Introduzione e traduzione dall’arabo a cura di Enrica Fei
Si muove veloce il dolore (titolo originale: Sariʿan iataharrak al-ʿalam) è un poemetto di Ahmed Al ʿAjmii (1958, al Diraz, Bahrein), pubblicato nel 2016 dalla casa editrice omanita al-Ghasham. È un poemetto di 556 versi divisi in 146 brevi strofe di tre, quattro e cinque versi di cui proponiamo in questa traduzione alcuni estratti, corrispondenti ai primi 40 versi, una parte centrale e le ultime strofe. È un componimento dai toni cupi che racconta il dramma esistenziale di un uomo musulmano dinanzi alla guerra dello Stato Islamico dell’Iraq e Siria (ISIS), delle lotte intestine tra Sunniti e Sciiti, dell’autoritarismo dei paesi del Medio Oriente e del Golfo Persico.
L’opera si inserisce nella poetica araba contemporanea per l’irruzione dell’io, il prevalere dell’immagine – che in questo caso sono rappresentazioni del dolore vivide, fisiche, intrise di sangue ed elementi horror –, e il discostarsi dalla tradizione di impegno sociale per dare spazio all’impatto che la realtà ha sull’individuo, più che il ruolo che quest’ultimo può giocare nella società.
Al ʿAjmii, come uomo musulmano, esplora l’impatto doloroso che il tempo in cui si trova a vivere ha su di lui, un impatto che viene descritto come fisico, violento e, soprattutto, trasformante. Il nucleo tematico del poemetto – il tema della metamorfosi, del perturbante, del mostruoso che è dentro di noi e che viene risvegliato dall’inferno del reale – rende possibile definire Si muove veloce il dolore come la storia di un viaggio di (tras)formazione.
Per raccontare la fragilità del suo secolo, infatti, il poeta si fa amico degli esseri del fango e della notte e attraversa le valli del terrore, dentro e fuori di sé. Il cammino da lui intrapreso si traduce in una disintegrazione fisica durante la quale incontra fantasmi che lo scherniscono, entità malvagie e superiori che lo perseguitano, compagni che sembrano aiutarlo ma che si rivelano, anch’essi, corrotti. Per tutto il viaggio, il poeta si interroga sul libro sacro, il Corano, cercando invano una risposta al perché delle lotte fratricide. Nel finale, si rivolge direttamente al Cielo, chiedendogli se esiste e rimproverandogli di non aver agito in nessun modo per fermare il male.
Ahmed Al Ajmii
Ahmed Al ʿAjmii ha iniziato i suoi studi in Letteratura Araba nel 1976 presso la Kuwait University. Come segretario della National Union of Bahrain Students, ha scritto poesie di resistenza e lotta studentesca ma, a causa della sua attività politica, è stato espulso dall’università e dal Kuwait. Ha ripreso gli studi presso la Beirut University dove si è laureato in Lingua e Letteratura Araba. Dal 1987 ad oggi ha pubblicato 18 raccolte di poesie, due saggi – uno sulla cultura democratica, e uno sulla poetica araba contemporanea – e un romanzo sulla vita di un detenuto politico (tratto da una storia vera ma in forma di fiction letteraria). Dal 1980 al 2011 è stato membro della “Famiglia di Letterati e Scrittori”, una delle principali istituzioni letterarie e culturali del paese dal 1969, anno della sua fondazione. A seguito della posizione politica assunta dalla Famiglia in occasione delle proteste del 2011 (nel quadro della cosiddetta Primavera Araba che ha riguardato anche il Bahrein), ha dato però le sue dimissioni.
Al ʿAjmii ha infatti preso parte attivamente alle proteste scendendo in piazza contro la famiglia sunnita regnante, gli Al Khalifa, e la loro feroce repressione della comunità sciita, di cui Al Ajmii fa parte, che in Bahrein costituisce, in realtà, la maggioranza della popolazione. Vive a Manama, la capitale, dove continua la sua attività poetica e organizza eventi culturali.
Il Bahrein: tensioni solo apparentemente religiose
Nelle interviste rilasciate in patria, il poeta Ahmed Al ʿAjmii ha indicato nell’ecatombe causata dall’ISIS le ragioni profonde dello smarrimento di cui narra il poema Si muove veloce il dolore il dolore, per un uomo musulmano, di assistere impotente alle stragi causate in nome della sua religione. La sua solitudine, inoltre, indica il non riuscire ad identificarsi con alcun gruppo musulmano attualmente attivo in Medio Oriente. Sono chiari, anche, i riferimenti all’autoritarismo mediorientale, seppur non citati esplicitamente. Considerando la feroce repressione in Bahrein della comunità sciita di cui il poeta fa parte, nominare gli Al Khalifa, la famiglia regnante al momento in carica nel paese, avrebbe sicuramente portato alla censura.
