che assume le forme di una figura paterna, di un amante, di un figlio. A tratti questi simulacri possono liquefarsi fino a diventare elementi astratti o metafisici ai quali rivolgersi. La struttura è quella di brevi poesie dal tenore epistolare: non c’è mai una spiccata sequenzialità nei testi, eppure si percepisce il senso di progressione di una storia.

La prima sezione, «Microcosmo», è dominata da una serie di oggetti quotidiani (i lacci, il cuscino, i bagagli), elementi naturali (la palude, lo stagno, le foglie, la corteccia), animali (il cane, il cervo, il rettile). La stonatura incombe quando l’autrice si ingessa in un manierismo geometrico e tutto si fa vago e accentuatamente cartesiano («sfere di silenzio», «imprecisa retta dell’orizzonte»); oppure quando al contrario si abbandona a metafore languide, trasognate («La tua mano è un cardo pungente senza fiori» in apertura di una poesia che contiene, pochi versi dopo, anche un «cuore basalto»). Le ultime due poesie giovano a rendere meno artefatti i toni (i versi iniziali recitano: «Per te solo ho distrutto il pudore e la gloria» e: «Come dire che questo libro è scritto / per te…»).

La seconda sezione, «Isole», è la più breve e forse la più coerente. Come per la precedente la coerenza è data essenzialmente dall’insieme lessicale, in questo caso afferente al mondo marino. Ecco comparire la Capraia, l’amo, la schiuma, la roccia, gli scogli, l’acqua, l’abisso, le gocce, l’umidità, la corrente. Il Mediterraneo diventa «l’enorme abisso limaccioso». La narrazione gira attorno all’Io che si rivolge ad un «padre mancato» (un profugo? un orfano del mare?).

 Ancora poche pagine e leggiamo: «Queste sono le mie colline: occupano uno spazio». Il tono perentorio e la parola spazio ci informano che siamo passati a un ultimo contenitore lessicale, quello geologico e astronomico (le stelle, i pianeti, i vulcani, i punti cardinali, «la macchina del mondo») che corrisponde alla terza sezione: «Macrocosmo». È in questa sezione che troviamo le poesie più interessanti, forse grazie ad una tensione filosofica apparentemente assente nel resto del libro. («e su Marte non c’è biologia ma c’è / sulla terra stasera una paura / che fa più umane le cose…»).

Per concludere, non posso evitare di menzionare l’occorrenza assillante dell’avverbio/congiunzione quando che compare 21 volte su 50 poesie totali. Niente di inaspettato per un libro in cui il tempo rappresenta fin dal titolo l’elemento dominante; più difficile da comprendere la scelta di ripeterlo anche più di una volta nella stessa poesia, rendendolo a tutti gli effetti un leitmotiv piuttosto insistente.

Insomma, si tratta di una scrittura godibile, a tratti manierata, che trova le sue vette nei punti in cui la totale mancanza di palingenesi professata dalla Rimolo si fa più chiaramente universale, umana, e trascende gli eventi minimi di quotidianità corriva, argomento più di ogni altro inflazionato nella poesia contemporanea. Perché è proprio grazie a questo sforzo speculativo che si arriva indenni alla «sola parola che conta».


Questi corpi elementari che volano eterni
dai ponti metallici sono mossi dagli urti
e scarnificati fino alla completa dissoluzione:
forse camminano al nostro fianco, vestono di lana,
si proteggono dall’infezione. Non basta per esserci.
Sempre in qualunque luogo stia qualunque persona
da ogni lato si lascia sempre un tutto infinito:
vorrei toccare Vera con la punta delle dita,
rimettere in piedi Umberto con un abbraccio,
dire a Nilde che il dolore è solo un lampo.
Ogni giorno voltiamo la pagina, con grazia
attraversiamo le epoche, recitiamo la favola
dei mondi antichi in esametri. Questa è
l’ottusa insistenza della storia, il mio breve
messaggio di congedo, la sola parola che conta.

I chiodi sono caduti: tre poesie di Yiannis Stigas

Introduzione e traduzioni dal greco moderno a cura di Vassilina Avramidi.

I chiodi sono caduti, e cioè: nulla più garantisce le vecchie certezze dei greci (quel «Dio» e quel «sole» che troviamo all’inizio di «Matematica semplice»). L’unico rimedio è un’incessante escavazione linguistica, la ricerca ossessiva di una parola poetica che sappia ancora dire l’esistenza. Poesia come scavo, dunque, quella di Yiannis Stigas. Nato ad Atene nel 1977, di professione medico neurologo, è tra le voci più affermate e interessanti nel panorama della poesia greca contemporanea. Già dal primo libro, I aliteia tou aimatos (La gentaglia del sangue, 2004), la sua scrittura si presenta come politica, engagée. Vi si denunciano i mali e la superficialità di tutta una generazione, tanto da far guadagnare a chi scrive l’epiteto di «pericoloso»1. Una scrittura pericolosa e tagliente, come la «lama» in «Esercizi di respirazione», che predilige versi piuttosto brevi e condensati, senza rima o struttura metrica precisa, scanditi però dal ritmo del respiro e dal confronto con la tradizione. Le parole di chi scrive intrattengono infatti un fitto dialogo intertestuale con quelle dei suoi modelli: Majakovskij, Hernández, Celan, Sahtouris, Aggelaki-Rouk sono gli interlocutori privilegiati dell’Isopalo Trauma (Trauma Pareggiato, 2009). Nel più recente Vlepo ton kyvo tou Roubik fagomeno (Vedo che hanno morso il cubo di Rubik, 2014), vengono invece evocate figure mitiche, antiche e moderne: il Ciclope, il Minotauro, la Sirena e Medusa. Ciò che rimane costante all’interno della produzione poetica di Stigas, nel solco di un poeta-scavatore a lui molto caro come Paul Celan (che diventa anche personaggio in «Mio fratello Paolo, lo scavatore del Senna»), è una certa tendenza a misurarsi (e spesso a scontrarsi) con i limiti del linguaggio, ed una certa testardaggine: quella di provare e riprovare.

