Introduzione e traduzioni a cura di Sofia Pagliarella, vincitrice della nostra seconda Call for Translators per la lingua tedesca.
“Quando sono nata ho avuto paura / della mia stessa voce”: inizia con la nascita il viaggio poetico di Sirka Elspaß, per scontrarsi da subito con la consapevolezza che “nessuno viene al mondo / e sa come si fa”. Vulnerabile e senza istruzioni per l’uso, l’autrice si pone in ascolto del proprio corpo che diventa terreno di crisi e di guerra, di amore, dolore, desiderio, solitudine, guarigione – un luogo da abitare a cui solo la scrittura può dare voce. La ricerca dell’identità per Elspaß parte dalla premessa che “quando donne e persone trans o non binarie scrivono, si tratta sempre di politica” e passa attraverso una lingua spezzata dall’appello a una madre, invocata come entità primordiale con cui tentare una connessione.
Sirka Elspaß, nata nel 1995 a Oberhausen, ha studiato scrittura creativa e giornalismo a Hildesheim e oratoria all’Università delle Arti Applicate a Vienna. È stata premiata al “Treffen junger Autor:innen” a Berlino nel 2010 e 2012, come anche al “postpoetry. NRW” a Hildesheim nel 2013. Ha pubblicato con diversi giornali e antologie, tra cui STILL e Lyrik von Jetzt 3. È poi stata nominata tra i finalisti all’Österreichische Buchpreis 2022 per il miglior debutto.
Nella sua raccolta poetica ich föhne mir meine wimpern (Suhrkamp, 2022), Elspaß suggella l’incontro tra pop e poesia, affiancando alla pubblicazione della silloge anche la creazione di una playlist su Spotify contenente tutti i brani musicali che l’hanno influenzata durante la stesura, brani di cui nelle poesie si ritrovano “[…] sovrapposizioni più o meno evidenti – nel titolo, nel tema, nello stato d’animo”. Con leggerezza e coraggio, non privi, a volte, di un sorprendente umorismo, l’autrice condensa il suo grido in immagini cristalline, tanto cangianti quanto appuntite, e strazianti proprio perché dotate della serena consapevolezza che “nessuno è al di sopra delle cose/ ci siamo tutti dentro”.
da ich föhne mir meine wimpern (Suhrkamp, 2022)
nicht ist so traurig wie der mond wenn er abnimmtim schwindenden schein des kerzenlichtsschreibst du folgenden satz einen körper zu haben bedeutet enorme verantwortung und niemand kommt auf die welt und weiß wie es geht
aberan der sichel hat jemand einen aushang gemacht menschen werden gesucht katzen werden vermisst wenn der apfel die umarmung ist bin ich der wurm der ihn zerfrisst
niente è triste come la luna quando tramonta al chiarore fioco della candela scrivi la frase seguente avere un corpo implica un’enorme responsabilità e nessuno viene al mondo e sa come si fa
ma qualcuno ha appeso un cartello alla falce esseri umani cercasi gatti scomparsi se la mela è l’abbraccio io sono il verme che le procura il marcio
6 vielleicht haben wir bereits eine grenze überschritten als wir uns entschieden keine zu überschreiten ich kann uns nicht behalten es ist zeit zu gehen den abschied wie eine ausfahrt nehmen aber dass ich alleine nicht ausreiche diese angst bleibt mutter komm es wird dunkel hol mich heim dann stößt mir der alte zahn durchs fleisch mutter rufe ich mutter ich werde
6 forse un confine lo abbiamo già superato anche se avevamo deciso di non superarlo non riesco più a tenerci è tempo di andare prendere l’addio come un’uscita però io da sola non basto questa paura rimane madre vieni qui diventa buio portami a casa poi il dente vecchio mi trafigge la carne madre chiamo madre io sarò
Schlafen Sie bei offenem fenster decken Sie sich gut zu vergessen Sie das blumengießen für einen moment und die verletzungen nur mut ich hege keinen groll Sie müssen nicht heiter sein aber nehmen Sie jedes crescendo mit seien Sie sanfter zu sich als Sie es sind und lesen Sie den nächsten satz mehrmals
niemand steht über den dingen wir stehen alle mittendrin
che dorma con le finestre aperte e si copra bene che dimentichi di annaffiare i fiori per un momento e le ferite poi solo coraggio io non nutro rancore e lei, non provi serenità ma accolga ogni crescendo che sia più buono con sé stesso di quanto non sia e legga la prossima frase più volte
nessuno è al di sopra delle cose ci siamo tutti dentro
Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Roberta Truscia.
Estratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960)
Ne Il ponte sognato, primo volume dei suoi diari, Alejandra Pizarnik nomina la parola “equilibrio” solamente tre volte: il 7 luglio 1955,quando immagina facetamente gli elementi di un’opera tra i cui personaggi inserisce anche un vaso “senza base che mantiene l’equilibrio grazie a un ventilatore”; il 27 luglio dello stesso anno, quando Alejandra si domanda se non sarà l’equilibrio psichico della sua collega d’Università la causa della repulsione che prova nei suoi confronti. Infine il 3 gennaio 1959, quando, per la prima volta, associa la parola equilibrio a sé stessa, ma non come qualcosa che le appartenga e disprezzi, come nel caso della sua collega, bensì come il nuovo oggetto del suo desiderio. “C’è, tuttavia, un desiderio di equilibrio. Un desiderio di fare qualcosa con la mia solitudine.” Dalle prime due date all’ultima sono passati quattro anni e Alejandra è ora una ragazza di 22 anni che ha pubblicato tre raccolte poetiche, ha aspirato (e aspira) a scrivere un romanzo, ha abbandonato la carriera universitaria, ha intrapreso e sospeso la terapia psicoanalitica e l’anno successivo si trasferirà a Parigi, dove potrà finalmente “diventare quello che già è”: la più grande poetessa argentina del suo tempo. Tuttavia, la strada verso l’affermazione non è battuta, è piuttosto un sentiero che si snoda lungo la sua angoscia esistenziale, il desiderio ardente di scrivere, la solitudine sofferta, la notte. Lungo la sua strada non c’è spazio per la parola “equilibrio”, perché Pizarnik ha familiarità con le notti polari alla ricerca del sole di mezzanotte. Ricorre, invece, la parola “ponte”: Alejandra si strugge infatti per quel ponte invalicabile tra il desiderio e la parola, e l’immagine rimanda al suo essere sempre al confine tra la veglia e il delirio. In questo caso, non appare molto chiaro verso quale direzione lei scelga di attraversare il ponte, perché il delirio è solitudine e profondo malessere, mentre la veglia rappresenta la loro fine. La veglia significa conformarsi a una vita priva di poesia; il delirio, invece, ne è la base. Il ponte rappresenta anche la ricerca stessa della parola che incarna la poesia, l’infinito oltre ogni limite. Perché, se Alejandra conosce precocemente la sensazione di sradicamento dal mondo, precoce è anche la certezza che l’unico mondo degno di essere vissuto sia la Poesia, non mera sostituzione di quello esistente, ma una realtà a sé stante.
Non è l’equilibrio tra le parti quello che interessa Alejandra, ma l’attraversamento, un appagamento completo della sua “sete sacra”. Essa non è sacra solo perché nella sacralità della poesia ricerca il suo appagamento, ma perché rappresenta la fonte della sua vita, ciò che la scuote o la lascia immobile, perfino quando manca di un oggetto concreto.
I diari includono punte altissime di voli spirituali, passi caratterizzati da un’immaginaria e ingegnosa lucidità, le aspirazioni degne di ammirazione e le degradanti, rappresentando la trascrizione di quella sete sacra della quale percepiamo i due effetti complementari: il mysterium tremendum et fascinans. E noi lettori, dopo aver letto Il ponte sognato, avremo un po’ della stessa sete.
I testi qui pubblicati sono tratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960), pubblicato nel 2022 dalla casa editrice La Noce d’Oro.
23 de septiembre 1954
Un nuevo día llegó pleno de sol y de sombras un nuevo día llegó a enquistarse en mi hondo caudal señero el nuevo día es torneado e insulso día sin soplo ni dicha es un sábado verde molido en la nada es un sábado deshecho en la vertiente del vacío.
23 settembre 1954
Un nuovo giorno è giunto pieno di sole e d’ombre un nuovo giorno è giunto per arginare il mio profondo flusso solitario il nuovo giorno è tornito e insulso giorno senza soffio né gioia è un sabato verde tritato nel nulla è un sabato sciolto nel versante del vuoto.
5 de julio 1955
Heredé de mis antepasados las ansias de huir. Dicen que mi sangre es europea. Yo siento que cada glóbulo procede de un punto distinto. De cada nación, de cada provincia, de cada isla, golfo, accidente, archipiélago, oasis. De cada trozo de tierra o de mar han usurpado algo y así me formaron, condenándome a la eterna búsqueda de un lugar de origen. Con las manos tendidas y el pájaro herido balbuceante y sangriento. Con los labios expresamente dibujados para exhalar quejas. Con la frente estrujada por todas las dudas. Con el rostro anhelante y el pelo rodante. Con mi acoplado sin freno. Con la malicia instintiva de la prohibición. Con el hálito negro a fuer de tanto llanto. Heredé el paso vacilante con el objeto de no estatizarme nunca con firmeza en lugar alguno. ¡En todo y en nada! ¡En nada y en todo!
5 luglio 1955
Ho ereditato dai miei antenati l’ansia di fuggire. Dicono che il mio sangue sia europeo. Io sento che ogni globulo proviene da un punto diverso. Da ogni nazione, da ogni provincia, da ogni isola, golfo, collisione, arcipelago, oasi. Da ogni pezzo di terra o di mare hanno usurpato qualcosa e così mi hanno formato, condannandomi all’eterna ricerca di un luogo d’origine. Con le mani tese e l’uccello ferito balbuziente e sanguinante. Con le labbra espressamente disegnate per esalare lamenti. Con la fronte strizzata a causa di tutti i dubbi. Con il volto anelante e i capelli che rotolano. Con il mio rimorchio senza freno. Con la malizia istintiva della proibizione. Con l’alito nero a forza di tanto pianto. Ho ereditato il passo esitante così da non stabilirmi mai in nessun posto. In tutto e in niente! In niente e in tutto!
1 de agosto 1955
Luz de la mañana embebida en los ruidos cotidianos. Los ojos vueltos del sueño perciben asustados aún la Realidad que los sacude. Siento mi despertar como una adhesión de una hoja a «su» árbol, como mi volver a pegarme a la rama que me agitará arbitrariamente. Silencio de hoja matutina sin voz para sollozar la infamia de su inepcia. Silencio de tensión erguida en la sien del árbol. La hoja se agrieta al desmenuzar los días. El sueño lejano resuelve su espera en un rincón inhallable. Mis ojos que se agrandan confiados en el reconocimiento de los objetos cotidianos.