La realtà socio-politica del Bahrein, però, è senza dubbio peculiare e, essendo sconosciuta ai più, merita una breve digressione. Il Bahrein è una piccola isola del Golfo Persico di poco più di 500 kilometri quadrati. Per quanto l’industria petrolifera sia dominante, è più povero e, a livello geopolitico, meno potente delle altre monarchie arabe del Golfo Persico (come gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita o il Kuwait). Inoltre, a differenze di questi altri stati, ha una popolazione indigena che non si può definire tribale.
Fino alla fine del diciottesimo secolo, la piccola isola e i suoi abitanti erano sotto il dominio dell’Impero Persiano (l’odierno Iran). A differenza delle bellicose tribù dell’Arabia centrale (l’odierna Arabia Saudita), la sua popolazione era pacifica, sedentaria, e dedita alla pastorizia e all’agricoltura. Erano i “Baharna”, come si fanno chiamare ancora oggi. Le tribù del Najd, invece, (Arabia centrale), erano nomadi. L’ostilità climatica delle loro terre li portava spesso a spostarsi e, a seguito di invasioni e guerre, a conquistare territori più miti. Nel 1783, secondo la tradizione, la famiglia tribale degli al-Khalifa migrò dall’Arabia centrale e conquistò l’isola. Poco dopo l’insediamento, fu imposto un sistema feudale, che discriminava i Baharna e favoriva le famiglie tribali. Con l’avvento degli al-Khalifa, infatti, molte tribù si erano mosse dal Najd al Bahrein: essendo un’isola, il clima era più mite, le terre più redditizie e la pastorizia possibile. La famiglia degli al-Khalifa è ancora la famiglia regnante. Sarebbero diventati monarchi nel 1820, quando i Britannici (sotto la cui sfera di influenza rientrava il Bahrein), al fine di sigillare un’alleanza che controbilanciasse l’Impero Persiano nella regione, li dichiarò tali.
Molti dei Baharna, già dai tempi della conquista, erano fuggiti in Iran (allora, Impero Persiano). Soggetti a discriminazione, costretti a lavorare la terra e a cederne i frutti alle famiglie tribali alleate degli al-Khalifa, il risentimento nei confronti dei regnanti, percepiti come illegittimi invasori, si sarebbe formato già nel diciannovesimo secolo, per poi incancrenirsi nel corso del secolo successivo. I monarchi e le famiglie alleate, non solo non erano indigene; non solo, a differenza dei Baharna, gli autoctoni, che erano sempre stati sedentari, erano di tradizione tribale e beduina (vale a dire, prima di insediarsi nell’isola, erano nomadi); professavano anche una corrente dell’Islam che non era la loro. Erano, infatti, sunniti; mentre i Baharna, da sempre, sciiti.
Fin dai tempi della scissione tra sunniti e sciiti, la popolazione del Bahrain aveva sposato la causa di ʿAli bin Abi Talib, cugino e genero di Maometto, ed era quindi sciita. Ad oggi, gli sciiti rappresentano la netta minoranza del mondo musulmano (non costituiscono più del 15%). Sono, però, la maggioranza in Iran, Iraq e, appunto, in Bahrein. In quest’ultimo stato, in realtà, ormai non più (si stima un approssimativo 50%). La popolazione dell’isola, infatti, ha subìto varie ondate di “social engineering”: attraverso l’espulsione e la rimozione della cittadinanza di varie figure sciite di spicco, o l’elargizione della doppia cittadinanza a sauditi, pakistani, giordani (presumibilmente sunniti), il regime degli al-Khalifa è riuscito, nel tempo, a cambiare la demografia del Paese. Molti giovani sciiti, inoltre, subendo forti discriminazioni, sono stati costretti all’esilio. Moltissimi lasciano il paese non riuscendo a trovare lavoro a causa, evidentemente, della loro confessione religiosa.
