Macchine del diluvio è la quarta raccolta poetica di Stefano Massari (Roma, 1969), pubblicata a Marzo 2022 per MC edizioni nella collana Gli insetti. La sezione iniziale della raccolta, «primi dodici morti (1969-1996)» – insieme alla seconda sezione «figure del diluvio» e all’«(antefatto)» – contiene poesie composte dal 2010 al 2016. Le ultime due sezioni, «macchine del diluvio» e «diario nostro», contengono liriche elaborate dal 2016 al 2021. Questa raccolta di Stefano Massari si pone in un momento particolare della produzione dell’autore: guardando alle prime tre pubblicazioni – diario del pane, libro dei vivi, serie del ritorno – che costituiscono una specie di trittico, Macchine del diluvio arriva dopo un momento di silenzio autoimposto, un silenzio che l’autore stesso credeva definitivo.
È interessante vedere come il testo si apra con delle parole trascritte durante una seduta spiritica: «raccontare non è facile. le mie rinunce – le piango / ancora», in cui emerge sin da subito il tema della raccolta: chiamare chi c’è dall’altro lato, far riapparire figure che continuano a bruciare e consumarsi nella mente di coloro che vivono. La sezione d’apertura «primi dodici morti (1969-1996)» contiene dodici componimenti, ciascuno relativo all’esperienza di una morte – anche non diretta, cioè raccontata per bocche di altre persone, con uno scarto di tempo – di un personaggio. Non si tratta necessariamente solo di una morte corporale, ma anche esistenziale e generazionale, infatti, l’arco temporale indicato nel titolo comincia con l’anno di nascita dell’autore e il fatto che al centro del primo componimento (la prima delle dodici morti) ci sia l’io lirico bambino dà l’idea che la nascita stessa coincida con un elemento mortifero, con qualcosa di mancante in nuce.
I personaggi di questa prima sezione sono fantasmi familiari dal destino coatto, che ripetono le loro azioni in un esercizio di sfinimento cieco. Uno di questi è la madre, figura che pulisce e protegge. È lei che abita le stanze asfittiche della poesia «con gli occhi abituati al buio e le finestre sbarrate per paura dei topi dei servi e del caldo // con le unghie masticate fino all’alba e tutto il nervo del secolo addosso»; è incastrata in un meccanismo di ripetizioni senza uscita: «io non ho più fede in niente / ma non posso». La madre si muove nel testo di apertura con gesti di fatica e protezione che continuano a ripetersi senza interruzione né possibilità di un altro tipo di azione nella storia.
Αlla figura della madre se ne sovrappone un’altra, più oscura e laterale: il padre, di cui sentiamo il rumore delle bestemmie e dei pugni sulle porte di casa prima ancora di vederlo comparire nel buio. A completare questo albero genealogico disfatto sono i parenti di secondo grado, «il padre del padre» e «la madre della madre»: figure in macerie, deliranti, che sono separate e in contrapposizione rispetto ai figli «perduti e mai nati» le cui esistenze non sono nemmeno abbozzate, ma rimangono limitate all’ipotesi, all’assurdo.
ΙΙ
poi la madre della madre cullava qualcuno
che per sempre non c’era fissava qualcosa
che per sempre spariva stretta nella camicia
che puzzava di bianco la notte mi pisciava
di fianco e piangeva e si strappava i capelli
e chiamava madre sua figlia
un po’ d’acqua e nient’altro signora
tanto da questo male nessuno ritorna
signora
In mezzo a questa folla, tra fantasmi e apparizioni, si situa un noi, un soggetto plurale con radice anagrafica: «noi / gli interrotti condannati a tradire / addestrati a sparire». Tra i suoi interlocutori troviamo i fratelli e le sorelle, che sono stati spazzati via prima del tempo («crani di fratelli e le sorelle liquefatti troppo presto / troppo presto»). I loro strumenti di sparizione ritornano più volte nel testo: la corda, le siringhe, gli aghi sporchi. Queste sparizioni si inseriscono nelle due sezioni centrali («figure del diluvio» e «macchine del diluvio»), in cui si possono intravedere apparenti echi storici riconducibili agli anni Ottanta e Novanta («le leggi di falciare le vene» «le grandi femmine sovrane» «di urina e rivoluzione»).
Il soggetto plurale al centro della raccolta si caratterizza come superstite, sospeso in una frattura tra generazioni e fa i conti – attraverso tentativi di catalogazione – con ciò che rimane e ciò che si è perso durante il diluvio.
