In teoria e in pratica | Matteo Tasca

Le risposte di Matteo Tasca all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Devo dire che nel libro che ho scritto la riflessione sulla struttura interna ha avuto un peso minimo: fondamentalmente ho iniziato a pensarci dopo che due miei carissimi amici mi hanno fatto venire voglia di mettere insieme i testi per vedere quello che sarebbe successo, ma prima di quel momento non ho mai pensato a come sarebbe stata una mia eventuale raccolta. Questa cosa un po’ me la rivendico: sono contento che la struttura del mio libro non abbia seguito un progetto a monte, ma sia stata improvvisata partendo dal materiale che avevo raccolto negli anni. Questo modo di fare le cose ‘a cazzo di cane’ è stata per me una pratica preziosa, perché mi ha permesso di scoprire delle rispondenze, diciamo delle geometrie o delle ossessioni che non sapevo di avere. Ad esempio, la prima sezione della raccolta ha come tema centrale la morte, ma io non ero assolutamente consapevole di questa cosa, non pensavo di aver scritto tutte queste poesie sulla morte, perché francamente non pensavo (e in effetti continuo a non pensare) che la morte sia un tema rilevante per me. In un certo senso non ho deciso che la prima sezione fosse così, ho solo dovuto prenderne atto, e personalmente mi sento sempre al sicuro quando è qualcun altro a decidere per me, mi sembra di star andando nella direzione giusta solo quando non sono io a sceglierla. Oltre questo, ho un po’ assemblato del materiale a caso (appunti, trascrizioni di sogni, pagine di diario) che mi sembrava avesse delle risonanze con le poesie, e che fosse utile per aggiungere dei piani di lettura. Alla fine dei conti a me torna tutto, ma penso (e spero) che il risultato sia un libro storto, perché io mi sento una persona storta, e voglio che la struttura del mio libro mi rispecchi. Vorrei dire che considero questo un atto d’onestà, ma temo che ci sia qualcosa di più meschino dell’onestà, un’ansia di ritrovare sé stessi nelle cose che non è bella quanto l’onestà.

Da questo punto di vista i miei modelli sono libri che non concludono, ‘aperti’ e che stanno meravigliosamente in piedi anche se non capisci bene come fanno. In poesia penso soprattutto a Sereni o Anne Carson, in prosa a Bolaño e Faulkner. Non so se il mio approccio cambierà nel tempo, ma francamente spero (e credo) di no. Non riesco a non pensare che la costruzione del libro sia un momento secondario rispetto alla scrittura, per cui è importante non avere progetti troppo rigidi in modo che la scrittura resti il più possibile libera di andare dove vuole. Mi sembra giusto che la ‘raccolta’ si limiti a frugare con intelligenza nell’esistente (ovvero in quello che uno ha scritto), influenzandolo il meno possibile. 

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di una persona. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Se penso alla mia esperienza di scrittura ho un po’ di difficoltà a rispondere perché non riesco a pensare a «finzione» e «espressione» come due categorie in contrapposizione. Mi sembra piuttosto ovvio che l’espressione ha bisogno di una componente finzionale per prendere corpo, così come la finzione ha bisogno di una parte di espressione per avere forza e essere interessante. Senza il desiderio di esprimersi (cioè di proiettare fuori qualcosa di sé) non ha senso scrivere, senza finzione (cioè senza selezionare e plasmare un qualche materiale) sarebbe impossibile esprimere qualcosa di comprensibile non solo agli altri, ma anche a noi stessi. Se invece si parla di fedeltà autobiografica, io più o meno faccio così: spesso racconto cose che mi sono veramente accadute, ma altre volte invento dei fatti o delle vicende o anche delle sensazioni, ma quell’invenzione mi serve per dire una verità, o comunque per dire qualcosa che per me è importante, per cui anche in questo caso ‘fingere’ – inteso proprio nel senso di mentire, inventare di sana pianta – mi è servito per esprimermi. Secondo me se l’opposizione tra espressione e finzione è utile in qualche modo è semplicemente perché denota due diverse posizioni del soggetto nell’atto della scrittura. Nell’espressione infatti la persona (diciamo l’io) è più o meno passiva, c’è qualcuno che gli detta le cose da dire, i contenuti non vengono scelti né organizzati ma semplicemente si presentano e ‘urgono’ («I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando»). Nella finzione invece chi scrive è più cosciente, pianifica, ritaglia, compone, riflette sul senso di quello che sta facendo. Io penso che nella scrittura questi momenti siano entrambi importanti, e penso anche che gli autori e le autrici della mia generazione abbiano paura dell’inconscio, o meglio di ammettere a sé stessi che hanno un inconscio e che ci sono delle cose che non controllano, e quindi la ‘finzione’ sembra una dimensione più rassicurante, forse anche un po’ più adulta. Però secondo me è bello non essere padroni, lasciare spazio all’espressione, perdersi nelle fantasie, farsi attraversare dalle cose, e non per un qualche gusto regressivo, ma perché se uno vuole arrivare in fondo a certe questioni, sia personali che storiche, è proprio nelle fantasie, nelle zone oscure – nell’inconscio – che si scopre la merda, quella che ci inchioda al di là di ogni sforzo volontaristico di andarle contro, ma anche la gioia, una felicità che non conosce i limiti del principio di realtà.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Ho iniziato a scrivere alle medie, a seguito di un evento traumatico ma ambiguo – cioè un po’ bello un po’ brutto – che mi era successo, e scrivevo solo per buttare fuori l’angoscia che questa ambiguità aveva generato in me. A un certo punto ho iniziato a leggere i simbolisti e ho iniziato a scrivere poesie terribili che nella mia testa avevano a che fare con la ricerca di assoluto, ma in realtà avendole rilette da più grande mi sono reso conto che parlavano semplicemente d’amore, del mio desiderio di perdermi nell’amore. Poi mi ero scocciato di tutto quel sentimentalismo e allora sono passato a poesie narrative, quasi interamente ‘finzionali’, in cui cercavo di parlare il meno possibile di me e il più possibile del mondo. In questo momento direi che mi sento più vicino a quel ragazzino delle medie che scriveva per neutralizzare l’angoscia, anche se purtroppo senza quell’ingenuità e quella soddisfazione. Se questo percorso (che forse si intravede un po’ nella raccolta, almeno nella parte iniziale) ha un valore, penso sia semplicemente perché mi rendo conto di essere cresciuto nella scrittura quando sono andato contro me stesso, mi sono rotto di quello che stavo facendo e ho cercato di cambiare postura, stili, modi. In questi momenti di cambiamento inizialmente sono super entusiasta e scrivo cose imprecise, poi trovo la giusta misura, poi c’è una fase che oscilla tra la maturità e la senescenza, infine rischio di assumere delle pose, o comunque di camminare per una strada in discesa in cui tutto sembra facile e a portata di mano. Ecco, io mi rendo conto che la mia scrittura è più produttiva quando mi sento scomodo, non nel senso che i testi escono più belli – di questo francamente non ne ho idea, e forse in realtà anche no – ma nel senso che esce fuori più roba, riesco a spurgare meglio.

Sulle altre domande non ho molta idea: non sento di aver propriamente preso parola in quanto autore, mi sembra solo di aver pubblicato delle poesie che spero siano belle e facciano passare qualche ora piacevole ai miei quattro o cinque lettori. Non mi sento particolarmente influenzato dal fuori, se non un pochino per contrasto: mi sono fatto un’idea del senso comune diffuso nella ‘bolla’, di quali posizioni ‘teoriche’ sono più diffuse o comunque trovano facilmente consenso, e mi piace pensare che quello che scrivo mi faccia apparire un po’ antico, una ‘forza del passato’, uno che riesce a mediare tra la tradizione e il presente, ma tutto questo è un giochetto che si attiva adesso che rispondo a queste domande, mi invento un pubblico mentale un po’ caricaturale che può lasciarsi colpire dalle mie risposte. Penso che il pubblico reale sia molto più intelligente, distratto e indifferente di questa mia proiezione mentale, per cui so bene che questa farsa esiste solo nel teatro della mia fantasia.

4) Tutti non sopportano qualcosa di ciò che scrivono. Tu cosa odi della tua scrittura? Che rapporto hai con i tuoi automatismi?

Della mia scrittura penso di non odiare niente, però odio certe regole minime di variatio che mi impediscono di ripetere all’infinito parole che mi piacciono un sacco e che già uso tantissimo e che per decoro devo tenere sotto controllo. Penso agli aggettivi determinativi, a ‘luce’, ‘gioia’, ‘dolore’, ‘tutti’, ‘tutto’, ‘come’, ‘assolato’, ‘disperazione’, ‘sempre’; e poi anche le coordinate (‘e…e…e…’), le relative e gli infiniti. Se ripetere in continuazione le stesse parole non fosse vietato, i miei testi credo che sarebbero simili alle icone ortodosse: quasi identiche una all’altra, con un sacco di oro come sfondo, e delle figure stereotipate e un po’ brutte in primo piano. Purtroppo il mio retroterra è cattolico e questo piacere non posso concedermelo.

Altre cose automatiche per fortuna le posso fare perché non violano nessuna regola, anzi penso siano stilisticamente interessanti, tipo questa cosa che mi viene di cambiare continuamente pronome (io, tu, noi) anche se sto parlando sempre di me. È una cosa che è uscita a caso, ma mi sembra importante per movimentare il discorso e far slittare sottilmente il punto di vista sul personaggio (cioè l’io), assumendo posizioni differenti nei suoi confronti. Poi come dicevo non mi piace quando assumo delle pose e ripeto degli impianti, delle situazioni, delle cadenze, però per fortuna sono una persona abbastanza insofferente e quindi di questo tipo di automatismi mi stufo abbastanza in fretta perché mi annoio da solo.

5) Nel programma radiofonico Le interviste impossibili, andato in onda tra il 1974-1975, alcune voci della cultura italiana contemporanea immaginavano di intervistare dei personaggi storici (Ponzio Pilato, Uomo di Neanderthal, Jack lo Squartatore etc…) inscenando un botta e risposta. Se avessi la possibilità di intervistare un personaggio famoso della storia, chi sceglieresti? Scrivi le tre domande che gli vorresti fare.

Ci ho pensato un po’, ma personaggi famosi non mi viene in mente nessuno con cui mi interesserebbe particolarmente parlare, credo perché se sono famosi vuol dire che hanno lasciato delle testimonianze, o comunque qualcuno si è impegnato a raccontare le loro storie, e quindi in qualche maniera posso già avere un dialogo con loro. Sarei invece molto curioso di trovarmi a Uruk nel IV millennio avanti Cristo. Per quello che ne sanno gli archeologi, a Uruk c’erano questi grandi templi che in quel periodo hanno cominciato a funzionare come delle banche, immagazzinavano enormi quantità di grano che i contadini erano costretti a versare, e per organizzare tutti i loro affari hanno inventato le prime forme di contabilità, hanno cominciato a emettere cambiali, e soprattutto hanno introdotto per la prima volta l’idea di moneta, non tanto come oggetto fisico circolante, quanto come unità astratta per misurare il valore, cioè più o meno come il metro serve a misurare le distanze. Questo passaggio storico in cui le persone hanno cominciato a riporre fiducia nel fatto che un’unità di misura scelta praticamente a caso, per registrare il grano che entrava e usciva da un magazzino, fosse in grado di determinare se un uomo o una donna potessero essere vivi o morti, liberi o schiavi – questa roba qui mi interessa molto. Vorrei sapere che gli è saltato in mente, cosa li faceva sentire in diritto (o in dovere) di fare quello che facevano, grazie a quali poteri e quali discorsi questa idea è entrata nelle menti delle persone, sembrando ragionevole e vantaggiosa, o forse non sembrandolo mai, ma imponendosi semplicemente prima con la forza e poi con l’abitudine. Oltre a chiedere però mi piacerebbe vederli vivere, osservarli mentre entravano in questa nuova forma di patto, capire come questa cosa ha stravolto i rapporti tra umani. Insomma, più che degli individui mi piacerebbe interrogare la specie per comprendere meglio come abbiamo fatto a rovinarci così, cercando nel passato i segni che le cose possono essere diverse da come sono.

