Le radici della violenza sulla punta della lingua: Eva Maria Leuenberger

Introduzione e traduzioni dal tedesco a cura di Dafne Graziano, vincitrice della call for translators “Poesia e Violenza”.

Eva Maria Leuenberger (1991) è nata a Berna e attualmente vive a Bienne. È stata finalista al concorso «open mike» di Berlino nelle edizioni 2014 e 2017 e vincitrice del premio «Weiterschreiben» della città di Berna nel 2016. Nel 2019 ha pubblicato per la casa editrice Droschl dekarnation, la sua prima raccolta di poesie, che le è valso, tra i vari premi, il «Basler Lyrikpreis». Nel 2021 è uscita, sempre per Droschl, la sua seconda raccolta, kyung.

Ciò che colpisce dei versi di Leuenberger è l’uso di una lingua scarna e al contempo vivida, che attinge all’essenza della parola per scandagliare la realtà e rivelarne l’essenza più autentica, anche tramite la scelta di temi non convenzionali. Nonostante kyung sia solamente il secondo lavoro della poeta, nella raccolta si nota già uno stile ben definito, che viene qui portato a un ipotetico punto di non ritorno rispetto all’opera precedente. Infatti, se in dekarnation l’autrice mette in luce la brutalità di una natura personificata e senza bellezza, il cui corpo simbolico viene progressivamente scarnificato e ricondotto a una forma primordiale tramite il bisturi della lingua, in kyung la dissezione della parola opera su un corpo umano, quello dell’artista e scrittrice Theresa Hak Kyung Cha, violentata e uccisa a New York negli anni Ottanta a pochi giorni dalla pubblicazione del suo primo e unico romanzo, Dictée (1982). Ripartendo dall’attimo in cui si consuma la tragedia, Leuenberger recupera i capi di quel filo spezzato prematuramente, mettendo in luce «la chiarezza della violenza» e rievocando nei suoi versi «una voce morta da anni» attraverso immagini ricorrenti nella poesia di Leuenberger e già consolidate dall’uso (corpi che cadono a terra, mani attorno al collo, ali che spuntano dalle scapole) che le conferiscono un’atmosfera a tratti onirica e perturbante. In sottofondo, va e viene l’eco dei brani tratti da Dictée, opera multilingue e innovativa con cui l’autrice traccia un toccante parallelismo.

Definita dalla Berliner Zeitung «(una voce) unica nel suo genere», quella di Leuenberger è a tutti gli effetti una poesia non convenzionale, che, se anche non si illude di poter cancellare la violenza che pervade la realtà, sceglie però di metterla a nudo, di sezionarne i vari strati, fino a estrarne il cuore pulsante. Con la stessa precisione chirurgica, i suoi versi si incidono nella mente di chi legge e lasciano ferite destinate a cicatrizzarsi senza mai scomparire del tutto.


Da kyung (Droschl, 2021)

die stimme

stößt löcher in die zeit

die grenzen verwischen

die pronomen verwischen

gesichter in der nacht

die toten körper im parkhaus

            eine frau verschwindet

            in den pixeln eines bildschirmes

als wäre die zeit

ein klarer fluss

            der rückwärts fliesst

als wäre die zeit

als wäre der schnee

als wüsste der körper

die eigene zukunft


la voce

pianta buchi nel tempo

spariscono i confini

spariscono i pronomi

volti nella notte

i corpi morti nel parcheggio

            una donna scompare

            nei pixel di uno schermo

come se il tempo fosse

un fiume limpido

            che scorre all’indietro

come se il tempo fosse

come se la neve fosse

come se il corpo conoscesse il proprio futuro


hier ist dein körper – dein pfund aus fleisch

                               my love, regarde-moi –

du beneidest die klarheit der gewalt.

here it is. der tiefste punkt der nacht.

du beneidest den klaren grund,

die wurzel, aus der den tod in den bauch wächst

klarheit und kasualität.

es tut dir leid.

es tut mir leid.