Negli ultimi anni, la poesia di Stigas ha ricevuto una crescente attenzione internazionale ed è stata tradotta in varie lingue (bulgaro, francese, inglese, tedesco). Alcuni suoi testi sono stati inseriti in antologie di poesia greca contemporanea, tra cui Metra Litotitas – Austerity Measures, curata da Karen van Dyck e pubblicata da Penguin nel 2016. Le tre poesie qui presentate, tratte da tre sillogi differenti, compaiono insieme proprio in Austerity Measures.

«Matematica semplice», I aliteia tou aimatos (La gentaglia del sangue), ed. Gavriilidis, 2004.
«Esercizi di respirazione», I Orasi th’archisei ksana (La vista inizierà ancora), ed. Kedros 2006.
«Mio fratello Paolo, lo scavatore della Senna», Isopalo Trauma (Trauma Pareggiato), ed. Kedros, 2009.


Απλά μαθηματικά

Φτάνοντας στο τέταρτο χιλιόμετρο της σιωπής,
μου έπεσαν τα καρφιά για Θεό και για ήλιο.
Έκτοτε, περιφέρομαι με το μεγάλο μηδέν υπό μάλης.
Αρχικά, ήταν ένας κοινός υπνόσακος
– ξέρετε, μπαίνεις, δηλαδή ονειρεύεσαι.
Τώρα, είναι ένα πελώριο οικοτροφείο
για τους ψυχικά άφλεκτους.

Αφού έγιναν όλα αυτά με το μηδέν
φανταστείτε τι θα μπορούσε να συμβεί με το Ένα.

Matematica semplice

Arrivato al quarto chilometro del silenzio,
mi caddero i chiodi per Dio e per il sole.
Da allora, vago con un grande zero sotto l’ascella.
All’inizio, era un comune sacco a pelo
– sapete, entri, cioè sogni.
Adesso, è un enorme collegio
per i mentalmente ininfiammabili.

Se tutto ciò è successo con lo zero
immaginate cosa potrebbe succedere con l’Uno.

Ασκήσεις αναπνοής

Γύρισα ανάποδα την ψυχή μου
κι είδα πώς μεγαλώνουν οι πέτρες

(με λίγο φως)
σκληραίνει η τύχη και γίνεται

ν’ ανεβαίνουν ψηλά τα πουλιά
κι έπειτα
τα ξεκουρδίζει ο ήλιος

Προσπάθησε ν’ αναπνέεις κανονικά
μέσα γαλάζιο – έξω γαλάζιο
σε μια πνοή ξανασυμβαίνουν όλα
Οι πέτρες έλεγα
– τα πάντα δίνονται σαν ξυράφι
κι άμα τα θέλεις πιο βαθιά
μέσα γαλάζιο – έξω γαλάζιο
άμα τα θέλεις πιο βαθιά

καλό κουράγιο

Αυτός ο κόσμος
είναι η πιο σπλαχνική μορφή του ποτέ
Ποτέ ο ιδρώτας
τόσο πολύ με το αίμα

Esercizi di respirazione

Ho rovesciato la mia anima
e ho visto come crescono le pietre

(con poca luce)
si indurisce la fortuna e accade

che salgano più in alto gli uccelli
e poi
il sole ne allenta le corde

Prova a respirare normalmente
azzurro dentro – azzurro fuori
in un respiro risuccede tutto
Le pietre, dicevo
– tutto si dà come una lama
e se lo vuoi più dentro
azzurro dentro – azzurro fuori
se lo vuoi più dentro

buona fortuna

Questo mondo
è la forma più pietosa del mai
Mai il sudore
così tanto col sangue

Ο αδερφός μου ο Παύλος ο σκαφτιάς του Σηκουάνα

«O du gräbst und ich grab
und ich grab mich dir zu»
Paul Celan

Έτσι όπως έσκαβε
μια μέρα έφτασε
στο χιονισμένο στόμα της μητέρας του
στις μακριές πλεξούδες των προγόνων του
μια μέρα πέρασε
τις ρίζες του νερού

τα πέτρινα

τα πύρινα

τα πάνδεινα που πέρασε

έκτοτε του ’μεινε
ένα καμένο σύννεφο στο βλέμμα
μια δυσκολία με τον άνεμο

Jiskor
Kaddisch

ένα τρελό λαχάνιασμα

«το βάθος» έλεγε
«το βάθος σε σημείο εξάντλησης
και γλώσσα είναι
και πατρίδα μου»

Και τότε βγήκε σ’ ένα μέρος
γεμάτο δέντρα και ποτάμια και πουλιά

και έμεινε εκστατικός

μέχρι που ακούστηκε στρατιωτικό παράγγελμα:
«να στοιχηθούν ολοταχώς
κάλεσμα για συσσίτιο»

και φύγανε τα δέντρα
    τα ποτάμια
τα πουλιά

Μονάχα ο Σηκουάνας έμεινε
να τον κοιτά στα μάτια.

