Poesia e deindividuazione: su alcune tendenze delle scritture contemporanee

In questo contributo, Riccardo Socci riformula alcune questioni che ha già trattato durante un intervento nell’ambito del seminario Poètes-critiques dell’Università di Aix-Marseille e, soprattutto, nel saggio “Modi di deindividuazione” (Mimesis 2022), estendendo i limiti temporali dell’analisi, che in quello studio si fermavano sulla soglia degli anni 2000, ai nostri giorni.

Perché deindividuazione?

Come ho spiegato in maniera più distesa altrove, la preferenza che ho accordato a questo termine rispetto ad altri spesso usati nell’ambito della poesia lirica italiana dell’ultimo Novecento (come desoggettivazione o spersonalizzazione) è dovuta sostanzialmente a due riferimenti: il primo è Le radici dell’io di Charles Taylor – saggio fondamentale, a mio giudizio, per inquadrare la questione dell’io e del soggetto della poesia moderna –, nel quale il filosofo canadese pone un principio di individuazione alla base della costruzione del concetto moderno di soggetto e soggettività nella cultura e nella filosofia occidentali; il secondo riferimento è la celebre formula di Adorno, secondo cui il genere lirico si configurerebbe come il luogo in cui il poeta “spera di conseguire l’universale attraverso un’individuazione senza riserve”.

Che cosa intendo con deindividuazione?

Nelle mie intenzioni, questo termine non vuole delineare una categoria circoscritta ed esclusiva, ma un insieme variegato di fenomeni e di tendenze che attraversano diacronicamente buona parte della poesia italiana del Novecento[1] e che, a partire dagli anni ’80 e ’90, si manifestano a mio modo di vedere in maniera sempre più chiara.

Questi fenomeni riguardano da un lato i contenuti (l’aspetto forse meno interessante), dall’altro la forma. Sul piano contenutistico, riconduco alla deindividuazione tendenze e temi come l’eclissi dell’io empirico del poeta (e quindi dell’autobiografismo), l’ostentazione della marginalità del soggetto poetante, l’alienazione e l’estraneazione della prima persona, l’inconsistenza della sua identità, il carattere frammentario della sua esperienza nel mondo. Com’è evidente, questi sono discorsi che caratterizzano in vari modi molta poesia italiana del Novecento, dai crepuscolari in avanti.

Sul piano della forma e dello stile, possiamo invece rintracciare costanti quali la rimozione (totale o parziale) dell’io poetico, ossia della prima persona quale soggetto dell’enunciazione, il ricorso a “formule di debolezza conoscitiva” e a “interposte persone”[2], l’uso sistematico di pronomi personali indefiniti e di verbi impersonali e, più in generale, meccanismi testuali atti a relativizzare continuamente il discorso svolto del soggetto.

Si tratta di costanti che, combinate in maniera diversa da autore a autore, emergono con particolare evidenza nella poesia (e specificamente nella lirica) italiana degli anni’80 e ’90, ad esempio nei lavori di Mario Benedetti o Umberto Fiori. Questi poeti, come altri della generazione dei nati fra anni ’50 e ’60, sembrano in effetti negare la sintesi adorniana in due modi, fra loro complementari: in alcuni casi viene meno il principio stesso di individuazione, e la lirica cessa di essere un discorso dell’io, o abolendo del tutto la prima persona o adottando un soggetto dell’enunciazione impersonale e privo di tratti identitari e distintivi; in altri casi, l’individuazione ha luogo con riserva, ovvero soltanto se accompagnata da una serie di strategie discorsive atte a metterne in mostra la natura soggettiva, e dunque la parzialità.

A mio giudizio, il periodo compreso fra anni ’80 e ’90 rappresenta davvero uno spartiacque: la fine, sempre più definitiva, della tradizione centrale del nostro Novecento poetico e dei suoi paradigmi (il “classicismo lirico moderno”, come lo definisce Guido Mazzoni) ha comportato cambiamenti intervenuti nello statuto stesso di genere del discorso lirico. Questi cambiamenti hanno coinvolto in particolare la questione fondamentale del soggetto della poesia, un soggetto che già tra anni ’50 e ’60, com’è noto, era entrato in crisi: da un lato, in maniera esplicita, nelle opere della Neoavanguardia (la “riduzione dell’io quale produttore di significati”, secondo la formula di Alfredo Giuliani, e la “spersonalizzazione della scrittura” di cui parla Lucio Vetri), dall’altro, in maniera meno evidente ma più articolata – e per questo, a mio avviso, più interessante –  in quelle di autori ancora legati a un’idea tutto sommato tradizionale di poesia, come Vittorio Sereni, Amelia Rosselli, Giorgio Caproni o Mario Luzi.