In teoria e in pratica | Franca Mancinelli

Le risposte di Franca Mancinelli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Credo ancora nella forma libro, nel libro di poesia come compiuta costruzione di senso, nonostante i lettori si fermino sempre più spesso ai testi sparsi che si trovano a galleggiare nella rete. Per questo continuo a dedicare tutta la mia cura al compimento di un libro, la stessa necessaria per ogni singolo testo. Come in una poesia sono fondamentali il primo e l’ultimo verso, così in un libro sono fondamentali i testi di apertura e di chiusura. E come in una poesia un verso è legato all’altro attraverso connessioni che sono anche aperture del significato, strappi, interruzioni, inarcature, così accade in un libro tra un testo e l’altro.

Il lavoro che porta alla costruzione di un libro è simile a quello che compie un gatto su una coperta, o un mucchio di stracci. Muove il tessuto, tirandolo con le zampe, fino a che sente che si è trasformato in una cuccia. Le nostre carte avranno la forma di un libro quando saranno il luogo in cui deporre ogni difesa, ogni progetto, chiudere gli occhi e dormire. Un libro come una cuccia accoglie interamente non soltanto il nostro corpo, ma anche ciò che continua a transitare in noi, oltre la nostra coscienza.

Su questo tema del progetto in poesia e sul lavoro che porta alla costruzione di un libro ho riflettuto in Un libro di poesia, una struttura vivente, un testo scritto per un numero monografico della rivista «Materiali di Estetica», curato da Stefano Raimondi (n.7.2, 2020), che si può leggere qui, oppure nel mio libro di prose in traduzione inglese, con testo originale a fronte, The Butterfly Cemetery (The Bitter Oleander Press, 2022).

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Non mi piace pensare alla poesia nei termini della “finzione” né dell’“invenzione”. Se c’è finzione c’è letterarietà, manierismo, qualcosa che mi porta ad interrompere al più presto la lettura e, se sto scrivendo, a dimenticare quei segni. Sono segni, appunto, sporcano il bianco e lo spazio della nostra mente. Non c’è nulla da “inventare” in poesia, ossia, etimologicamente, da trovare con l’ingegno, la ragione, la volontà. Piuttosto si tratta di creare lo spazio perché qualcosa accada.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Sì, Mala kruna, il mio primo libro, è il mio esordio. Ricordo ancora il tormento che ha accompagnato la consegna del file che sarebbe andato alle stampe. Sentivo quel distacco come qualcosa di assoluto, la fine di ogni rinvio, di ogni ripensamento: una ghigliottina, o il taglio di un cordone. Non potevo concepire il dolore di ritrovare stampato, in diverse copie, qualcosa che non mi corrispondeva, in cui non mi sarei riconosciuta, anche solo per un verso. Per fortuna non è stato così, e Mala kruna ha continuato ad accompagnarmi, ad aprirmi sentieri e incontri nella vita, per altri cinque-sei anni, prima dell’uscita del libro seguente, Pasta madre.

Certamente gli occhi di tutti coloro che hanno letto le mie poesie prima che fossero pubblicate in Mala kruna, hanno contribuito a portarle alla loro essenza, plasmandole, così come l’acqua di un fiume fa con i suoi ciottoli: consigli di maestri e compagni di strada, uscite su riviste e antologie che hanno chiamato al lavoro sui testi, al confronto con la pubblicazione, per quanto in forma ridotta e attenuata rispetto al grande evento che è l’uscita di un libro. Penso all’acqua come a ciò in cui siamo immersi, il fluire, la vita, le relazioni importanti per noi, prossime e concrete nella nostra esistenza o invisibili e inconsapevoli, e ai ciottoli come a forme che possono smussarsi restando fedeli al loro nocciolo inscalfibile, alla loro struttura minerale, che è l’essenza di una lingua.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Ciò che mi manca negli incontri di poesia contemporanea è un elemento di ritualità, di festa condivisa. Penso a un luogo in cui sopravvive il residuo, anche minimo, di una comunità, un cerchio di persone che si ritrovano con l’intento di condividere un nutrimento essenziale per la loro esistenza.

In teoria e in pratica | Marilena Renda

Le risposte di Marilena Renda all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Lavoro da sempre in questo modo: leggo molto a proposito dell’argomento che mi sta a cuore in quel momento, raccolgo materiali, cerco di esaurire l’argomento, e contemporaneamente scrivo usando questi materiali come testi a fronte, estrapolo singole parole, mi concentro sui concetti che mi interessano, e a un certo punto sento che la spinta propulsiva si è esaurita e mi fermo. A quel punto di solito il libro è finito. Il processo complessivo è abbastanza veloce, di solito non dura più di sei mesi. Dopo che un libro è finito posso stare ferma anche per anni, ma in quel caso cerco di dedicarmi ad altre forme di scrittura, per esempio le recensioni, o piccoli racconti. Negli anni lo schema è sempre stato questo. Il fatto di avere dei materiali di riferimento mi aiuta a tenere a bada l’ansia di non saper lavorare in maniera abbastanza creativa; non sono capace, di norma, di scrivere “a mano libera”, ma anche questo, come altre cose, sta cambiando. Sto sperimentando con i nuovi testi che sto scrivendo una modalità meno legata ai testi degli altri. Credo che questo dipenda, anche, da una maggiore fiducia nelle possibilità del linguaggio.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Sono partita, con il mio primo libro, dal desiderio di dare voce a una comunità, all’esperienza di quella comunità dopo la catastrofe. Sembra essenziale allora nascondersi, far finta di non esistere. Negli ultimi anni l’io è tornato in scena: sembra che abbia delle cose da dire che finora non aveva avuto il coraggio o l’incoscienza di dire. Ma sulla questione condivido quello che ha detto di recente Antonella Anedda a una presentazione dello Spazio, e che dicono da molto le neuroscienze, ovvero che l’io è un personaggio fittizio sul palcoscenico della scrittura, proprio come le persone che vediamo nei sogni. Quello dell’io è un falso problema, quando dico io indico una proiezione di parti di me che io vorrei/non vorrei fossero il mio io.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Ho letto dei libri, come tutti. Amelia Rosselli è stata la mia scoperta della poesia, e per un po’ ho cercato di imitarla, ma la tua vera voce secondo me nasce nel momento in cui dimentichi le maestre, i maestri, gli amici, i sodali e i genitori e fai quello che ti va di fare senza preoccuparti di niente e nessuno. Quando scrivo qualcosa di nuovo c’è sempre quel momento in cui penso: “Oddio, questa cosa cos’è?”. Il nuovo non lo riconosci, e non sai come reagirà chi lo leggerà, ma secondo me ogni libro deve essere diverso dal precedente, deve testimoniare di un percorso, di libertà che ci siamo presi con il linguaggio e con l’esperienza. Scriviamo per conoscere meglio noi stessi e il mondo, ma se queste libertà non ce le prendiamo non impareremo un bel niente, saremo pappagalli ammaestrati che ripetono cose dette da altri per non deludere i nostri potenziali lettori o sodali. Quando scrivo io non ho lettori: ho solo un ostacolo da superare, e attorno a me non c’è nessuno. Della mia bolla non mi importa niente, solo quando ho finito mi chiedo: “Piacerà a qualcuno?”. Ma a quel punto è tardi per tornare indietro.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Pensare all’ascolto. Creare le condizioni per l’ascolto. Non creare festival/eventi/presentazioni che non manifestino una reale necessità di ascolto. Non organizzare maratone di poesia. Non andare alle maratone di poesia dove nessuno ascolta nessuno. Passare più tempo a casa. Fare meno cose. Oppure farne di più, ma solo cose che ci sembra che abbiano la qualità della necessità.

In teoria e in pratica | Francesca Serragnoli

Le risposte di Francesca Serragnoli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Chiesi la stessa cosa a Mario Luzi quando, dopo 13 anni circa di scrittura, ero indecisa sul senso e la costruzione di un libro (l’ordine etc), la bontà delle mie poesie, l’indecisione sul se andare avanti o smettere. Rispose: un libro di poesie è finito quando tutte le foglie sono cadute. Nessuno può dirti se continuare a scrivere o smettere: puoi smettere di vedere la realtà così come la vedi?
Queste le indicazioni generali che condivido. Ognuno ha una sua personale costruzione. Io, in ogni caso, non do molta importanza alla struttura, non è una narrazione. Salvo non sia un poema come Iliade o Divina Commedia etc. Ma il discorso è impossibile da sintetizzare perché ogni caso ha tempi e modi propri e rinnova, per fortuna, l’impossibilità di parlare di poesia senza la poesia. Cioè esistono solo esempi.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Non saprei rispondere perché non mi sono mai posta il problema. Anche qualora dovessi scrivere un poema allegorico, quindi fiction come la Divina Commedia, il problema rimarrebbe sempre vincolato al vero, cioè al rapporto fra la fiction e la realtà (interiore etc). Non credo di avere questa vocazione, non sono mai riuscita a scrivere neppure una fiaba. L’allegoria è un viaggio serio e per intraprenderlo, davvero, occorre, come direbbe Cristina Campo, l’eroe di fiaba.
In ogni caso, nella mia poesia, ho sempre bisogno di un fatto reale, anche piccolissimo.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Il problema del pubblico e dell’auto affermazione, nel mondo della poesia, è purtroppo un problema drammatico, come se il destino coincidesse con la visibilità del destino.
Il pubblico della poesia non esiste. È fittizio quello dei social e quello dei festival. Ognuno scrive da solo e risponde non al pubblico ma semmai a una vocazione o alla sua coscienza rispetto alla sua vita e al suo talento. L’esito del fare quello per cui si è nati: non si ruba il posto a nessuno, nessuno te lo ruba, si ha come esito gioia e pace interiori come tutti quelli che hanno lavorato e dato se stessi. Il lavoro della poesia è un dare, non un ricevere. Inoltre, il lettore non è il pubblico, ma una persona alla quale capiterà magari per puro miracolo di leggere un testo scritto da te o da me e mai ne verrai a conoscenza. Il riscontro vero della poesia è privato e personale. La cartina al tornasole: la gratitudine. L’unico pubblico è poi solo il maestro che ti riconosce e ti chiama per nome.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Non farei degli eventi, ma solo degli incontri. Manterrei il livello artigianale, gli spazi piccoli e raccolti, cioè difenderei il contarsi sulla punta di una mano, la presenza, l’accoglienza di ogni singolarità. Ringrazio che, nelle presentazioni di poesia, questo è ancora possibile e permette di conoscersi e di ascoltare e non di essere ascoltati, di stare sullo stesso piano e di mangiare insieme. Spero sempre che questo livello possa continuare. Terribile la poesia pronunciata da un palco tipo Sanremo, senza la possibilità di stringere la mano o incontrare gli occhi di chi si è commosso (anche questo è un dono enorme). La poesia è un servizio (non al proprio ego). Perché venga bene un incontro ci devono essere almeno 3-4 persone che desiderano incontrarsi e che siano felici di farlo.