Despierto cansada y fría. La toma de posesión de una «libertad» exterior tan duramente lograda es triste. Pienso en mi vida condensada en un eterno intento de escudriñar mi yo. Libros y más libros. Hay momentos en que desaparece la esencia del libro, quedando solamente su ridículo cuerpecillo. Me veo entonces acariciando nebulosas hojas de papel y me pregunto si valen lo que una mirada humana. Me retuerzo en el interrogante axiológico. Pero ¡no necesito respuesta! Continúo leyendo; paulatinamente, desaparece el físico del libro. Me convierto en el receptáculo de su alma. (¡Oh, amo los libros!) Cada minuto que transita señala mi elevación.
1 agosto 1955
Luce mattutina impregnata nei rumori quotidiani. Gli occhi, gonfi dal sonno, temono ancora la Realtà che li scuote. Percepisco il mio risveglio come l’adesione di una foglia al “proprio” albero, come se stessi di nuovo aderendo al ramo che mi agiterà arbitrariamente. Silenzio di foglia mattutina a cui manca la voce per piangere l’infamia della propria inerzia. Silenzio di tensione eretta sulla tempia dell’albero. La foglia si incrina sminuzzando i giorni. Il sogno lontano risolve la sua attesa in un angolo introvabile. I miei occhi si ingrandiscono fiduciosi quando riconoscono gli oggetti quotidiani.
Mi sveglio stanca e fredda. Prendere possesso di una “libertà” esteriore, così duramente conquistata, è triste. Penso alla mia vita condensata in un eterno tentativo di esaminare il mio io. Libri e ancora libri. Ci sono momenti in cui l’essenza del libro scompare e rimane solo il suo ridicolo corpicino. Ecco che, a quel punto, accarezzo confusi fogli di carta e mi chiedo se valgono quanto uno sguardo umano. Mi contorco nel quesito assiologico. Ma non ho bisogno di risposte! Continuo a leggere; l’oggetto sparisce gradualmente. Mi trasformo nel contenitore della sua anima (Oh, amo i libri!) Ogni minuto che passa segna la mia elevazione.
Febrero 1956
VERANO
tanto miedo Alejandra tanto miedo la nada te espera la nada ¿por qué temer? ¿por qué?
por más imaginación que tenga no puedo esbozar la muerte no puedo pensarme muerta ¿he de tener esperanzas? ¿he de ser eterna? ¿qué es entonces este vacío que me recorre? ¿qué es entonces la nada que camina por mi ser? Sólo sé que no puedo más
siento envidia del lector aún no nacido que leerá mis poemas yo ya no estaré
Febbraio 1956
ESTATE
tanta paura Alejandra tanta paura il nulla ti attende il nulla perché temere? perché?
pur avendo immaginazione non riesco ad abbozzare la morte non riesco a pensarmi morta devo avere speranza? devo essere eterna? cos’è allora questo vuoto che mi percorre? cos’è allora il niente che cammina nel mio essere? So solo che non ne posso più
sento invidia del lettore non ancora nato che leggerà le mie poesie e io non ci sarò
14 de noviembre 1957
Un loco desflora a una flor. La flor da a luz una muchacha y luego muere. La muchacha queda herida por una carencia innombrable que aumenta hasta la locura cuando se enamora del león más inteligente de la selva. (El león es una especie de Sr. Nadie disfrazado de Todo… o viceversa.)
Vagidos, llanto. Y un estar siempre al borde de, pero nunca en el centro.
Anhelos de lo anhelado, de lo jamás anhelado. Hermana estrella: soy Alejandra. Buenas noches.
Un pájaro sale a buscar la inocencia y vuelve muerto debajo de sus alas. Campanas en los bolsillos de la noche.
14 novembre 1957
Un pazzo deflora un fiore. Il fiore dà alla luce una ragazza e poi muore. La ragazza rimane ferita da una mancanza innominabile che aumenta fino alla follia quando si innamora del leone più intelligente della selva. (Il leone è una specie di sig. Nessuno mascherato da Tutto… o viceversa).
Vagiti, pianti. E un essere sempre sull’orlo di, mai al centro.
Desideri di ciò che è desiderato, di ciò che mai fu desiderato. Stella sorella: sono Alejandra. Buonanotte.
Un uccello esce a cercare l’innocenza e torna morto sotto le sue ali. Campane nelle tasche della notte.
Introduzione e traduzioni a cura di Marco Prandoni, professore di lingua e letteratura neerlandese presso l’Università di Bologna.
Curiosa è la dedica con cui si apre la raccolta poetica di Maartje Smits (Soest, Paesi Bassi, 1986) “come ho inziato un bosco nel mio bagno” (hoe ik een bos begon in mijn badkamer, 2017): non a persone, ma “agli ecodotti che ho attraversato di nascosto”. Sono passaggi pensati per consentire agli animali di superare le barriere imposte da strade e ferrovie che frammentano i loro habitat e ne mettono a repentaglio la vita. Fin da subito viene introdotta una delle tematiche riccorrenti dell’opera: l’attraversamento di confini, materiali-fisici e mentali-culturali. Non è solo l’io lirico sulla carta a effettuare queste trasgressioni. In una performance video registrata nel 2016 a Den Dolder, nella provincia di Utrecht, assistiamo alla corsa di Maartje Smits, un corpo in corsa, con il seguente testo in sovrimpressione:
ik (mens) (vrouw) (dertig jaar)stak illegaal een ecoduct over
ik (mens) (vrouw) (dertig jaar)stak illegaal een ecoduct over
io (essere umano) (donna) (trent’anni)
ho attraversato illegalmente un ecodotto
Posizionata e situata nella sua esperienza di umana trentenne di sesso femminile, la performer-poeta prende la via che gli umani con le loro preoccupazioni ambientaliste hanno concesso agli altri animali. Lo fa illegalmente, perché spesso questi ecodotti, come le aree naturali protette, non sono accessibili agli umani, o solo in certi orari e a certe condizioni, per fini ricreativi. Dura è la critica ai tentativi, pur ispirati a una sensibilità ambientalista, di proteggere la natura legiferando su di essa, con sempre nuove definizioni che tracciano limiti e confini tra cultura e natura (selvaggia) e così facendo riaffermano discutibili gerarchie, su discutibili presupposti.
Quale sia l’atteggiamento per contro della poeta illegale e undercover rispetto all’ambientalismo in voga in modo ancor più esplicito nel testo “rompere un’area di riposo” (een rustgebied breken). L’irruzione compiuta in quest’area protetta è piratesca: è un’incursione compiuta per sfuggire ai rituali della domenica ed entrare in una dimensione altra, sulla strada percorsa dagli animali, mentre i fari delle automobili ricordano la presenza costante della tecnologia umana interconnessa in modo irreversibile a tutti gli spazi dei Paesi Bassi. È un’interconnessione (come la “rete”, mesh di cui parla Timothy Morton) a cui, volenti e nolenti, oggi non è più possibile sottrarsi.
Nella poesia che dà il titolo alla raccolta, il soggetto dà conto della propria confusione: come acquirente, sedotta dalle strategie del marketing ecosostenibile, come essere umano “senza giardino”, come ambientalista occidentale, che un inserviente surinamese ammonisce a non sottovalutare il potere della natura. La crisi è anche esistenziale, e sfocia in aperta nevrosi. La disperazione è però condivisa, nel sentire dell’io, dalle felci che ha acquistato le quali, lungi dall’assorbire lo stress (secondo lo slogan promozionale), acuiscono la crisi del soggetto che è spinto a una radicale autocritica: «come avevo potuto mai osare / distinguermi dalle piante». Nella seconda parte della poesia assistiamo a processi testuali di antropomorfizzazione delle piante e di ecomorfismo dell’umano: le radici penetrano pensieri compulsivi. È un tentativo, grazie alle risorse metaforiche del linguaggio poetico, di esplorare la frattura comunque abissale tra soggettività umana e il mondo oltre l’umano.
Non stupisce che nella raccolta gli animali compaiano anche in poesie (post)apocalittiche. Gli animali sono infatti spesso presenti in quest’immaginario, dal testo fondante dell’Apocalisse alla letteratura e al cinema modernisti, fino alla fantascienza, purtoppo sempre più realistica, contemporanea. Davvero notevole il contributo dato da Smits a quest’immaginario nella poesia “the last human” (de laatste mens). L’essere umano ha perso la sua presunta centralità planetaria, è sull’orlo dell’estinzione in un’apocalissi che è tale solo per la sua specie, non per il resto del mondo naturale. A differenza di Oryx and Crake di Margaret Atwood (2003), in Smits non c’è traccia di un “poi” post-apocalittico. Si limita a un’istantanea di un momento appena precedente la fine della parabola dell’umano: idealmente iniziata con l’australopiteca Lucy e, dopo milioni di “ominescenza”, per dirla con Michel Serres, arrivata al termine con questa donna, al cospetto di scimpanzé indifferenti.
da hoe ik een bos begon in mijn slaapkamer (2017)
Een rustgebied breken
stiekem enteren mijn vader en ik een rustgebied
het hek is ontspannen en te laag voor mensen met mountainbikes
thuis durven we niet stil te zitten dus wagen we de oversteek vast besluiten aan deze zondag te ontsnappen
in het stiltegebied steken snelweglichten onder ons rauzen mensen naar huis wegaanduidingen in een rijtje ontwortelde bomen
mijn vader en ik nemen de weg voor dieren onze banden verdwijnen in het mulle zand volgens een scherm op mijn stuur bewegen we buiten de kaart en we moeten zo aan tafel aan de andere kant
Rompere un’area di riposo
di nascosto mio padre e io abbordiamo un’area di riposo
la recinzione è rilassata e troppo bassa per persone in mountain bike
a casa non osiamo stare zitti quindi ci lanciamo alla traversata decidiamo di sfuggire a questa domenica
nell’area di silenzio luci dell’autrostrada tagliano sotto di noi la gente si precipita a casa segnalazioni stradali in una fila di alberi sradicati
mio padre e io prendiamo la strada per gli animali le nostre tracce scompaiono nella sabbia polverosa secondo lo schermo sul mio manubrio ci muoviamo fuori dalla carta e fra poco dobbiamo sederci a tavola dall’altra parte
Hoe ik een bos begon in mijn badkamer
verleid door handzame varens in de supermarkt tuinloze wezens zoals ik amper dorst maar IKRA GROEN IS GOED en kamerplanten zuigen stress
de varen bleek geen varen een vrouw keek vrij en schoon van verpakking ze ademde Luchtzuiverende Plantenmix® getest door NASA en TNO
thuis hoorde ik
bomen praten ondergronds over het weer veranderde klimaat ze ruilen schimmels met superpowers storten kalmerende mineralen op een huishoudrekening
één boom bestaat amper één varen mag geen varen heten ik kocht een tweede een derde ik kocht het hele laatste treetje mix
tot de vulploegmedewerker mij vermaande in Suriname moet je vechten tegen de natuur anders neemt ze alles over eerst tuin dan je huis je bed je douchegordijn
maar bossen groeien tegenwoordig binnen de lijntjes statische paddenstoelen langs de weg is overwoekeren in Nederland nog wel een woord
hoe had ik me ooit van planten durven onderscheiden waar begon de mix en ik
zag mijn nauwelijksvarens vereenzamen op de vensterbank naast elkaar in kunststof aardewerk waar alles op afketst wortels die dwanggedachten ingroeien
mijn plantenmix huilde onder de douche waar ik hun weke onderlijven ontpotte en begroef in de uitgeknipte aarde
daarna droeg ik het overige kamergroen naar boven
Come ho iniziato un bosco nel mio bagno
sedotta da comode felci al supermercato esseri senza giardino come me a malapena sete ma IKEA GREEN IS GOOD e le piante da interno assorbono lo stress
le felci alla fine non erano felci una donna dallo sguardo libero e pulito sulla confezione respirava Piante Mix® per purificare l’aria testato dalla NASA
a casa ho sentito
alberi parlare sottoterra del clima cambiato di nuovo scambiano muffe con superpoteri versano minerali calmanti sul conto della casa
un albero solo esiste a malapena una felce sola non merita il nome di felce ne ho comprata una seconda una terza ho comprato tutto intero l’ultimo mix di alberi
finché l’assistente mi ha ammonito in Suriname devi combattere contro la natura altrimenti ti prende tutto prima il giardino poi la casa il letto la tendina della doccia
ma al giorno d’oggi i boschi crescono dentro i bordi funghi statici lungo la strada infestare è ancora una parola in Olanda?