Mio fratello Paolo, lo scavatore della Senna

«O du gräbst und ich grab
und ich grab mich dir zu»
Paul Celan

Mentre scavava
un giorno giunse
alla bocca innevata di sua madre
alle trecce lunghe dei suoi antenati
un giorno attraversò
le radici dell’acqua

taglienti

ardenti

dolorosi avvenimenti attraversò

da allora gli rimase
una nuvola bruciata nello sguardo
una difficoltà col vento

Jiskor
Kaddisch

un fiatone folle

«la profondità» diceva
«la profondità fino allo sfinimento
è la mia lingua
è la mia patria».

E poi uscì in un luogo
pieno d’alberi e fiumi e uccelli

e rimase estasiato

finché non si udì l’ordine militare:
«allineatevi rapidamente,
chiamata per la mensa»

e se ne andarono gli alberi
    i fiumi
gli uccelli

Solo la Senna rimase
a guardarlo negli occhi.

Su “Tutte le poesie” di Cosimo Ortesta

Nota di lettura a cura di Federico Di Mauro.

In questi giorni esce per Argolibri l’opera completa del poeta e traduttore dal francese Cosimo Ortesta (1939-2019), a cura di Jacopo Galavotti, Giacomo Morbiato e Vito M. Bonito. Il volume persegue coerentemente il progetto della casa editrice di Macerata di riproporre autori fuori canone del Novecento italiano. Già ampiamente conosciuti i bei volumi sull’opera omnia di Corrado Costa e su Trilce di Cesar Vallejo. La collana Talee ancora una volta si distingue per la grande cura critica ed editoriale: come nelle precedenti uscite, le introduzioni e le postfazioni si pongono come un luogo di dibattito critico serio, a margine di una riflessione generale sulla poesia d’avanguardia di ieri e di oggi.

Ortesta ha fatto fatica a trovare uno spazio nelle antologie della poesia recente, a eccezione della breve comparsa tra le pagine di Dopo la lirica di Enrico Testa. Le ragioni sono espresse da Galavotti e Morbiato nel saggio Una sola digressione ininterrotta. Cosimo Ortesta poeta e traduttore (Padova University Press), che tre anni fa ha aperto la strada per la riscoperta del poeta. Oltre a essere ostile al conformismo dei salotti letterari italiani, Ortesta era un poeta consapevolmente e orgogliosamente anacronistico. Esordiente a oltre quarant’anni con Il bagno degli occhi (1980), opera emblematica e barocca che molto deve a Mallarmé e ai poeti di Tel Quel (Sollers, Jaccottet, e altri), egli traccia una parabola autoriale insolita e difficilmente catalogabile. Da un lato, riprende con coerenza il materialismo che aveva animato la cultura francese del Sessantotto – già ampiamente dismessa all’altezza degli anni Ottanta, per non dire negli anni Novanta; dall’altro, impegna un dialogo serrato con se stesso, che di raccolta in raccolta lo porterà a chiudersi nei temi e nei motivi più ossessivamente personali: la memoria, la malattia, il disfacimento del corpo, la morte.

Letta oggi, la poesia di Ortesta ha un importante valore documentario perché ritrae un momento di svolta della poesia del secondo Novecento dal punto di vista di un interprete d’eccezione.

Dopo una prima fase all’insegna dello sperimentalismo di matrice parigina, Ortesta raggiunge la piena maturità stilistica in Serraglio primaverile (1999). Qui l’autore sa bilanciare istanze di un certo manierismo oscuro, come il travestimento in figure del mito, le accese sinestesie, i pesanti ossimori, la metaforica obliqua alla Dylan Thomas e l’insistenza martellante sul significante, al disvelamento di un vissuto lacerato, solcato dal trauma costante della perdita e da una pervasiva sofferenza psichica.

Il Serraglio abbandona in parte la messa in scena esclusivamente intra-psichica delle prime raccolte e va incontro al mondo esterno, percepito come minaccia costante. Alberi, animali, personaggi dai contorni evanescenti (bambini, ragazze, donne vedove) inscenano una specie di idillio rovesciato, dove un mondo radicalmente negativo rischia di rovesciarsi sulle vite degli esseri umani, inseparabili dal dolore, dall’invecchiamento e dal lutto:

È verde il bocciolo e fiorirà
quando più non parlerai.
Una specie di primavera sfiora il corpo gelato
un odore di felci e miele tutt’intorno
alle bocche che mangiano e baciano
annuncia un pensiero
l’umida crepa mistero tremante
nel fiato della madre.
Colpisce la compattezza stilistica e tematica della raccolta, che segna una rottura rispetto alle prime fasi sperimentali di Ortesta.

A seguire La passione della biografia, un’auto-antologia uscita nel 2006 per Donzelli. Il libro prende il nome dal poemetto uscito originariamente nel 1977 sui Quaderni della Fenice di Guanda, diretti al tempo da Attilio Bertolucci, e segna il consuntivo di questo poeta notturno, terminale, quasi postumo in vita.

Ortesta si muove dietro la rappresentazione, sul palcoscenico della mente e dei suoi fantasmi, per mezzo di un linguaggio-geroglifico segnato dalla rimozione; qui però un maggiore intento comunicativo e in generale una disposizione più favorevole alla comprensione e l’immedesimazione del lettore permettono alla sua poesia di rilasciare l’incandescente contenuto psichico delle sue immagini e di avvolgere il lettore in un ritmo più disteso e quasi narrativo. Da Zanzotto e Ungaretti, i punti di riferimento diventeranno soprattutto Giudici e Bertolucci. Nel lungo poema Céleste che apre la raccolta, indossando la maschera di Proust, l’autore ci fa calare nell’esperienza del corpo malato e dell’attesa della morte, riscattata in parte dal progetto di un’opera capace di trascendere l’esperienza della finitudine dell’individuo:

immobilità e silenzio gli [a Proust] insegnano a lavorare
per un’improbabile vita futura

mentre, sul fondo, fa la sua comparsa il presentimento del nulla definitivo

un’unica forma nera pronta
a dileguarsi nella notte
sta per toccare il confine
ecco adesso vi è entrata

l’azzurro intravisto dalla finestra
è un luogo preciso della terra
senza rilievo senza colore gli alberi
e le colline non entrano più nei suoi occhi.