In teoria e in pratica | Tommaso Di Dio

Le risposte di Tommaso Di Dio all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Mi ritrovo nelle vostre parole. Un libro, prima di essere un’opera compiuta e prima ancora di essere un progetto, è una nebulosa: un coacervo di possibilità, in cui nessuna prende il dominio e tutte procedono nella mente e nella scrittura, influenzandosi reciprocamente, contaminandosi, perdendosi. Da quanto mi è accaduto fino a qui, ogni libro ha una sua storia, una sua unica dinamica di sviluppo: faccio fatica a trovare delle costanti. L’unica è che non ho mai veramente lavorato con un progetto. Scrivo sempre testi singoli: ogni poesia potrebbe essere l’ultima e in effetti lo è. Ogni volta che termino una poesia, non so se avrà senso scriverne un’altra o se ne sarò in grado. Sento che potrei aver detto tutto e che la mia esperienza di scrittore finisce lì. Ogni volta che scrivo una poesia, la scrivo dentro questa dimensione finale, definitiva. Scrivo soltanto dentro questo presagio, dentro questa atmosfera, questo spossessamento, altrimenti quello che faccio non mi sembra neanche poesia, ma un esercizio scolastico o epigonale, qualcosa meno di un gioco di bimbi (che è cosa seria, invece). Qualche volta capita che un testo però non resti da solo: una poesia ne chiama un’altra e si formano così piccole costellazioni di “ultime poesie”. Per quanto si moltiplichino, è una gemmazione che proviene sempre dalla scrittura stessa, dalla sua esperienza interna, mai da un’idea che precede la scrittura e che la governa a priori. La formazione di un libro di poesie è per me un’esperienza del tutto postuma, artificiale: un’operazione di composizione. È come se ci fossero due fasi, ben distinte, con due logiche completamente lontane e, in parte, estranee. La prima è la scrittura vera e propria: segue sentieri improvvisi e interiori, meno razionali, meno controllati, più vicini al bisogno, al magma, al corpo e alle sue risposte emotive, gestuali. La seconda è il montaggio, che è anch’essa una forma di scrittura, ma completamente diversa: è un’operazione ideologica, a posteriori, ha scopi, obiettivi, se vuoi anche ambizioni. La prima non ha nessuna ambizione, vive del momento, gli interessa stare lì, dentro una percezione che diventa tutto il mondo in punta di tastiera, parola per parola. La seconda invece è un’attività a cui sottopongo i miei testi ma come se non fossero più miei. Quando mi metto a lavorare sul montaggio e sulla composizione è come se i testi che mi trovo davanti fossero anonimi: miei o di altri è indifferente, sono solo materiali, forze, direzioni. Negli ultimi anni mi sono trovato a fare libri con macrostrutture molto elaborate (non so se andrò avanti in questo modo): l’ho fatto perché mi interessava lavorare sulla forma libro, sulle modalità di tenuta e ibridazione del libro di poesia del nuovo Millennio. Devo dire che quasi tutte le opere che ho profondamente amato sono libri che hanno una costruzione potente, allegorica, che però non supera mai la forza intrinseca e solitaria dei testi. Penso alle egloghe di Virgilio, a Caproni con il suo Il Conte di Kevenhüller, a Sereni con Stella variabile, più recentemente a Pitture nere su carta di Mario Benedetti o a un libro straordinario, pubblicato in Francia nel 1986, ma solo l’anno scorso uscito in Italia (tradotto da Domenico Brancale e Tommaso Santi): Qualche cosa nero, di Jacques Roubaud. Per costruire un libro, posso consigliare due cose: sicuramente la prima è pensare al lettore, a cosa si vuole che accada durante l’esperienza della lettura; la seconda è trasformare i testi, da schermate digitali, in fogli stampati e distribuirli fisicamente su di una superficie (appenderli al muro o accostarli a terra): vedere il libro come successione fisica di pagine libera molte energie e rende gli spostamenti (o le sottrazioni o le aggiunte) più rapide, più indolori. Sono in effetti due tecniche di estraniamento, piccoli esercizi per uscire fuori dal sé.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Che la poesia sia espressione del sé è un pigro adagio. Certo che la poesia ha sempre a che vedere con la propria esperienza (chi lo nega non vede le mani con cui scrive), ma se non è contemporaneamente trasfigurazione di sé in altro, è solo una noiosa tiritera ombelicale. E la poesia, quando c’è, è metamorfosi. Insomma – come in ogni altra forma d’arte – è solo una questione di stile: è il lavoro sulla forma che permette questo salto, questo calvario della materia biografica che si incendia e diventa movimento e luce. In questo preciso senso, la finzione della poesia è la sua verità e la verità è la sua finzione. Si tratta di arrivare (a forza di lavoro sulla sintassi e sul ritmo e sulle memorie letterarie) in questo cortocircuito fra grafia del bios e memoria retorica e poi saperci restare dentro un cammino di parole e immagini. Una poesia che sia solo un racconto di sé, per quanto una vita possa essere interessante e commovente, sarà sempre una poesia sciatta (tanta poesia “lirica” finisce così); e, al contrario, una poesia solo retorica e proceduralmente innovativa sarà solo un vociare senza scopo o al massimo un campionario di formule da riusare altrove (tanta poesia di “ricerca” finisce così). Quando si arriva al paradosso raggiunto, che ci sia un io, un tu o un egli, che ciò che bruci sia tuo o di un altro o di nessuno, non importa più nulla: solo è sovrana la restituzione, l’effetto, la forza che scorre nelle parole; con cosa ciò accada, è del tutto secondario, o meglio: è qualcosa che pertiene alla critica, all’aneddoto, alle chiacchiere postume.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

È una domanda complessa, è difficile rispondere. Ti posso dire che senz’altro considero Favole (Transeuropa, 2009) come il mio esordio: è il mio primo libro di poesia nel senso che è il primo percorso di testi che ho lavorato con una lingua che considero reale, mia. E che ciò sia accaduto con l’auspicio di Mario Benedetti (che firmò la prefazione) è stato importante: non solo per ragioni personali, ma perché dice qualcosa sulla mia formazione e su ciò che ha contribuito a costruire la mia scrittura. Ho sentito di iniziare a scrivere davvero proprio grazie all’incontro con alcuni libri del mio tempo (Notti di pace occidentale di Antonella Anedda, La città dell’orto di Stefano Raimondi, Tema dell’addio di Milo De Angelis, Umana gloria di Mario Benedetti), ma anche grazie all’ascolto delle letture dal vivo, ai dialoghi intimi con alcuni poeti, ai loro consigli di lettura, senza i quali non sarei andato da nessuna parte. Un peso altrettanto grande per la mia formazione l’ha avuta la filosofia e in particolare il magistero di Carlo Sini, la cui riflessione sull’alfabeto e sul lavoro del simbolo è per me e per la mia poesia una lezione centrale. È importante per chi scrive incontrare la poesia contemporanea non solo nelle opere e nella scrittura, ma anche nelle figure e nei modi vitali in cui ciò accade in un tempo storico; in questo incontro sono compresi ovviamente anche i lettori e le loro restituzioni. Benedetti mi spronava a incontrare i miei coetanei, a dialogare con loro, a organizzare incontri e letture e così ho fatto: alcune compagne e compagni della mia generazione sono stati per me decisivi per definire la mia scrittura. Penso a libri come Pasta madre (2013) di Franca Mancinelli, La direzione delle cose (2014) di Roberto Cescon, Appartamenti o stanze (2016) di Carmen Gallo, Trasparenza (2018) di Maria Borio e come il recente Posti a sedere (2019) di Luciano Mazziotta o Campo aperto (2022) di Bernardo De Luca. Sono libri che mi hanno aiutato a capire non tanto come scrivere, ma cosa fosse il caso di buttare via.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Non ho molto da dire sull’argomento. Ci sono presentazioni che vengono bene e altre no, dipende tutto dal grado di preparazione di chi conduce l’incontro e dalla disponibilità del poeta a prendere sul serio il momento di scambio intellettuale con il pubblico e con chi conduce. Non tutti danno a questo momento lo stesso valore e non ne faccio una colpa: è anche una questione di attitudine personale. Dico però che per me è un momento importante, sia da conduttore che da ospite. Non ho alcun interesse se ci sono cento persone o cinque: chiunque sia lì, sta cercando qualcosa e questa disponibilità è un valore. Considero la presentazione pubblica della poesia e la sua lettura a alta voce un momento di militanza culturale: il modo in cui la poesia accade nella realtà storica del mio tempo. Mi piacerebbe che più spesso di come succede oggi ci fossero spazi consoni all’ascolto e alla lettura e ci fossero più occasioni per ragionare sui libri significativi del passato, sulle forme e sui temi, più workshop e laboratori invece di insistere – come spessissimo accade – sulla promozione dell’ultimo libro di poesia uscito qualche settimana fa. In questo senso, recentemente, ho incontrato una realtà molto bella a Milano, un collettivo che si chiama “Murmur”, promosso da Maria Luce Cacciaguerra e Greta Sugar: organizzano delle letture-laboratori, aperte al pubblico, in spazi e formule che cambiano continuamente, ma sempre informali e intimi, lontano sia dall’idea promozionale, che dall’idea intellettualistica dell’agone letterario. Ho trovato un clima di scambio e di dialogo sulla parola poetica e sulle sue forme davvero raro: vorrei più occasioni così, in cui accostarsi all’ascolto della parola dell’altro significa cercare di mettere in comune qualcosa di sé, in una ricerca che trova nella poesia un veicolo potentissimo.

In teoria e in pratica | Collana Manufatti di Zacinto Edizioni

Le risposte degli autori della collana Manufatti di Zacinto Edizioni all’inchiesta a cura di Raggi γ.

Raccogliamo le risposte di alcuni autori presentati nella collana Manufatti di Zacinto EdizioniMarzia D’Amico, Lorenzo Mari, Stefania Zampiga.


1)  Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo?  Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

MDA: Il primo libro di poesia che ho pubblicato, Liricologismo, non è cronologicamente il primo che ho ultimato. Questo vuol dire che mi sono permessa un esercizio diverso, giocando con qualcosa che pensavo mi stesse male addosso (il lirismo puro) e trasformandolo come ho potuto a partire da dentro, permeando l’io con la costituzione di un’essenza plurima in una maniera diversa da altri esperimenti che avevo perseguito in passato (sia in lingua italiana che inglese). Non è cambiato però lo sguardo alla poesia, solo la maniera di applicare gli insegnamenti dello sperimentalismo (soprattutto italiano) che mi è caro. Sono certa che qualsiasi cosa scriverò affonderà sempre le radici – che sia per imitazione o per distanziamento – nella poesia sperimentale (soprattutto quella femminista) del secondo Novecento, perché oltre ad essere la materia di studio per il mio percorso di ricerca accademica, è un elemento chiave nel mio processo di ricerca personale e autoriale. Certo, non escludo che questo possa cambiare nel tempo in termini di approcci e giochi (mi piace una certa leggerezza poetica, l’ironia è una form(ul)a fondamentale di rivendicazione) ma dubito che perderò di vista l’orizzonte che mi ha così segnatə e formatə. Per quanto riguarda la costruzione di un’opera, invece, nella sua interezza, non ho consigli, o quantomeno non ne ho di buoni: io parto da un’idea che ha un principio e una fine, ma spesso cosa capita nel mezzo mi è (in parte) sconosciuto. Lavoro molto per accumulo e successiva esclusione, nel mezzo mi permetto una certa esuberanza per riconoscermi nel processo di scrittura: quando si arriva però al momento in cui l’oggetto-libro esce completamente da noi, ecco è lì che rivedo e rifinisco con quanta più possibile consapevolezza autoriale che non sto mandando nel mondo me ma una promessa di contatto.