come avevo potuto mai osare distinguermi dalle piante dove è iniziato il mix e io
ho visto le mie a-malapena-felci isolarsi sul balcone l’una accanto all’altra in ceramica sintetica su cui tutto rimbalza radici che penetrano pensieri compulsivi
il mio mix di piante ha pianto sotto la doccia dove travasavo i loro molli corpi e seppellivo nella terra
quindi ho portato su il verde da interno rimanente
De laatste mens
nu de arena opdroogt nu een koufront over de tribunes klettert nu schoothondjes gonzen
en wraakzuchtig loenzen naar de laatste mens een volwassen exemplaar zij pronkt haar melkklieren waar generaties in zijn verschrompeld
zelfs chimpansees hebben lang geleden hun interesse verloren
dit is toch geen plek om uit te sterven de laatste mens tekent hokjes in het zand om zich thuis te voelen ze kent alle namen van dieren en andere begrippen die in onbruik zijn geraakt
The last human
ora che l’arena si dissecca ora che un fronte di freddo picchia sulle tribune ora che i cani da salotto sibilano
e vendicativi guardano storto l’ultimo umano un esemplare adulto lei svetta le sue ghiandole mammarie in cui generazioni si sono avvizzite
persino scimpanzé già tempo fa hanno perso l’interesse
ma questo non è un posto in cui estinguersi l’ultima umana disegna riquadri sulla sabbia per sentirsi a casa lei conosce tutti i nomi di animali e di altri concetti caduti in disuso
Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Andrea Bricchi.
Michèle Métail, poeta francese nata a Parigi nel 1950, è un’autrice singolare e poco conosciuta persino in patria. Specialista di lingua e cultura tedesca, addottoratasi sulla poesia cinese, già dai primi anni settanta scrive poesie che si caratterizzano per una forte componente performativa e sperimentale. Proprio questa sua cifra la porta a entrare nell’OuLiPo, nel 1975, dopo aver catturato l’attenzione di uno dei due padri fondatori, François Le Lionnais, con un poema intitolato Compléments de nom. Métail è fra i pochi membri femminili del gruppo, e introduce un numero consistente di contraintes (regole) in testi poi pubblicati nella collana de La Bibliothèque Oulipienne. Tra questi, costituiscono un caso interessante, anche per il loro effetto spesso umoristico, i suoi Portraits-Robots (cioè “Identikit”), ripubblicati di recente da les presses du réel. Si tratta di una serie di poesie i cui versi vincono la scommessa di delineare dei ritratti arcimboldeschi ponendosi una limitazione: impiegare solo espressioni ricavate dal lessico dell’ambito di cui fa parte il soggetto o il ruolo rappresentato. Il primo componimento che qui riportiamo, L’architecte, è solo un esempio di queste 102 prove di bravura lessicologica, che portano agli estremi le potenzialità della metafora, ricavando l’idea di base dall’attività meravigliosa – in senso barocco – e non priva d’ironia del celebre pittore milanese. Se già poesie come queste pongono problemi non da poco al traduttore, poiché non sempre i termini di origine anatomica trapiantati nel lessico dell’architettura (per citare il caso specifico) trovano un esatto riscontro in italiano, le poesie-fotografie inserite in una particolare sezione di Toponyme-Berlin (Tarabuste, 2002) costituiscono una vera e propria sfida traduttiva. Ispirate alle misure del formato più comune delle fotografie (10×15), esse seguono con scrupolo la regola dei dieci versi da quindici lettere ciascuno (spazi e punteggiatura esclusi dal conteggio). Si intuisce allora come un certo “spirito oulipiano” sia rimasto una costante nell’attività dell’autrice anche dopo il suo volontario e cordiale allontanamento dal gruppo, avvenuto nel 1998. Tuttavia, sarebbe renderle un pessimo servizio ridurne l’opera all’abilità nell’uso delle contraintes; basti, come saggio della capacità impressionistica e della delicatezza di visione di Métail, la seconda poesia qui tradotta, che immortala una Berlino in procinto di scivolare sotto le coperte della notte. L’ultimo testo è un estratto da Le cours du Danube, poema concepito come una ramificazione del più vasto Compléments de nom. Si tratta di una sequenza di complementi di specificazione, che scorrono proprio al pari d’un fiume, ritmati dall’introduzione – all’inizio d’ogni verso – di un nuovo sostantivo e dalla scomparsa dell’ultimo della serie. La risalita del Danubio è destinata ad arrivare alla Foresta Nera, certo, ma nel fluire delle parole Métail procede soprattutto a una straordinaria esplorazione del linguaggio e delle sue combinazioni, in un’opera che, nelle letture pubbliche che ne dà la scrittrice, suona magica e ossessiva come una litania.
da Portraits-robots (1987, 2019)
L’architect
TÊTE DE MUR FIGURE D’UN BÂTIMENT FACES DE L’ARCHITRAVE FRONT D’UN MONUMENT OEIL DE PONT NEZ DE MARCHE BOUCHE D’ÉGOÛT MENTON À TRIPLE ÉTAGE GORGE DE RACCORDEMENT ÉPAULE DE BASTION MAIN D’OEUVRE CORPS DE LOGIS TRONC DE COLONNE COEUR DE LA VILLE VEINE PORTE JAMBE D’ENGOIGNURE PIED DE L’ESCALIER
L’architetto
TESTA DI MATTONE FACCIATA D’UN EDIFICIO ARCHIVOLTO DI CATTEDRALE FRONTONE D’UN MONUMENTO OCCHIO DI BUE SULLA PORTA PROFILO PER GRADINI BOCCHETTA DI FOGNATURA VOLTA A PADIGLIONE COSTOLONE DI CUPOLA FIANCO DI BASTIONE MANO D’OPERA CORPO DI FABBRICA TRONCO DI COLONNA CUORE DELLA CITTÀ VENA PORTA ASTRAGALO DI TEMPIO PIEDISTALLO DEL FUSTO
da Toponyme, Berlin (2002)
écran soir et noir le trajet fatigué se signale sonore riverain des rues où la ville livrée en photos banales au virage, visages s’effacent, mi-nuit même des lumières quand s’éteignent
13 décembre 2000 : retour en tram de Pankow
schermo sera nero tragitti stanchi rimbombano lungo arenili di strade e la città si offre in scatti insulsi alla svolta, volti sbiaditi nel buio poi la mezzanotte soffoca ogni luce
13 dicembre 2000: ritorno in tram da Pankow
Da Le cours du Danube – en 2888 kilomètres/vers… l’infini (2018)
2883 la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire du poème de l’infini
2882 la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire du poème
2881 la solennité de la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire
2880 l’occasion de la solennité la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité
2879 la voiture de l’occasion de la solennité la cérémonie de la célébration de la quarantaine
2878 le conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité de la cérémonie de la célébration
2877 le permis du conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité de la cérémonie
2876 la délivrance du permis du conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité
2875 la préfecture de la délivrance du permis du conducteur de la voiture de l’occasion
2874 le chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis du conducteur de la voiture
2873 le canton du chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis du conducteur
2872 la confédération du canton du chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis
2883 la celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario del poema dell’infinito
2882 la cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario del poema
2881 la solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario
2880 l’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità
2879 l’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale
2878 il conducente dell’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione
2877 la patente del conducente dell’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia
2876 il rilascio della patente del conducente dell’automobile dell’occasione della solennità
2875 la prefettura del rilascio della patente del conducente dell’automobile dell’occasione
2874 il capoluogo della prefettura del rilascio della patente del conducente dell’automobile
2873 il cantone del capoluogo della prefettura del rilascio della patente del conducente
2872 la confederazione del cantone del capoluogo della prefettura del rilascio della patente
Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Marta Olivi.
L’esordio poetico nel 2010, a trent’anni, e una seconda collezione nel 2020, l’anno della sua prematura scomparsa. Nel frattempo, chapbooks di poesia, insegnamento universitario, e tutta la vita raccontata nel memoir del 2016, Bandit, in cui Molly Brodak sceglie di raccontare il rapporto con il padre, un rapinatore di banche più volte arrestato. Ma è un escamotage per parlare di sé, per delineare in controluce un’identità che non sarebbe stata altrettanto osservabile direttamente. Un io narrante che fatica a narrarsi, un sé fortissimo ma liquido, mutevole, perché basato sull’assunto che un io obiettivo non esista. Specie per chi scrive.
Molly Brodak inizia il suo memoir con due pagine in cui racconta i fatti della vita di Joe Brodak: la dipendenza dal gioco, i debiti, le rapine, gli arresti. In due pagine, la realtà viene liquidata. Tutto quello che viene dopo, ci avverte, è narrazione: comprese le vite dipanatesi attorno a questa figura, e i traumi che hanno subìto a causa sua. Come Brodak ammette, la scelta del memoir, della nonfiction, punta a distaccarsi dalla facilità della fiction, dai suoi “rounded, finite arcs, tidy rise and fall, buttressing values, their little lessons, like solved equations”, ma allo stesso tempo non prova a perseguire un’esattezza fattuale che, semplicemente, non esiste. La soluzione, dunque, una realtà vera perché dichiaratamente soggettiva, è ciò che Brodak trova da adolescente nella forma poetica, quella che non abbandonerà mai più e che “it seemed to know a better way to the world – an approach more honest, more direct, sharper”.