Memorie, apparizioni, aritmie: tre poesie di Yara Nakahanda Monteiro

Introduzione e traduzioni dal portoghese a cura di Nicola Biasio.

“Sono pro-pronipote della schiavitù, pronipote del meticciato, nipote dell’indipendenza e figlia della diaspora.”

È attraverso l’incontro di piani temporali, genealogie di oppressione e memorie familiari che Yara Nakahanda Monteiro cerca di definire la sua identità. Nata nel 1979 in Angola, nella provincia di Huambo, a due anni si trasferisce con la famiglia in Portogallo. Yara cresce in una casa in cui i vecchi documenti dell’ufficio del nonno, gli album di famiglia ricolmi di fotografie e le cartine geografiche del continente africano evocano costantemente i fantasmi del colonialismo portoghese in Angola, conclusosi nel 1974 a seguito della Rivoluzione dei garofani. In bilico tra le memorie africane di seconda mano della famiglia e la vita in un Portogallo ostile ai figli degli immigrati dalle ex colonie, Yara deicide di utilizzare la letteratura come strumento di interpretazione del presente. Dopo il suo primo romanzo (‘Sta tipa spacca!, nella traduzione italiana pubblicata nel 2021 da Edizioni dell’Urogallo), l’autrice debutta con il suo primo libro di poesia, Memórias Aparições Arritmias (Penguin Livros, 2021), che riunisce componimenti già precedentemente pubblicati in diverse riviste brasiliane, portoghesi e del continente africano. La critica ha definito Memórias Aparições Arritmias come una raccolta di poesia decoloniale ed ecofemminista. Unendo l’oralità della tradizione angolana e i costumi poetici occidentali, la poesia di Yara Nakahanda Monteiro trasporta il lettore in altri tempi e spazi: muovendosi tra memorie intergenerazionali e vicende autobiografiche, l’autrice ricorda simultaneamente l’’infanzia trascorsa nella periferia di Lisbona e le storie di vita in Angola raccontate da sua nonna. E da queste memorie Yara evoca fantasmi che infestano il nostro presente: la diaspora, l’esilio, le condizioni di vita delle comunità afrodiscendenti, la violenza contro le donne, gli spettri del colonialismo reincarnati nel razzismo strutturale e quotidiano, la questione della nazionalità, la ricerca identitaria attraverso l’arte. Europea o africana? “Sono solita dire” – afferma Yara – “che le mie radici sono africane, angolane, ma le mie ali sono europee, sono portoghesi”. Nutrite dalle ombre del passato, le sue parole si trasformano in evocazioni, apparizioni, palpitazioni, aritmie cardiache, macchie confuse, ricordi vaghi, inquietudini scarabocchiate in un quaderno interminabile in cui i confini tra passato e presente, tra Europa e Africa, tra sogno e realtà sfumano, diventando altro: poesia.


Descarnar memórias

Esboço na retina de Mnemosine tempo antigo a maturar:
sílabas recortadas e vozes anuladas;
   [oiço minha avó velha]
palavras defuntas
ortografadas na calçada coberta por poeira,
terra descontinuada
   [leio meu avô]
reflexos no cacimbo, dia de festa,
bestas engravatadas, crianças, mulheres descalças;
   [vejo anónimos]
e sonhos trémulos,
trespassados pelo exílio apartado do amor colorido
dos gladíolos em flor,
e sua glória.
   [ameigo seus ecos retalhados]
O tempo sagaz empilha as folhas rubras caídas das acácias.
Corre em mim o mesmo sangue.
Trajo a reverência aos antepassados: panos e chifre de boi.

Primeiro, no tempo nascente, percorro as casas decompostas
deixadas para trás.
Procuro o escalpelo, talhado
com o sacrifício das nossas lágrimas.

Depois,
no chão estendo
o manto negro ruborizado.
Arranjo memórias em película aderente.
Retiro-lhes a pele.

Chegam os espectros ressoando ladainhas,
benzendo-me com seus risos,
batendo com os pés escuros
na dureza da nova terra.

Juntos descarnam-se as memórias
enquanto das
veias e artérias jorram
repuxos nutridos
a óleo de palma.

No piscar de olhos da titânide, bebo água do rio Lete.
Há esquecimentos que vêm por bem.

Scarnificare memorie

Abbozzo nella retina di Mnemosine un tempo antico da elaborare:
sillabe troncate e voci annullate;
   [sento la mia vecchia nonna]
parole defunte
sillabate sul selciato coperto di polvere,
terra discontinua;
   [leggo mio nonno]
riflessi nel cacimbo, giorno festivo,
bestie incravattate, bambini, donne scalze;
   [vedo anonimi]
e sogni tremolanti,
trapassati dall’esilio lontano dell’amore colorato
dai gladioli in fiore,
e dalla sua gloria.
   [accarezzo i suoi echi frammentati]
Sagace, il tempo impila le foglie rosse cadute dalle acacie.
Scorre in me lo stesso sangue.
Vesto il rispetto dei miei antenati: panni e corna di bue.