                        die haut

                                       sehnt sich nach feuer


ecco il tuo corpo – la tua libbra di carne

                               my love, regarde-moi –

invidi la chiarezza della violenza.

here it is. il punto più profondo della notte.

invidi il motivo chiaro,

la radice da cui nel tuo ventre cresci la morte

chiarezza e casualità.

ti dispiace.

mi dispiace.

                         la pelle

                                        si strugge

                                     di desiderio per il fuoco


die frau beobachtet ihren körper

das publikum schaut sie an

während ihr körper

sich öffnet, zu etwas altem, oder neuem

                                   interdiffusion der zeit

du beobachtest das publikum

beobachtest das publikum, das dich anschaut

während dein körper sich öffnet

aus dem schultern wachsen flügel

im mund klingt ein neuer ton

eine parade aus schönen toten mädchen

mit glocken im mund

klingelnd wie farrähder

die füße zerschnitten

aus den knöcheln

wachsen räder

und die flügel

aus den schulterblattern


la donna osserva il proprio corpo

il pubblico la guarda

mentre il suo corpo

si apre, a qualcosa di vecchio, o di nuovo

                        interdiffusione del tempo

osservi il pubblico

osservi il pubblico che ti guarda

mentre il tuo corpo si apre

dalle spalle spuntano ali

in bocca un suono nuovo

una parata di belle ragazze morte

con campane in bocca

suonano come biciclette

i piedi tagliuzzati

dalle caviglie

spuntano ruote

e le ali

dalle scapole


theresa hak kyung cha hatte schwarze haare.

meine haare sind rot.

ich suche einen körper

und finde ihn unter einer decke

aus schwarzem haar

er ist spröde

bricht wie die zweige im unterholz

splittert unter dem gewicht einer hand

eine hand

rau wie rinde

ich suche einen körper

und sehe die hände um den hals

die haare auf dem asphalt

blaugelb

purpur

und schwarz

deine haare

               sind schwarz


theresa hak kyung cha aveva i capelli neri.

i miei sono rossi.

cerco un corpo

e lo trovo sotto una coperta

di capelli neri

è fragile

si spezza come i rami nel sottobosco

si frantuma sotto il peso di una mano

una mano

ruvida come corteccia

cerco un corpo

e vedo le mani attorno al collo

i capelli sull’asfalto

giallo-blu

porpora

e nero

i tuoi capelli

                 sono neri


die gesichter legen sich übereinander

ein vielzahl von körpern

schaut hinter ihren augen hervor

und dort ist die neue zeit

die glocken klingeln

die zahnrähder drehen

ein körper fällt

am boden eines parkhauses

schwebend

mit beiden füβen fest in der erde

luft 

oder wort


i volti si sovrappongono gli uni sugli altri

una moltitudine di corpi

sbuca da dietro i loro occhi

e là c’è il tempo nuovo

le campane suonano

gli ingranaggi girano

un corpo cade

a terra in un parcheggio

mentre fluttua

con entrambi i piedi saldi a terra

aria

o parola


die haare einer frau    sind rot

                                               oder schwarz

eine frau                     ist ein schwarzes loch

eine leerstelle             gefüllt mit rotem haar

die haare sind rot

            flimmernd im nebel

                                   ohne haut und körper


i capelli di una donna   sono rossi

                                                   o neri

una donna                   è un buco nero

uno spazio vuoto        farcito di capelli rossi

i capelli sono rossi

            tremolanti nella nebbia

                            senza pelle né corpo

Copertina di Kyung di Eva Maria Leuenberger

Una “rivoluzione tranquilla” nelle lettere basche: tre poesie di Kirmen Uribe 

Introduzione e traduzioni a cura di Federico Carciaghi, vincitore della nostra seconda Call for Translators per la lingua spagnola.

