L’utilizzo del “noi” e del “voi”, in quest’intervista del 7 ottobre 2024, è dovuto allo statuto peculiare della funzione autore nella letteratura post-esotica, statuto accomunabile per certi versi all’eteronimia. Antoine Volodine si vuole infatti unico “portavoce” di una letteratura scritta altrove, composta da una molteplicità di voci autoriali che, nella finzione post-esotica, abitano un universo concentrazionario e prendono il nome di “surnarratori”. Tra questi, Manuela Draeger, Elli Kronauer, Lutz Bassmann e lo stesso Antoine Volodine, eteronimo sui generis del solo individuo in carne ed ossa che congegna e dà alle stampe il post-esotismo. “Essere un collettivo”, scrive, “è qualcosa di molto delicato”. Si ringraziano Anna D’Elia, traduttrice del volume Liturgia del disprezzo, e la casa editrice 66thand2nd.
Lorenzo Petrachi: Il rapporto della letteratura post-esotica con l’attività di traduzione è tutt’altro che esteriore, al contrario, si potrebbe dire che è particolarmente stretto, forse persino costitutivo. In primo luogo, perché lei, Antoine Volodine, oltre che portaparola e delegato degli scrittori post-esotici – quanto a loro morti, imprigionati, impazziti, comunque sia impossibilitati a parlare da sé fuori dalle mura del loro universo concentrazionario –, è traduttore dal russo e dal portoghese di una letteratura che non appartiene agli orizzonti del post-esotismo (con l’eccezione degli Slogans di Maria Soudaïeva). Poi, e più fondamentalmente, perché i volumi che compaiono in libreria accompagnati dalle vostre firme costituiscono le prove materiali dell’esistenza di un altrove, rappresentano e veicolano una cultura non solo relativamente, ma assolutamente straniera. Nelle vostre parole, il post-esotismo è «una letteratura straniera scritta in francese», pensata in una lingua estranea al francese, indistinta quanto alla sua nazionalità. Per questo motivo, i vostri libri prendono forma in una «lingua di traduzione» da situare a valle rispetto a un originale inaccessibile, spurio e dall’esistenza comunque incerta. Qual è il rapporto tra questa traduzione primaria e quelle che ne derivano, come ad esempio quelle in lingua italiana? In che modo gli scrittori post-esotici affrontano la traduzione dei loro libri in più lingue, tutte estranee a diverso titolo al loro mondo e alle loro abitudini?
Antoine Volodine: È un grande piacere per me essere tradotto in una lingua straniera, e in particolare – siamo in Italia – in particolare in italiano, perché ciò che adesso è disponibile in traduzione non è un piccolo libro isolato, ma già una parte dell’edificio post-esotico. Infatti, Isabella Ferretti, che dirige 66thand2nd, ha in progetto di pubblicare tutto il post-esotismo, e sono davvero molto felice di vedere questo progetto prendere forma. Si sta concretizzando rapidamente e con costanza. Inoltre, ho una traduttrice straordinaria, Anna D’Elia, che ha recentemente tradotto – ma non era il primo libro che traduceva – Liturgia del disprezzo, ed è davvero molto piacevole sapere che questi testi, che hanno all’origine un’esistenza in lingua francese, riprendono vita in Italia in altro modo, grazie alla magia della traduzione. Per me, è un vero piacere sapere che i libri esistono in un altrove vicino o lontano e toccano un pubblico non francese, dialogando con un pubblico non francofono. È magico. E infatti, come lei ha sottolineato, il fatto che il post-esotismo esista in lingue diverse, comprese lingue poco abituali, come il coreano, il cinese, lo sloveno, fa parte di questa costruzione senza bandiera che è il post-esotismo. È un’estensione del nostro progetto, un superamento degli ostacoli che esistevano all’inizio, quando la nostra «letteratura straniera scritta in francese» restava meno accessibile, meno internazionalista. Oggi questa proclamazione internazionalista è meno astratta. In Italia, diventa profonda. Questo non cambia in nulla le nostre abitudini di scrittura, i nostri fondamenti ideologici, ma rafforza il nostro progetto. Molte lingue mancano all’appello, anche in Europa. Speriamo che la situazione evolva!
