Nel lungo anno del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, nulla credo meriti più attenzione di Poesie per Pasolini a cura di Roberto Galaverni, pubblicato a marzo da Mondadori nella collana Lo Specchio. Un’antologia che raccoglie i poeti in ordine alfabetico, secondo un criterio di trasversalità, e pone sullo stesso piano i contributi dei grandi maestri e dei poeti più recenti. Chiunque come il sottoscritto abbia avuto modo di incontrare Pasolini lungo il proprio percorso di studi comprenderà presto, dinanzi a questo ‘pseudocanzoniere’, le potenzialità di un’opera che emerge chiara e spontanea dalle profondità del Novecento e traccia una volta per tutte la mappa dell’intrico di rapporti che legava il poeta delle ceneri a tutto il sistema-letteratura del suo tempo. Se da un lato è infatti visibile l’immagine stinta del Pasolini contro tutti, dall’altro emerge con grande forza (mai così tanta, quasi un’eco) l’effige opposta del tutti per Pasolini, che fa della raccolta un involontario, eppure largamente giustificato, percorso di espiazione collettiva nei confronti del poeta che, come scrive Galaverni, «per tutti e più di tutti ci ha provato» (Galaverni, p. XIII)1.
Ora, cercare di comprendere la portata di questo provarci o poetico cimento della durata di un’intera vita da Pasolini, è sia il fulcro operativo attorno al quale ruotano le intenzioni del curatore sia il motivo che spinge il tema Pasolini ad affermarsi come sottogenere poetico; almeno, laddove risulti vero che in qualche misura «dire la propria su Pasolini – e non fa differenza se per incensarlo o metterlo al muro – per molti ha significato e tuttora significa dire la propria anche sulla poesia in quanto tale» (ivi, p. VI). I poeti di questa raccolta, in apparenza gli involontari autori del testo, non solo si esprimono sul mito Pasolini che sviscera a sua volta il mito pasoliniano – e tanto basterebbe –, ma riflettono su un certo modo di fare poesia che Pasolini ha sistematicamente aggirato, più di tutti e per tutti. In fondo non sarebbe neanche corretto definirli autori involontari, trattare questa raccolta come un apocrifo codice Pasolini, in quanto, seppure con le dovute eccezioni, queste poesie (elegie, poemetti, epigrammi, epistole, haiku…) nascono da una vera necessità poetica mossa per (o contro) ragioni di passione e ideologia: il tema costante, quello della diversità; s’intende, della diversità nella poesia, come scrive Elsa Morante: «la tua vera diversità era la poesia. È quella l’ultima ragione del loro odio» (Morante p. 106).
Dunque, se alcuni componimenti ricordano il Pasolini delle inchieste giornalistiche, o il Pasolini della memoria, o azzardano il what if del cosa direbbe oggi se fosse vivo – ne sono un esempio Pasolini di Giuseppe Conte e Se tu potessi vedere l’Italia di Gianni D’Elia – è vero che, nel loro insieme, i testi rivelano un certo stato del pentimento collettivo, per non aver compreso l’angoscia vera di chi ebbe «l’ansia di toccare il cuore al mondo» (Ferretti p. 53), perché, aggiunge sempre Massimo Ferretti in Lode d’un amico poeta, «il tuo sangue non vive in questi lacci» (Ibid). E non solo i «lacci» di Ferretti, la «prigione» di Franco Fortini o la «rete» di Ignazio Buttitta, ma altre, moltissime, immagini simili definiscono il limen oltre il quale nessuno come Pasolini s’è mai spinto, uno starci, spiega Eugenio Montale in Lettera a Malvolio, del poeta nella realtà. Qui starebbe il motivo della diversità di cui parlano Fortini, Matteo Marchesini, Alda Merini, Montale, Morante, Mario Luzi, Elio Pagliarani (per citarne alcuni), del poeta che, ribadiamolo, per tutti e più di tutti ha abitato il confine fra poesia e vita, fra mondo interno e realtà. È innegabile, nessuno come Pasolini ha sottoposto a maggior tensione il punto di contatto fra la parola e la cosa, fino all’esito estremo che rende la poesia all’impoetico ipercinetico di Trasumanar e organizzar (1971): raccolta di versi non spendibili dai poeti delle generazioni successive, niente meno che il braccio armato dell’ininterrotta belligeranza del loro autore. Tuttavia, se da una parte la voce immensa di Montale sminuisce l’ossessione pasoliniana per una poesia efficace definendola un’«astuzia» – e sempre da quella parte della barricata Fortini scrive: «non conoscerò che me stesso / ma tutti in me stesso. / La mia prigione vede più della tua libertà» (Fortini p. 66) – altri prendono parte al grande disegno che questo libro riscrive, e a partire da un corpus sterminato di poesie, che è un canzoniere in morte e in vita lungo il quale si tocca il massimo grado dell’espiazione di un innegabile fariseismo poetico. Porto l’esempio di Mario Luzi:
Pasolini?
Ho pensato a lui più volte
[…]
Ci sono modi diseguali di stare nella equità dei tempi,
nella stessa storia, avendone tormento.
Ci sono modi e modi di vivere quella disuguaglianza.
Tutti erano in lizza, questo generava dramma.
[…] Lui agonista
Non aveva scampo. Lo incalzavano
due erinni: la disperazione
e la vitalità, fameliche ugualmente,
lo mordeva la sua intelligenza.
La perduta integrità del mondo
diceva scritta nella sua rovina,
ed era, credo, fieramente vero,
narcisisticamente anche lo era,
e sacrificalmente, spero (Luzi pp. 79-80).”