L’importanza della Neoavanguardia, in particolare nel confutare quel principio di sovrapponibilità tra poesia e lirica di matrice romantica, è un dato ormai acquisito e ampiamente storicizzato. Tuttavia, com’è stato già fatto notare[3], se consideriamo la logica che sorregge il discorso letterario, il lavoro della Neoavanguardia non appare essere così innovativo rispetto a quanto avevano già fatto le avanguardie storiche in Italia e in Europa. Una differenza importante riguarda però gli effetti che i due movimenti sono riusciti a ottenere: mentre le seconde hanno segnato un momento di rottura circoscritto, che di fatto ha preceduto la stagione più importante della lirica novecentesca italiana, i primi hanno determinato davvero un’estensione decisiva e irreversibile del campo della poesia, giungendo nel momento in cui quella stagione stava ormai volgendo al termine e un nuovo periodo della storia della poesia italiana stava iniziando. Tra le varie cose, a mutare era stato innanzitutto il contesto dal punto di vista della sociologia della letteratura.

I cambiamenti di cui parlavo prima, intervenuti nel corso degli ultimi vent’anni del Novecento, vanno interpretati anche (forse soprattutto) come una forma di reazione a circostanze mutate, e in particolare alla perdita definitiva del mandato sociale del poeta, del suo ruolo istituzionalmente e pubblicamente riconosciuto, di cui molto si è già discusso.

C’è la consapevolezza, insomma, da parte degli autori di non potere più attuare nella scrittura poetica in generale e in quella lirica in particolare, il genere che per definizione e tradizione costituisce il discorso privato e idiosincratico di un io, quell’individuazione senza riserve di cui parlava Adorno. Questa presa di coscienza ha comportato una crisi che ha investito innanzitutto il soggetto stesso della poesia, determinando in alcuni autori una vera e propria fuoriuscita, almeno sul piano pronominale, dalla prima persona – penso ad esempio ai primi libri di Umberto Fiori.

Per arrivare ai nostri giorni, mi sembra che molte scritture poetiche contemporanee, liriche e non soltanto, partano proprio da questa domanda: come rientrare nella soggettività (o quantomeno, in una soggettività) in maniera credibile e non ingenua?

Chiaramente questo non è un discorso che vale per tutti. Molti autori si trovano ancora benissimo in posture oracolari e ipersoggettive, aggrappate al “mito delle origini” di cui parla Gianluigi Simonetti e ai riti magici della parola poetica, oppure in testi smaccatamente lirici, ingenuamente (o peggio, maliziosamente) espressivi o confessionali. Molti autori, in sostanza, non si pongono affatto il problema di come dire “io”, o del perché il lettore debba ascoltare la voce di questo io che gli parla degli affari propri, delle proprie idiosincrasie, delle proprie trasfigurazioni, e va bene così. Ma la mia simpatia di lettore non va per questo tipo di scritture, che mi sembrano del tutto anacronistiche e che pure, se consideriamo il totale dei libri di poesia pubblicati oggi in Italia, rappresentano ancora l’ampia maggioranza.

Allo stesso modo, però, in molti casi non mi entusiasmano quelle scritture poetiche che rinnegano in assoluto e a priori la soggettività, preferendo all’espressione della prima persona – o comunque di una qualche forma di voce individualizzata – la pura “mimesi della schizofrenia” collettiva del nostro tempo (per riprendere le parole dello stesso Giuliani), dell’impersonalità del linguaggio dal quale siamo parlati, dell’intercambiabilità e dell’insensatezza delle nostre esistenze private e così via. In buona sostanza, quelle scritture vocate all’oltranzismo che scelgono l’orizzontalità, l’omologazione e la neutralità di linguaggio e stile per rappresentare l’orizzontalità e l’omologazione della nostra società, l’apparente neutralità dei rapporti di forza che la governano o delle vite che gli individui conducono al suo interno. Mi sembra una limitazione autoimposta, troppo stringente e asfittica, sul piano stilistico, delle possibilità della scrittura, che rischia in molti casi di risolversi in un mero atto combinatorio, ripetibile all’infinito, e che aggiunge poco o nulla all’esperienza di mondo che già faccio.