Kirmen Uribe (1970), originario di una famiglia di pescatori di Ondarroa, in Biscaglia, è una delle voci più promettenti della letteratura basca e iberica. Il suo volume d’esordio, la raccolta di poesie Bitartean heldu eskutik (Mientras tanto cógeme la mano – “Nel frattempo prendimi la mano”) ha rappresentato, nelle parole del critico Jon Kortazar, una “rivoluzione tranquilla” nelle lettere basche. Un linguaggio poetico semplice si unisce a un andamento narrativo che intreccia elementi autobiografici, memoria storica, realismo e intimismo. Nel 2002 il libro ha vinto il Premio Nazionale della Critica e, due anni dopo, è stato incluso nella prestigiosa collana di poesia della casa editrice Visor. Successivamente, il volume è stato tradotto in francese e in inglese, e in un secondo momento in catalano e russo. La traduzione in inglese, Meanwhile, Take my Hand (2007), a cura della poetessa americana Elizabeth Macklin, è risultata finalista negli Stati Uniti nella sezione Poetry in Translation del del PEN Award.

Attualmente, Kirmen Uribe risiede e insegna scrittura creativa negli Stati Uniti, a New York, dove la sua poesia è molto conosciuta e apprezzata. A tal riguardo, viene subito in mente l’immagine del poeta a New York usata da Lorca per definire lo scrittore basco. Tuttavia la poliedricità e il carattere ibrido dello stile di Uribe portano l’autore ad auto-definirsi a più riprese non soltanto come poeta, bensì come scrittore a tutto tondo: “Soy un escritor vasco en Nueva York”. Il passaggio alla narrativa inaugurato con la pubblicazione del romanzo Bilbao-New York-Bilbao ha figurato, infatti, la creazione e il mantenimento di una cifra stilistica che fa della contaminazione la sua caratteristica principale. Uribe si muove nello spazio bianco fra i generi, per cui la prosa diventa poesia e la poesia diventa prosa. Nella sua scrittura non vi è, tuttavia, ricerca di virtuosismo o di un forzato innalzamento del registro. L’autore basco si affida, al contrario, a un linguaggio semplice e chiaro che trasmette la realtà delle cose quotidiane. I Paesi Baschi sono molto presenti nella sua scrittura e nel suo immaginario, tuttavia Uribe crea ponti, raccoglie frammenti di vita e li cristallizza nella parola poetica, travalicando le frontiere linguistiche e territoriali. La poesia di Uribe è osservazione diretta, è creazione di istantanee che, una volta conservate nella nostra memoria, si verbalizzano in modo lineare ed eterno. Una poetica dello sguardo attento, che è sfociata infine nella seconda raccolta di poesie, 17 secondi (2020). Il titolo molto evocativo fa riferimento al tempo di osservazione medio che un visitatore trascorre davanti a un quadro, secondo quanto riferito all’autore da una guida del Metropolitan Museum di New York. Nasce da qui il desiderio di fissare sulla pagina la realtà, di rappresentare quel fiume vitale fatto di momenti in cui tutti possono riconoscersi. L’intimità del poeta assurge a un sentimento di universalità e comunione con il lettore. Così, la poesia diventa un mezzo per raccontare la vita che scorre, un fiume fatto di ricordi d’infanzia, eventi familiari e di sentimenti profondi che rendono vive le pagine dei libri e le fanno vibrare di emozione.


Da Mientras tanto cógeme la mano (Visor, 2004).

El cuco

Aquel año oyó el cuco a principios de abril.
Tal vez, porque estaba inquieto,
tal vez, por esa manía de ordenar el caos,
quiso adivinar en qué notas cantaba.

La tarde siguiente, allí estaba en el bosque,
con un diapasón, esperando.
Al rato, lo escuchó.
El diapasón no mentía:
Si-Sol eran las notas del cuco. 

El descubrimiento se supo en todas partes.
Todos querían probar si de verdad el cucocantaba en esas notas.
Pero, los resultados no coincidían.
Cada uno decía su verdad.
Algunos que eran Fa-Re, otros Mi-Do.No se ponían de acuerdo.

Mientras tanto, el cuco seguía cantando en el bosque.
Ni Si-Sol, ni Fa-Re, ni Mi-Do.
Como hace mil años
cantaba: Cucú, cucú

El río

En otro tiempo hubo un río aquí,
donde ahora hay bancos y losetas.
Hay más de una docena de ríos bajo la ciudad,
si hacemos caso a los más viejos.
Ahora es sólo una plaza en un barrio obrero.
Y tres chopos son la única señal
de que el río sigue ahí abajo.