L.P.: Leggendo i vostri libri e le vostre interviste ciò che risalta immediatamente è il valore che attribuite a ciò che chiamerei l’autonomia di questo universo letterario. Un’autonomia che non si illude certo di essere assoluta e che forse non è ostentata, ma che risulta inaggirabile, dacché indica precisamente l’alterità propria al post-esotismo. Avete più volte sottolineato come questo enorme edificio letterario si sia formato senza tenere conto dei gusti, delle tendenze, delle tradizioni del mondo editoriale, senza badare a eredità e filiazioni nella «letteratura ufficiale», avendo cura soltanto di produrre qualcosa che vi piacesse – cioè che piacesse a voi e al vostro pubblico immaginario, caratterizzato significativamente dalla condivisione pressoché totale della vostra sensibilità, della vostra visione del mondo, delle vostre ribellioni. Nel concreto, questa alterità si è prodotta sistematicamente, lavorando con metodo affinché nomi, luoghi ed eventi non portassero alcuna traccia che potesse ricondurli a un territorio culturale preciso, impegnandovi in una ginnastica traduttiva operante tramite l’auto-censura, la sovrapposizione di filtri onirici e la proliferazione di generi letterari inediti (narrats, entrevoûtes, Shaggäs…). Forse è anche per questo che avete descritto la vostra scrittura come non tanto schizofrenica quanto «ostinata», come una scrittura che procede, incurante, per la sua strada. Cos’è in gioco in questa questione dell’autonomia? Si tratta con ogni evidenza di un nodo cruciale della vostra poetica, dal momento che riguarda la centralità quasi fondativa del piacere dello scrittore-lettore, il metodo teorizzato e messo in opera dai surnarratori post-esotici e, di conseguenza, il procedimento di scrittura che costituisce la letteratura post-esotica in quanto tale.
A.V.: Uno dei miei obiettivi, l’unico obiettivo, è scrivere per i lettori. Includere lettori e lettrici nelle opere post-esotiche che hanno tra le mani, condividere le nostre emozioni, le nostre avventure, i nostri percorsi, e, prima di tutto, le nostre immagini. I lettori sono, in una prima cerchia, in un primo tempo, lettori immaginari, che sono prigionieri e prigioniere in una prigione immaginaria, e che forniscono anche dei frammenti di testo sui quali lavorano gli eteronimi per creare libri che appaiono all’esterno, al di fuori dei muri della prigione. Questo è il principio. Una letteratura puramente carceraria che funziona a circuito chiuso, in cui tutte le ricerche formali e le immagini, le allusioni storiche, i segreti, i falsi segreti, i giochi, l’umorismo, sono composti in un’atmosfera estremamente complice, e che, una volta pubblicata, diventerà una sorta di letteratura di poetica e di cultura testimoniale, offerta ai simpatizzanti e ai lettori e alle lettrici delle librerie. Una sequenza letteraria strana, offerta a un pubblico vasto, un pubblico che è chiamato a unirsi, simpatizzando, ai fantasmi, alle storie filmate o teatralizzate, alle ruminazioni di autori immaginari, la cui creazione è molto diversa da ciò che chiamiamo «la letteratura ufficiale». Ma, ben inteso, si può anche mettere tra parentesi questo sfondo carcerario, questa presenza genetica di un coro immaginario di voci imprigionate. Scrivo, come anche lei ha sottolineato, per il piacere di creare qualcosa che è sì marginale nella letteratura, ma che al contempo cerca di avere una propria estetica, una propria bellezza. Non nascondo che per me scrivere è un piacere, mi fa stare bene. Anche quando i passaggi che attraversano i libri sono dolorosi o inquietanti. Per la mia primissima opera, Biographie comparée de Jorian Murgrave, scrivevo soprattutto per me stesso, come avevo fatto fin dall’infanzia. Non avevo ancora pubblicato e scrivere era un piacere solitario. Ma, dal secondo libro in poi, ho preso coscienza che scrivevo per lettori concreti. E, da quel momento, ho saputo di avere il compito di coinvolgere uomini e donne concreti in sequenze di immagini, di farli entrare nelle storie e, se possibile, di renderli parte dei mondi onirici che mi perseguitavano, che ci perseguitavano.