Prima, al levar del tempo, percorro le case decomposte
lasciate indietro.
Cerco il bisturi, forgiato
col sacrificio delle nostre lacrime.

Poi,
a terra stendo
uno scuro manto arrossato.
Sistemo memorie su pellicole aderenti.
Le spello.

Arrivano gli spettri riecheggiando litanie,
benedicendomi con le loro risate,
battendo i loro piedi scuri
sulla dura e nuova terra.

Insieme scarnifichiamo memorie
mentre dalle
vene e arterie sgorgano
getti nutriti
dall’olio di palma.

Allo strizzar d’occhio della titanide, bevo acqua dal fiume Lete.
Dimenticare, alle volte, fa bene.

Outrora

Lembras?
Quando eras bicho do céu,
bicho da água, bicho da mata, bicho do âmago?
Lembras
a inteireza da nossa casa, do tempo antigo
onde aflorava a vida?
Nossos corpos feitos de terra,
nossos gestos livres, coloridos, irrigados
com a saliva do torrão.
Gestos ainda por analisar, estruturar,
matematizar…
Junto dos teus, que são os nossos,
pulsando imersos
fazendo mundo, criando cosmos?
Nós, os do começo.

Lembras?

No meu colo
mamaste
a seiva verde dos meus potes.
Sugaste
o tanto de caudal vivo transmutado nos casulos.
Farejaste
por entre as colinas
pujança dos campos floridos, matas adensadas.
Tateaste
os caminhos divinos abertos pelos rios neste vasto corpo.
Abriste
rachas, feridas,
ávido de mais, sempre mais,
criatura com fome.
Nem adeus te pude fazer.
Hoje chegas e matas-me.

Lembras?

Não lembras.
… e fui eu quem te pariu.

Un tempo

Ricordi?
Quando eri animale del cielo,
animale d’acqua, animale della foresta, animale del nocciolo?
Ricordi
l’integrità della nostra casa, del tempo antico
dove affiorava la vita?
I nostri corpi fatti di terra,
i nostri gesti liberi, colorati, irrigati
con la saliva del suolo.
Gesti ancora da analizzare, strutturare,
matematizzare…
Gesti tuoi, che diventano nostri,
pulsando sommersi,
tessendo mondi, creando cosmi?
Noi, quelli dei primordi.

Ricordi?

Tra le mie braccia
hai poppato
la verde linfa delle mie riserve.
Hai succhiato
un intero torrente vivo trasformato in bozzoli.
Hai fiutato
tra le colline
il vigore dei campi fioriti, foreste addensate.
Hai palpato
i cammini divini aperti dai fiumi di questo vasto corpo.
Hai aperto
fessure, ferite,
sempre e sempre più avido,
creatura affamata.
Non ho potuto neanche dirti addio.
Oggi arrivi e mi uccidi.

Ricordi?

Non ricordi.
… e chi ti ha partorita sono io.

A heresia de Eva

Assobiam ditos.
Ditos do rio íntimo
adensado.
É este o sangue que me torna
mulher?

Se me despir
e dispo,
se me despedir
e despeço,
de tudo               de todos
e se empurrar
derrubo
a porta do «paraíso».

Ditos virgens.
No ventre levo casa, vila,
cidade, mundo, tudo,
todos                 o Universo.
E nada levo.

Eu, a criadora!
Invoco a fêmea,
a criatura.

Aqueduto de águas,
boca solta,
em verão húmido e ensolarado.
Ditos da mulher,
mitos e narrativas.
Ditos não ditos
sobre os deltas
vivos, infindáveis.
Assim,
semeando óvulos
pelo
espaço,
pelas
órbitas onde germinam
outras fêmeas e outros ventres,
nascentes intocadas.
Rias que se adensam
caindo como chuva na epiderme do Sol,
benzendo o portal de luz.

O astro descamba
no leito onde crescem as raízes.
Faz-se chama.
Na vala noturna irrompe a lua,
febril e circular.

Pelos túneis do meu corpo térreo
recolho a límpida seiva
em minhas garras de madrepérola.
Bebe-a o meu jardim.

Não existe nada que «devesse ser».
É isso que não sou:
a Terra imitando o Sol.

Ditos meus
não cedem ao rumor do desespero
do passar do tempo.

Ditos não ditos.
Ditos bíblicos
Ditos escritos na névoa das constelações.

L’eresia di Eva

Fischiano detti.
Detti del fiume intimo
addensato.
È questo il sangue che mi rende
donna?

Se mi spoglio
e mi spoglio,
se mi congedo
e mi congedo,
da tutto               da tutti
e se spingo
abbatto
la porta del «paradiso».

Detti vergini.
Nel ventre porto casa, paese,
città, mondo, tutto,
tutti               l’Universo.
E niente mi resta.

Io, la creatrice!
Invoco la femmina,
la creatura.

Acquedotto di acque,
bocca sciolta,
nell’estate umida e soleggiata.
Detti di donna,
miti e narrazioni.
Detti non detti
sui delta
vivi, interminabili.
Così,
seminando ovuli
attraverso
spazio,
attraverso
orbite dove germinano
altre femmine e altri ventri,
sorgenti intoccate.
Foci che si addensano
cadendo come pioggia sull’epidermide del Sole,
benedicendo il portale di luce.

L’astro s’inclina
sul letto in cui crescono le radici.
Diventa fiamma.
Nella fossa notturna irrompe la luna,
febbrile e circolare.