Il noi collettivo che è rimasto vivo deve raccogliere le morti improvvise e non assimilate degli scorsi decenni. Deve chiedere un perdono per chi è sparito troppo presto (e anche per se stesso) e deve farlo utilizzando un lessico di preghiera. La materia del testo – riferita, storica, concreta – viene incastrata in un edificio di parole sacre, tuttavia, questo campo semantico della sacralità è continuamente corrotto e sporcato dalle evidenze della storia: «poveri cristi e criste con le iene in testa / e lo sporco di dio sottopelle».
Ad attraversare tutta la raccolta è un monito, un giuramento infedele «che ogni cosa verrà generata ancora». Le figure tramiti di questa promessa di rigenerazione, le portatrici, sono le figure femminili («la nuda impaurita trafitta», «l’innamorata», «l’insanguinata», «la testimone», «la bambina con la morte» o «che piove senza pace e aspetta / sulle soglie») vengono poste come elementi liminari, spiragli di un futuro possibile, ma inefficaci, perché la rigenerazione si inceppa già nei suoi presupposti.
Ciò si spiega con il fatto che questa collettività femminile ha due funzioni principali: la prima consiste in uno sguardo retroattivo che serve a ribadire l’impotenza dei padri, che però è sempre santa («sulle gole delle sorelle che baciano / il padre morto come un talismano»). La paternità è un’eredità sfuggita di mano («alla destra di nostro padre terminale»): la sua impossibilità si configura nei confronti di un soggetto lirico che deve riconoscersi oggi nel ruolo di padre: «uova / di maschio mangiate sulle schiene / sporche e sfinite di padri prede e pietre / come pezzi di corpi che non nasceranno mai più» o almeno i padri non sono più distanti, lontani, incomprensibili e intraducibili e sono finalmente dei «padri impauriti che sorvegliano / la schiena del mondo e battono le mani le mattine / nere di freddo e si preparano all’odio e al lavoro /al cospetto dei giudici e i loro denti inauditi».
I personaggi più insoliti e interessanti che appaiono nella sezione centrale «macchine del diluvio» abitano un paesaggio infetto e desolato, hanno le sembianze di macchine organiche: «i grandi acciai animali scavatori», «gli uccelli fissi e idioti», «il verme cardanico», «la sorella carotide metallica»; in questa categoria si potrebbe includere lateralmente anche dio stesso: «chiunque tu sia perduto dio incompiuta bestia».
In Macchine del diluvio la scrittura si configura come un’operazione in minuscolo, in cui le spaziature sono le vene – spezzate dalla continua tensione – del corpo orizzontale del testo. «Una poesia contratta» la definisce Pasquale di Palmo, direttore della collana, i cui versi si articolano per blocchi sintagmatici. Guardando la struttura dei componimenti, verrebbe da notare che la terza sezione «macchine del diluvio» e la prima parte della quarta sezione «(roma-corale)», rispetto alle precedenti, presentino una più accentuata contrazione dei testi (di tre o quattro versi): qui i sintagmi nominali si accalcano evidenziando una maggiore urgenza del dire. Questi sono i testi più recenti, composti dal 2016 al 2021.
i morti ce li portiamo in bocca
non sappiamo come altro fare
La quarta sezione, «diario nostro», prosegue rannicchiandosi in un’intimità cercata: dalla pluralità di figure delle altre sezioni si passa a un dialogo tra una coppia di sopravvissuti: «la nostra notte / lentissima assurda verticale ora che ci raggiunge / ci semina e ci crede illesi ci lascia riposare». La raccolta si chiude sui toni di un dolore nudo e onesto, girato di schiena. Viene quasi da pensare che quelle dodici morti iniziali non siano effettivamente figure necessarie, attraverso cui si deve passare ogni notte, prima di trovare – o nella speranza di trovare – il sonno o il perdono.
Macchine del diluvio è un tentativo di scavo e riconciliazione con un mondo dal quale si è stati per molto tempo disconnessi, chiusi in solitudine. Quando si tira fuori la voce dopo un periodo di silenzio, la bocca è impastata e il peso della sillabazione si percepisce maggiormente, ma quel composto ritmico e materico che era in attesa preme per uscire – le parole allora si rivelano necessarie.
da (roma-corale)
XVII
chiunque tu sia allora sillaba contro sillaba
corpo madre cardinale giura che posso
ancora pronunciare questo ennesimo addio
curvo come un diluvio un digiuno una febbre
un calendario di prede e regole del bene
che finalmente posso entrare nell’unica tua
temperatura dell’alba1 perfetta e finale
- N.d.A.: «temperatura dell’alba» è un verso di Carlotta Cicci. ↩︎