Dove va la mia preferenza di lettore?

In estrema sintesi, per quelle scritture che mantengono vivo un certo grado di intenzionalità dell’autore, di soggettività del personaggio che prende la parola nel testo e del linguaggio e dello stile che usa per esprimersi. Quelle scritture, insomma, che, rifiutando l’idea anacronistica e postuma della poesia come pura espressione del sé, costruiscono forme di soggettività nuove attraverso un continuo atto di mediazione, di relativizzazione dello stesso soggetto poetante. Ecco, con deindividuazione intendo in sostanza questo tentativo che ha luogo nella scrittura poetica, e che si realizza sul piano formale e tematico secondo i modi che descrivevo brevemente all’inizio.

Qualche esempio testuale potrà forse essere utile a precisare il discorso.

Se, come detto, la prima persona egoriferita e autobiografica della lirica tradizionale non occupa più il centro della scena, possiamo chiederci quale sia il ruolo del soggetto poetico in questo tipo di scritture contemporanee. Sicuramente non è il portatore di esperienze eccezionali o esemplari (una postura, questa, che oggi sarebbe ridicola); piuttosto, è un individuo estroflesso che condivide una visione e un’esperienza parziali, estremamente limitate (quando non del tutto indeterminate), ma non per questo necessariamente insignificanti. Una delle costanti di molte scritture è quindi lo sdoppiamento (in certi casi la moltiplicazione) e la frammentazione del soggetto, che si guarda da fuori perché sa che non può correre il rischio di assolutizzare il proprio discorso, sprofondando in sé stesso, di esercitare la propria “fantasia dittatoriale”, secondo una formula di Friedrich, come avviene nella cosiddetta poesia pura, simbolista, ermetica, orfica, neo-orfica ecc. Questa fuoriuscita dall’io, rintracciabile in opere anche molto diverse fra loro (da quelle più liriche a quelle più vicine a un grado zero della scrittura), assume di frequente una connotazione esplicitamente metapoetica:

Guardo le nuvole sopra di me, sono un’idea,
sono l’immagine di un intero che mi sovrasta,
vedo me stesso come qualcuno che coglie
l’immagine di un intero dentro le nuvole che lo sovrastano.
[G. Mazzoni, La pura superficie, 2017]

Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica
ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome. […]
Alla fine torno all’io che finge di esistere,
ma è una busta come quelle usate per la spesa
piena di verdura o pesce surgelato.
Io con l’io mi nascondo.
[A. Anedda, Historiae, 2018]

Ho sedici anni.
Questa bestia che ho dentro in qualche modo deve uscire.
Ho zero anni.
Perdo i denti. A volte anche i capelli. Mi smarrisco nei labirinti. Sono su una macchina che non so guidare e mi vado a schiantare. La folla. Cado col lettino dal ballatoio della nonna. Non sono in picchiata ma il letto si disfa progressivamente fino a quando l’unica protezione contro lo schianto è la mia impronta sul materasso. Polvere e cenere in turbini. Mi va malissimo il compito in classe di matematica che devo svolgere.
Ho ventisei anni.
Ho molta paura. Giorni senza soluzione, senza fine. Come se il mondo fosse finito.
Ho ventisette anni.
Mi sono buttata dalla finestra: tre mesi di sedia a rotelle con le ossa rotte, prova solo a immaginarti la rabbia di una che si vuole ammazzare e resta imprigionata.
[P. S. Dolci, Diario del sonno, 2021]

Rendendosi conto che la propria esperienza di mondo non ha nulla di eccezionale o di esemplificativo, il soggetto della poesia cessa perlopiù di collocarsi al centro della scena, che spesso viene occupato da personaggi diversi dall’io. In molti casi, chi prende la parola esplicita la distinzione fra io empirico e io lirico (il legame fra questi due io cessa di svolgere una funzione normativa proprio fra anni ’70 e ’80), e si identifica di frequente con il ruolo di autore, più che quello di protagonista, esercitando nei testi la propria funzione normativa e intervenendo nel discorso come farebbe una sorta di narratore, più che un io lirico tradizionale:

