Pubblichiamo di seguito il testo vincitore per la sezione “Racconti” della terza edizione del Premio Lo Spazio Letterario: Case in prossimità del raccordo anulare di Alessandro Tesetti.
L’Istat rileva un’importante e non trascurabile congestione di case lungo il raccordo anulare che abbraccia la capitale. Le case si susseguono pochi metri di distanza l’una dall’altra, sono piuttosto simili: forma rettangolare, un’ottantina di metri quadri ogni appartamento, massimo tre piani.
Gli agenti immobiliari dichiarano che i tabagisti cercano case in prossimità delle strade ad alta velocità, dei balconi non gliene fotte proprio, nemmeno dei colori spenti o dell’intonaco ceduto, gli importa solo dell’adiacenza alle strade ad alta velocità, di ampie finestre dove affacciarsi. Io confermo, sono un fumatore immattito dal vizio, e mi piace vedere le macchine che scorrono e corrono sotto casa mia, però mi piace vederle più dal balcone che da un buco nel muro. Ho in affitto un appartamento al terzo piano, pago poco perché affaccia esattamente all’uscita dell’autostrada A1 Tor Vergata direzione Napoli. Le pareti non sono spesse, i vetri vibrano al soffio di vento poco incazzato, quando passano grossi tir o auto prestanti, la casa trema da far paura, la polvere pullula nei fasci di luce. Non ho mai pulito casa, ci pensano le macchine che passano, velocità che alza la polvere sbattendola flaccida e caotica e serpentina nei vari antri. Così come le sigarette mezzesbucciate collezionate in bilico sul davanzale, con le vibrazioni crollano giù, nel balcone al piano di sotto, e poi è compito dell’inquilino buttarle. Curiosità mia è verificare dove le butta, se di sotto con una scopa o le raccoglie in un sacchetto: quasi sempre di sotto con una scopa.
Siamo tutti diffidenti qui, ci salutiamo malamente quando affacciati, ognuno dai propri antri, ci mettiamo a fumare. Uno vorrebbe un po’ di intimità, mettersi a fumare senza altri cristiani, solo col raccordo anulare che abbiamo davanti e contare le macchine, le moto, i tir. L’inquilino di sotto sembra farlo apposta, appena mi sente, subito esce fuori a fumare. Non so che orecchie abbia, sente la rotella dell’accendino e s’affaccia, che dici, tutt’apposto? (solito esordio) io rispondo con un grugnito o con un sì. Lo so che vorrebbe parlare ma io non ne ho voglia, lui può parlare se vuole, sono io che non ho voglia di sentire la mia voce, di ascoltare la sua sì, può capitare. Ogni tanto si mette a raccontare dei suoi cazzi e scazzi: l’ex moglie che lo tradiva con suo fratello, lui che la tradiva con la cugina, il figlio che lavora a Mestre, le puttane che frequenta in Portonaccio, se ho voglia di farmi un giro pure io.
Ma io consumo la sigaretta, s’accumula la cenere all’estremità, faccio con la saliva una lunga stalattite e miro con l’intenzione di prenderlo in testa per poi risucchiare quand’è al limite. Mi parla senza guardarmi, e perciò non s’è mai accorto della stalattite, dovrebbe contorcere il collo, invece inchioda i gomiti sul parapetto e guarda dritto a sé: conta le macchina, le moto, i tir.
Gli psicologi studiano il motivo per il quale i residenti attorno al raccordo anulare pratichino con gran ferocia, delle volte unicamente, ossessivamemte, il sesso anale: ricevuto o donato.