È difficile riuscire a comprendere la natura del conflitto tra sunniti e sciiti, non solo in Bahrein, ma in numerose realtà del Medio Oriente. È facile indulgere nell’assunto orientalista secondo il quale, trattandosi di musulmani, la religione ha un ruolo centrale e, nonostante le differenze tra sciiti e sunniti non siano poi così cruciali, scoppino addirittura guerre guidate da uomini fanatici e barbuti. La realtà è più complessa e non prende le forme di una discriminazione religiosa: in Bahrein ciascuna festività propriamente sciita è consentita e rispettata; il Re, anzi, manderà perfino i suoi migliori auguri. È, semmai, di natura politica: la denominazione “sunniti” o “sciiti” dovrebbe essere intesa come una fra tante altre di natura politica che, in un determinato contesto, si sviluppa attraverso i decenni in un binomio di competizione (“repubblicani” e “democratici” nel contesto americano, ad esempio). Gli sciiti del Bahrein sono politicamente discriminati: il principale partito d’opposizione sciita in Bahrain, al-Wefaq, è stato sciolto nel 2016 e, tramite un decreto che impedisce a membri di ex congregazioni politiche di ricandidarsi alle elezioni, i suoi membri sono stati banditi dall’arena politica. Sarebbe un errore, però, leggere questa discriminazione in termini “identitari”: le ragioni di questa discriminazione sono da individuarsi nel timore che l’Iran – temuto come super potenza rivale dell’Arabia Saudita, potente alleato degli Al-Khalifa – possa foraggiare al-Wefaq al fine di esercitare la sua influenza nel piccolo paese del Bahrein. L’Iran è, sì, una Repubblica Islamica Sciita, ma sarebbe di nuovo un errore vedere in questo possibile supporto militare iraniano (per il quale non ci sono prove) una ragione ultima di natura religiosa (Hamas, partito politico e milizia attiva nella Striscia di Gaza foraggiato dall’Iran, è di stampo sunnita, ad esempio). Si tratta, ancora, di ragioni politiche: gli al-Khalifa, come detto, sono storicamente un forte alleato dell’Arabia Saudita e quest’ultima, possedendo similare peso geopolitico nell’area alla potenza iraniana e avendo simili aspirazioni di influenza regionale, è una forte rivale dell’Iran.
سريعاً يتحرّكُ الألم
ليس هذا هو العالمُ الذي ولدتُ لأجله.
vv. 1-38 / 49-51/ 70-72 / 77-88 / 518-526
زمنٌ آخرُ، غيرُ الذي حلمتُ به،
ولم يكنْ جديراً بمهامِه
في تحويلي إلى إنسانٍ جديد.
زمنٌ قطعَ لساني بسرعة
وأبقى كلماتي محتجزةً،
في قاعِه، ككوماتِ خزف.
مازلتُ أصغي إلى بذاءاتِه
المكتوبةِ باليقين،
وأستمدُّ أفكاري من عظامِه المرقّقة.
فيه انجرفتُ إلى سَفحِ الدّمِ،
وصادقتُ يرقاتِ الظلمةِ
المحشورةَ وسطَ أكبر كذبة،
تُسمّى الطُمأنينةُ والسلام.
هرباً من مراعي الخوف،
صنعتُ لنفسي ربّاً متوحّشاً،
وصرتُ أخشاه، أرتعبُ من عقلِه،
وساديّتِه.
حتى اللحظةِ، لم أرَ أفكاراً للنجوم،
في هذا الكتابِ القديمِ،
المنسوبِ إلى عصافيرَ طينية.
تُعساً، ثُقِبَ عقلي بقرنِ اللاهوت،
ومن الفمِ الملوثِ
تركتُ مُخيلتي تروي هشاشتَها.
أكبرُ أشباحِ الحقيقةِ
دفنتُ روحي فيه، ونسيتُ
في صدرهِ قلبي مدةً
أطولَ من تثاؤبِ الموت.
رأيتُ وميضَ السواد يُغذي الخوفَ،
وينقلُ الشمسَ إلى مزرعةٍ مسكونةٍ
بالبطلانِ، وبالمفاهيمِ القاتلة.
أصرخُ في ذاتي، فيرجعُ صداي
كصوتِ مزمارٍ مُنهك،
مُغطى بما يتناثرُ من أحزان،
بما يسيلُ من بلعومِ الشمس.
عشتُ دهوراً
في حمّى الكآبة،
إلى ظهرِ الخواءِ أُسندُ نظراتي
دونَ رؤيةِ أثرٍ لابتسامةِ الفجر.
[…]
بمصباحٍ أعمى، في غاباتِ البكاءِ،
استمرت هرولتي
دونَ الابتعادِ عن فوّهةِ العذاب.