Eppure, se sembra impossibile raccontare una vita in modo “onesto e diretto”, specie il dolore che la caratterizza, è proprio sul trauma che si incentra la ricerca letteraria di Brodak. Forse proprio in nome della sua capacità di influenzare la percezione di sé e degli altri. Nel 2010, nell’esordio A little middle of the night, Brodak parte dal trauma fisico di un corpo malato, descrivendo la sua esperienza di ricovero in ospedale a seguito di un’operazione al cervello. Poesie in cui la realtà si mescola alle visioni indotte dalla malattia e dai farmaci, in cui l’esperienza del coma traccia una linea netta tra la propria percezione e quella altrui, con la poesia come unico mezzo per cercare di comunicare tra prospettive inconciliabili.
Ma la risposta, o perlomeno un tentativo, arriverà solo in The Cipher, nel 2020, in cui si affronta compiutamente il trauma della fuga dall’Olocausto che hanno affrontato entrambi i suoi genitori, la madre dalla Russia e il padre dalla Polonia. Un trauma generazionale che diventa proprio; la perdita del nonno, morto a Dachau, che diventa la perdita della figura paterna; una coazione a ripetere che perpetua il trauma dell’assenza. Il dolore ci pone in un limbo tra passato inalienabile e futuro inconoscibile, descritto come “the awful future: half magnetic, half chiaroscuro”, che ci tira a sé pur nascondendosi da noi. Intrappolati tra il passato che il destino ci ha dato e ciò che con la nostra volontà decidiamo di farci, diventa impossibile stabilire veri nessi causali, capire chi siamo e cosa ci ha reso tali. Ed è di nuovo la poesia ad essere proposta come unico modo per arrivare alla realtà del proprio io. Se ogni scrittura è metafora di una realtà inconoscibile, “one x that did not equal x”, come viene detto nella poesia che apre The Cipher, allora la poesia è il mezzo che più di ogni altro sa seguire esattamente il processo non lineare che caratterizza la coscienza:
I listened to some invisible bird
rattling off the facts of consciousness. He used that exact word, cipher.
La poesia diventa così l’unico modo per affrontare una realtà che sembra una prigione, in cui l’unica reazione sensata è “Panic, because suddenly everything signifies”, ma in cui l’accesso al vero senso sembra sempre interdetto, sempre un passo più in là rispetto a noi.
In the cipher, where we live, there is only personality. What is outside of the cipher, where we’re headed?
Due scelte, di fronte a questa impossibilità conoscitiva. Perpetuare l’illusione del simbolo grazie al mezzo poetico. O abbandonare il gioco, dirigersi “outside the cipher”, fuori dalla prigione della propria personalità, verso quella morte che viene così spesso accennata in The Cipher. Posare la penna, scegliere la pace dell’assenza definitiva di ogni significato.
Da the cipher (2020)
Bells
Nothing special, a home,
a plot of empty space,
with a calendar on the wall. Each day ahead is lake black. Bells, still.
God popped like a balloon when I looked directly.
Songs just clank the fetters. I remember ergo sum.
I never needed to dig graves. Everyone, a terminal,
a terminal of photons, irritating rackets, generosity, gently extinguishing fire, which is nothing special.
All of them. The people ran for the boats.
I stayed to ring the bell. I’ve forgotten their faces but I remember their white aprons with eyelets, leather hoods with spark burns, small shoes, the sound of them all typing at once, their little worn dice, worn to beads. Blue and pink charms, cassocks, gold chains they shared. They dragged mom’s body and dad’s body as far as they could on the beach. They scattered into a shoreless sea. And you want to be happy.
Campane
Una casa, niente di speciale,
un terreno, uno spazio vuoto,
con un calendario sul muro. Ogni giorno a venire è nero come un lago. Eppure, le campane.
Dio è scoppiato come un palloncino non appena l’ho guardato.
Le canzoni scuotono le catene, nient’altro. Mi ricordo ergo sum.
Non ho mai avuto bisogno di scavare tombe. Ogni persona, un capolinea,
un capolinea di fotoni, un baccano fastidioso, generosità, un fuoco che si spegne piano, niente di speciale.
Tutti loro. La gente corre verso le barche.
Io sono rimasta per suonare la campana. Ho dimenticato le loro facce ma ricordo i loro grembiuli bianchi orlati di pizzo, cappucci di pelle bruciacchiati, scarpe piccole, il suono di tutti loro che scrivono a macchina contemporaneamente, i loro piccoli dadi consumati, tanto da sembrare perline. Ciondoli rosa e blu, abiti talari, catene d’oro condivise. Hanno trascinato i corpi di mamma e di papà sulla spiaggia più lontano che potevano. Sparsi in un mare senza riva. E tu vorresti essere felice.
bee in jar
You cannot help knowing, said Tolstoy. The world is a distance to go. Remember, once you were good for nothing and you didn’t know it.
Cedar branches live a little while on the fire. Some young swallows cover some sea then turn back on their first migration.
Only matter can be transformed. Transformed into matter. Things that are not matter cannot be transformed.
The key is cut by the lock. You will code then decode your mind. You will save yourself. You cannot help it.
l’ape nel barattolo
Non si può fare a meno di sapere, diceva Tolstoj. Il mondo è una distanza da percorrere. Ricordati, una volta eri un buono a nulla e non lo sapevi.
I rami di cedro vivono ancora per un po’ mentre bruciano. Alcune giovani rondini percorrono un po’ di mare poi tornano indietro durante la loro prima migrazione.
Solo la materia può essere trasformata. Trasformata in materia. Le cose che non sono materia
non possono essere trasformate.
La chiave assume la forma del lucchetto.Programmerai e decifrerai la tua mente. Ti salverai. Non puoi farne a meno.
in the morning, before anything bad happens
The sky is open all the way.
Workers upright on the line like spokes.
I know there is a river somewhere, lit, fragrant, golden mist, all that,
whose irrepressible birds can’t believe their luck this morning and every morning.
I let them riot in my mind a few minutes more before the news comes.
di mattina, prima che accada qualcosa di brutto
Il cielo è aperto da parte a parte.
Operai dritti sulla linea come raggi.
So che da qualche parte c’è un fiume, illuminato, fragrante, nebbia dorata, tutto quanto,
con i suoi uccelli irrefrenabili che stamattina non riescono a credere ai loro occhi come ogni mattina.
Li lascio sfogarsi nella mia mente qualche minuto ancora prima che la notizia arrivi.
come and see
The far away asphalt lot covered over in fog & lit raw gold by one lamppost against night. The terminal helplessness of one creature without its others.
I saw the owl’s wings but no owl. The slow-mo mushrooms. I taught my hands to work to keep them away from each other. Rasp, awl, the block plane, the spirit level. The needle one holds, which sharpens which? Still, I was separate. Still they were where the song came from.
The light from our closest star is not starlight, it being just one. I saw Michigan, sunk home, from space in a moment, and I hadn’t cried until just then, in the dark kitchen, no hands to close over my face.
vieni a vedere
Il parcheggio d’asfalto così lontano ricoperto di nebbia e illuminato d’oro crudo da un lampione contro la notte. La fragilità terminale di una creatura senza i suoi altri.
Ho visto le ali del gufo ma nessun gufo. I funghi al rallentatore. Ho insegnato alle mie mani a lavorare per tenerle staccate l’una dall’altra. Lima, punteruolo, pialla, la livella in bolla. L’ago che si tiene in mano, che affila cosa? Eppure, ero separata. Eppure era da lì che veniva la canzone.
La luce dalla stella più vicina a noinon è luce di stelle, perché è soltanto una. Ho visto il Michigan, sono sprofondata a casa, dallo spazio, in un istante, e non avevo pianto fino a quel momento, nella cucina buia, senza mani in cui nascondere il volto.
Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Raphael Louvet.
“Nato presumibilmente nel 1942 a Fes. Le viuzze e i cimiteri. L’eredità, un bel fiasco. O meglio, un imbastardimento. Il paese pietrificato, tanto vale specializzarsi nell’ibernazione dei licheni. Ma ci sono le ascelle fulve, i tatuaggi, l’ignoranza che fa esplodere parole muscolose”.
Così descrive se stesso il poeta e traduttore marocchino Abdellatif Laâbi, in occasione della pubblicazione del primo numero della rivista Souffles, nel 1966. Nel giro di qualche numero, questa rivista collettiva dove compaiono voci tra le più importanti del nuovo spazio letterario marocchino (Mohammed Khaïr-Eddine, Mostafa Nissaboury) fa saltare in aria i codici letterari e morali del Marocco conservatore di re Hassan II. Interrogandosi su questioni come l’uso del francese e lo statuto dello scrittore colonizzato, questi scrittori criticano l’immobilismo della cultura nazionale e le nuove narrazioni nazionaliste del giovane Marocco decolonizzato, che paralizzano l’espressione letteraria. La rivista presto si apre a posizioni terzomondiste, accogliendo intellettuali e scrittori. La reazione, però, non si fa attendere: nel 1971, Abdellatif Laabi viene torturato e incarcerato. Quando esce di prigione, otto anni più tardi, si esilia in Francia e si stabilisce a Créteil, nella banlieue parigina, dove attualmente vive con la moglie Jocelyne Laâbi.
La sua è una poesia profondamente impegnata nelle lotte per l’emancipazione, in modo particolare contro l’oppressione del regime marocchino, e viene concepita come una risposta risoluta al “regno della barbarie”. Laâbi vi affronta la questione dell’esilio, ma anche quella del difficile ritorno al paese natale, qui presente nelle poesie tradotte da Le Spleen de Casablanca. Nonostante questo peso, la ricerca poetica di Abdellatif Laâbi è un percorso di umanità e la sua scrittura è sempre carica di speranza. La lingua viene concepita come uno spazio di resistenza e di ospitalità – un luogo dove riprendere fiato -, dove l’esiliato crea una patria sognata, un “sole fraterno” e una libertà inalienabile.