LM: Sono affezionato a una visione della poesia che è progetto (e proiezione) ma senza una progettualità – né ideologica né formale – prestabilita. La progettualità viene in corso d’opera, proprio come si suggerisce nella domanda, da un movimento graduale di intreccio tra i materiali di lettura, di scrittura, di confronto con le altre arti, con gli accidenti della vita, etc. Di conseguenza non posso dare consigli, ma, parafrasando la massima, cerco di dare cattivi esempi… Nella mia esperienza, questo ha portato a libri che ricercavano una compattezza formale affine a un determinato lavoro sull’allegoria (anche qui, senza giungere ad allegorie perfettamente conchiuse) in Ornitorinco in cinque passi (Prufrock Spa, 2016) e Querencia (Oedipus, 2019), ma anche al percorso caotico, talvolta pseudo-enciclopedico talvolta arbitrario, di Soggetti a cancellazione (Arcipelago Itaca, 2022). In questo caso, una performance insieme a molpho per XM 24 e Galleria Frittelli di Firenze basata su una breve sequenza di testi è diventata la plaquette di Zacinto edizioni Tarsia/Coro e poi una parte di Soggetti a cancellazione (che, però, appunto, contiene molti altri materiali affastellati tra loro… e al tempo stesso cancellati…).
Credo che ogni forma si scelga le proprie maestre e maestri – e che questo di fatto accada, seppure più nascostamente, anche per quell’informe che è in rapporto dialettico con la forma – e questi libri ne hanno cercati parecchie e parecchi… In tema di costruzione dell’opera, vorrei piuttosto sottolineare la presenza di realtà editoriali, o produttive in senso lato, che contribuiscono molto a questo percorso – a differenza di altre, pur meritorie, che si attengono ai crismi di una produzione più tradizionale… Ne cito soltanto alcune, pescandole a titolo di esempio tra quelle con cui non ho un rapporto autore-editore: Diaforia, Benway Series, Howphelia.

SZ: Ecco, il tema avvia la ricerca. Purtroppo non riesco a partire dalla curiosità per una forma. Da qualche anno ho un tema, un progetto ampio ma modulabile, in un ambito che non mi aspettavo, quello della scienza. In breve, il progetto consiste nel vedere come percorsi, procedure, posture appena meno note di animali non umani siano mirabili in sé (nella precarietà del dato scientifico) ma anche evochino altro, in particolare, le ‘inarrestabili trame’ della scrittura. In Rangifera l’attenzione è su un solo dettaglio scientifico non dichiarato – come la renna vede nel bianco –  importante per me in quanto dettaglio di avvio del progetto generale.
Il tema viene da subito delineato dagli studi, che di conseguenza riducono e ampliano le tipologie di parola impiegate, nell’accoglienza di spunti soprattutto dal linguaggio della scienza – anche solo a spazializzarlo sulla pagina, rilascia riverberi. Mi piace indagare l’estensione e la trasformazione degli spazi di parola, oltre che gli effetti di una parola negli spazi. Quindi il tema vive solo per le parole scelte per le connessioni sostenibili nelle fluttuazioni del tempo. In generale mi piace indagare fin dove si può dire poco, dunque esploro la forma breve, anche se comincio ad aprirmi all’abbondanza.
Per la costruzione di Rangifera, primo testo lungo su un tema, ho proceduto per aperture, come se una lente si muovesse fra il tema e le sue lingue, i perimetri non perimetri, ad es. scomposizioni di parole come ‘lichene’ e ‘lupo’, altri dettagli. Amo i lavori di Marilina Ciaco e di Christophe Tarkos per come stanno nell’intimità in altri modi e per loro ‘decentr-azioni’, e amo la scomposizione della frase e del concetto di testo di Alessandra Greco. Poi, figure come Marco Giovenale, Morena Coppola e Andrea Inglese mi portano ad apprendere lo spostamento di attenzione al senso del rumore.
Naturalmente l’approccio cambia, anche in base alle letture che faccio; ad esempio per gli animali non umani, fra gli altri, da lungo tempo leggo Vinciane Despret e, in questi mesi, Bartolomeo Cafarella e Giulio Marzaioli.
Infine, l’immedesimazione dentro al corpo di un animale è legata a pratiche di improvvisazione di danza; come affermava qualche decennio fa la pensatrice di origine vietnamita Trinh T Minh Ha. “Il pensiero è tanto il prodotto dell’occhio, del dito o del piede come lo è del cervello.” Minimi consigli: indagare, aprire il testo, confrontarsi, uscire dall’isolamento fisico della scrittura.

2)  Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

MDA: Credo fortemente nel principio di finzione poetica. Certo, gli elementi biografici possono essere presenti e addirittura ricorrenti, ma quello che mi interessa soprattutto della poesia è la capacità di un sentito collettivo. Questo si costituisce, a mio avviso, secondo un progetto di ideale comune, di orizzonte condiviso, di desiderio di contatto. Non devo la verità a chi mi legge, e al massimo posso offrire la mia versione della verità; in questo senso, più che di biografismo, mi piace pensare che si tratti di posizionamento. Magari rivelo – più o meno direttamente e concretamente – aspetti funzionali a creare una relazione col prossimo.

LM: Sono grandi temi e mi sento di rispondere soltanto telegraficamente. Finzione sì, invenzione no (e nemmeno “uncreative writing” duro e puro, ma qualcosa di ibrido, o in movimento dialettico, tra i due poli); il sé… che dobbiamo fare, teniamocelo pure… ma soltanto se…

SZ: In primo luogo il movimento dei miei testi è lontano dall’espressione di sé e della realtà biografica del mio io perché ci sono altri intenti, entrare nei panni di animali non umani, anche se la scrittura non è in prima persona. Dunque la prima ‘finzione/invenzione’ è immaginare altri punti di vista, a partire da studi piuttosto approfonditi su quello di cui parlo. Riguardo a ciò, assumo il dato scientifico perché comunque si caratterizza per essere modificabile e fallace, provvisorio; nuove scoperte e intuizioni lo cambiano, in un certo senso si tratta di una costruzione transitoria. E comunque mi piace ricordare che anche il dato scientifico parte spesso da un’intuizione, e dall’immaginare, come è stato nel caso di Rachel Carson. Nei miei testi la finzione è immaginare implicazioni del dato scientifico, anche a partire dal modo in cui questo è formulato, il modo in cui è stato ‘disposto’ nel linguaggio.

3)  Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

MDA: Ho cominciato a scrivere in versi abbastanza presto ma con poco successo. Mi rileggo e lo dico senza vergogna: le mie prime poesie non sono niente di che. Solo quando ho adottato l’inglese come lingua principale della mia scrittura poetica ho saputo creare il giusto distacco funzionale a creare qualcosa che potesse servire qualcuno oltre me, è stato molto istruttivo e in parte faticoso ma davvero un’esperienza brillante di cui sono felice. Sono tornatə alla lingua italiana con più metodo e più attenzione, spero soprattutto avendo imparato a mediare tra l’istinto di compiacenza del sé e la prospettiva collettiva alla quale cerco di affidare il mio sentire, il mio ragionare, il mio scrivere. Avendo trascorso quasi tutta la mia vita circa-adulta all’estero, non ho neanche gioito o patito dell’esperienza della “bolla”, per mia fortuna e sfortuna immagino: sicuramente, però, il pubblico ha un valore massimo nel mio tentativo autoriale, perché molto di quello che scrivo è anche pensato per la lettura ad alta voce e condivisa. Credo fortemente nel momento stesso della compartecipazione testuale, credo che una poesia raggiunga la sua massima altezza quando si verifica.

LM: Non posso negare di avere rapporti con l’esterno – se di esterno si può parlare – che possono essere valutati, poi, di volta in volta. Talvolta ci ragiono a fondo anche io – magari all’interno di singoli progetti collaborativi, che hanno sostituito la “poesia d’occasione”, nella loro progettualità maggiormente prestabilita – ma guardo sempre alla questione con una certa leggerezza, visto che si tratta più che altro di autoanalisi… Per quanto mi riguarda, francamente, non è questa la faccenda più interessante: da un po’ di tempo mi concentro solo su una parte della domanda, quella che riguarda la presa di parola. Mi sembra che questa domanda sfugga, in ultima istanza, all’autoanalisi e che non riguardi soltanto l’esordio, bensì che vada posta continuamente. D’altro canto, personalmente, non credo nemmeno di essermela mai posta fino in fondo – il che non vuol dire non aver ancora esordito, ma, con ogni probabilità, essere sempre stato “borghese”, da un lato, e sempre già morto, dall’altro.

SZ: (in brevissimo)
infanzia/giovinezza: a Cesena, parola nello spazio come gioco, con amica Claudia Castellucci (Societas ex Raffaello Sanzio). Resa di Rilke e Dickinson di Mariangela Gualtieri, suo ‘Fuoco Centrale’. Bologna, passione per T. S. Eliot e la poesia in lingua inglese.
dopo: Prato e altri luoghi, scritture per il teatro e per la danza. Parole nello spazio, per Società delle Letterate. Con gli studenti, poesie contemporanee per voce e corpo e altre azioni sulla poesia, anche nel coordinamento di progetti Erasmus. Studi su poesia americana in performance. Co-coordinamento Progetto Poecity, su letture condivise. Laboratori con Elisa Biagini e del Centro Scritture. Esperienza di Esiste la Ricerca.
Il mio percorso è sempre nato da un incontro: mai in solitudine. Scrivo per dialogare. ‘Scrittura come test’, ricorda Antonio Francesco Perozzi in questa sede, scritture come passaggi falliti o fallibili, sperimentazioni di avvicinamenti, spostamenti, verso incontri. Molte cose influiscono su di me, cerco di essere consapevole delle situazioni e dei mutamenti che offrono; sono grata alla porosità, mi muovo verso il contatto.
L’esordio in pubblicazione aiuta ulteriormente a sentirmi parte di un dialogo.

4)  Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

MDA: La verità è che non conosco abbastanza la scena contemporanea italiana per poter dare giudizi o consigli, sono solo gratə di avere le mie parole lì fuori insieme a quelle di molte persone talentuose che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso. Sicuramente, una cosa generica ma che sento il dovere di riaffermare in quanto è mio compito anche come persona che insegna la poesia, è che la poesia non è elitaria. O almeno, per me, non dovrebbe esserlo. Il più grande insegnamento che ci lascia Amelia Rosselli è secondo me la continua ricerca di “un semplice linguaggio”: questo non si traduce in una lingua scialba, o priva di densità e significato. Ma c’è differenza tra scrivere una cosa difficile e oscura, e il pensare (e scrivere, e farne tesoro) la complessità e il saperla restituire.

LM: Anche in questo caso non ho particolari idee né preoccupazioni, ma posso parlare di quella che è l’esperienza, negli ultimi due anni, di “Dialoghi”, insieme a Sergio Rotino e Luciano Mazziotta. Si tratta di una rassegna annuale, basata su una serie di presentazioni brevi, quasi à contrainte, ovvero con la presenza di due libri in dialogo tra loro, scelti da chi organizza e modera l’incontro, in un tempo molto condensato che prevede comunque uno spazio per la lettura di una selezione dei testi dei singoli autori. Se va bene, quello che si può dire e sentire in un’ora e mezza un’ora e quaranta può essere condensato in trenta-quaranta minuti… Succede anche con la lettura di un libro di poesia: la si può fare in brevissimo tempo, ma le parole poi, se va bene, risuonano a lungo.