L.P.: Alcune immagini post-esotiche portano con sé un alone piuttosto caratteristico di indefinitezza e indecidibilità. Penso ad esempio a quei personaggi che vengono descritti come uccelli, senza altre specificazioni, e che vengono poi visti compiere gesti che richiedono evidentemente una costituzione e una postura antropomorfe, senza che per questo smettano di essere degli uccelli. Si sarebbe tentati di dire che queste immagini facciano parte del funzionamento della complicità post-esotica tra scrittori e lettori, i quali, avendo una cultura, una memoria, una sensibilità comuni e condividendo la stessa necessità di eludere lo sguardo onnipresente del nemico, non hanno bisogno di esplicitarle ulteriormente, temendo anzi di venir troppo compresi da chi è estraneo alla loro solidarietà tramante e sediziosa. Queste immagini ambigue sono tali anche nel braccio di massima sicurezza o scaturiscono al contrario quali effetti di traduzione?
A.V.: Non si tratta di una questione di traduzione. Si tratta di costruire effettivamente una cultura, come ha detto anche lei, una cultura condivisa tra lettori, narratori, surnarratori. Si tratta di fare in modo che i lettori si approprino di questa cultura durante la lettura e non siano disorientati da ciò che hanno sotto gli occhi e da ciò che, consapevolmente o inconsapevolmente, emerge nei loro stessi sistemi di immagini. È nostra responsabilità, in quanto autori (parlo a nome di tutti noi, Lutz Bassmann, Elli Kronauer, Manuela Draeger e altri), riuscire in questa immersione accompagnata del pubblico nei nostri libri. Ciò significa che alcune nozioni stabilite dal “senso comune” vadano alla deriva verso un mondo più onirico, senza che ciò disturbi la lettura. Lei ha infatti segnalato una porosità completa tra l’animale e l’umano, che non è decisa, non è decidibile, e che consente, penso, al lettore di sognare a modo suo, di introdursi in personaggi totalmente marginali, estremamente mal posizionati nel mondo. Nei nostri romanzi più recenti, questa porosità si estende anche tra viventi e non viventi. Molti dei nostri personaggi non appartengono al mondo dei viventi, ma agiscono con normalità (con una normalità relativa), sebbene ciò avvenga dopo la morte, in mondi oscuri (come in Black village) o luminosi (come in Terminus radioso). In generale, si potrebbe dire che tutti questi mondi sono «magici», un aggettivo che uso con cautela, poiché troppo utilizzato, a torto e a ragione. Ci organizziamo affinché lettori e lettrici siano trasportati là dentro e ammettano questa nuova normalità che offriamo loro…
L.P.: L’edificio post-esotico sta per completarsi con la pubblicazione del quarantanovesimo volume, il ciclopico Retour au Goudron, cui lavorate ormai da molto tempo e che verrà firmato col nome collettivo di Infernus Iohannes. Antoine Volodine ha recentemente pubblicato il suo ultimo romanzo, Vivre dans le feu, congedandosi in maniera tutt’altro che mesta dal mondo editoriale, mentre Manuela Draeger ha annunciato Arrêt sur enfance, quarantottesimo e dunque penultimo tassello del mosaico. Come hanno preso il ritiro Elli Kronauer e Lutz Bassman? E Volodine, cos’ha intenzione di fare adesso, raggiungerà «finalmente» gli altri nel braccio di massima sicurezza? Come immaginate, una volta stampata l’ultima frase, quel «mi taccio» [Je me tais] che chiuderà Retour au Goudron, la posterità di questo strano oggetto letterario che è il post-esotismo?