Dopo le prime poesie sulla rivista Souffles, Abdellatif Laâbi ha pubblicato numerose raccolte, tra le quali vale la pena citare Sous le bâillon le poème (1981), scritta in prigione, L’Étreinte du monde (1993), Le Spleen de Casablanca (1996) e Les fruits du corps (2003), un’esplorazione del desiderio e della sessualità. Si è speso molto anche nel ruolo di “mediatore” di poeti siriani e palestinesi, pubblicando per Les Éditions de Minuit due magnifiche traduzioni del grande poeta palestinese Mahmoud Darwich, Rien qu’une autre année (1983) et Plus rares sont les roses (1989). Più recentemente, ha pubblicato per la casa editrice Points una Anthologie de la poésie palestinienne d’aujourd’hui (2022), che ha il merito di far conoscere al pubblico francese le voci di una nuova generazione di poeti e poete.
da L’Étreinte du monde (1993)
En vain j’émigre
J’émigre en vain Dans chaque ville je bois le même café et me résigne au visage fermé du serveur Les rires de mes voisins de table taraudent la musique du soir Une femme passe pour la dernière fois En vain j’émigre et m’assure de mon éloignement Dans chaque ciel je retrouve un croissant de lune et le silence têtu des étoiles Je parle en dormant un mélange de langues et de cris d’animaux La chambre où je me réveille est celle où je suis né J’émigre en vain Le secret des oiseaux m’échappe comme celui de cet aimant qui affole à chaque étape ma valise
Emigro invano
Emigro invano In ogni città bevo lo stesso caffè e mi rassegno al volto chiuso del cameriere Le risate dei miei vicini di tavolo inseguono la musica della sera Una donna passa per l’ultima volta Invano emigro e mi assicuro di essere lontano In ogni cielo ritrovo una falce di luna e il silenzio testardo delle stelle Parlo nel sonno una miscela di lingue e grida di animali La stanza in cui mi sveglio è quella dove sono nato Emigro invano Il segreto degli uccelli mi sfugge come quello di questa calamita che incalza ad ogni tappa la mia valigia
La langue de ma mère
Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans Elle s’est laissée mourir de faim On raconte qu’elle enlevait chaque matin son foulard de tête et frappait sept fois le sol en maudissant le ciel et le Tyran J’étais dans la caverne là où le forçat lit dans les ombres et peint sur les parois le bestiaire de l’avenir Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans Elle m’a laissé un service à café chinois dont les tasses se cassent une à une sans que je les regrette tant elles sont laides Mais je n’en aime que plus le café Aujourd’hui, quand je suis seul j’emprunte la voix de ma mère ou plutôt c’est elle qui parle dans ma bouche avec ses jurons, ses grossièretés et ses imprécations le chapelet introuvable de ses diminutifs toute l’espèce menacée de ses mots Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans mais je suis le dernier homme à parler encore sa langue
La lingua di mia madre
Non vedo mia madre da vent’anni Si è lasciata morire di fame Raccontano che si togliesse ogni mattina il fazzoletto dalla testa e colpisse sette volte a terra maledicendo il cielo ed il Tiranno Ero nella caverna lì dove il galeotto legge nelle ombre e dipinge sulle pareti il bestiario del futuro Non vedo mia madre da vent’anni Mi ha lasciato un servizio da caffè cinese con le tazze che si rompono una a una e sono così brutte che non le rimpiango Ma il caffè, lo amo di più Oggi, quando sono solo prendo in prestito la voce di mia madre o meglio, è lei che mi parla nella bocca con le sue parolacce, le volgarità e le imprecazioni l’introvabile rosario dei suoi diminutivi tutta la specie minacciata delle sue parole Non vedo mia madre da vent’anni ma sono l’ultimo uomo che parla ancora la sua lingua
da Le spleen de casablanca (1996)
Le spleen de Casablanca
Dans le bruit d’une ville sans âme j’apprends le dur métier du retour Dans ma poche crevée je n’ai que ta main pour réchauffer la mienne tant l’été se confond avec l’hiver Où s’en est allé, dis-moi Le pays de notre jeunesse ?
*
Ô comme tous les pays se ressemblent et se ressemblent les exils Tes pas ne sont pas de ces pas qui laissent des traces sur le sable Tu passes sans passer
*
Visage après visage meurent les ans Je cherche dans les yeux une lueur un bourgeon dans les paroles Et j’ai peur, très peur de perdre encore un vieil ami
*
Je me sentirai perdu à tout âge
*
Je ne suis pas ce nomade qui cherche le puits que le sédentaire a creusé Je bois peu d’eau et marche à l’écart de la caravane
*
Le siècle prend fin dit-on et cela me laisse indifférent Quoique le suivant ne me dise rien qui vaille
*
Dans la cité de ciment et de sel ma grotte est de papier J’ai une bonne provision de plumes et de quoi faire du café Mes idées n’ont pas d’ombre pas plus d’odeur Mon corps a disparu Il n’y a plus que ma tête dans cette grotte de papier
*
J’essaie de vivre La tâche est ardue
Lo spleen di Casablanca
Nel rumore di una città senz’anima imparo il difficile mestiere del ritorno Nella tasca bucata non ho che la tua mano per riscaldare la mia tanto l’estate si confonde con l’inverno Dove se n’è andato, dimmi Il paese della nostra gioventù ?
*
Oh come tutti i paesi si assomigliano e si assomigliano gli esilii I tuoi passi non sono quel tipo di passi che lasciano tracce sulla sabbia Passi senza passare
*
Viso dopo viso Muoiono gli anni Cerco negli occhi un barlume un germoglio nelle parole E ho paura, molta paura di perdere ancora un vecchio amico
*
Mi sentirò perso a qualsiasi età
*
Non sono quel nomade in cerca del pozzo che il sedentario ha scavato Bevo poca acqua e cammino discosto dalla carovana
*
Il secolo sta per finire dicono e ciò mi lascia indifferente Per quanto il prossimo non mi dica nulla di buono
*
Nella città di cemento e di sale la mia grotta è di carta Ho una buona riserva di penne e ciò che serve per fare il caffè Le mie idee non hanno ombra Nemmeno odore Il mio corpo è scomparso C’è solo la mia testa in questa grotta di carta
Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Lucrezia Bivona.
Nata a Harlem nel 1936 e cresciuta a Bedford-Stuyvesant, quartiere di Brooklyn, June Jordan è stata una voce essenziale della poesia americana del secondo Novecento. Autrice estremamente prolifica, si è cimentata nei generi più disparati, dalla poesia al romanzo, dal teatro alla letteratura per bambini, sempre portando avanti un impegno politico importante e resistente in tutti gli ambienti che si è trovata a frequentare, tra cui quello universitario e dell’istruzione. Ha sempre insegnato con la convinzione di educare al cambiamento sociale, lavorando a fianco di scrittrici dai simili intenti e presupposti come Adrienne Rich, Toni Cade Bambara e Audre Lorde, e credendo fermamente insieme a loro nel potere trasformativo della scrittura in versi.
Cresciuta in una famiglia di origini giamaicane, il complesso rapporto con il padre e con le aspettative imposte dall’interno segna profondamente la sua vita e la sua scrittura. La sua è una poesia che trae dall’inglese colloquiale e vernacolare la propria forza comunicativa, per trattare argomenti come la famiglia, la sessualità, il corpo, l’autodeterminazione, l’oppressione razziale e politica. Il linguaggio di Jordan è lirico e personale, diretto e fortemente autobiografico. Una poesia scritta apertamente per le persone che la leggono.
da Some Changes (1971)
My sadness sits around me
My sadness sits around me not on haunches not in any placement near a move and the tired roll-on of a boredom without grief
If there were war I would watch the hunting I would chase the dogs and blow the horn because blood is commonplace
As I walk in peace unencountered unmolested unimpinging unbelieving unrevealing undesired under every O My sadness sits around me
Mi siede attorno la mia tristezza
Mi siede attorno la mia tristezza non sulle cosce non in nessuna posizione che implichi un movimento e l’oscillare stanco di una noia senza dolore
Se ci fosse una guerra baderei alla caccia inseguirei i cani e suonerei il corno perché il sangue è una cosa banale
Mentre cammino tranquilla senza incontri senza intralci senza lesioni senza credo senza epifanie indesiderata in qualsiasi Oh Mi siede attorno la mia tristezza
da living room (1985)
Notes towards Home
My born on 99th Street uncle when he went to Canada used to wash and polish the car long before coffee every morning outside his room in the motel “Because,” he said, “that way they thought I lived around there; you ever hear of a perfectly clean car traveling all the way from Brooklyn to Quebec?”
My mother left the barefoot roads of St. Mary’s in Jamaica for the States where she wore stockings even in a heat wave and repeatedly advised me never to wear tacky underwear “That way,” she said, “if you have an accident when they take you to a hospital they’ll know you come from a home.”
After singing God Bless America Kate Smith bellowed the willies out of Bless This House O Lord We Pray/Make It Safe By Night and Day but my cousin meant Lord keep June and her Boris Karloff imitations out of the hall and my mother meant Lord keep my husband out of my way and I remember I used to mean Lord just pretty please get me out of here!
But everybody needs a home so at least you have someplace to leave which is where most other folks will say you must be coming from
Appunti su casa mia
Mio zio nato sulla novantanovesima quando andava in Canada lavava e lucidava la macchina molto prima di prendere il caffè ogni mattina fuori dalla sua stanza del motel “Perché”, diceva, “così pensavano che vivessi in zona; hai mai sentito di una macchina perfettamente pulita dopo un viaggio da Brooklyn fino al Quebec?”
Mia madre aveva lasciato le strade scalze di St. Mary in Giamaica per gli Stati Uniti dove portava le calze anche durante le ondate di calore di continuo mi ricordava di non portare mai biancheria intima kitsch “Così”, diceva, “se fai un incidente quando ti portano all’ospedale sapranno che hai una casa.”
Dopo aver cantato Dio benedica l’America Kate Smith ci faceva venire i brividi con Benedici Questa Casa Signore Preghiamo/Rendila Sicura di Notte e di Giorno ma mia cugina intendeva Signore tieni June e le sue imitazioni di Boris Karloff lontano da qui e mia madre intendeva Signore tieni mio marito lontano da me e io ricordo che intendevo Signore soltanto ti prego per favore fammi andare lontano da qui!