SZ: In generale, trovo che siano momenti di entusiasmo e passione. Dopo un evento recente del Premio Montano, ho visto quanto siano efficaci le note introduttive. Però, in generale, toglierei solennità a questi momenti, aprendo a punteggiature da altre discipline – musica, danza, teatro; favorirei esperimenti di ibridazione, ad esempio come quello creato qualche mese fa da Anna Papa nella sua giornata per ‘I dialoghi della sedia’ di Chiara Serani, inclusiva di contributi dalle arti visive, azioni propriocettive, videoart, performance.

In teoria e in pratica | Marco Simonelli

Le risposte di Marco Simonelli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Devo confessare che ogni mio libro ha avuto un processo di costruzione diverso. Per quanto riguarda il mio ultimo libro, Bestiario, ho deciso a priori di utilizzare una doppia quartina a rima incatenata: l’idea alla base è quella di sperimentare il più possibile all’interno di una forma fissa. La decisione di scrivere sugli animali è avvenuta in ambito laboratoriale: da vent’anni ormai tutti i miei testi sono presentati a uno sparuto gruppo di amici-lettori competenti che arricchiscono il processo compositivo con interpretazioni e consigli. Mi riesce difficile parlare di maestri di costruzione, credo che sia l’opera stessa a dettare modalità ed esigenze espressive, credo si debba principalmente desumere le necessità dell’opera dall’opera stessa. Come dicevo, ho sperimentato diversi approcci compositivi e diversi metri: in Palinsesti giocavo con la metrica e personaggi televisivi in disarmo, Will era un canzoniere di sonetti elisabettiani, Firenze Mare era composto da poemetti fra l’elegiaco e il confessionale. Adesso sto ultimando quella che io chiamo la mia trilogia metrica, iniziata con Litania nervosa e proseguita con Bestiario. Attualmente sto lavorando alla stesura del terzo pannello. Sono pronto a scommettere che, una volta terminata, mi imbatterò in altre forme e altri contenuti ma ora non riesco a prevederli. Se dovessi dare un consiglio sulla costruzione interna di un’opera suggerirei di stare con l’idea principale il più possibile, estraendo da una visione anche vaga dell’insieme quanti più dettagli possibili, usando molto la fantasia per coprire i vuoti, senza aver paura di arrivare all’insignificanza: sono rischi che vanno corsi.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Leggere un libro di poesie come un diario intimo è pericoloso: si rischia di sovrapporre la persona dell’autore all’io monologante, scambiare un pronome per un individuo. C’è gente che se ne innamora. Siamo consapevoli della dose di fiction necessaria a costruire un io convincente sulla pagina, persino i maestri del confessional americano (Plath, Sexton, Lowell) stabilivano una distanza fra l’io poetante e l’io anagrafico. Tuttavia non credo che la finzione o l’invenzione siano attributi necessari allo scrivere in versi: la poesia non inventa, scopre. Scopre territori a volte inesplorati, scopre fenomeni umani complessi, scopre la stessa lingua di cui si compone. Nella mia scrittura l’uso dell’io è riservato alle prosopopee. L’invenzione potrebbe essere una rampa di lancio ma non è mai un punto di arrivo.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Ho esordito con un paio di plaquette fra loro molto diverse, avevano una certa grazia ma erano comunque derivative, troppo influenzate da scritture forti che all’epoca esercitavano su di me un innegabile fascino. La mia voce ha cominciato ad avere una sua fisionomia più definita con Sesto Sebastian – Trittico per scampata peste, un poemetto ideato per essere letto ad alta voce (quindi scrittura-per-pubblico). Fu il mio coming out poetico col quale prendevo un poco le distanze da quanto c’era stato prima e stabilivo alcune costanti della mia scrittura come l’utilizzo della metrica, l’ironia mordace, il prevedere un ascolto. Come ho detto prima, tutti i miei testi da vent’anni a questa parte sono ascoltati e discussi da un gruppo laboratoriale che ormai conosce stili e stilemi delle altrui scritture. Se un testo non ha mordente, lo si individua e sopprime in poco tempo. Alle volte un testo può miracolosamente resuscitare grazie all’aiuto e ai suggerimenti del gruppo. Per quanto riguarda un pubblico più vasto – stiamo parlando del famoso pubblico della poesia, vale a dire i poeti stessi – mi interessa sempre ciò che hanno da dire qualora si siano dati la pena di leggere. Sono sempre pronto ad ascoltare. Come sono sempre pronto a seguire poi una strada che porta altrove.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Mi ispirerei a una performance di Marina Abramović: legherei il poeta alla sedia e permetterei al pubblico di interagire con lui tramite una serie di oggetti a disposizione che possono dare piacere o dolore: una piuma, un martello, una rosa, del cotone, un coltello, del miele, una pistola… Se il poeta sopravvive alle pulsioni del pubblico allora potrà leggere qualche poesia.

In teoria e in pratica | Quaderni italiani di poesia contemporanea

Le risposte degli autori del Sedicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea all’inchiesta a cura di Raggi γ.

Raccogliamo le risposte di alcuni autori compresi nel sedicesimo volume dei Quaderni italiani di poesia contemporanea di Marcos y Marcos: Marilina Ciaco, Dimitri Milleri, Stefano Modeo, Noemi Nagy, Antonio Francesco Perozzi.


1)  Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo?  Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

MC: Guardando al mio lavoro dall’interno, e dunque da una prospettiva inevitabilmente limitata, posso dire che la componente progettuale e in parte “aperta” dei miei lavori è tuttora pregnante. A questa spinta se ne contrappone però un’altra uguale e contraria, complementare direi, che potrei definire “chiusa” o formalizzante. Mi sembra importante fissare uno spazio linguistico e percettivo sulla pagina, che parte dalle parole, dal sintagma o dalla frase, per poi dare vita a una concrezione relativamente stabile che è fatta anche di ritmi e di immagini, di corpi, di materia congelata «nella sua quasi sparizione vibratile», come scriveva Mallarmé. È su questa stabilità relativa, credo, che si fonda una fase importante del “fare” poetico. Una fissazione precaria che deve fare i conti, di continuo, con il sospetto di un’indicibilità di fondo, con l’incombere di un’assenza. Questo spazio, in qualche modo, deve vedersi, deve emergere dalla pagina e circoscrivere un qualcosa attraverso dei confini formali più o meno categorici, anche se magari è soltanto un appiglio teorico iniziale – penso agli Spazi metrici di Amelia Rosselli, e insomma, anche se decidi di non rispettare quella regola, deve essere una sovversione consapevole, devi sapere che c’è. Il «devi», naturalmente, riguarda una questione soggettiva di autocoscienza, la scrittura in sé non deve nulla. L’unico consiglio possibile è sapere chi sei e che cosa vuoi fare con quello che scrivi. Che l’approccio cambi in termini di singole pratiche o strategie espressive è un fatto strutturale, la nostra condizione umana e vivente impone la fluttuazione (a volte creativa, proficua, a volte soltanto sfibrante), ma ci sono poi due o tre stelle fisse che secondo me ogni autor3 seri3 mantiene costanti nel tempo. Certo, esistono spiriti fortemente monisti, diciamo pure un po’ petrarchisti – l’iterazione tematica e l’ossessione formale sono spie testuali di un tale atteggiamento, lo sappiamo – e spiriti pluralisti, rabelaisiani, forse più allegri. Conoscere il proprio posizionamento (culturale, sociale, etico, estetico, epistemologico, in vari sensi e secondo una molteplicità di assi) è cruciale ai fini della solidità e della credibilità dell’opera nel suo complesso. In ogni caso, nonostante tutti gli sforzi costruttivi immaginabili, ci sarà sempre, tanto in un singolo testo quanto nel progetto generale di un libro, qualche parte che sfugge al controllo di chi scrive, e penso sia giusto salvaguardare questo residuo caotico-magmatico, lasciar andare, qualche volta o sempre, il flusso della scrittura, accettare l’ignoto.

DM: Procedendo a ritroso e selezionando un po’ le domande, per me conta la coincidenza. Intendo dire che ogni materiale testuale, nel contesto dell’opera in cui si sta facendo, può assumere una ristretta gamma di configurazioni possibili, giuste. I vari attori che ruotano intorno all’Opera durante la gestazione cercano di capire cosa desidera essere, quale creatura deve e vuole essere. Quando l’illusione di esattezza diventa abbastanza solida da produrre il senso di necessità, vuol dire che gli apparati dell’Opera hanno una vita autonoma. È davvero così? L’opera è viva? Non credo, non importa. Quel che importa è che lo faccia credere.

SM: Questa nuova silloge Partire da qui ha cominciato a prendere corpo circa sette anni fa. Dopo aver pubblicato La terra del rimorso, sapevo che molti discorsi che gravitavano intorno a quella piccola raccolta non si erano in me conclusi. Al contempo mi ero reso conto, attraverso le letture degli altri, di quali fossero i limiti di quella plaquette e su cosa dovevo lavorare. Bisognava imparare a limare, misurare, saper riconoscere e riagganciare i fili con una tradizione. Ogni autore infatti, che lo voglia o meno, mentre scrive ricostruisce delle linee di tradizione; utilizza cioè, attraverso ciò che ha letto e recepito in un sistema di interazioni tra passato e presente, ciò che per lui è proficuo nel momento in cui scrive. Fondamentale in questi anni per me è stata dunque la riscoperta di una tradizione legata ai miei luoghi d’origine. Sono dovuto ripartire da lì per comprendere alcune mie scelte lessicali, la propensione ad un ritmo, l’uso di alcune immagini. Da questo studio sono nate ad esempio le curatele delle poesie di Raffaele Carrieri Un doppio limpido zero. Poesie scelte 1945 – 1980 (Interno Poesia) e di Pasquale Pinto La terra di ferro e altre poesie (marcos y marcos).
In tutto questo appare chiaro come i miei testi siano stati contaminati e abbiano attraversato innumerevoli fasi. Il lavoro di riscrittura nel corso degli anni è imprevedibile, è il gioco delle varianti, i testi seguono il loro corso incrociando letture, suggestioni, intuizioni, sino a quando s’impongono all’orecchio con la loro forma e spesso anche con un contenuto del tutto diverso dal proposito iniziale. Certo, può capitare anche che un verso, suggerito dalle letture del momento o da un preciso intento d’intonazione, si presenti immediatamente con un suo ritmo o una sua metrica e che io decida di conservarlo, di dargli seguito. Inoltre, personalmente condivido spesso ciò che scrivo con amici poeti o persone che conoscono il mio percorso. Questo mi aiuta a mettere in dubbio ciò che scrivo, stana quello che non riuscirei o non vorrei vedere, mette a dura prova il narcisismo. Se dovessi dare un consiglio a qualcuno direi proprio questo: nel lavoro di scrittura il poeta non deve essere mai del tutto solo. Un libro di poesia, prima di essere pubblicato, deve passare sotto diverse mani. Questo semplice consiglio vale ancor di più dal momento che pochissimi editori o persino curatori di collane si preoccupano di leggere sul serio ciò che pubblicano. Il modo migliore per rispettare ciò che si scrive credo sia questo: confrontare aspettative e risultati, accogliere le stroncature, dialogare e, se è il caso, rinsaldare le proprie posizioni.