[…]
السحرُ سريري، والدجلُ وسادتي،
وأرغبُ، كثيراً، في مواصلةِ النوم
ورؤيةِ سحابةٍ تُمطرُ التخلّفَ.
[…]
صارَ رأسي بالونةً
يملؤها بخارٌ مهزومٌ،
وتطفو في فضاءٍ شاحبٍ
نسجته يدٌ عطشانةٌ، مقطوعةٌ من الجسد.
في كبسولةٍ خانقةٍ، بحثاً عن الخرس،
يتواصلُ دوراني حولَ
صخرةِ الغثيان، الشبيهةِ بثدي القداسة.
ما أراه، ليس سوى اشتعالٍ للدموع،
وما أسمعُه، ليس أكثرَ من دقةِ ناقوسٍ
تدعو إلى إشاعةِ التمزّق،
وإهدارِ دمِ النهار.
[…]
جوهري يدورُ في طلاسمِه البعيدة،
العدمُ طائرٌ جارحٌ
محبوسٌ في قفصِ الصدر.
أين كينونتي، أريدُها
في الرمادِ المطلق،
لأسمعَ صوتي بلسانِها؟
Si muove veloce il dolore
Questo non è il mondo per cui sono nato
vv. 1-38 / 49-51/ 70-72 / 77-88 / 518-526
Un altro tempo, non è quello che sognai,
non era all’altezza, il tempo, del suo compito
nel trasformarmi in un uomo nuovo.
Un tempo che, veloce, ha tagliato la mia lingua,
sono rimaste in ostaggio, le mie parole
come seppellite, nel profondo, sotto a un cumulo di ceramiche intagliate.
Con attenzione ascolto ancora l’oscenità di questo tempo,
le sue parole certe,
e i miei pensieri nascono dalle sue ossa fini e fragili.
Mi porta via il tempo, fino al limite del sangue.
Divento amico delle larve della notte
che affollano il cuore della più grande menzogna,
chiamata salvezza, pace.
Fuggendo dalle valli del terrore,
un Dio mostruoso ho costruito per me.
Ho paura, mi spaventa il suo intelletto,
il suo piacere per il mio dolore.
Ancora non trovo il pensiero delle stelle
in questo libro antico,
consegnato al fango, ai suoi uccelli.
Nella tristezza, la mia mente è trafitta dal corno del divino.
Con parole sporche,
ho lasciato che la mia immaginazione si imbevesse di fragilità.
Della verità il più grande dei fantasmi,
dentro di lui la mia anima ho seppellito, e ho dimenticato
il mio cuore nel suo petto, per un tempo
più lungo della morte, che sbadiglia indifferente.
Ho visto il bagliore delle tenebre nutrire la paura,
e spostare il sole sopra un campo posseduto
dalla falsità, gli assassinii, le astrazioni della morte.
Urlo entro i confini di me stesso, e la mia eco torna indietro
come la voce di un antico flauto, consumato e stanco,
avvolto da ciò che sparge il dolore,
ciò che scorre dalla faringe del sole.
Ho vissuto ere
nella febbre della melanconia,
sulle spalle del vuoto ho appoggiato i miei pensieri.
Nessuna traccia antica del sorriso dell’aurora.
[…]
Con una lanterna cieca, nelle foreste del pianto,
la mia corsa lenta è continuata,
senza mai allontanarsi dal cratere del tormento.
[…]
Il maleficio è il mio letto, e l’inganno il mio cuscino.
Desidero, tanto, proseguire nel mio sonno,
il sogno delle nuvole, da cui piove l’ignoranza.
[…]
La mia testa è diventata un pallone,
i fumi della sconfitta lo riempiono.
Fluttua nello spazio pallido,
tesse le fila una mano esangue, amputata dal corpo.
In una navicella senza aria, alla ricerca del silenzio muto,
il mio giro vorticoso continua intorno
la roccia della nausea.
È simile, nelle forme, ai seni della santità.
Ciò che vedo, non è che l’esplosione infuocata delle stelle,
ciò che sento, non è che un solo gong,
chiama al diffondersi dello squarcio,
lo sperpero del fiume di sangue.
[…]
Fantasmi mi circondano,
ridono di me,
perché credo nella ragione.
I miei compagni sono alberi che rifiutano di restare saldi.
Assenza di vuoto, esisti?
Nel freddo pungente,
non ho sentito battere i tuoi denti,
non una parola tremante è stata versata da te.