Ma a tutti serve una casa così almeno hai un posto da lasciare e la maggior parte della gente dirà che è il posto da dove vieni
da Haruko/Love Poems (1994)
Poem about Heartbreak That Go On and On
bad love last like a big ugly lizard crawl around the house forever never die and never change itself
into a butterfly
Poesia sui cuori spezzati che non si riparano mai
l’amore cattivo dura quanto una grossa brutta lucertola che striscia sotto la casa per sempre senza mai morire e senza mai trasformarsi
in una farfalla
da passion (1980)
Poem About My Rights
Even tonight and I need to take a walk and clear my head about this poem about why I can’t go out without changing my clothes my shoes my body posture my gender identity my age my status as a woman alone in the evening/ alone on the streets/alone not being the point/ the point being that I can’t do what I want to do with my own body because I am the wrong sex the wrong age the wrong skin and suppose it was not here in the city but down on the beach/ or far into the woods and I wanted to go there by myself thinking about God/or thinking about children or thinking about the world/all of it disclosed by the stars and the silence: I could not go and I could not think and I could not stay there alone as I need to be alone because I can’t do what I want to do with my own body and who in the hell set things up like this and in France they say if the guy penetrates but does not ejaculate then he did not rape me and if after stabbing him if after screams if after begging the bastard and if even after smashing a hammer to his head if even after that if he and his buddies fuck me after that then I consented and there was no rape because finally you understand finally they fucked me over because I was wrong I was wrong again to be me being me where I was/wrong to be who I am which is exactly like South Africa penetrating into Namibia penetrating into Angola and does that mean I mean how do you know if Pretoria ejaculates what will the evidence look like the proof of the monster jackboot ejaculation on Blackland and if after Namibia and if after Angola and if after Zimbabwe and if after all of my kinsmen and women resist even to self-immolation of the villages and if after that we lose nevertheless what will the big boys say will they claim my consent: Do You Follow Me: We are the wrong people of the wrong skin on the wrong continent and what in the hell is everybody being reasonable about and according to the Times this week back in 1966 the C.I.A. decided that they had this problem and the problem was a man named Nkrumah so they killed him and before that it was Patrice Lumumba and before that it was my father on the campus of my Ivy League school and my father afraid to walk into the cafeteria because he said he was wrong the wrong age the wrong skin the wrong gender identity and he was paying my tuition and before that it was my father saying I was wrong saying that I should have been a boy because he wanted one/a boy and that I should have been lighter skinned and that I should have had straighter hair and that I should not be so boy crazy but instead I should just be one/a boy and before that it was my mother pleading plastic surgery for my nose and braces for my teeth and telling me to let the books loose to let them loose in other words I am very familiar with the problems of the C.I.A. and the problems of South Africa and the problems of Exxon Corporation and the problems of white America in general and the problems of the teachers and the preachers and the F.B.I. and the social workers and my particular Mom and Dad/I am very familiar with the problems because the problems turn out to be me I am the history of rape I am the history of the rejection of who I am I am the history of the terrorized incarceration of myself I am the history of battery assault and limitless armies against whatever I want to do with my mind and my body and my soul and whether it’s about walking out at night or whether it’s about the love that I feel or whether it’s about the sanctity of my vagina or the sanctity of my national boundaries or the sanctity of my leaders or the sanctity of each and every desire that I know from my personal and idiosyncratic and indisputably single and singular heart I have been raped be- cause I have been wrong the wrong sex the wrong age the wrong skin the wrong nose the wrong hair the wrong need the wrong dream the wrong geographic the wrong sartorial I I have been the meaning of rape I have been the problem everyone seeks to eliminate by forced penetration with or without the evidence of slime and/ but let this be unmistakable this poem is not consent I do not consent to my mother to my father to the teachers to the F.B.I. to South Africa to Bedford-Stuy to Park Avenue to American Airlines to the hardon idlers on the corners to the sneaky creeps in cars I am not wrong: Wrong is not my name My name is my own my own my own and I can’t tell you who the hell set things up like this but I can tell you that from now on my resistance my simple and daily and nightly self-determination may very well cost you your life
Poesia sui miei diritti
Anche stanotte ho bisogno di fare una passeggiata per schiarirmi le idee su questi versi sul perché non posso uscire senza cambiare i vestiti le scarpe la mia postura la mia identità di genere la mia età il mio status in quanto donna sola di sera/ sola per strada/sola non è questo il punto/ il punto è che non posso fare ciò che voglio fare con il mio stesso corpo perché sono del sesso sbagliato dell’età sbagliata di pelle sbagliata e metti che non fossi qui in città ma giù in spiaggia/ o nel folto della foresta e che volessi andarci da sola mentre penso a Dio/o mentre penso ai bambini o mentre penso al mondo/tutto questo rivelato dalle stelle e dal silenzio: non potrei andare e non potrei pensare e non potrei stare lì da sola come avrei bisogno da sola perché non posso fare quello che voglio con il mio corpo e chi cazzo ha deciso che doveva essere così e in Francia dicono che se l’uomo penetra ma non eiacula allora non mi ha stuprata e se dopo averlo colpito se dopo le grida se dopo aver implorato il bastardo e se perfino dopo avergli spaccato un martello in testa se anche dopo tutto questo se lui e i suoi amici mi scopano dopo tutto questo allora ero consenziente e non c’è stato nessuno stupro perché alla fine capisci alla fine mi hanno scopata perché avevo torto avevo torto di nuovo a essere me essendo me lì dove avevo/torto nell’essere chi sono che è esattamente come il Sudafrica che penetra in Namibia penetrando in Angola e questo significa voglio dire come fai a dire se Pretoria eiacula come lo dimostri qual è la prova che il mostro totalitarista ha eiaculato sulla Blackland e se dopo la Namibia e se dopo l’Angola e se dopo lo Zimbabwe e se dopo tutti i miei consanguinei e le donne resistono perfino all’autosacrificio dei villaggi e se dopo questo comunque perdiamo cosa diranno i bestioni rivendicheranno o no il mio consenso Mi Segui: Noi siamo il popolo sbagliato dalla pelle sbagliata sul continente sbagliato e cosa cazzo fanno i ragionevoli tutti quanti e secondo il Times questa settimana già nel 1966 la C.I.A. aveva deciso che avevano questo problema e il problema era un uomo di nome Nkrumah e quindi lo uccisero e prima di lui era Patrice Lumumba e prima ancora era mio padre nel campus della mia università dell’Ivy League e mio padre con la paura di entrare nella caffetteria perché diceva di essere sbagliato l’età sbagliata la pelle sbagliata l’identità di genere sbagliata e mi pagava la retta e prima di questo era mio padre a dire che sbagliavo a dire che sarei dovuta essere un maschio perché lui lo desiderava/un maschio e che sarei dovuta essere di pelle più chiara e che avrei dovuto avere capelli più lisci e che non sarei dovuta andare dietro ai maschi ma piuttosto sarei dovuta essere uno di loro/un maschio e prima di questo era mia madre a suggerire la chirurgia plastica per il mio naso e l’apparecchio per i miei denti e a dirmi di lasciar perdere un po’ i libri di lasciarli perdere in altre parole conosco molto bene i problemi della C.I.A. e i problemi del Sudafrica e i problemi della Exxon Corporation e i problemi dell’America bianca in generale e i problemi degli insegnanti e dei sacerdoti e dell’F.B.I. e degli assistenti sociali e dei miei specifici Mamma e Papà/conosco molto bene i problemi perché i problemi si rivelano essere me io sono la storia dello stupro io sono la storia del rifiuto di chi sono io sono la storia dell’incarcerazione terrorizzata di me stessa io sono la storia di percosse e violenza e eserciti senza confini contro tutto ciò che voglio fare con la mia mente e il mio corpo e la mia anima e che sia passeggiare per la strada di notte o l’amore che provo o la santità della mia vagina o la santità dei miei confini nazionali o la santità dei miei leader o la santità di ogni singolo desiderio che viene dal mio intimo e idiosincratico e indiscutibilmente unico e singolare cuore sono stata stuprata per- ché ero sbagliata il sesso sbagliato l’età sbagliata la pelle sbagliata il naso sbagliato i capelli sbagliati il bisogno sbagliato il sogno sbagliato la geografia sbagliata lo stile sbagliato io io sono stata il significato dello stupro io sono stata il problema che tutti cercano di eliminare tramite penetrazione forzata con o senza la prova dello sperma e/ ma che sia ben chiaro questa poesia non è consenso io non acconsento a mia madre a mio padre agli insegnanti al F.B.I. al Sudafrica a Bedford-Stuy a Park Avenue all’American Airlines ai fannulloni arrapati agli angoli di strada ai pervertiti appostati nelle loro macchine Io non ho sbagliato: Sbagliata non è il mio nome Il mio nome è mio soltanto mio mio e non so dirti chi cazzo ha deciso che doveva essere così ma posso dirti che d’ora in poi la mia resistenza la mia semplice autodeterminazione ogni giorno e ogni notte potrebbe benissimo costarti la vita
Directed by Desire: The Collected Poems of June Jordan (Port Townsend, WA: Copper Canyon Press, 2005)
Introduzione e traduzioni a cura di Andrea Bergantino, vincitore della prima Call for Translators per l’inglese.
Seán Hewitt, nato nel 1990, è critico letterario e insegna letteratura inglese e irlandese al Trinity College di Dublino. La sua prima raccolta integrale di poesie, Tongues of Fire, è stata pubblicata nel 2020 e ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Laurel Prize. La poesia di Seán Hewitt si sviluppa intorno a una costellazione di temi ricorrenti, diversi ma interconnessi attraverso i versi, tra cui il rapporto con le proprie origini, l’immersione nella natura, ricordi ed esperienze di vita quotidiana, nonché rielaborazioni di miti irlandesi, come quello dell’esilio di Suibhne. Oltre al rapporto con la natura e al dialogo con la propria storia personale, i versi di Hewitt contengono anche eco religiose e riferimenti alla sfera della sessualità, un tema, quest’ultimo, che si ritrova anche nel memoir All Down Darkness Wide, che esplora l’identità queer dello scrittore.
Delle tre poesie proposte di seguito in traduzione, accompagnate dall’originale, due sono tratte da Tongues of Fire, “Evening Poem” e “Oak Glossary”, mentre “Ancestry” è stata pubblicata su Poetry nel 2013. “Ancestry/Discendenza” e “Evening Poem/Poesia della sera” condividono la rievocazione di eventi e scene passati, che al tempo stesso è l’esplorazione di legami familiari, della propria storia personale. Partendo da stimoli quotidiani quali profumi e piccole azioni, questi componimenti evocano relazioni più profonde tra genitori e figli, vecchie e nuove generazioni. Tali connessioni non mancano in “Oak Glossary/Glossario delle querce”, dove l’albero si sostituisce all’uomo e al suo linguaggio, pur condividendo con lui vibrazioni e legami non sempre visibili in superficie. Questi versi di Seán Hewitt scavano per riportare alla luce rapporti e dinamiche naturali tramite allusioni poetiche: lasciano intendere, suonano familiari, ma non disvelano parole e verità ultime.
da poetry (2013)
Ancestry
The damp had got its grip years ago but gone unnoticed. The heads of the joists feathered slowly in the cavity wall and the room’s wet belly had begun to bow.
Once we’d ripped the boards up, it all came out: the smell, at first, then the crumbling wood gone to seed, all its muscles wasted. You pottered back and to with tea, soda bread,
eighty years shaking on a plastic tray. One by one we looked up, nodded, then slipped under the floor. We moved down there like fish in moonlight, or divers round an old ship.
Discendenza
L’umidità aveva stretto la sua presa anni prima, inosservata. Le estremità dei travetti si erano sbriciolate nell’intercapedine e il ventre bagnato della stanza si stava curvando.