A.V.: Innanzitutto, è molto difficile immaginare una posterità. E d’altra parte, l’ultima frase – l’ho detto e ridetto – sarà proprio «Je me tais», taccio, e, dopo essermi taciuto, non farò più apparizioni pubbliche né pubblicazioni. Vedo che è molto informato sugli ultimi titoli. Effettivamente, Manuela Draeger pubblicherà tra qualche mese, nella primavera del 2025, Arrêt sur enfance, che sarà l’ultimo titolo dell’edificio post-esotico romanzesco propriamente detto. Abbiamo dato grande importanza alle voci femminili in tutte le nostre opere (qualunque ne sia stato l’autore) e Manuela Draeger ha firmato moltissimi testi dell’edificio: è normale che dopo «l’ultimo di Volodine» esca «l’ultimo di Manuela Draeger» per chiudere il ciclo. Poi ci sarà un’ultima performance. Se vogliamo considerare la scrittura del post-esotismo come una performance letteraria che si è svolta per quarant’anni, allora questo ciclopico Retour au Goudron è una performance nella performance. Firmato Infernus Iohannes, 4000 pagine e anche più, 4400 pagine, 343 brochure «bardiche», con fotografie, testi e rubriche regolari: un oggetto gigantesco che non può avere una sua esistenza editoriale e si presenterà quindi (almeno in un primo momento) come una scultura labirintica, posta nello spazio di un’esposizione. Una struttura a cerchi concentrici, artistica, architettonica, ipnotica, nella quale i visitatori (non avendo quindi più lo statuto di «lettori») saranno invitati a passeggiare e a immergervisi. Le 4400 pagine saranno esposte – è enorme. Un oggetto onirico, concreto, posato nel mondo reale da tutti gli autori post-esotici: la firma Infernus Iohannes è collettiva e raggruppa tutte le voci del post-esotismo, anonime e non anonime. Non ci sarà alcun testo firmato all’interno di queste innumerevoli pagine. Infernus Iohannes, lo ricordo, è già esistito editorialmente nel panorama francese con un libro uscito due anni fa, Débrouille-toi avec ton violeur. Ma nel caso di Retour au Goudron, che non vedrà la luce prima del 2026-2027, entreremo tutti in un’altra dimensione.
L.P.: In diverse occasioni, avete spiegato che il post-esotismo è nato a tastoni e intuitivamente, facendosi man mano, dunque senza un progetto ben definito a monte e senza seguire tracciati o costrizioni compositive particolarmente vincolati, del tipo Oulipo. Ora, a un passo dal completamento di tale edificio, in che modo è cambiata, se è cambiata, la vostra visione di questa impresa? Più in generale, qual è la temporalità propria alla letteratura post-esotica? Si tratta di una letteratura immobile o ha al contrario attraversato delle fasi? Come appaiono, retrospettivamente, i vostri primi quattro romanzi editi – tra cui Rituel du mépris, appena apparso in traduzione italiana – e che sono in qualche modo precedenti alla presa di coscienza di sé da parte del post-esotismo? A noi lettori, probabilmente con una bramosia del principio che non vi appartiene, viene senz’altro voglia di leggere Biographie comparée de Jorian Murgrave…