Il mio caso non è, non stringo un corpo da anni. La notte prendo la macchina, faccio un giro completo del raccordo a centoventi, poi esco all’uscita Prenestina. Rallento e cerco le cosce che fanno per me, giro in fretta quando trovo quelle giuste. Accendo una sigaretta e gioco tra prima e seconda marcia, le puttane mi mandano a fanculo quando faccio le finte, perché rallento e pensano che mi stia per fermare, invece ci ripenso e vado via. Capita di voler ascoltare la loro voce, capita e non voglio altro. Allora mi fermo e abbasso il finestrino, cinquanta dicono, ed io non rispondo, cinquanta dicono, ed io non rispondo ancora una volta, non mi va di sentire la mia voce, ma la loro sì. Imprecano e mi danno dell’idiota, cazzo vuoi sei venuto a rompere i coglioni, noi qui stiamo lavorando, vattene via idiota. L’idioma è spesso dell’Europa del nordest o misto tra francese e inglese tipico di Lagos e Nigeria in generale, frasi scarne e rituali masticate in quel italiano-dialetto non imparato ma assorbito, udito e perciò ripetuto senza sede né sedimentazione: metto la prima e vado. Nello specchietto vedo un braccio alzarsi e una bocca spalancata senza voce. Non ho soldi, esco sempre senza soldi così da non avere il mezzo. La tentazione ce l’ho, non ho il mezzo, il fine sta a un passo da me con cosce che fanno per me e la bocca arrossettata, il mezzo è rimasto coscientemente a casa, in tasca non ho un centesimo. Una volta ad una di loro ho risposto, dopo il solito esordio (sempre soliti esordi, tutti noi parliamo per repertori), della bestemmia e dell’idiota: culo, dico, culo chiedo. Cento, fa lei, ma lo dice per meccanismo, l’espressione è incredula, sa di star perdendo tempo. Sorrido e non rispondo, metto la prima e un braccio alzato che fa sciò sciò stronzo. L’unica volta che ho ascoltato un’altra parola da quelle bocche arrossettate, il secondo step di quelle frasi rituali e scarne, emanate e non custodite.
Tre anni fa quando stringevo il corpo, non abitavo ancora qui e non ho mai avuto il desiderio di praticare sesso anale. Vorrei chiedere all’inquilino di sotto se ogni volta spende una piotta, perchè così dicono gli psicologi: vivere vicino al raccordo anulare provoca un aumento del desiderio rettale, ricevuto o donato; e magari è vero, perciò indago, ma non c’è questa confidenza, forse la prenderebbe a ridere, ma non mi va di sentirlo più amico ogni volta che ci affacciamo a fumare, gli uomini hanno questa cosa che si sentono più amici quando parlano di sesso, si sentono più amici quando parlano di violenza e aggressioni e bande e gruppi e misure e superiorità. Contorcebbe il collo per guardarmi e sarei costretto a guardarlo, nella verticalità che ci separa, non formare le stalattiti, perlomeno notare le fibre cutanee, le rughe faticose, la
contorsione. Quando poi gliel’ho chiesto, lui s’è fatto una bella risata, una risata talmente scenica che gli è caduta la cicca dalle mani, poi com’è suo solito s’è contorto dicendo ma quelle fanno così, tu ci devi giocare, quelle fanno così, ci provano, devono pur incassare, ti direi di venire con me, andiamo insieme, ti mostro come si fa, non più di venti per quello e cinquanta per l’altro, sennò come ci arrivo a fine mese, quando si rigira mirando e conteggiando le vetture, accende un’altra sigaretta e continua a ridere, di una risata davvero plateale. Provo a formare la bava ma non ho saliva.
Gli psicologi verificano un netto numero di onirismo notturno da parte dei residenti in prossimità del raccordo anulare preoccupante: nel sogno c’è il proprio corpo che gira su stesso senza fermarsi mai soffrendo di nausea sfibrante e poi una perdita d’equilibrio, la caduta e la morte.
Io come ho detto prima, la notte prendo la macchina e giro, il più delle volte fin quando non mi viene sonno e mi addormento alla guida. Allora cerco un parcheggio spoglio e dormo o continuo a guidare per vedere quello che succede. Non mi piace tornare a casa e provare a dormire, mi fa sentire solo e gli uomini hanno questa cosa che non sopportano sentirsi soli, e poi non dormo, che senso ha tornare a casa se poi non dormo. In macchina di sogni non ne faccio, il mio psicologo dice sia l’assopimento furioso imposto a sassate, quindi è normale non sognare; a non essere normale, dice, ma io non sono molto d’accordo, è addormentarsi in macchina.