Una volta rotti i pannelli, venne tutto fuori: l’odore, all’inizio, poi il legno vecchio ormai marcio, le fibre disfatte. Tu andavi e venivi portando tè e pane,
ottant’anni che tremano su un vassoio di plastica. Uno a uno abbiamo alzato lo sguardo e annuito, poi ci siamo infilati sotto il pavimento. Ci siamo mossi lì sotto come pesci che nuotano intorno a una vecchia barca, alla luce della luna.
da tongues of fire (2020)
Evening Poem
What a world of apparitions: stifled warmth of the greenhouse, scent of tomatoes, my mother and I working closely
to shimmy the pots loose. Split sack of soil on the bench, glow of a tealight in the jar,
and not a word between us. It is hard to tell where heaven starts, and where it ends: me, a foot taller, standing
where her father stood, and outside, look: the dove, like a paper lantern, is bobbing in the apple-blossom.
Poesia della sera
È un mondo di apparizioni: il calore compresso della serra, il profumo dei pomodori, mia madre e io che lavoriamo vicini
scuotendo i vasi. Sacchi di terreno tagliati sulla panca, il bagliore di una candela nel vetro,
e non una parola tra noi. È difficile dire dove il cielo comincia e dove finisce: me ne sto, solo più alto,
dove stava suo padre, e fuori, guarda: una colomba, come una lanterna di carta, dondola tra i fiori del melo.
Oak Glossary
In the language of the oak, sky is made by shivering the leaves to produce a hushing sound. In winter, of course, sky is silent.
God is felt in the phloem and xylem as a deep echo of water – a low noise that must be observed by placing an ear to the bark. For oaks, chanting
(which is akin to song) is produced via rhythms of air brought in and out of the branches in slow succession. On still days, song is not possible.
The familiar words, such as child, man, woman, are unknown, having fallen quiet from disuse. In oak, essential nouns include soil,
water and time – these are produced from their element. Water is a high and gentle noise of clearest quality which results from branches dripping.
For soil, or earth, a fastening of the roots can be felt as a low tension underfoot. Time, on the other hand, is more visual than aural, and is distinguished into
its linear and circular conceptions. As is well-known, circular time in oak is communicated most vividly at the site of a knot
or where the core has been exposed. The linear variety is felt only on occasion. For this, sap is produced and is made to run from the body.
Glossario delle querce
Nella lingua delle querce, cielo si fa scuotendo le foglie per produrre un suono sommesso. In inverno, naturalmente, cielo non si pronuncia.
Dio si sente in floema e xilema come un’eco d’acqua profonda – un rumore basso da osservare poggiando l’orecchio alla corteccia. Per le querce, cantare
(che è simile a canzone) si produce tramite ritmi d’aria portata dentro e fuori dai rami in lenta successione. Nei giorni di quiete, canzone non si può dire.
Le parole familiari come bambino, uomo, donna sono sconosciute, cadute in disuso. Per le querce sostantivi essenziali includono suolo,
acqua e tempo – queste sono prodotte dai loro elementi. Acqua è un rumore alto e gentile di qualità chiarissima che proviene dai rami grondanti.
Per suolo, o terra, si possono sentire le radici allacciarsi, una tensione sotto i piedi. Tempo, invece, è più visivo che uditivo, e si distingue nelle
sue concezioni lineari e circolari. Com’è noto, il tempo circolare tra le querce si comunica nel più vivido dei modi nel punto di un nodo
o dove la parte centrale è esposta. La varietà lineare si sente solo occasionalmente. Per questa si produce la linfa e la si fa scorrere dal corpo.
Introduzione e traduzioni dal giapponese a cura di Edoardo Occhionero.
È il marzo 2011 quando, a pochi giorni di distanza dal terribile terremoto che ha scosso la terra del Tōhoku, si verifica il meltdown del terzo reattore della centrale Daiichi di Fukushima. Di fronte alla catastrofe non ha tardato nemmeno la risposta della poesia (perché, in fondo, la letteratura nasce anche in simili circostanze: basti pensare alla testimonianza in versi sulla bomba atomica da parte di Kurihara Sadako, o a quella di Ishimure Michiko sul disastro chimico di Minamata del 1956).
In simili tentativi di documentazione della realtà, rientra anche Letti e telai (2013) di Arai Takako che, protesa con uno sguardo sconcertato sui resti di una terra devastata, si domanda che cosa valga la pena recuperare, talvolta trasformando il sarcasmo in una caustica critica verso coloro che detengono le responsabilità dell’incidente. Così la scarpa spaiata di katahō no kutsu diventa metonimia di migliaia di cadaveri trascinati a riva dalla corrente, e in Galapagos il paesaggio spettrale e tossico della centrale nucleare si contrappone all’eden terrestre rappresentato dall’arcipelago equadoregno del titolo.
Poche voci all’interno del panorama della poesia giapponese si distinguono per la loro esplicita posizione di impegno civile e di anticonformismo. Tra queste c’è quella di Arai che presenta un Giappone diverso da quello dei ciliegi in fiore o delle rane che saltano nei vecchi stagni. È un Giappone che si preoccupa più dello “tsunami di recessione” che della salvaguardia dei propri cittadini, è il Giappone del kaso (esodo dalla campagna) e dello shōshi (calo della natalità).
Lo smascheramento della nazione idilliaca avviene attraverso un uso plastico e a volte sperimentale della lingua giapponese. Itō Hiromi al riguardo scrive: “[…] non conosco nessun’altra donna che ha avuto così successo nel trovare una lingua indigena [土着的なことば], affilandola con precisione chirurgica, e usandola per parlare con una voce così vivida”. Arai infatti torce il verso fino al massimo livello di espressività (si vedano, per esempio, l’associazione “nerume/Uniqlume” e le numerose rime in –bō). È poi consuetudine imbattersi in frammenti dialogici, in inflessioni dialettali e in tecnicismi del linguaggio settoriale, con l’intenzione di amplificare il raggio di azione della poesia. Un altro strumento di riverberazione – impareggiabile – è l’adozione e la coniazione di omofoni/omografi (come la coppia 中性子 e 中精子 (chūseishi) in cui il primo designerebbe sia il neutrone sia la persona intersex mentre il secondo rappresenterebbe un hapax, in quanto è attestata unicamente la forma 精子, “spermatozoo”).
Arai Takako (新井高子,1966 –), originaria della prefettura di Gunma (più precisamente della città di Kiryū, famosa per la produzione di stoffe), attualmente abita a Yokohama ed è professoressa associata dell’Università di Saitama dove insegna lingua giapponese agli studenti internazionali. Tra le sue opere si menzionano Haō bekki (“Vita separata del sovrano”, 1997), Tamashii dansu (“La danza dell’anima”, 2007) – per cui è stata insignita del Premio Oguma Hideo –, e Betto to shokki (“Letti e telai”, 2013). Nelle sue raccolte poetiche non mancano i riferimenti autobiografici all’infanzia trascorsa nella fabbrica di tessuti del padre, e in particolare alla condizione di vita e al lavoro delle donne. Per anni, dall’inizio delle politiche di modernizzazione post-bellica, l’occupazione nell’attività tessile è stata di esclusivo dominio femminile, fino all’esternalizzazione in paesi in via di sviluppo avvenuta verso la fine del secolo scorso. I versi di Arai ripercorrono quindi il declino del paesaggio industriale, si affacciano sulle numerose mani che hanno continuato a compiere i gesti consueti anche dopo la chiusura della fabbrica. Perché questa ha forgiato le loro vite.
Il papavero rosso è in fiore, Sulla riva, Spaiata, solo una scarpa di pelle trascinata dalle onde, I lacci ancora annodati . Mentre il papavero si flette sgrondando La rugiada dai petali, La scarpa imbrattata Tira un sospiro, leggero Mentre il fiore si scrolla, La scarpa apre Le palpebre . In occhi profondi come un vecchio pozzo Forse Nessun paesaggio si riflette Perfino la memoria È bagnata fradicia, Al papavero non resta allungate le foglie, Che accarezzare Il dorso della scarpa, ora simile a un torace . ––––– Non puoi rompermi! Neppure le onde Riescono a trasportarmi Col mio tacco logoro E le grinze, Riavvolgono lo sguardo Del bambino che l’ha persa di vista Fino alla riva, Se il papavero sbirciasse Nel letto del pozzo Vedrebbe un fuoco ancora più trasparente Come la pinna dorsale di un minuscolo pesce . ––––– Il mare non può spegnere la luce Integra e sottile, dal fondo della mia esistenza Perché il mare È un enorme pupilla . Quale luce deve aver emesso In quel momento Velata di lacrime, mentre procedeva Verso il largo, E infuriava la burrasca, Inghiottita, già spaiata . ––––– L’anello di fiamma verde Disegnato attorno ai miei occhi L’avrà visto Il banco di sardine? . Ondeggia ancora il papavero No È il vento Nudo, sta in piedi Facendo cadere i petali Nel pozzo . La punta del laccio È un cordone ombelicale A cui il bambino prova ad aggrapparsi Fino al fondo delle pupille . Striscia giù
Un discorso da bar, l’andamento del mercato! Delle favolette, le quotazioni in borsa! Avanti, fallo! Deridili ancora di più! Ne ho abbastanza Di tutto questo nerume, di tutto questo Uniqlume
Rovinato! Eros Trascurato! Thanatos Resuscitali! Scomponili ancora di più! Questi cellulari incessanti Questo Microsoft disumano
––––– Ciò che ci avete fatto indossare non erano forse Le nostre divise nazionali? Prima del terremoto Noi Terrorizzati solo dallo tsunami di recessione
Questa È la nostra tuta protettiva La nostra resistenza Ai cavalloni Alti 6 metri sopportiamo No Non è più un costume da bagno?! Sembra annegare Il freddo globale Nel grembo del grottesco globalismo Alla Lehman Brothers I salarymen Non vogliono nulla Non dicono nulla Non fanno nulla, non fanno più nulla Ragazze, ragazzi, non-binary Nessuna procreazione unisex Ecco La divisione Dicono che non si fonderanno Gli spermio-neutroni
Sono stati abbandonati a loro stessi! Anche la cariocinesi Lasciata esposta! Pure il ventre del reattore, La barra combustibile (nenryōbō), gli elmetti antinfortunio (anzenbō), [gli ovociti (ransaibō), gli spilorci (kechinbō), i furfanti (dorobō), gl’impianti di condizionamento (reibō), i termosifoni (danbō), Gl’infanti (akanbō), i defunti (hotokenbō), [che affiorano sul grande oceano (ukabō), lì lì per gridare (orabō), L’edificio di contenimento divelto (buttobō), I frangiflutti (teibō), i complotti (inbō), il segretariato (kanbō), Unbelivabō Incredibō La TEPCO Indossa il suo Uniqlo A baluardo Dello tsunami Nel dome Si produce energia elettrica
Introduzione e traduzioni acura di Valeria Cassino, vincitrice della prima Call for Translators per il greco moderno.