En cada uno de nosotros hay un río oculto
a punto de desbordarse.
Si no son los miedos, es el arrepentimiento.
Si no son las dudas, la impotencia.
Un viento del oeste azota los chopos.
La gente avanza a duras penas.
Desde el cuarto piso una mujer mayor
está tirando ropa por la ventana:
tira una camisa negray una falda de cuadros
y un pañuelo de seda amarillo y unas medias
y aquellos zapatos que llevaba
el día de invierno que llegó del pueblo.
Unos zapatos de charol, blancos y negros.
En la nieve, sus pies parecían avefrías congeladas.

Los niños echan a correr tras la ropa.
Al final, ha sacado su vestido de boda,
se ha posado sobre un chopo, torpemente,
como si fuera un pájaro grande.Se oye un gran ruido. Se asustan los transeúntes.
El viento ha arrancado de cuajo uno de los chopos.
Las raíces del árbol parecen la mano de una mujer mayor,
que espera que cuanto antes otra mano la acaricie.

Il cuculo

Quell’anno udì il cuculo a inizio aprile.
Forse, perché era agitato,
forse, nella smania di ordinare il caos,
volle indovinare che note cantava.

La sera dopo, eccolo lì nel bosco,
con un diapason, ad aspettare.
Dopo poco, lo sentì.
Il diapason non mentiva:
le note del cuculo erano Si-Sol.

Ovunque seppero della scoperta.
Tutti volevano sapere se davvero il cuculo
Cantava con quelle note.
Ma i risultati non tornavano.
Ognuno aveva il suo parere.
Qualcuno Fa-Re, altri Mi-Do.
Non trovavano un accordo.

Nel frattempo, il cuculo continuava a cantare nel bosco.
Né Si-Sol, né Fa-Re, né Mi-Do.
Come mille anni fa
Cantava: Cucù, cucù.

Il fiume

Un tempo c’era un fiume qui,
dove ora ci sono panchine e mattonelle.
Ci sono più di dieci fiumi sotto la città,
se ascoltiamo i più anziani.
Ora è solo una piazza di un quartiere popolare.
E tre pioppi sono l’unico segno
Del fiume che scorre ancora lì sotto.

Dentro di noi c’è un fiume nascosto
Che sta per straripare.
Se non sono le paure, è il rimorso.
Se non sono i dubbi, l’impotenza.

Un vento dell’ovest sferza i pioppi.
La gente avanza a malapena.
Dal quarto piano una donna anziana
tira vestiti dalla finestra:
tira una camicia nera e una gonna a quadri
e un fazzoletto giallo di seta e delle calze
e quelle scarpe che portava
quel giorno d’inverno in cui arrivò dalla campagna.
Scarpe di vernice, bianche e nere.
Nella neve, i piedi sembravano pavoncelle congelate.

I bambini corrono dietro i vestiti.
Infine, si toglie l’abito nuziale,
si posa su un pioppo, goffamente,
come fosse un grande uccello.

Si sente un gran rumore. I passanti si agitano.
Il vento ha sradicato di colpo uno dei pioppi.
Le radici dell’albero sembrano la mano di una donna anziana,
che aspetta presto un’altra mano per accarezzarla.

Da 17 segundos (Visor, 2020)

Oculta

Under my window, a clean rasping sound
When the spade sinks into gravelly ground:
My father, digging. I look down

Seamus Heaney

Mi madre suele estar oculta siempre que voy a visitarla.
Suele estar en el garaje, o en el desván,
o dando un paseo por el monte con los perros.

Yo la llamo en voz alta
y, por un momento, me estremezco
esperando a oír su voz.

Mi madre no me deja entrar en casa de inmediato.
Me agarra del brazo y me lleva hacia el huerto.
Como siempre, me pregunta: «¿Qué ha cambiado?».