Attraverso i tunnel del mio corpo terroso
raccolgo la limpida linfa
nei miei artigli di madreperla.
La beve il mio giardino.

Non esiste nulla che «dovrebbe essere».
È questo che non sono:
la Terra imitando il Sole.

Detti miei
non cedete al rumore di disperazione
del passare del tempo.

Detti non detti.
Detti biblici.
Detti scritti nella nebbia delle costellazioni.

Copertina di Memorias, Aparicoes, Arritmias di Yara Nakahanda Monteiro
Yara Nakahanda Monteiro, Memórias Aparições Arritmias

Due voci a confronto. Su “Exfanzia” di Valerio Magrelli

Note di lettura a cura di Clara Tumminelli e Patrizio Andrisano.

Introduzione

Questo articolo riunisce due contributi sul nuovo libro di Valerio Magrelli Exfanzia (2022), degli studiosi Patrizio Andrisano e Clara Tumminelli. I due autori si inseriscono nel dibattito sorto nelle ultime settimane a proposito del valore letterario del libro, analizzandolo da prospettive diverse. Clara si sofferma maggiormente sull’aspetto pop della raccolta, rilevandone i punti critici nel confronto con la produzione precedente di Magrelli; Patrizio invece mette in luce le sottili linee di significato che attraversano il testo, cercandone l’unico punto di fuga rappresentato dal tema del riconoscimento.


Exfanzia, il fiammifero e lo stoppino

di Clara Tumminelli

Ēx: preposizione, parte del discorso non declinabile: “da, fuori di”.

A distanza di otto anni dall’ultima pubblicazione di poesie, Valerio Magrelli (nato a Roma, classe ‘57) si ripropone nel panorama poetico con la raccolta Exfanzia, uscita il 15 febbraio 2022 per la collana Einaudi. Nel ‘77 un giovanissimo Magrelli appare con i suoi primi esperimenti nella rivista «Periodo ipotetico», diretto da Elio Pagliarani. Esordisce nel 1980 con Ora serrata retinae, a cui seguono Nature e venature (1987), Esercizi di tiptologia (1992), Didascalia per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006) e Il sangue amaro (2014) che saranno poi raccolti in Le cavie: poesie 1980-2018 (Einaudi, 2018). Traduttore e critico letterario, Valerio Magrelli insegna Letteratura francese presso l’Università di Pisa e di Cassino.

Il ribaltamento esercitato da Ēx- apre subito il tema della raccolta e richiede al lettore una torsione, uno sforzo di espansione che segue il movimento messo in moto da questo rimaneggiamento. Exfanzia, dunque, come moto da luogo, come trazione («la vecchiaia è: diventare liquido»). È la senilità come condizione esistenziale, uscita dal sé, sguardo sul mondo e sull’infanzia («d’essere, io stesso, pantano!»). L’immagine dello sguardo «non allegro, ma assorto» del bambino che palleggia «solo col suo pallone e le sue leggi» – in apertura della sezione «Sotto la protezione di Pollicino» – viene riprodotta incessantemente lungo tutta la raccolta, è una sottrazione, e si fa retrospettiva, strozzata: parla di malattia e di morte («Se lui è malato, io cosa sono?»; «Sto qui nel letto. Febbre.») con uno scarto forte rispetto alle precedenti raccolte che affrontano il tema come chiave escatologica del rapporto corpo-cavia-mondo («il vivo veniva legato a un cadavere», in Noterelle archeologiche); si abbandona nella nenia di una filastrocca, mediante l’utilizzo provocatorio di rime inclusive («versi/avversi»; «logopedista/dista»), volutamente sciatte, dando vita a «un kit di rime da assemblare». Lo stile, dunque, è dimesso, semplice, e sembra farsi forza in un’estetica bruttura che naviga la superficie delle parole perché «Poesia viene da pus», mentre il lessico si apre sempre di più a tecnicismi collaterali e prestiti di lusso («check-in»; «stretching»; «shopping»; «password», «phon»).

La protezione di Pollicino è il disegno programmatico della raccolta, il vademecum di questa a-poetica («perdo gli oggetti, a uno a uno»). Ne scaturisce un rapporto guastato con il mondo contemporaneo, e la poesia mima il reale attraverso la metafora dell’elettrodomestico, «il frigorifero», che qui diventa un correlativo oggettivo privato della sua carica, diverso dal «termosifone» in Viaggio d’inverno. Entrano nei testi squallide immagini («in certi gabinetti / con la cellula elettrica»); disincanto e cinismo ingialliscono la raccolta («maschere»; «Ponte dei Suicidi»); «Ottuso, meccanico, ripetitivo» con «quel suo borbottare da idiota» è il tono dell’io, che si inceppa all’interno di un asfittico punto d’osservazione («è raro che la poesia possa riaprirsi»), sottolineato da ripetizioni ossessive, masticate («a quale dio mi lega?», «prego un dio», «un dio farmacologico», «un dio su misura»). Tramite il meccanismo di spostamento messo in moto dall’Ex-, la a-poesia si incarna in una accondiscendente amarezza che stona di fronte alla riproposizione di un’infanzia ingenua e non problematizzata («Vi amo come figli / e vi vorrei salvare / da questa orrenda età che vi tortura»), in una torsione deformante che ri-elabora impietosamente il passato attualizzandolo nel presente («Tra mezz’ora, cadendo, / mi romperò una spalla / e poi sarò operato due volte»). Costellata da correlativi oggettivi – feticci – che non si illuminano, la raccolta assume le fattezze di un diario che altera la nostalgia in una sempre più compiacente poesia pop («Non resta che ballare, / perché ballare è la cosa più bella che esista»), e un lessico così radicalmente domato rischia di esaurire il proprio potenziale in un ammuffimento di significati («Ma le rughe raccontano i sorrisi»), nei parallelismi retorici, sentimentali («anche abitando tanto vicini, / come potremmo stare più lontani?»), nell’autoreferenzialità intrisa di “contemporaneismo” – carattere distintivo del poemetto Guardando le serie tv, in coda alla raccolta nella sezione «Quattro poemetti» – di cui l’io non riesce a fare a meno («Tra la mia sofferenza e il mio amore, / io scelgo Super Mario Nintendo»).