NN: Mi piace pensare al libro possibilmente come sempre in fieri: un libro che non si chiude può prestarsi a sempre nuove riletture. Questa secondo me è una condizione necessaria perché vi sia opera poetica: la conservazione di un certo grado di apertura intrinseca.
Poi, certamente, il confine stabilito dall’atto della pubblicazione è importante: traccia una linea di demarcazione, ferma l’istantanea di un’intenzione autoriale. Ma è bene che sia permeabile – e qui forse è anche la formazione filologica a parlare: la passione per gli avantesti, la problematizzazione della nozione di compimento.
Per fare un esempio, all’interno di questo Quaderno mi affascina molto l’operazione di Milleri, che di fatto ha riscritto la propria precedente raccolta. Questo è un caso estremo, certo, ma esemplificativo della possibilità di risonanza e di movimento del testo poetico.
Per quanto riguarda la mia (breve) esperienza: sicuramente la silloge con cui esordisco all’interno del Quaderno si trova tutt’ora allo stato di un testo in costruzione. Questo credo possa essere – non soltanto, ma anche – un bene. Non so dire se, come o quando troverà una prosecuzione, che pure sembra chiedere.
Ma non so dirlo anche perché, per quanto riguarda la costruzione di questa, ancora precaria, forma macrotestuale, prima sono venuti i testi. Un fil rouge li ha intrecciati in seguito: rileggendoli a una certa distanza, anche temporale, sono emerse con inattesa chiarezza le tappe di un percorso, fissate però soltanto a quest’altezza nelle diverse e successive sezioni che ora compongono la raccolta.
Il lavoro sul macrotesto, dunque, è stato a posteriori, non a priori. La forma, per me, è stata dettata dai testi.

AFP: Personalmente tendo a adottare modalità differenti in base al progetto. Questo perché mi muovo contemporaneamente su terreni diversi della scrittura e ciò comporta confrontarsi con diverse necessità e possibilità. Ciò che posso individuare come costante, tuttavia, è una tensione tra macro-struttura e singolo testo, con un polo che attrae più dell’altro in base alla situazione.
Ad esempio ne Lo spettro visibile ho lavorato molto a monte: ho disegnato un quadro di ciò che volevo trattare, articolandolo in sezioni; poi i testi hanno seguito le ragioni di questo prospetto, certo suscitando di volta in volta imprevisti e nuove prospettive, che però io poi ho accolto o scartato, comunque piegato e collocato obbedendo allo schema iniziale, che almeno nelle sue direttive centrali, quindi, è rimasto stabile. Per bottom text, la raccolta presente nel Sedicesimo quaderno italiano, invece, la spinta dall’alto è stata meno forte, e le tre sezioni del libro sono state pensate contemporaneamente (cioè in maniera interconnessa) alla stesura dei testi/episodi.
Anche per quanto riguarda la forma dei singoli testi, poi, tendo ad agire in modi diversi in base all’obiettivo del lavoro, e in questo la risonanza tra micro e macro è – o mi impegno a fare che sia – percepibile. Ancora, nello Spettro, volendo ragionare di poesia e scienza, ho lasciato entrare materiale grezzo, desunto da saperi specialistici, all’interno dei versi; al contrario in bottom text, volendo esplorare percorsi più allucinati e post-umani, ho lavorato su nitidezza e (apparente) limpidità razionale. Apprezzo (anche da lettore, intendo) i libri compatti e consapevoli. Che possono essere anche compatti nella loro deliberata auto-trasgressione o inaffidabilità interna, è lo stesso; purché il libro possa costruire una sua (eventualmente anche anti-)intelligenza, una sua circonferenza di senso.
Visti questi contrasti, e percependo il mio stesso lavoro ancora in via di definizione (forse all’infinito, non so, oppure spero), non mi sento quindi nella posizione di poter dare consigli veri e propri. L’unica cosa che mi viene da suggerire, appunto, è di guardare a questa tensione tra struttura ed entropia, o tra razionalità e immaginazione. Mi sembra che buoni libri (almeno a mio gusto) emergano da questa conflittualità, in grado di smarcarsi tanto da un’impostazione meccanicamente esecutiva (obbedienza a dettami estetici auto- ma anche etero-imposti) quanto dallo spontaneismo puro, che rischia di far ripiegare la scrittura a un livello pulsionale, di raggio ristretto, poco spendibile sul piano dell’intelligenza o esperienza collettiva.

2)  Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

MC: Un elemento di finzione in senso lato, per quanto non definitorio della poesia, penso sussista in diversi casi di scrittura poetica, o comunque di prosa non narrativa, non romanzesca. Per quanto mi riguarda vivo tutto questo come un qualcosa di contingente, può esserci come non esserci, e quando c’è è uno dei tanti strumenti che abbiamo a disposizione pescando dalla proverbiale “cassetta degli attrezzi” della letteratura. Questa componente di artificio, o più precisamente di deviazione dal “fatto vero”, credo sia però funzionale, nel contesto della scrittura poetica, a rendere la propria singolarissima e relativissima “verità” più condivisibile, a darle un respiro che può diventare – perlomeno in potenza – intersoggettivo. Del resto, la porzione di realtà alla quale abbiamo (o crediamo di avere) accesso nel corso di un’esistenza si rivela assai limitata, e nonostante ciò si tende a sopravvalutare l’idea stessa di verità, come se esistesse davvero una forma di conoscenza oggettiva e immutabile che aspetta soltanto di essere intercettata dal nostro sguardo. E invece siamo sempre influenzati dai sistemi di rappresentazione che adottiamo, dai paradigmi interpretativi. Questo accade anche (soprattutto) per la propria biografia, vale a dire per l’autonarrazione continua e falsamente unitaria della propria coscienza. La deviazione, anche soltanto a partire da qualche dettaglio, aiuta a immaginare scenari alternativi e a ricordarci che quella che viviamo ogni giorno è una parte – parte come insieme di maschere, persona in senso etimologico, e parte infinitesimale di un incommensurabile “tutto”.

DM: Provo un certo disagio a discorrere entro l’opposizione finzione-testimonianza. Il testo è un device, quello che accade in chi legge è innanzitutto potestà di chi legge. Le facoltà simulative e rappresentative sono incorporate, specifiche per ognuno. Non siamo in tribunale: non possiamo indagare sul contenuto di verità di chi scrive, né regolare l’esperienza di chi legge. Resta l’intensità, la profondità dell’esperienza stessa. Ma non quella di chi scrive impacchettandola, quella che un’opera realizza nei singoli. Per questo espressione e finzione mi sono indifferenti: a me interessa far vivere qualcosa di vero entro i confini della testualità.

SM: Il più dannoso dei pregiudizi è quello secondo cui la poesia serva a esprimere sé stessi. L’essere umano compie costantemente operazioni immaginifiche, utilizza cioè il pensiero metaforico per leggere e inventare il mondo. La poesia attinge a una sapienza che fa riferimento ai propri sensi, alla propria memoria. In questo senso è chiaro che un io sia imprescindibile. L’io però sappiamo che è fatto di moltissimi piani e cassetti, e compito del poeta deve essere quello di mettere in dialettica le parti diverse di sé. Inoltre ci si può mettere a disposizione, si può mediare senza nascondersi e accogliere le voci degli altri; l’io può essere – anzi lo è inevitabilmente – plurale. La mia raccolta è percorsa da numerose voci, messe spesso tra virgolette, che nulla hanno a che fare con la mia ʻʻrealtà biograficaʼʼ ma che allo stesso tempo fanno parte di una mia naturale sintassi metaforica. Ad esempio Ulisse, Pulcinella sono solo alcuni dei personaggi che attraversano questa nuova raccolta.

NN: Si deve parlare di finzione poetica.
Identificare la soggettività che si esprime – anche in prima persona – all’interno di un testo letterario con quella autoriale è un errore tanto diffuso da portarci a parlarne nei termini, appunto, di senso comune.
Sin dalle origini della nostra letteratura, nel testo poetico convergono topoi canonizzati, tramandati nei secoli e chiaramente divergenti dal reale vissuto degli autori. Oggi non è diverso.
Poi è ovvio, nella scrittura si parte dal sé, inevitabilmente: il mondo viene filtrato dal punto di vista del soggetto che ne fa esperienza e non potrebbe essere altrimenti. Tuttavia, da qui diventa necessario ampliare lo sguardo. Cercare una via che conduca al superamento dei confini ristretti dell’introspezione in direzione di una parola comune. Parola che – anche in virtù della sua autenticità, per apparente paradosso – può, e forse deve, essere finzionale, se non bugiarda.
In quello che scrivo l’invenzione ricopre un ruolo importante. E non credo sia necessario o utile in alcun modo distinguere quanto vi è di autobiografico da quanto di finzionale. Ma sicuramente quello della finzione – a cui giungo spesso attraverso gli strumenti immaginativi del sogno o dell’allucinazione – è un meccanismo mediante il quale mi sembra possibile aprire delle crepe nella superficie del puramente referenziale. Da qui prende forma una delle possibili vie che tentano di condurre oltre alla pura percezione soggettiva.

AFP: Il problema dell’immaginazione (intendo così la finzione) non riguarda solo la poesia ma l’intera – io credo – nostra epoca. Perché coincide con un contenitore che ospita varie controversie culturali (decisive): detto concisamente, la possibilità di immaginare un’alternativa allo status quo. Una necessità (urgenza) incalzata, in modi diversi, dall’emergenza climatica e dal confine sempre più labile tra realtà e finzione, ma anche da contraddizioni della modernità non ancora risolte, come, su tutte, quella tra capitale e lavoro.
Pur occupando uno spazio marginale all’interno del contesto culturale, anche la poesia si misura oggi con queste dinamiche. E il senso comune che fa della poesia un esercizio del sé sicuramente non aiuta: tenendone comunque sempre presente la motivazione storica (cioè non iperuranica, ma chiaramente connessa alla configurazione della civiltà borghese), non ho problemi ad accettare il lavoro sul soggetto come possibilità della poesia. Il problema è quando questo soggettivismo diventa una linea dominante, dominatrice, che soffoca possibilità diverse, e chiude appunto la poesia in una dialettica pericolosa tra l’individuo (a questo punto biograficamente sottolineato) e la sua ricezione.
Si può, quindi, e anzi si deve, parlare di possibilità immaginative/finzionali della poesia (con o senza apporto esplicito di un io agente) e soprattutto della specificità dell’immaginazione poetica, che si compie – a differenza di quella narrativa, presa qui in linea di massima – nella manipolazione della lingua. Un’immaginazione scaturita, quindi, (o almeno innervata) dagli scarti del linguaggio, dalle visioni o glitch che essi possono aprire. Mi sembra che in modi diversi tutte le raccolte del Sedicesimo quaderno abbiano a che fare, più o meno coscientemente, con questa prospettiva. Al netto di una capacità rappresentativa solo parziale (come è per ogni antologia), direi sia il segno di qualcosa.

