Poeta e ancor prima scrittore, Aldo Nove pubblica il suo ultimo libro, Sonetti del giorno di quarzo (2022), nella collana Collezione di poesia di Einaudi.
Un canzoniere il suo, scanzonato e canzonatorio, che si rivela un «florilegio di miserie» in 350 sonetti, scritti dal 4 dicembre 2020 al 15 gennaio 2022 (con la piacevole incursione, ogni tanto, di sonetti più datati). In questi ultimi mesi sono stati pubblicati molti diari di narratori ed è sempre interessante vedere il pensiero della creazione al di qua della stesura, l’impalcatura dei libri che amiamo prima che vengano scritti.
Nove scrive di aver «traslocato in questi versi i giorni/ passati e gli improbabili futuri» ed è davanti agli occhi di tutti questo io che oscilla tra le acque di una tv continuamente accesa. Attraverso una metrica precisa e matematica Nove consegna al lettore «una forma d’addio/ a tutto quanto d’abitudinario». Un addio espresso in registri linguistici continuamente incrociati: l’alto, il basso, il di fianco e il di lato.
Non si fa segreto della passione smodata per «Avanti un altro!», «lui soltanto/ televisivo residuale incanto/ dalla mancanza di un qualche argomento/ che non sia questo tormento del vero/ che tale si dichiara e non lo è» (p. 205) e che guarda mentre mangia «la zuppa con i ceci/ scaldata al forno», a cui sono dedicate di volta in volta diverse poesie dai titoli sequenziali: «Bonolis I», «Bonolis II», «Bonolis III». Inconsueto poi che si scenda lungo il crinale di questa mascherata leggerezza per poi trovarsi davanti a poesie che per titolo hanno: «Suicidarsi».
Quando a 25 anni pubblicai
Woobinda e altre storie senza lieto
fine da Castelvecchi diventai
un classico. Ora sono un obsoleto
cinquantatreenne senza più lavoro,
senza casa, ammalato ed ancorato
a questo ottuso ultimo decoro
che non credo mi verrà pubblicato
se non post-mortem (p. 106).
I sonetti sono tutti perlopiù composti dai soliti quattordici versi endecasillabi sviluppati in due quartine a rima alternata e in due terzine a rima varia. Solo in pochi casi Nove aggiunge in chiusura un’altra terzina che segue le regole della precedente. È un testo di grande acume, solido, costruito con cura. È una continua dichiarazione di poetica, sia nella forma che nei contenuti:
Sono le tre di notte. «Sono», prima
persona singolare. E tra un istante
sarò le cinque e mezza e farò rima
col ticchettio dell’albeggio scostante
di ciò che fui tra un anno. […]
Forse, mentre nevicando
genererò miriadi di gemelli
di me che sono mari di cristalli,
frattali di un’infinità d’appelli
a cui risponderò che sono valli
e fiumi, e sono questo, e sono quello (p. 44).
Il testo di Nove, assieme a quello di Emilio Isgrò – Sì alla notte (Guanda, 2022) – è un volume che, in un tempo solo, segue il solco della tradizione per aprirsi alla novità. Sono infatti tanti i padri e le madri ideali del poeta, tanti i pilastri del Novecento verso cui mostra estrema gratitudine: Eugenio Montale, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Franco Loi, Franco Battiato, Amelia Rosselli, Gianni Rodari, solo per citarne alcuni. E da loro fa in modo di apprendere questo uso spesso ludico della poesia, questi versi nei quali si chiede l’assurdo in cambio di un briciolo di verosimiglianza:
Mi sono comperato un universo
a 39 euro. Lo proietto
sulla parete quando vado a letto
con il telecomando, e poi converso
con lui del perché sono e cosa devo
fare domani o quale senso ha avuto
quest’e quest’altro e lui rimane muto
similarmente a Dio, come sapevo (p. 221).