Sono uscito a camminare verso il mare, ma devo negarlo
perché ero uscito e in realtà quasi subito
ho incontrato un platano e mi tocca di scriverlo,
anche se scrivere è di più che raccontare,
anche se raccontare è già difficile,
anche se il difficile è rientrare
a scrivere del platano,
a raccontare il platano
senza averlo davanti,
cercando di ricordare […].
[S. Dal Bianco, Ritorno a Planaval, 2001]

L’autrice si domanda
se sarà possibile parlare
della morte
senza parlare di dolore […].

Credo che verrò meno
a quel mio proposito iniziale;
non possiamo fingerci eterni […].

L’io è uscito
forse dal canale orale e la figura pare
ora tanto leggera, di carta.
Eppure non manca niente al corpo
è tutto ancora dentro,
uguale a prima, sì, ma spento.
[M. Lotter, Atlante di chi non parla, 2022]

In altri casi, il soggetto dell’enunciazione si identifica con figure marginali, o mescola la propria esperienza a quelle di molti altri personaggi, secondo un’impostazione del tutto orizzontale, creando effetti deindividuanti pur senza rinunciare a un grado minimo di soggettività del discorso, ossia rispettando l’inevitabile triangolazione fra scrittore, testo e lettore – laddove la lirica ipersoggettiva pretende di annullare l’ultimo, mentre la scrittura forzatamente impersonale, tendente a un grado zero della comunicazione, vorrebbe fingere che il primo non esista:

Collins che resta a orbitare sul Columbia mentre Armstrong e Aldrin scendono verso la Luna e lui li fotografa con la Terra sullo sfondo, in un’immagine che contiene l’umanità presente, passata e futura, tutti i vivi e i morti tranne lui, Collins, che parla con la radio e cerca conforto a Houston, fino a quando la massa della Luna si interpone tra lui e la Terra tagliando il collegamento e lasciandolo solo come nessun altro essere umano è mai stato tranne i sepolti vivi […]; Collins, il terzo astronauta, quello che pochi conoscono, quello che non è mai stato veramente sulla Luna, come gli verrà ricordato in tutte le interviste del futuro […]. Parlavo della possibilità che lei morisse, della paura, della non-paura che questa idea mi suscita, come se non appartenessi mai veramente, come se non amassi mai qualcosa per intero […].
[G. Mazzoni, Scatola nera, 2023]

Per un anno, quando ne hai trentadue, ti improv­visi imprenditore nel comparto dolciario, hai otte­nuto la qualifica di operatore edile alle strutture, ti sei fatto una posizione. Sei un esperto di taglio cabochon, di cloisonné e di archeologia indu­striale – hai pescato in un fiumicello uno storione mostruoso. Di fianco a te, nel bagno pubblico, il vecchio Humbert ha lasciato l’orinatoio sporco di sangue. Sei in coma farmacologico a seguito di un intervento d’emergenza, allettato in ospedale in una città che non conosci. 
Ti sei soffocata con un boccone in un’angurieria, procurata un ascesso al fegato o un enfisema su una petroliera. Soffri di un’affezione sconosciuta, sei cianotica, esanime. L’anomala secrezione di sostanze ormonali nel tuo organismo ha denunciato una recente insorgenza tumorale: stai morendo poco più che cinquantenne per una malattia che non lascia scampo; hai com­prato una djellaba come la volevi tu in un bazar in cui non entravi da anni, gettato con un’alzata di spalle il tuo grembiule guajiro…
[A. Broggi, , 2024]

Le voci in stazione si accumulano
in un modo che ti sovrasta in uno spazio
che non sai contenere. La torre è troppo alta
le mura si sono moltiplicate. Non sappiamo
parlare, intendo con questo entrare disarmati
nel vuoto, superato il primo inganno elementare.
L’impressione di riconoscersi è un fossile da cui
soffi via la terra la polvere. Una voce sola
lampeggia: non superare la linea gialla.
[S. Branca, Interferenze, 2024]