3)  Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

MC: Non ho mai pubblicato il primo libro di poesie che scrissi fra i venti e i ventiquattro anni, Sinapsi, finalista al Premio Pagliarani del 2019: quella, insieme alla rassegna RicercaBo del 2017, furono le uniche due occasioni in cui il non-libro fu presentato a un pubblico come potenziale opera prima, che poi di fatto non giunse mai a un’esistenza piena, o perlomeno non in quella forma. Per farlo esistere ho scelto di smembrarlo e di trasformarlo in un lavoro collettivo insieme a Giorgiomaria Cornelio e a Giuditta Chiaraluce: Intermezzo e altre sinapsi (Edizioni volatili, 2020) è anche il frutto di questo processo di decostruzione del mito dell’opera prima. Come molt3 sapranno, Edizioni volatili è un progetto di esoeditoria. Il mio primo libro prodotto e distribuito da un circuito editoriale più canonico è stato Ghost Track (Zacinto, collana Manufatti poetici, 2022) ed è anche il primo progetto di scrittura individuale che considero compiuto. A sua volta Ghost Track è poi confluito come prima sezione ne Gli anni del disincanto (Sedicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2023), e credo che quest’ultimo lavoro segni una tappa importante nella mia maturazione come autrice. Una raccolta più stratificata e complessa che sono felice sia stata accolta nel contesto del Quaderno. A posteriori e a un occhio esterno, quanto è accaduto dal 2016 (la mia prima lettura in pubblico) a oggi potrebbe persino apparire come un percorso “lineare”. Eppure, la paradossalità del caso vuole che io non abbia un’opera prima, bensì tre momenti della mia scrittura che corrispondono a tre raccolte molto diverse.
Il contatto con la “bolla”, il coro, o semplicemente con alcun3 autor3 che stimo molto mi ha senz’altro aiutato; il confronto e la lettura reciproca rappresentano dei passaggi significativi per chiunque, credo. Trovo molto utile esplicitare e discutere le proprie istanze di poetica, vagliare affinità e divergenze con l3 altr3, mettere a fuoco con maggiore chiarezza qual è la propria voce o le proprie voci coesistenti. Questione diversa è lo scrivere per un pubblico specifico o per facilitare una forma di consenso, di qualunque tipo essa sia. È un’operazione che non mi interessa e la ritengo esteticamente inconsistente, oltre che inutile. La semplificazione è escludente, denota una sfiducia di fondo in quel lettore potenziale che potrebbe essere chiunque. È banale ribadirlo, ma si scrive per nessuno e per tutt3.

DM: Per me la reazione esterna è tutto, la condizione migliore è quella di non avere solo qualche ossessione da difendere, così da poter trovare presto qualcosa che funzioni. L’Opera non è mai finita, non è mai abbastanza, quindi direi che il mio esordio rappresenta il punto più alto della mia capacità  immaginativa di allora. Infatti l’ho riscritto. Tutt3 l3 autor3 (o 3 lettor3) con cui vengo a contatto e che mi dicono qualcosa sul mio lavoro per me hanno ragione, ogni critica è accolta, ogni considerazione è giusta. C’è un limite, certo, ma è un nucleo molto profondo: tutto il resto può sparire ora.

SM: Ho esordito nel 2018 con una plaquette di venticinque poesie. Quei testi posseggono un’urgenza – e di conseguenza un’ingenuità – un certo nervosismo, riflettono la realtà che vivevo quando li ho scritti. Per questo definirei in parte quel lavoro come la presa di parola di un autore. Paolo Febbraro che ha scritto la prefazione alla silloge inserita nel Sedicesimo quaderno, è solito dire: «Quando scrive il poeta è un ispirato, e quando pubblica è un intellettuale». È un’affermazione che condivido e che ho imparato col tempo a fare mia. Nel mezzo infatti vi è tutto un processo di analisi e autocritica, un lavoro di consapevolezza e comprensione, di possibili letture di ciò che si è scritto, in cui ogni poeta deve rispondere ai tanti poeti che lo hanno preceduto. È un lavoro di formazione che si ripropone ogni volta per ogni testo, per ogni verso, e che richiede responsabilità.    
Riguardo il pubblico, se consideriamo che perlopiù è composto da altri poeti, allora posso affermare che certamente il confronto, e non l’effetto, può influire sulla mia scrittura.

NN: Per quanto riguarda la formazione, senza dubbio: ho avuto fortuna.
Innanzitutto, quella di incontrare i giusti maestri, che hanno saputo indirizzarmi sin da molto giovane. Indirizzare – in primo luogo – nel senso di aprire uno spiraglio su quello che significava pensare di avviare un percorso di questo tipo. Ma anche su quello che non poteva e non doveva significare, altrettanto importante, se non di più. E poi, fondamentale, indirizzare nel senso di aprire un orizzonte di letture fino ad allora sconosciuto, fornendo al contempo gli strumenti per ampliarlo autonomamente.
In seguito, fondativo è stato il dialogo. L’incontro con persone che mi hanno permesso di sfinirle facendo loro leggere e rileggere i testi, ricevendo riscontri anche feroci, che invitavano a buttare tutto e ricominciare da capo. Questo, credo, sia stato e resta ad oggi fondamentale: l’ascolto e il confronto, basati sull’apertura e la fiducia reciproca.
In tale dimensione di collettività dialogante si inserisce del resto anche il mio esordio, trovando spazio all’interno del Sedicesimo quaderno della Marcos y Marcos insieme ad altre sei voci autoriali. Al timore generato dalla consapevolezza di star prendendo parola – un gesto che implica un certo inevitabile grado di violenza e richiede quindi di prendersene la responsabilità – si affianca così l’incoraggiamento di non essere soli.
Quindi, sì: sicuramente il rapporto con la “bolla” ha sortito un effetto sulla mia scrittura, ma – credo – nei termini di un fertile e generoso dialogo a più voci coltivato negli anni.

AFP: In realtà, il mio avvicinamento alla scrittura non si è compiuto subito sul terreno della poesia. I miei interessi erano in prima battuta filosofici, incentrati sull’elaborazione di un pensiero più che sullo stile; poi ho iniziato a interessarmi alla narrativa, e solo al terzo step, con l’università, alla poesia. Questo ha comportato, per me, un certo ritardo nelle letture (specie di autori contemporanei), nella formazione, ma forse anche una percentuale di “selvatichezza” nella scrittura, che non giudico del tutto negativa – occorre saperla dosare, e io spesso non ci sono riuscito, ma concede anche la possibilità di seguire percorsi non tracciati, e perciò, magari, interessanti. Se devo descrivere il formarsi della “mia voce” (espressione che non amo, lo confesso) devo quindi mettere accanto alla poesia le letture filosofiche o scientifiche, che si sono fortemente proiettate (penso a Derrida per Essere e significare o a Darwin per Lo spettro visibile) sulla mia scrittura.           
A proposito di questa “selvatichezza” (che possiamo intendere dunque come un misto di ingenuità e originalità) si può poi aprire proprio il discorso sulla “bolla” (più che sul pubblico, non esistendo – o quasi – un pubblico di poesia che non ne sia anche autore): quando si entra in un circuito è inevitabile che se ne venga condizionati; e anche qui, sia in bene (la condivisione, l’utilità dello sguardo esterno, l’ampliamento di riferimenti), sia in male (il rischio di agire adeguandosi al gusto dominante di una bolla, se non addirittura per compiacerlo). Perciò uno degli elementi su cui più secondo me occorre riflettere, quanto a contesto (oltre che testo) poetico, è il paradigma algoritmico: visto che la community poetica – come le altre – agisce sui social, essa risulta inevitabilmente guidata dai parametri algoritmici tramite cui i vari portali costruiscono i feed, quindi le relazioni e gli scambi, degli autori (me compreso, ovviamente). Che ci sia un’influenza algoritmica della community sugli stili dei singoli è ai miei occhi una cosa visibile, ma di cui non si discute abbastanza.        
Tutto ciò mi permette poi di rispondere alla domanda sul giudizio del proprio percorso e del proprio esordio: dacché le strutture algoritmiche (unite a quelle già esistenti di tipo mediatico e editoriale/economico, quindi anche ideologico) influenzano le scritture, si continua a coltivare anche il mito – nato negli anni ’80 – dello scrittore giovane, e dunque dell’esordio. Dico mito perché di questo si tratta: una narrazione che, per obiettivi commerciali, punta i riflettori sull’esordio come manifestazione di un genio precoce (ad esempio) e finisce per farne uno status, quindi un termine di paragone, un termometro. Anche sulla scorta di un’auspicabile decostruzione di questo mito efficientista e giovanilista, guardo alle mie prime prove con uno sguardo (credo) equilibrato: passaggi, certamente superati, ma che, a prescindere dal loro valore intrinseco o contestuale, hanno portato il mio percorso dov’è ora. Mi piace l’idea di sperimentazione come un tracciarsi la strada da soli, quindi anche sbagliando. Credo nella scrittura come test. Respingo l’idea, ancora dominante, dell’oggetto-libro sacralizzato, della pubblicazione infallibile.

4)  Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

MC: Mi piacerebbe una maggiore partecipazione del pubblico. A giugno di quest’anno abbiamo presentato La distinzione di Gilda Policastro insieme ad Alberto Bertoni alla Libreria Alaska di Milano e c’è stato un momento di lettura collettiva che ho apprezzato molto.

DM: Dall’esperienza che ho avuto con lay0ut, ho capito che imposterei le presentazioni come momenti performativi e trasformativi, non come la presentazione di un prodotto. La poesia vocalizzata chiama la multimedialità, e il momento teatrale della sua presentazione può essere un’occasione di mostrarne il potenziale, liberarla dai suoi stereotipi. Mi è capitato di sentir leggere un testo di Peter Gizzi tradotto e inserito nel nostro ultimo cartaceo (Sono hackeratə): la voce era autotunata, un producer sonorizzava la lettura improvvisando un tappeto armonico. È stato assurdo, come ascoltarlo per la prima volta. Questo vorrei per le presentazioni: che andando via si potesse pensare ho ascoltato una poesia “davvero” per la prima volta.

SM: Non ho un’idea in particolare delle presentazioni di poesia, non saprei dire quale modalità sia più funzionale rispetto ad altre.

NN: Credo sarebbe bello far parlare i testi.
Trovo un po’ soffocanti le presentazioni in cui a diventare preponderante è il discorso critico e teorico. Preferirei si articolassero piuttosto come momenti di ascolto reciproco.

AFP: Sono due le lamentele che mi capita più spesso di ascoltare a proposito delle presentazioni: che non si leggono abbastanza testi; che c’è poco spazio per la riflessione critica. Benché opposte, le due preoccupazioni mi sembrano ruotare attorno allo stesso problema, e cioè al fatto che la poesia occupa uno spazio intermedio tra l’arte e l’attività intellettuale. Questo comporta che, in base alla sensibilità e all’interpretazione della poesia che ha chi la conduce, la presentazione spesso pende o verso una delegittimazione del discorso intellettuale – a volte inteso come estraneo, come zavorra, rispetto a una presunta purezza o spontaneità della parola poetica – o, al contrario, verso un assottigliamento del ruolo dei testi, in una pratica che ha più a che vedere con la filosofia, a quel punto, che con la letteratura.
Personalmente mi colloco lontano da entrambi questi poli. Ciò che della poesia suscita interesse in me è esattamente il suo essere una crasi tra arte e attività intellettuale, cioè tra distorsione o squilibrio e razionalità all’interno del linguaggio. E questo conflitto è ciò che vorrei emergesse dalle presentazioni di poesia, che sicuramente soffrono il peso di due modelli (quello della performance autoriale da una parte e quello del convegnismo accademico dall’altra), ovvero il focus su un’esperienza che è costruita dal testo e che però produce un discorso intellettuale e culturale oltre se stesso. La presentazione, per uscire da questa impasse (e tacendo ora della sua funzione altrettanto controversa di spot commerciale), dovrebbe essere in grado di costruire un momento di esperienza e discorso, cioè di concentrazione nel presente veicolata dal testo e, a partire da quella, intelligenza spendibile per progetti a venire.