A.V.: I primi quattro libri che ho pubblicato non sono i primi quattro libri che ho scritto. Ho scritto moltissimo sin dall’infanzia, come si vede in Scrittori, dove figura l’episodio autobiografico del piccolo ragazzo preso da una trance di scrittura. Ho iniziato a pubblicare solo nel 1985, avevo 35 anni, e ho lasciato dietro di me numerosi manoscritti che non erano affatto destinati alla pubblicazione e che, peraltro, ho praticamente distrutto integralmente, secondo il principio «non lasciare tracce». Già in questi primi scritti c’era una sorta di slancio scritturale, di slancio nei temi, e nel modo di costruire i romanzi a partire da frammenti e da voci incrociate, che si ritrovano poi nei miei quattro primi libri pubblicati. Sono stati pubblicati in una collana di fantascienza, ma, per me, erano soprattutto e prima di tutto, marginali rispetto alla letteratura francese, e non segnati dal marchio della fantascienza. Non sapevo davvero cosa stessi facendo, semplicemente era per me chiaro che non mi collegavo a nessuna tradizione contemporanea ben definita. Avevo in mente molta letteratura sovietica, molta letteratura fantastica, molto surrealismo, molte influenze cinematografiche, ma ero consapevole di iniziare a camminare su un sentiero nuovo. E quindi ho continuato su questa scia, e infatti, è dopo una decina di romanzi, forse anche un po’ prima, che il progetto si è veramente cristallizzato per mostrare questa idea del post-esotismo come letteratura completa, a parte, totalitaria anch’essa, che non guarda né a destra né a sinistra, che non considera ciò che accade nella letteratura contemporanea, ma che si costruisce completamente, senza concessioni, con le proprie esigenze e le proprie regole. E poco a poco, effettivamente, ho camminato su questo sentiero, sempre con piacere, senza costrizioni, guardando indietro, senza rimpiangere ciò che avevo già pubblicato. I miei libri, i nostri libri, sono spesso molto diversi l’uno dall’altro. Nessuno, a mio avviso, deve essere considerato un errore, qualcosa da correggere o da dimenticare. Così, le stranezze narrative si sono completate per costituire un edificio che sta in piedi, e che noi rivendichiamo tutti senza sfumature. E oggi, dove l’edificio sta per essere coronato da questa performance, Retour au Goudron, non ho più quell’angoscia che a lungo ho provato. Avevo paura di non avere il tempo (per motivi fisici, di invecchiamento, medici, ecc. – ma mai per mancanza di ispirazione!) di terminare il progetto: di firmare 49 titoli e di scrivere la famosa frase «Je me tais». Ora, invece, posso tirare un sospiro di sollievo: è fatta!
L.P.: Forse da sempre, ma apparentemente con una centralità via via maggiore, uno dei motivi ricorrenti del post-esotismo è ciò che di recente ha descritto come la volontà o addirittura l’arte di riuscire a sopravvivere in un contesto sempre più sfavorevole e inospitale, rispetto cui ciò che abbiamo appreso non sempre risulta adeguato e sufficiente. Proprio quest’anno è comparso un suo scritto piuttosto atipico, un «racconto morale», le cui conclusioni sono così formulate: «Una volta nel Bardo, non contare troppo sulle Tesi d’aprile per uscirne». Non avete mai smesso di ribadire il vostro rifiuto di una letteratura che voglia imporre una visione del mondo o delle tesi, così come la disillusione degli scrittori post-esotici nei confronti del potenziale politico della letteratura. Ma d’altra parte avete anche sottolineato come, negli anni, la tonalità dei vostri libri sia andata modificandosi, accompagnando a suo modo la storia mondiale, le sue inversioni e i suoi crolli. Così, ad esempio, la fine dell’umanità è divenuta un tema più insistente, e oggi è davvero difficile, leggendovi, non pensare alla catastrofe ecologica e a tutta una serie di crisi conclamate e tra loro incrociate. Se il post-esotismo non vuole proporre niente di utile per confrontarsi con le sfide della contemporaneità, come dobbiamo intendere questo suo intervento inatteso nel dibattito francese che cerca di ripensare il rapporto tra letteratura e politica?