«Qué sé yo…», le contesto para ganar tiempo,
mientras al mismo tiempo miro y remiro,
por todas partes, qué será lo que está distinto.

Suele ser que ha podado las rosas,
o que ha pintado de blanco la caseta del perro.
Para ella, el trabajo de una semana;
para mí, un momento de atención.

Mi madre, nacida en los años del hambre, aquella niña
que, cuando llovía, se quedaba en casa sin ir a la escuela,
porque sin zapatos adecuados podía enfermar.

Por eso, toda la vida le han gustado los cambios
a aquella mujer que, de joven, quiso
transformar la sociedad de arriba abajo.

De aquella generación que, en los tiempos más oscuros
y a escondidas, conservó la lengua vasca.
Al fin, me deja entrar en casa,

y hace que se regrese a la infancia
mediante el sabor de sus platos, y porque
es la única que aplaca mis temores.

Al despedirnos me dice que la próxima vez
no me olvide de llevarle un libro, que no hay libros nuevos
en la estantería, y está cansada de releer los que hay.

Subo al coche y considero la pregunta de mi madre:
«¿Qué ha cambiado?», esos crueles cambios que,
como las arrugas, aparecen sin que nos demos cuenta.

Será que últimamente la veo más cansada,
será que también yo estoy cada vez más solo.
Yo no quiero que nada cambie.

Querría seguir siempre visitando a mi madre,
e intentar acertar su adivinanza,
tomados del brazo y caminando por la huerta.

Finestra

Sotto la mia finestra, un suono stridulo e preciso
Quando la vanga affonda nel campo ghiaioso:
Mio padre che scava. Guardo in basso

Seamus Heaney

Mia madre si nasconde ogni volta che vado a trovarla.
Di solito si trova in garage, o in soffitta,
o nel bosco a fare una passeggiata con i cani.

Io la chiamo a voce alta
E, per un attimo, fremo
sperando di sentire la sua voce.

Mia madre non mi fa entrare in casa subito.
Mi prende per un braccio e mi porta nell’orto.
Come sempre, mi chiede: “cos’è cambiato?”.

“Che ne so…”, rispondo per prender tempo,
e allo stesso tempo guardo e riguardo,
ovunque, cosa sarà ad essere cambiato.

Di solito ha potato le rose,
o ha dipinto di bianco la cuccia del cane.
Per lei, il lavoro di una settimana;
per me, un attimo di attenzione.

Mia madre, nata in anni di povertà, una bambina
Che, quando pioveva, restava a casa senza andare a scuola,
perché senza le scarpe adatte poteva ammalarsi.

Perciò, le sono sempre piaciuti i cambiamenti
A quella donna che, da giovane, volle
Trasformare la società da capo a piedi.

Di quella generazione che, negli anni più bui
E di nascosto, custodì la lingua basca.
Infine, mi fa entrare in casa,

e mi fa rivivere l’infanzia
grazie al sapore dei suoi piatti, e perché
è l’unica che placa i miei timori.

Salutandoci mi dice di non dimenticarmi
di portarle un libro la prossima volta, ché non ha libri nuovi
Nella libreria, ed è stanca di leggere sempre i soliti.

Salgo in macchina e penso alla domanda di mia madre:
“Cos’è cambiato?”, quei cambiamenti crudeli che,
come rughe, appaiono senza accorgercene.

Sarà che la vedo più stanca ultimamente,
sarà che anche io sono sempre più solo.
Non voglio che cambi niente.

Vorrei sempre andare a trovare mia madre,
e provare a scoprire il suo segreto,
mano nella mano mentre camminiamo per l’orto.

“Io sono selvaggia”: tre poesie di Maya Cousineau Mollen

Introduzione e traduzioni a cura di Anna Nardi, vincitrice della nostra seconda Call for Translators per la lingua francese.