Vado dallo psicologo che saranno dieci anni, ma lo frequento da molti anni addietro. Eravamo pischelli quando ci siamo conosciuti alla scuola di recitazione, il venerdì pomeriggio a Garbatella. Io facevo la parte del tossico e lui del matto, portavamo in scena Caligari, e nessuno capiva, eravamo davvero bravi ma nessuno capiva. Poi con l’università abbiamo smesso di recitare, io mi sono trasferito a Bologna per fare il Dams e lui è rimasto a Roma. Ha iniziato Medicina con l’idea di fare psicoanalisi poi, neanche un anno che s’è scocciato e ha virato in Psicologia, non gli interessava studiare il corpo umano ma solo la coccia, non più i matti ma gli stati dell’umore, le persone alle prese con le oscillazioni.
Essendo amici si prende meno soldi, quando le cose gli vanno bene non si prende niente. Evitiamo di uscire come una volta, non ci prendiamo una birra da anni, l’ultima volta è stata per confidarmi la morte di sua madre, e lo doveva fare evidentemente fuori da dove ci vediamo di solito e cioè fuori dal luogo di lavoro per non confondere o peggio scambiare i ruoli in cui siamo finiti e invischiati, non più amici ma medico e paziente. Ci incontriamo nel suo studio, un paio di domande di transizione, poi iniziamo. La mia disperazione è sempre più o meno la stessa[1], lui mi dà degli spunti ma non ho mai capito se è bravo. Di rivolgermi a qualcun altro non se ne parla, non ho soldi e poi vederlo è un modo per non perderlo. Forse sto meglio quando prendo la macchina e vado da lui, sto meglio nell’attesa dell’incontro che dura giorni e non arriva, mentre quell’oretta di monologo e breve dialogo a volte aiuta a volte no. Esco da lì e mi sento svuotato ma è la stessa sensazione del post coito, dura un attimo, la stessa sensazione di quando cerco quelle donne e interazione con esse ma poi mi mandano via. Ed io che continuo a dire al mio migliore amico, nonché disgraziatamente, psicologo, che mi voglio ammazzare quasi ad avvertirlo, e lui che mi dice: il motivo è l’oppressione artistica, devi scrivere cazzo, perché non scrivi, concentrati cazzo. Il turpiloquio è la linea sottile che smentisce i nostri ruoli, da medico-paziente ad amici, mi fa stare meglio. Ma forse non siamo più nemmeno amici, dovrei cambiare psicologo per tornare ad essere quello che eravamo, io il tossico e lui il matto in un teatro della Garbatella, io quello andato via, lui quello rimasto, a vederci finita la sessione, recuperare il tempo perduto. Allora provo a scrivere di notte in macchina l’inverno sui vetri appannati, come se il problema fosse il mezzo, il supporto: non la carta, non il computer, servono i vetri. Ci sono due personaggi che mi ossessionano, due ventenni sfaccendati che girano e girano, indaffarati dalla scimmia e dal morbo, li conosco benissimo, li ho perfettamente in testa come per ricordo, ma perché non mi parlano non lo so. Appena gli chiedo di aprire bocca non mi parlano. Poi il consiglio è stato scrivere di sesso, ma esce roba frettolosa e schematica, non possedere un corpo ma possedere il linguaggio, applicare il desiderio nel diverso e affine luogo-del-desiderio: devi desiderare, mi dice, tu non desideri, aspiri, vuoi, ambisci, rosichi ma non desideri diocane, corteggia e esci da questa situazione, desiderare un corpo, desiderare il linguaggio: tu non hai né l’uno né l’altro, è tutta qui la tua dispersione, poi perde la pazienza e non scaccia sillaba. Io so che reputa patetico tutto questo, facile da diradare espellere rimuovere disperdere, e anch’io m’incazzo e non scaccio sillaba, fargli capire che non è affatto facile non riuscire a scrivere più, patetico che continuiamo a vederci in questo studio solo per non abbandonarci: l’ora finisce e me ne torno a casa, quindi chiudo gli occhi e vedo quello che succede. Il raccordo anulare è deserto stasera e di cercare corpi proprio non ne ho voglia. Vedere le case in prossimità della strada è una sorta di uscita. Qualcuno è affacciato e mi chiedo chi, dal proprio veicolo, nota me che sto per sputare all’inquilino del piano di sotto. Ma non ne vale la pena pensarci, soprattutto a questa velocità, con gli occhi chiusi: questa non è un’uscita.
[1] Il mio schifo di lavoro al catasto; voler scrivere sceneggiature la notte ma non stendere nemmeno un rigo; l’ossessione per il sesso senza praticarlo; il fascino del suicidio automobilistico.