A.V.: Sin dall’inizio delle mie pubblicazioni, i libri che sono stati pubblicati erano caratterizzati da una riflessione politica profondamente rivoluzionaria, ribelle, con una visione del mondo marxista e che rimane tuttora totalmente marxista. Ma devo segnalare comunque che i miei primi libri sono esistiti in un momento in cui l’URSS esisteva e non era affatto pronta a scomparire. C’era nel mondo uno scontro tra, diciamo, una forma di socialismo e il capitalismo. Dopo gli anni di tumulto che hanno segnato la fine del XX secolo, l’alternativa tra socialismo e barbarie è cambiata e solo la barbarie è rimasta. Viviamo – a mio avviso, ma non sono l’unico a pensarla così – viviamo in un mondo barbaro. L’assenza di prospettiva è molto più grande rispetto agli anni ’80, quando uscivano i miei primi libri, in cui l’idea stessa della rivoluzione mondiale esisteva ancora. La rivoluzione mondiale non era un fantasma, un delirio militante, era concretamente davanti a noi. Oggi, siamo entrati in un periodo buio dell’umanità, ecco perché a partire dall’inizio del XXI secolo, si osserva un’evoluzione nel trattamento delle mie storie, dei miei personaggi. Per ogni autore, l’evoluzione è normale, e, anche se le mie opere “giovanili” sono rimaste nell’ombra, anche se, in un certo senso, i miei primi libri appartengono a un periodo di scrittura che si può definire “maturo”, il post-esotismo è evoluto. Non posso riscrivere all’infinito gli stessi libri. Mi sono interessato – dico “mi” per riferirmi a tutti gli autori post-esotici, Lutz Bassmann, Manuela Draeger, Elli Kronauer e Infernus Iohannes come collettivo – ci siamo interessati più spesso a destini individuali segnati da un cammino nell’aldilà. Il Bardo Thödol è il nostro faro poetico, Libro dei morti tibetani racconta che dopo la morte la vita continua. E quindi, se all’inizio nei nostri primi libri le storie già si situavano «dopo il crollo», «dopo la fine», con personaggi che si dibattevano negli incubi che seguono la catastrofe, nei nostri ultimi libri, il più delle volte, i personaggi hanno un altro status. Prima sopravvissuti, combattenti di una realtà amara e terribile nei primi titoli, diventano non viventi negli ultimi. Non si preoccupano più della catastrofe, sono in cammino verso la propria estinzione, sono passati in un aldilà della morte, in un aldilà dell’umanità. Intorno a loro il mondo è molto meno frenetico di quello descritto in Liturgia del disprezzo. L’estinzione del vivente è avvenuta, l’estinzione dell’umanità è quasi totale, come per l’elefante di Gli animali che amiamo, per esempio (o in Terminus radioso, o in Angeli minori, ecc.). Certamente, si può vedere qui non solo un’evoluzione dell’autore, ma anche il cambiamento di prospettiva che si è aperto fin dalla fine del XX secolo: la fine programmata dell’umanità, il suo suicidio inevitabile, la crescente prossimità della guerra nera generalizzata, ecc. Sempre più spesso i nostri personaggi accompagnano la fine e, con l’umorismo del disastro che ci caratterizza, pensano al fallimento di tutto ciò che è venuto prima. E quindi camminano nel buio, nelle ceneri della civiltà. Non combattono più come Moldscher in Liturgia del disprezzo.
L.P.: Da lettore appassionato e simpatizzante del post-esotismo, ho sempre cercato di accettarne le regole, consapevole che «il vero lettore del romanzo post-esotico è uno dei personaggi del post-esotismo». Ho dunque letto i vostri libri senza farmi troppe domande, perché la complicità presupposta tra scrittore e lettore implicava che io dovessi già conoscere le risposte e che i vuoti, le divagazioni, le menzogne contenute nel testo non erano rivolte a me, ma agli inquisitori estranei al nostro patto che a un certo punto, immancabilmente, l’avrebbero maneggiato, ponendogli domande senza risposta poiché, con le vostre parole, «non c’è nessun enigma, il libro sigilla un’alleanza amorosa che la bruttezza della politica e della guerra non può intaccare». Per questo, come probabilmente già saprete, non è un compito facile intervistarvi, bisogna cercare di schivare lo scenario dell’interrogatorio, dell’interpretazione, della spiegazione… Che rapporto avete con la critica, le letture e le interpretazioni più o meno accademiche della vostra opera? È possibile fare un’analisi non inquisitoriale?