Non l’astuzia di chi «rifiuta le distanze» (Montale p. 95), non scorciatoia, ma verità; e anche Pagliarani rimprovera se stesso per non aver creduto: «potrò mai perdonarmi / che quel grido quel vento altro che a effetto, altro che artificiale / erano le tue stimmate / era nelle tue viscere / ti era consubstanziale» (Pagliarani p. 117). La stessa rivelazione di una verità connaturata alla figura di Pasolini che aleggia anche nelle parole di Paolo Bertolani: «leggendoti dicevamo / che anche se avevi torto / avevi ragione» (Bertolani p. 20)2.
Ora, le strade che questo libro apre parrebbero infinite, e difficile sarebbe portare qui un’analisi completa del testo. Mi limiterò dunque ad approfondire solo un altro elemento di quest’opera che credo possa completare quanto detto sinora. Vorrei dire qualcosa circa il significato delle stimmate delle quali scrive Pagliarani, fare il punto sul tema del sacrificio che forse ha più a che fare con Dostoevskij che non col Cristo dei Vangeli.
Leggendo si fa strada l’idea che il compromettersi con la realtà, ossia lo snodo che spinge la voce di Pasolini a divergere da quella degli altri sia anche, in un certo senso, la salvezza degli altri; come regola generale, infatti, accettare un compromesso ha sempre un prezzo, anche in poesia, e come s’è visto: «tutti erano in lizza, questo generava dramma». Eppure, non tutti sono disposti ad adottare lo statuto dell’«ossimoro permanente» (Montale p. 95), pochi si spingono tanto in là da confondere arte e vita, e con lo scopo di ridurre lo iato che separa la parola dalla cosa. Luzi ripensa a Pasolini e lo vede in ciò «sacrificalmente» vero, la sua voce come una parola incisa sottopelle, stigma di verità. Giudici è attraversato dalla medesima presa di coscienza quando scrive: «io qui rauca memoria del nodo / che per noi liberava la tua voce» (Giudici p. 70). Inutile girarci attorno: Pasolini libera gli altri poeti dal fardello di una poesia che esce fuori da sé fino a cagionare la propria stessa dispersione, si immerge nel magma più di Luzi, nella palude più di Sanguineti. Perciò, credo che l’immagine del criminale dostoevskiano sia la più adatta a spiegare il servizio che Pasolini rende alla società dei poeti (forse alla società intera), nel concretizzare per tutti il desiderio indicibile di ognuno. Tutti vogliono delinquere, uccidere, rubare e per Dostoevskij il criminale che compie l’atto è una specie di valvola di sfogo per l’intera società, è un santo che permette a tutti gli altri di non agire. In modo analogo, Il poeta delle primule è colui che sporca le proprie mani sacrificandosi, che viene poi condannato per aver liberato la voce di tutti contro il mondo dei padri; lo stesso mondo di padri (borghese, fascista, capitalista) che vibrava, ora sì per interposta persona, l’ultimo colpo di tavoletta che uccise Pasolini; almeno, così negli illuminati versi di Alberto Moravia:
Ti sei chinato e con te
Si è chinato tuo padre e tutti gli altri padri
d’Italia
hai raccolto la tavoletta
e poi hai vibrato il colpo
e con te l’hanno vibrato tuo padre
e tutti gli altri padri (Moravia p. 109).
Il reale insomma è il luogo che fagocita la poesia di Pasolini, giunta addirittura in forma di lirica dagli anni di Casarsa, e in seguito piegata a crescenti nuove violenze per farne l’arma di un’estenuante lotta patricida. Una poesia di Attilio Lolini dal titolo La versione di Dostoevskij rompe allora ogni dubbio:
mi ha detto ammazzami
tutte le notti cercava un assassino
senza trovarlo mai
[…]
vedrai diceva ne trarranno
ovvie conclusioni
nei miei occhi aveva visto un nonsoché
un’antichissima malattia
una sfida da altri mai raccolta
come in un tale mitja che non so chi sia
che come me diceva lui era santo (Lolini p. 76).
L’«antichissima malattia» è il complesso di Edipo, ed Edipo è parte di un’imago interiore che assimila anche le figure di Cristo e Narciso a costituire il trittico fondamentale degli scritti giovanili di Pasolini, – dove anche l’immedesimazione con Cristo ha un taglio perlopiù edipico: è il figlio che per la legge del padre è costretto a separarsi per sempre dalla madre. La «sfida» a cui invece allude, dando almeno per plausibile la conversazione con Lolini, è quella del parricidio, una sfida che Pasolini raccoglie sin da bambino e poi nella poesia, e non per se stesso soltanto quanto anche per i suoi fratelli putativi – gli altri poeti di questo libro, bloccati dalla formalizzazione del verso – che perciò esprimono tra le righe un certo senso di colpa nei confronti del poeta solo contro il mondo; proprio come Ivan Karamazov per il fratello Dimitrij (Mitja), perché se Mitja l’ha fatto, certamente, Ivan l’ha desiderato.
Qui Pasolini parla di Dimitrij Karamazov ma parla di sé, come del fratello accusato ingiustamente di aver assassinato il padre, condannato per aver fatto (ma in verità il vero assassino è Smerdjakov) quel che tutti desiderano. E Pasolini a questa missione ha sacrificato la propria poesia come nessun’altro. È «il poeta che più di tutti e per tutti ci ha provato».
Non so se le genziane viola sino al blu di Proserpina
fioriscono a Casarsa
ma certo di primo autunno sui monti
che ferisce e ventila il tagliamento bambino.
Non un brindisi funebre
un mazzo di genziane miste a felci
vogliono le tue ossa – non le tue ceneri –
che ancora inquietano e consolano
noi in attesa
di ricordarti di dimenticarti (Bertolucci p. 27).