Maya Cousineau Mollen è una poetessa innu fortemente legata tanto alla dimensione contemporanea quanto alle sue origini autoctone, ed è nell’intersezione di queste due sfere che conduce la propria ricerca poetica. Nata nel 1975 nella riserva di Mingan (Ekuanitshit in lingua innu), viene presto adottata da una famiglia quebecchese scelta dalla madre biologica. I genitori adottivi le consentono di mantenere il legame con le origini e con la sua famiglia innu, ma soprattutto la incoraggiano a perseguire la carriera da scrittrice: scrive le prime poesie all’età di quattordici anni. Molti dei suoi componimenti si possono leggere sui suoi social, ma sono stati anche raccolti in due sillogi, Bréviaire du matricule 082 (Éditions Hannenorak, 2019) e Enfants du lichen (Éditions Hannenorak, 2021).

Le tradizioni della cultura di origine della poetessa occupano una posizione di grande rilievo nella sua produzione, affiancate a una dimensione sociale più moderna (la questione ambientale, il femminismo e il colonialismo sono solo alcuni dei temi affrontati). Il tema messo maggiormente in risalto è, tuttavia, la ricerca della propria identità: allontanata dalle proprie origini innu, Maya perde il proprio nome e viene identificata come matricule 082. La cifra si riferisce alla pratica di assegnare un numero di identificazione ai cittadini autoctoni, assimilati così a prodotti dotati di un codice a barre. Cousineau Mollen, al pari di tanti altri nella stessa situazione, viene così privata della possibilità di conoscere sé stessa e di determinare la propria identità, che le viene invece attribuita dagli ex-colonizzatori.

Nei componimenti della prima raccolta viene esplorata la collera che scaturisce dalla rottura del legame con la terra natale, rappresentata non solo attraverso la messa a tema della questione identitaria, ma anche come un vero e proprio distacco fisico dal territorio delle proprie origini. Tuttavia, è proprio questo allontanamento forzato che consente all’autrice di capirne l’importanza. Fondamentale per maturare questa consapevolezza sarà il ritorno alla terra natia, un mondo sfruttato e bistrattato dall’uomo bianco, ma che cela in sé una grande forza distruttrice, la forza di un animale che è stato intrappolato per troppo tempo ed è finalmente riuscito a liberarsi e mostrarsi in tutto il suo splendore. Proprio come una belva liberata, Cousineau Mollen ha finalmente la possibilità di ammirarsi alla luce del sole, assumendo la sua vera identità, quella che le è stata rubata dai colonizzatori: “Io sono selvaggia, io sono donna”. Questo cambiamento non fa altro che accentuare l’ira dell’autrice, che ammonisce l’uomo bianco e colonialista che ha creduto di poterla possedere: lei è fredda e temibile come il Nord, e niente potrà proteggere chi l’ha intrappolata dal suo furore.


da Bréviaire du matricule 082 (Éditions Hannenorak, 2019)

MOI, AKUATISHKUEU*

À Joséphine Bacon

Immobile sur ma terre non cédée
Couverte d’un béton qui l’étouffe

Je laisse derrière moi les loques coloniales
Pour retrouver ma chair nue au soleil

Je m’apprivoise
Car jamais je ne me suis aimée
Je me découvre
Visage millénaire

Ma chevelure tant de fois entravée
Libre comme Atik* dans la toundra

Je suis sauvagesse, je suis femme
Je reprends mon droit d’exister

Garde tes lois réductrices
Tes images dont je suis objet

Symbole d’un peuple de survivants
Mes yeux ont mille vies


*AKUATISHKUEU: Elle est une femme d’apparence exceptionelle
*ATIK: Caribou

IO, AKUATISHKUEU*

A Joséphine Bacon

Immobile sulla mia terra non ceduta
Coperta di cemento che la soffoca

Mi lascio alle spalle i relitti coloniali
Per ritrovare la mia pelle nuda al sole