A.V.: Ovviamente, non penso che i ricercatori siano degli inquisitori. Questo è scontato. La maggior parte sa che in Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, c’è una descrizione terribile dei critici che vengono in prigione a porre domande sul post-esotismo, sulle forme del post-esotismo, sulle tematiche del post-esotismo. E naturalmente, non possono fare a meno di essere imbarazzati e di dire: «spero di non essere come Niuki e Blotno che pongono queste domande»! Ma in realtà, ho ottimi rapporti con tutta la critica letteraria che, forse perché i miei libri sono abbastanza particolari, abbastanza ricchi, pone diverse questioni che sono interessanti anche per me. Quindi, certo, ho avuto l’occasione di leggere molti lavori accademici, in Francia in particolare, con approcci che non capisco dal punto di vista tecnico – non sono capace di comprendere un certo numero di questioni che si pongono sulla diegesi, sulla focalizzazione interna, ecc… sono cose che mi risultano piuttosto oscure. Perché personalmente non ho questa formazione e perché mi muovo a tentoni, nella mia scrittura, cercando essenzialmente di trasmettere immagini, impressioni, sogni. Ho le mie tecniche, un laboratorio davvero poco definibile, e la pretesa suprema di riuscire a entrare in contatto con il lettore e con la lettrice, di avviare un dialogo «da inconscio a inconscio». Tutto è spontaneo, non teorizzato, con molto lavoro. Non cerco, appunto – poco fa ha parlato di Oulipo – di obbedire rigorosamente a delle costrizioni che degli scrittori accademici potrebbero imporsi, per esempio: nella stesura del mio libro, a quale schema eterodiegetico o non so cosa risponderà questo personaggio?. Sto caricaturando, ma so che questo avvelena tutta la spontaneità di quegli scrittori che sanno sin troppe cose sul processo di scrittura. Questo tipo di questioni mi è estraneo. Ma lo accetto, e mi diverte anche molto essere analizzato. C’è un tipo di analisi che non ho mai visto fare finora ed è la psicoanalisi. E poiché ci sono moltissimi aspetti fantastici e onirici in ciò che scrivo, sono un po’ stupito che non ci sia stato un approccio psicoanalitico al post-esotismo. Ma forse è un bene che al momento non ci sia, perché potrebbe implicare il rischio di bloccarmi completamente sul finale. Di non riuscire a scrivere «Je me tais» e, al contrario, di sdraiarmi su un divano e parlare, parlare, parlare…
Nato in Francia (Chalon-en-Saône) nel 1950, ANTOINE VOLODINE è uno scrittore che sfugge a ogni classificazione.
Dopo un’attiva partecipazione al movimento del ’68, denunciando da allora le derive della «barbarie planetaria», si è dedicato a studi di lingua e letteratura russa. Con il romanzo Biografia comparata di Jorian Murgrave (Biographie comparée de Jorian Murgrave, 1985, nt) ha esordito nel genere della fantascienza, rivisitato con pratiche di sconfinamento linguistico e tematico in direzione dei grandi classici della sua formazione, da Lautréamont a Beckett, da Dostoevskij ai formalisti russi degli anni ’20, alla narrativa latinoamericana degli anni ’70. Nelle sue opere successive (Alto solo, 1991, nt; I nostri animali preferiti, Nos animaux préférés, 2006, nt; il romanzo Scrittori, Écrivains, 2010) ha sviluppato le sue pratiche di attraversamento dei più diversi generi letterari proponendo una concezione della scrittura come «arte marziale», corpo a corpo con gli stereotipi e i limiti della narrazione e del pensiero. I suoi testi hanno ricevuto numerosi premi, compresi i prestigiosi Prix Wepler e Prix du Livre Inter assegnati entrambi ad Angeli minori, edito in Italia da L’Orma Editore nel 2016. Nello stesso anno esce Terminus radioso (66thand2nd), vincitore del Prix Médicis 2014. Nel 2024 esce Liturgia del disprezzo (66thand2nd), dall’originale Rituel de mèpris.