Nonostante la puntuale organicità che corre lungo la raccolta, fedele al punto nevralgico dell’ex-fanzia, si ha il sentore di una poesia addomesticata, addestrata e con il fiato corto, lontana dallo «stormire neurologico di fronde» della vecchiaia, presente in Timore e tremore. È quindi una poesia che si apre al contemporaneo ma che rimane inerte; si rifiuta, ora, di fungere da scandaglio del reale e sembra ripudiare l’«alfabeto dei padri» di Paesaggi laziali; che lascia depotenziati della loro forza espressioni come l’esangue «QR code del tuo viso»; «il flash del riconoscimento» non apre la poesia a ulteriori significati celati nel correlativo oggettivo; il «lettore ottico» è uno spiraglio che propone una visione depressa del mondo; «identità», «storia», «vita» restano parole abuliche nella chiusa di una poesia che non ha voce, che non inveisce «sotto una tomba etrusca». Non «come fa lo stoppino / da uno stoppino che gli passa il fuoco» in Viaggio d’inverno, ma come un fiammifero: si accende e subito si consuma.

Nel segno di Pollicino

di Patrizio Andrisano

La nuova raccolta poetica di Magrelli non costituisce un punto di rottura coi lavori precedenti, e laddove si volesse collocare questo testo in continuità con Il sangue amaro (2014), allora urgerebbe ammettere che piuttosto ne rappresenta l’explicit, ossia la prima parola di un verso di fine: Exfanzia (2022). E proprio attorno a questa parola-titolo così impegnativa sorgono le prime difficoltà interpretative, che, a fidarsi dell’autore, si risolverebbero nell’ammettere un “ex” che comunque implichi “in”, a definire dunque, come spazio poetico, l’inconsueta plaga del contatto fra infanzia e vecchiaia; quantomeno, un piano di sineciosi non vincolante e di trapasso fra due mondi lontanissimi. La verità è più complessa. La scena è tutta presa da un tentativo di mediazione che segue la prassi della confidenza autobiografica e sferra un duro colpo a ogni scapicollata forma di neospontanesimo. La costruzione meticolosa del verso, la scelta di incipit chiari ed estremamente esplicativi in molti componimenti – «Ogni tanto mi telefona il mio amico malato», «E ricomincia la solita tortura», «Sto qui nel letto. Febbre. Ma sto bene», «La vecchiaia è questione di idraulica» – e l’emergere di un caldo impeto esclamativo a volte dal tono paterno ed esortativo – «resurrexit!» – altre più fanciullesco – «allora non ve ne siete ancora andati!» – definiscono l’ubi consistam di un dramma esistenziale che investe il lettore attento ai temi della maturità. Scontato credere che le vecchie generazioni non comprendano il nostro modo di sentire, meno ovvio è il contrario: siamo capaci di comprendere, noi, il dramma dell’anziano? La risposta è no, almeno non come, teoricamente, sarebbe in grado di fare un bambino che esprime sempre, seppure da prospettiva diversa, le medesime necessità del vecchio; una su tutte, quella del riconoscimento. Ma andiamo con ordine.

Due enormi dilemmi fanno da impalcatura alle trame del libro: cosa resta oggi di ieri? E ancora: cosa resterà? Domande che spingono il poeta alla solitudine e all’isolamento. Anche qui Magrelli si comporta da scienziato, prova a rispondere impugnando alternativamente alla lima il bisturi – «L’importante per un chirurgo, / diceva il poeta, / è stare sempre dalla parte del manico» – e attraverso un’alleanza fra corpo mortale e corpo poetico, una sutura questa, che seleziona in maniera puntuale e raffinata i lemmi di riferimento: «tessuto psichico, corteccia cerebrale, valvola mitralica, cartilagine, sangue, unghie…». Così, Exfanzia prende molto dal lessico scientifico e mette in risalto l’inevitabile disfacimento del corpo – «Qui come premi un po’, sgorgano liquidi, /e la vecchiaia è: diventare liquido» –, risponde alle due domande cardine rivelando allora, con grande umiltà, quella tensione verso l’inorganico – invero, una pulsione di ritorno all’inorganico – che attraversa tutta l’opera di Valerio Magrelli e trova qui, forse, la sua massima finalizzazione. Di noi resteranno solo alcuni scarti, delle «scorie», un «pantano», al limite delle fotografie – «poi sbuca fuori una foto», «la foto di mia figlia piccola» – e alcuni scampoli di memoria – «io, disperato, invece, adesso abbraccio / quell’immagine» –; ma questo è solo il punto di partenza.