In teoria e in pratica | Pietro Cardelli

Le risposte di Pietro Cardelli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Tu devi prendere il potere è un esordio, dunque sono obbligato a rispondere a questa domanda a partire da un’unica esperienza di scrittura di un’opera compiuta. Oltre ad essere un esordio, è anche un libro la cui gestazione è stata molto lunga, sia a livello di scrittura, sia di vicenda editoriale. I testi che lo compongono, infatti, sono stati scritti fra il 2013 e il 2022, e la pubblicazione del libro, per ragioni di mero contesto, ha subito un ritardo di quasi due anni rispetto alla prima uscita ipotizzata: dalla primavera 2021 alla primavera 2023. Tutti fattori, questi, che hanno accentuato gli elementi dinamici (di costruzione e movimento) di un lavoro che si voleva il più possibile chiuso e compiuto.

Per quanto mi riguarda, tale bisogno di compiutezza – valido in ogni fase di costruzione dell’opera e di sua organizzazione (sia a livello sincronico, di macro-struttura, sia diacronico, di organizzazione del materiale nel tempo) – non rispondeva a un semplice bisogno organizzativo, di superficie, e non era neppure un elemento irrelato fra i tanti che vanno a comporre la totalità-libro: era l’immagine di una stessa necessità attiva su tutti i piani del discorso e della lingua: di singolo testo, di sezione, di macro-struttura, ma anche: di stile, di postura, di strutturazione del centro enunciativo etc.

Un libro compiuto per un soggetto (e una voce) che – preda della propria nevrosi di (auto-)controllo e vittima di un senso di impotenza estremo e continuamente alimentato – vuole farsi soggetto, voce (e mondo) compiuto. Un obiettivo come una risposta: “compiutezza” significa anche comprensione, stabilità, prova del nove.

Ma “compiutezza”, per questo soggetto, era anche un modo per fermare il (e dunque uscire dal) tempo: acquisire una visione d’insieme, una lettura unificante, un punto “di approdo e di partenza insieme”. La sospensione di chronos rendeva allora possibile l’invenzione del nuovo: per la voce che parla, per il soggetto che la enuncia, per il mondo in cui essa vive.

In questo libro, dunque, il tentativo è sempre stato quello di tenere assieme tutto, dal singolo verso alla macro-struttura del libro fino al processo editoriale che lo ha riguardato. Tutto doveva tenersi come forma di auto-responsabilizzazione massima e ipotesi di una comprensione definitiva: un soggetto che costruisce un mondo perché vuole affermare un valore di verità («assoluta nella sua relatività», si diceva un tempo).

Tale postura, ovviamente, portava con sé tutto un carico di rischi a volte schivati, a volte elusi, a volte no. La crisi di questa postura, la sua messa in dubbio, è ciò che, ad un certo punto, mi ha spinto a riconoscere la fine di questo lavoro (e dunque mettere un punto al libro) e l’inizio di un periodo nuovo. Senza crescita, dentro e fuori dal testo, dentro e fuori dall’io, non può esserci nuova opera, nuovo senso.

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Ho sempre pensato che, anche quando si parla di lingua, di poesia e di letteratura, non si possa prescindere dalle condizioni materiali, storico-economiche, che ci e la determinano. Farlo significa sprofondare nel soggettivismo, fino a perdere di vista sia il ruolo del poeta nella società di oggi (meno importante), sia il condizionamento di quest’ultima sulla sua voce (più importante).

È proprio da questa consapevolezza, inoltre, che credo possa essere costruito un io forte; ossia una poesia che sappia mettere in campo il proprio io in tutta la sua parzialità e che di questa parzialità faccia uso per spiccare il volo verso una voce oggettivata, non tanto impersonale quanto condivisa. Anche qui torna il tema di un’assunzione di responsabilità: riconoscere, nello stesso momento, la parzialità e l’insostituibilità del proprio filtro percettivo, nella scrittura e in tutto il resto.

Un tale tentativo necessita però di tutta una serie di contrappesi e di appigli per poter essere credibili, contrappesi e appigli che sono in primo luogo elementi di stile, l’unica via che abbiamo per mettere un freno credibile all’io e alla sua boria. È qui che ci giunge in soccorso la lingua, la Tradizione, dunque la poesia. Ciò che è sufficiente, per ora, è avere bene in mente l’obiettivo: partire dall’io per superarlo.

Per quanto mi riguarda, mi piace pensare all’io (qui come realtà biografica) come mero fornitore di materiale. Tutto quello che si fa con questo materiale è finzione poetica, quale che sia l’apparente aderenza dello scritto con il materiale iniziale prelevato. Il problema, poi, è come l’io (io-volontà, io-destino) riemerge da e in questa finzione: cosa resta – e quanto di impersonale, oggettivo e potenzialmente condiviso resta – dalla dialettica fra i momenti di posizione e quelli di sottrazione dell’io. Una risposta che può dare solo il lettore (inteso come soggetto collettivo) nel tempo. 

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

La mia formazione poetica è iniziata da bambino, prima delle elementari. Mia nonna, insegnante, oltre a leggermi e farmi leggere molta poesia, mi ha insegnato a scrivere (sembra assurdo ma è effettivamente così) attraverso piccoli esercizi di riscrittura di testi poetici più o meno conosciuti. Tale immersione forzata nella poesia, dopo un periodo di rigetto durato un bel po’ di anni, è riemersa attorno alla fine delle Scuole Superiori, quando ho ripreso in mano, con foga nuova, i poeti che avevo amato da bambino: i francesi (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud), gli spagnoli (Garcia Lorca, Machado, Jimenez, Alberti) e quello che – a quel tempo – era il mio trittico preferito della poesia italiana: Petrarca, Foscolo, Leopardi.

Successivamente ciò cha ha influenzato di più la mia scrittura è stato il trasferimento a Siena, dove ho avuto la fortuna di intercettare un ambiente culturale vivissimo, sia dentro sia fuori l’Università. È qui, per esempio, che ho incontrato alcune persone che hanno influenzato direttamente la mia crescita e la mia scrittura, consigliandomi libri da leggere, saggi da studiare, riviste da seguire, o più semplicemente coinvolgendomi in un percorso di elaborazione umana e intellettuale, di visione del mondo e del linguaggio, condivisa e collettiva. Penso subito, in questo senso, a Stefano Dal Bianco e a Guido Mazzoni, e con loro a Marco Villa, Simone Burratti, Alessandro Perrone e Andrea Lombardi, i redattori dell’allora “formavera”. È qui che ho iniziato a leggere cose nuove, italiane e straniere, e a modificare il mio modo di scrivere alla ricerca di una voce il più possibile autentica e il più possibile mia.

In questo senso sì, il rapporto con l’esterno – se così vogliamo chiamarlo – ha influenzato e continua ad influenzare moltissimo la mia scrittura, e per “esterno” potremmo intendere tutto quello che leggo (ovviamente con differenti intensità di condizionamento), ma anche tutto quello che vivo (e non solo strettamente legato alla poesia). Non credo, invece, che l’effetto sul pubblico influenzi il mio processo creativo, a meno che – per pubblico – non si intenda una cerchia ristretta di persone con cui ho sempre avuto la necessità di un reciproco confronto a partire dai propri testi. Infine sì, considero Tu devi prendere il potere la mia prima presa di parola come autore. Non darei, invece, lo stesso valore alle pubblicazioni sparse e spurie precedenti.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Sinceramente non credo che ci sia qualcosa da cambiare nelle “modalità” con cui si presenta un libro di poesia o si organizza una serata di letture. Credo che la differenza – e dunque la riuscita di un evento – risieda sempre in chi organizza quell’evento. Se a farlo è un soggetto serio (come collettività, nei suoi gradi di serietà, passione, capacità, impegno, credibilità), raramente si assiste ad eventi non necessari.

In teoria e in pratica | Gaia Giovagnoli

Le risposte di Gaia Giovagnoli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

1)  Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo?  Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Per il primo libro di poesia, Teratophobia (‘Round Midnight Edizioni), l’iter è stato lento e dilatato nel tempo. Ci sono all’interno testi anche molto vecchi, risalenti al 2009. La costruzione del libro, diviso in sezioni tematiche, è stata a posteriori: ho lavorato sul materiale che avevo a disposizione, scritto nel tempo, e ho provato a creare un filo rosso che legasse testi a volte molto lontani per intenti e struttura.

Babajaga (Industria & letteratura) invece è un libro nato già con l’idea di creare un poemetto, e questo ha fatto sì che sia più unitario anche nel risultato. Non solo: ha uno stampo narrativo. Ci sono poesie in prima persona e poesie in terza, alternate, e sezioni che cercano di seguire la traccia della storia tradizionale della strega del folklore russo.

Ogni libro credo sia un discorso a sé, completamente, e il mio approccio alla costruzione potrebbe cambiare nel tempo. Non credo esista una formula vincente da poter applicare in ogni singolo caso perché il risultato sia più o meno riuscito. Non saprei dunque cosa consigliare se non ascoltare l’intento di quello che si sta scrivendo e assecondarlo.

2)  Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Credo che ogni scrittura sia anche finzione, perché implica un gioco di proiezioni tra un io di chi scrive e un io scritto, automaticamente personaggio (che sia dissimulato o meno non fa alcuna differenza). Non sono mai sovrapponibili, l’autore/narratore e l’autore/protagonista, perché nello stesso momento in cui si applica la scrittura l’io diventa narrante, e quindi finzionale. Personalmente, quando scrivo c’è un costante ricorso all’invenzione, e credo che non si possa fare altrimenti.

3)  Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Ho letto tanto e disordinatamente. Amai Anne Sexton, e la amo ancora. Scoprirla penso abbia dato una bella svolta al mio modo di scrivere. Se parliamo di incontri “veri”, fondamentale per me è stato conoscere Isabella Leardini, che mi invitò a Parco Poesia quando ancora non avevo pubblicato nemmeno un verso. L’operazione di scouting che ha svolto con il suo festival è stata un’occasione virtuosa. Le critiche che le hanno sempre fatto sono state miopi, e a mio parere molto sterili. Per noi nuovi poeti è stato bello poterci incontrare (ci sono amicizie che durano da allora), ma anche incontrare grandi della scrittura e le loro voci. Per me fu fulminante ad esempio incrociare dal vivo Milo De Angelis.

Il mio esordio è stato sicuramente un modo per iniziare un discorso, per capire un po’ anche cosa voler dire e come. Nonostante lo consideri per certi versi un po’ acerbo, oggi, un po’ troppo ostico, era importante che uscisse. Mi ha dato modo di capire che vorrei rendere anche la poesia più comprensibile al lettore; ho oggi un’attenzione diversa alla fruibilità.

L’effetto del pubblico influenza quello che scrivo quindi nella misura in cui vorrei creare cose che abbiano un significato, e per farlo devono essere utilizzabili, comprensibili. La bolla invece non mi ha condizionata granché, credo. Mi piace leggere cosa scrivono gli altri, i testi, ma un po’ meno i pareri. Con il tempo mi rendo conto sempre di più di provare molta noia, mi affatico prima.

4)  Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Le renderei più performative e coinvolgenti, riducendo l’intervento critico (o eliminandolo del tutto, quando la discussione sul testo rischia di “ingoiare” il testo stesso, mettendolo in secondo piano). Proverei a modularle molto sul modello delle presentazioni di prosa, che sono accoglienti. Il rischio noia dovuto all’incomprensibilità della discussione è altissimo in poesia, e questo va contro ogni interesse.