“Sono una chimera, un essere ibrido tra animale e macchina, una poeta, un’architetta. La mia poetica si esprime inevitabilmente con i mezzi a mia disposizione, senza censurarne la molteplicità”. Nata ad Atene nel 1964, Phoebe Giannisi è poeta e architetta, ha un dottorato in Lettere Classiche e insegna presso l’Università della Tessaglia. Fondatrice e co-editrice della rivista “Mavro Mouseio” negli anni ’80, attualmente è membro della redazione di “FRMK”, rivista biennale di poesia, critica letteraria e arti visive, punto di riferimento nel panorama poetico greco contemporaneo, di cui Giannisi è una voce di spicco.
La sua ricerca si concentra sui confini tra poesia e performance, identità e metamorfosi, tempo e memoria, e indaga i legami della poesia con il corpo, la voce e lo spazio. Giannisi si inserisce nella tendenza tipica della poesia greca contemporanea definita come diakallitechnikotita, ovvero “trasversalità fra le arti”: il suo lavoro è frutto di un dialogo continuo fra espressioni artistiche diverse, parte da modelli archetipici per declinarli in nuove forme ed espanderli attraverso la sperimentazione transmediale. La lingua di Giannisi è disadorna, minimalista; tratteggia immagini apparentemente disarticolate fra loro, ma architettate con cura artigianale, che esplorano con icastica immediatezza la relazione del linguaggio con lo spazio urbano e naturale.
Dal 1995, anno del suo esordio con Achinoi (“Ricci di mare”), ha pubblicato otto raccolte poetiche, alcune delle quali sono state tradotte anche in inglese e in tedesco. Giannisi è stata inoltre inclusa nelle antologie di poeti greci contemporanei Futures. Poetry of the Greek Crisis (2015), a cura di Theodoros Chiotis, e Austerity Measures. The New Greek Poetry (2016), a cura di Karen Van Dyck.
Le poesie presentate in questo contributo appartengono alle raccolte Omirika (Kedros, 2009) e Rapsodia (Gutenberg, 2016). Omirikaintreccia la mitologia classica con l’esperienza moderna; personaggi, episodi e luoghi dell’Odissea sono i diversi tasselli della narrazione, che crea in questa raccolta un io polifonico attraverso cui parlare di temi come l’amore, lo straniero, la maternità, il viaggio, la memoria, la nostalgia. Ispirandosi inoltre alla tradizione orale dell’epica, Giannisi modella la propria poetica sperimentando con il ritmo, il suono, la ripetizione. Rapsodia è un’opera composita che racchiude più di cento poesie ed è il culmine di un progetto che comprende manoscritti poetici, performance, video, mostre e installazioni multimediali, fra cui spicca Tettix (“cicala” in greco antico), che si ispira all’associazione della figura del poeta con quella dell’insetto attraverso l’antica mitologia greca, la filosofia e la poesia.
Da Oμηρικά (2009)
Προοίμιο
μία πέτρα στον βυθό άσπρη σειρές από γαλάζια χαλίκια το μούτρο πάνω τους μες στο νερό η αναπήδηση της βάρκας στα κύματα πάνω στα κύματα ταχύτητα του αέρα η ώθηση πετάμε ένα μοναχικός γλάρος στην ξέρα συνέλευση γλάρων οι γλάροι κρώζουν ασταμάτητα κατά περιόδους σιωπούν όπως τα τζιτζίκια ο ασταμάτητος βόμβος τους απότομα παύει την ώρα της μεγαλύτερης αιθρίας της ζέστης του μεσημεριού με το αυτοκίνητο ο βόμβος των τζιτζικιών πιο συχνός πιο συνεχής πιο γρήγορος τα ξέχασες όλα δεν μπορείς να θυμηθείς το πώς αρχίζεις να ξεχνάς το τι Ας ήτανε το πώς μια επανάληψη του τι η λήθη των στιγμών για σένα φάρμακο ενάντια στου αμετάκλητου την λύπη με καλυμμένο το κεφάλι σε τόπο αχαρτογράφητο ακούς του εαυτού σου τον τραγουδιστή λέξεις του Κανενός δαήμονος ανδρός περιπλανήσεις αέρα θάλασσα λάθη ανεπίστρεπτα δώρα να αριθμεί ξέρεις καλά ότι η σειρά των τι είναι εαυτός αλλά άραγε να έμαθες πως η σειρά των πώς είναι ο άνεμος;
Proemio
una pietra sul fondo bianca serie di sassolini azzurri la faccia su di loro dentro l’acqua il sobbalzare della barca fra le onde velocità sulle onde la spinta del vento voliamo un gabbiano solitario sulla secca adunanza di gabbiani i gabbiani gracchiano senza sosta di tanto in tanto tacciono come le cicale il ronzio senza sosta interrompe brusco il tempo di maggior chiariore del caldo di mezzogiorno con la macchina il ronzio delle cicale più costante più continuo più veloce hai dimenticato tutto non riesci a ricordare il come inizi a dimenticare il cosa Se solo il come fosse una ripetizione del cosa l’oblio degli attimi per te medicina contro la tristezza dell’irrevocabile con il capo coperto in un luogo senza mappa ascolti il cantore di te stesso mentre conta parole di Nessuno il vagare di un uomo navigato aria mare errori irreversibili doni sai bene che la serie dei cosa è il sé ma hai forse imparato che la serie dei come è il vento?
Da Ραψωδία (2016), sezione “Τέττιξ”
Γενέθλια
Φαγουρίζουνε τα φτερά όταν βγαίνουν; όταν από την έξοδο της κοιλιάς έβγαλες πρώτα το κεφάλι και σπρώχνοντας από τον πόνο πετάχτηκες έξω στο φως για να φωνάξεις ήταν τα μάτια σου ανοιχτά; άκουσες τα λόγια αυτών που σε κρατούσαν βοηθώντας όλο το σώμα συστραμμένο μαζεμένο τα πόδια λυγισμένα και η μέρα ζεστή; μία γυναίκα γεννούσε στου αυτοκινήτου της το πάτωμα– κάθε μεγάλωμα άραγε πονάει σαν το πρώτο; δεν μεγαλώνει κανείς με τον ίδιο ρυθμό αδιόρατα; ή μήπως μετά από περιόδους στάσης αίφνης η κίνηση σε κατακτά κι αυξάνεσαι και ανυπόφορα αλλάζεις; πετάς από πάνω σου σαν το λουλούδι τα πέταλα μέσα στη δρόσο που ρουφάς κάτι παλιό και ξανά; κατοικημένος από της νύχτας τις αγωνίες ανοίγεις τα πρωινά σου μάτια ανάποδα να κοιτάξεις τον κόσμο; έχεις μαζέψει τ’ άστρα τα κρατάς στα χέρια τα σκορπάς στο χώμα την άμμο έχεις ψηλώσει πια το δέντρο εσύ στη μικρή σου σκιά μάς χωράς πιο ελαφρούς τώρα πιο ελαφρούς
Compleanno
Prudono le ali quando spuntano? quando dall’uscita del ventre hai tirato fuori prima la testa e spingendo dal dolore sei saltato fuori alla luce per urlare avevi gli occhi aperti? hai sentito le parole di quelli che ti tenevano aiutando il corpo tutto attorcigliato raggomitolato le gambe piegate e la giornata calda? una donna stava partorendo sul tappetino della sua macchina – forse ogni crescita fa male come la prima? non si cresce con lo stesso ritmo impercettibilmente? o forse dopo periodi di stasi all’improvviso il movimento ti possiede e cresci e cambi insopportabilmente? ti scrolli di dosso qualcosa di vecchio come un fiore i petali nella rugiada che succhi ancora e ancora? abitato dalle ansie della notte apri gli occhi mattutini per guardare il mondo sottosopra? hai raccolto le stelle le tieni in mano le spargi sulla terra sulla sabbia ormai sei diventato alto l’albero tu nella tua piccola ombra ci contieni più leggeri ora più leggeri
Sezione “Τ-ώρα”
Η παρούσα στιγμή
Ι
Ο άνεμος ο φέρων τις φωνές δροσίζοντας σαλεύει το μανίκι κουνάει του φουστανιού την άκρη ενώ στην άσφαλτο μπροστά στις ρόδες χορεύει το σπουργίτι με την πεταλούδα
ΙΙ
Ανοίγω το στόμα να μιλήσω αλλ’ αυτό σφίγγει τα δόντια κοχύλι εσύ λέξη κρυμμένη στο βυθό θαμμένη μαλάκιο ακίνητο στην άμμο με τις κεραίες προς τα μένα να σαλεύουν
ΙΙΙ
Γιατί η στιγμή είναι ασύλληπτη καθόλου παρούσα το «παρόν» «αυτό που είναι εδώ» χώρος αντί για χρόνο η γλώσσα την έλλειψη μιλά
ΙV
Γιατί διαφεύγει του νοήματος η γλώσσα τα λόγια μου η σκυτάλη ένα χαλίκι δανεισμένα αόριστα θυμίζουν μίαν άλλη παρουσία πριν από εμένα να ανοίγει δρόμο κι ο δρόμος όταν ξαναπατηθεί είναι δικός μου και δεν είναι κι ο δρόμος όταν ξαναπατηθεί έγινε λάκκος για να πέσω
V
Γιατί το χέρι που γράφει τα λόγια μιλά μία φωνή μοιράζει νέμει το πιο δικό σου φέροντας κι ας είναι δανεισμένο μοιράζει τον χρόνο σε κομμάτια μοιράζει προεκτείνει πέρα από όλους εμάς καλὰ καὶ ὕψι βιβὰς τα πόδια ψηλά με ρυθμό μουσική προς τον άλλο ανοίγεται προς τον ουρανό καθαρή αγάπη μέσα στην έλλειψη απολλώνειος χορός
πάνω στην προκυμαία το φεγγάρι αρνείται με τη σειρά του να βγει
L’attimo presente
I
Il vento foriero di voci rinfrescando muove la manica agita il lembo dell’abito mentre sull’asfalto davanti alle ruote il passero balla con la farfalla
II
Apro la bocca per parlare ma quella stringe i denti conchiglia tu parola nascosta sul fondale sepolta mollusco immobile sulla sabbia con le antenne che si muovono verso di me
III
Perché l’attimo è inafferrabile affatto presente il “presente” “ciò che è qui” spazio anziché tempo la lingua dice l’assenza
IV
Perché la lingua del senso rifugge le mie parole il testimone un sassolino prestate indefinite ricordano un’altra presenza prima di me che spiana la strada e la strada quando si calpesta ancora è mia e non lo è e la strada quando si calpesta ancora è diventata una fossa dove cadrò
V
Perché la mano che scrive le parole dice una voce divide distribuisce portando ciò che è tuo anche se è in prestito divide il tempo in frammenti divide estende oltre tutti noi a passi rapidi e eleganti le gambe in alto a ritmo musica verso l’altro si apre verso il cielo amore puro dentro l’assenza danza apollinea
sopra il molo la luna quando è il suo turno si rifiuta di spuntare
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