Dopo circa sessanta pagine, Magrelli propone una soluzione; inserisce un testo chiaramente programmatico col quale esprime il bisogno di riaffermare l’ovvio: l’antidoto al disfacimento è la poesia. Poesia come riciclo: «immenso lavoro di trasformazione delle scorie», dalla deformazione all’ordine matematico, prosodico, metrico perché «l’accento è tutto», al ribaltamento del caos nel calcolo preciso borrominiano perché «qui, “ma” vuol dire tutto», e ancora, l’atto di «fare maglioni col dolore», di «trasformare l’angoscia in tappetini da bagno» per realizzare «la metamorfosi del male»; niente meno che «una vecchia idea» di Magrelli, di Poesia come «terapia, arredamento, traduzione». Ma quanto affermato sul piano della coscienza altrove viene negato, e dunque conservato, fra le lastre di una poesia marmorea, non elaborato ma rimosso; per usare un’immagine dello stesso Magrelli, tutto è seppellito in una bara zincata o plastificato nella materia poetica. Così le scorie (ciò che resta), quelle umane, ma anche quelle di un pensiero dominante che non può essere invalidato, non ritornano a nuova vita – «mi sento riformato dalla vita» –, mai smaltite, forse stoccate, certo rinchiuse dove non possono nuocere, di qua della poesia che, ad un tempo, è scudo e oggetto ultore: armato contro «l’infinita crudeltà della vita».

Dice una cosa, poi la smentisce nei fatti; Magrelli vuole dirci che la poesia è una freccia spuntata all’età di sessantacinque anni, un rifugio per uomini già morti che anticipa un eterno riposo: «Cesare che si copre / la testa col mantello / vedendo Bruto tra i suoi assalitori. // Alberto fa lo stesso / con le coperte, a letto, / quando si vede vinto dalla malinconia», dove la poesia è il letto, una coperta simulacro di madre, che riduce la distanza da quel ritorno all’inorganico di cui s’è detto, mai soluzione. E tante sono le immagini di castrazione del mezzo poetico, una su tutte quella di Sunt lacrimae rerum: le lacrime non spengono il fuoco del dolore, ma cauterizzano l’acqua che tracima – «[…] il pianto è questo: / marca, marchio rovente» – bloccando la liquefazione, ma – si domanda Magrelli – «(per quanto?)». A questa piccola parentetica il compito di smantellare sul piano testuale la menzogna della poesia come riciclo che, chiaramente, non potrebbe realizzarsi se non in maniera perentoria. I motivi del dolore sono ora quelli della vecchiaia, e non è sufficiente il conforto offerto dalla certezza della forma ad arginare il senso di smarrimento che assottiglia l’uomo (ancora vivo) a cui venga negata la gioia del riconoscimento. Il “diritto di perdersi” a cui accenna il poeta in Mi perdo, mi perdo, mi perdo, nasconde dubbi e inquietudini; un certo grado di ambiguità serpeggia poi nel verso che chiude con tono perplesso la prima stanza: «perché recalcitro? Perché voglio smarrirmi?». Ma tra queste righe risiede il centro di irradiazione dell’intera raccolta, il motivo per cui “ex” e “in” possono convivere, il significato del titolo della prima sezione: «Sotto la protezione di Pollicino». Sì, perché dietro questo diritto a perdersi si annida il bisogno di essere ritrovati da qualcuno. È il motivo del nascondino questo, e di una dialettica del perdersi che unisce il bambino con l’anziano; ché entrambi hanno bisogno di sentirsi desiderati, entrambi desiderano continuare a scavare nell’Altro il vuoto della propria assenza. Allora, il Pollicino di Valerio Magrelli dissemina briciole sul proprio cammino non per ritrovare la strada, ma per lasciare una traccia del proprio passaggio, sempre nella speranza del ricongiungimento con l’Altro. I punti di emergenza di senso sono molteplici e il desiderio del poeta tracima presto nel rimpianto: i vagoni dei rapporti umani sfrecciano l’uno accanto all’altro nell’indifferenza – «Ci incontreremo in treno, / a metà strada, / tu verso Sud e io al Nord […] Sarà un momento, / i due vagoni passeranno vicini, / senza neanche accorgersene» –, gli amici sono ormai «perfetti estranei», il volto del poeta è lo spazio su cui «papà e mamma […] fanno capolino […] giocando fra le linee del viso. A nascondino». Insomma, il poeta è il teatro immobile del corteggiamento fra i genitori, e vorrebbe interferire (come farebbe un bambino) ma non può: «si divertono cercandosi tra loro, / io sono, escluso, a fare da teatro».

Come anticipato, Exfanzia non è un libro di rottura, e, a ben vedere, i temi di fondo sono i medesimi di altre raccolte, con momenti che richiamano Ora serrata retinae (1980) e Il sangue amaro (2014), espliciti richiami a Geologia di un padre (2013) e Addio al calcio (2010); tuttavia, il rimaneggiamento è importante e tocca l’estremo del rimotivare pienamente una parola antica attraverso l’esperienza nuova; perciò il libro riesce e segna il suo passaggio diritto sul piano dell’imposizione di un dilemma lontanissimo, mette il lettore nel corpo di chi non dovrebbe morire prima del tempo perché esprime ancora i medesimi bisogni del bambino a cui, diversamente, la gratificazione non verrà mai negata. Ora, credo di non poter tacere sulle ultime venti pagine della raccolta, a cui il poeta riconosce dignità di fare sezione a sé, dal titolo Quattro poemetti, perché sento il bisogno di rivolgere la parola direttamente a Magrelli per dire:

“Valerio,

mi sono messo nei tuoi panni, ho letto questo libro e qualcosa avrò pur detto di vicino all’esatto; non sarà forse il caso che tu faccia altrettanto con noi più o meno giovani? Capiresti che la parola “pandemia”, per noi, è troppo grande, capirai anche che questa critica non è rivolta soltanto a te, ma anche a noi”.