Un’ultima tendenza, per me molto significativa, riguarda i modi di costruzione del contesto enunciativo. Come ha illustrato Bernardelli[4], quello lirico tradizionale è un discorso che si svolge “in presenza”, ovvero assumendo aprioristicamente la presenza del lettore all’interno della scena enunciativa; facendo insomma finta che il lettore sia davvero lì, accanto al soggetto che parla. L’uso dei deittici che caratterizza l’incipit dell’Infinito di Leopardi è un caso esemplare: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe”. Se ci trovassimo all’interno di una situazione comunicativa normale, le prime domande che sorgerebbero spontanee sarebbero: quale colle? Quale siepe? Chi parla nel testo di Leopardi finge che il lettore sia presente lì accanto, che veda lo stesso paesaggio e che stia condividendo la stessa esperienza della prima persona.

In molti testi contemporanei avviene invece il contrario. Non essendo più la presenza di un lettore garantita, il soggetto costruisce la situazione e il contesto enunciativi mentre parla o, meglio, dopo avere iniziato a parlare. È un modo, a mio avviso, di cercare un piano condiviso di incontro con il lettore stesso, senza pretendere che l’altro da sé entri “senza riserve” all’interno del mondo del soggetto, senza esercitare in maniera ingenua e dittatoriale la propria fantasia, senza imporre all’altro, in nome di una supposta oggettività del discorso, la propria visione del mondo:

Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo, ma come se non fossi io.

Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.
[M. Benedetti, Umana gloria, 2004]

La strada è accidentata. Piove. Stiamo entrando nel paesaggio e cominciamo a distrarci camminando: a volte pensiamo a una persona in particolare, altre volte è solo l’idea di una persona. Seguiamo puntualmente il percorso: cosa c’è di fronte a noi? La linea azzurra di un corso d’acqua riflette le prospettive, la visuale si schiarisce. Non smettiamo di ridere, la cosa più importante per noi è che succeda qualcosa. […] In uno scenario che chiameremo “il paesaggio” è notte. Non ci interessano i dettagli geografici né qualsiasi specifica localizzazione, progrediamo attraverso la vegetazione. […] Cominceremo parlando sinceramente: non riuscivamo a uscire per strada a causa dell’eccesso di informazioni. Ogni persona che incontravamo o che vedevamo era un nuovo mondo possibile, una biografia in corso.
[A. Broggi, Noi, 2021]

La costruzione del contesto enunciativo, all’interno del quale ha luogo la comunicazione, è dunque un atto che spesso viene condiviso con il lettore nel testo, non prima. L’idea che tutti abbiano visto il mondo (il Natale, il parco, la strada) come lo ha visto il soggetto dell’enunciazione, nel suo modo parziale e individuale, non può essere data per scontata: con questa consapevolezza della propria parzialità è necessario fare i conti, pena l’ingenuità.

Tornando alla domanda iniziale – perché deindividuazione, e non desoggettivazione?–, la risposta, a questo punto, potrà forse essere più chiara: in questo insieme di scritture contemporanee, a volte anche molto diverse fra loro per forma e stile, a venire meno non è la soggettività, ma quel principio di individuazione che, stando a Adorno, dovrebbe caratterizzare in poesia il soggetto che prende la parola.

La poesia contemporanea che più mi interessa e mi appassiona come lettore non rinuncia al soggetto: lo problematizza, lo relativizza, lo attraversa. Rifiuta la verticalità del discorso esemplare e onnisciente, ma al contempo non rinnega la possibilità di una voce. Cerca di costruire forme plurali, parziali e non totalizzanti di esperienza (ma non per questo prive di senso), uno spazio di relazione con il lettore che può esistere solo quando chi comincia a scrivere esplicita innanzitutto la propria posizione nel mondo.


[1] Per una ricostruzione storica più completa e articolata di ciò che chiamo deindividuazione rimando al saggio citato all’inizio.

[2] Enrico Testa, Dopo la lirica (2005) e Per interposta persona (1999).

[3] Si veda ad esempio Carlucci: https://www.nazioneindiana.com/2013/03/11/note-sullinfluenza-della-neoavanguardia-italiana/

[4] Giuseppe Bernardelli, Il testo lirico. Logica e forma di un tipo letterario (2002).

 

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