Mi addomestico
Perché non mi sono mai amata
Mi scopro
Viso millenario

La mia chioma tante volte imprigionata
Libera come Atik* nella tundra

Io sono selvaggia, io sono donna
Mi riprendo il mio diritto di esistere

Tieniti pure le tue leggi riduttrici
Le tue immagini di cui sono oggetto

Simbolo di un popolo di sopravvissuti
I miei occhi hanno mille vite


*AKUATISHKUEU: Donna dall’aspetto eccezionale
*ATIK: Caribù

MUESHTASHINAKUAN*

Tel le traître apache des guerres génocides
Affamé d’appât du gain
Serpent aux noirs viscères
Danse, ondoyant, envoûtant
Tu violes Gaïa
Tu la loues au prix d’une pute
Ses charmes, ses courbes d’éternité
Son parfum provocant de terre fraîche
Seront les dernières berceuses
Où tu endormiras le dernier enfant de l’humanité


*MUESHTASHINAKUAN: C’est triste à voir

MUESHTASHINAKUAN*

Come il traditore apache delle guerre genocide
Affamato dall’allettante guadagno
Serpente dalle nere viscere
Danza, ondeggiante, ammaliatore
Tu violi Gaia
Tu la affitti al prezzo di una puttana
I suoi incanti, le sue curve eterne
Il suo profumo provocante di terra fresca
Saranno le ultime culle
Dove addormenterai l’ultimo figlio dell’umanità


*MUESHTASHINAKUAN: è triste a vedersi

ISHKUESS* DU NORD

Sur le sentier glacé de ma hargne
Marchent mille femmes pâles

En moi brûle l’acidité des fluides
Point d’amour pour les filles des glaciers

Enfants des ours blancs, des froids lunaires
Héritières du Nord, déesses bafouées

Au parfum éthylique, piégées comme nymphes
Dans ces étreintes de violence que d’aucuns
appellent tendresse

Tu oses m’honorer de ton mépris
Me croire vendue pour une bière

M’envoûter par tes berceuses eugéniques
Posséder mon corps, m’avilir

Tellement plus que ton racisme
Serti de neige, mon peuple brille

Les vents nordiques ont ciselé mes traits
Je suis beauté et amante des aurores boréales

Crains ma colère, crains mes prières
Je suis le Nord et rien ne te sauvera


*ISHKUESS: Une fille ; une femme célibataire

ISHKUESS* DEL NORD

Sul sentiero ghiacciato del mio astio
Marciano mille donne pallide

In me brucia l’acidità dei fluidi
Punto d’amore per le fanciulle dei ghiacci

Figlie degli orsi bianchi, dei freddi lunari
Eredi del Nord, dee sbeffeggiate

Dal profumo etilico, intrappolate come ninfe
In quelle strette di violenza che qualcuno
chiama amore

Tu osi onorarmi col tuo disprezzo
Credermi venduta per una birra

Ammaliarmi con le tue cantilene eugenetiche
Possedere il mio corpo, avvilirmi

Molto più del tuo razzismo
Incastonato a neve, il mio popolo luccica

I venti nordici hanno scolpito i miei lineamenti
Sono bellezza e amante delle aurore boreali

Paventa la mia collera, paventa le mie preghiere
Io sono il Nord e niente potrà salvarti


*ISHKUESS: Una ragazza; una donna celibe

“Avere un corpo implica un’enorme responsabilità”: tre poesie di Sirka Elspaß

Introduzione e traduzioni a cura di Sofia Pagliarella, vincitrice della nostra seconda Call for Translators per la lingua tedesca.

“Quando sono nata ho avuto paura / della mia stessa voce”: inizia con la nascita il viaggio poetico di Sirka Elspaß, per scontrarsi da subito con la consapevolezza che “nessuno viene al mondo / e sa come si fa”. Vulnerabile e senza istruzioni per l’uso, l’autrice si pone in ascolto del proprio corpo che diventa terreno di crisi e di guerra, di amore, dolore, desiderio, solitudine, guarigione – un luogo da abitare a cui solo la scrittura può dare voce. La ricerca dell’identità per Elspaß parte dalla premessa che “quando donne e persone trans o non binarie scrivono, si tratta sempre di politica” e passa attraverso una lingua spezzata dall’appello a una madre, invocata come entità primordiale con cui tentare una connessione.

Sirka Elspaß, nata nel 1995 a Oberhausen, ha studiato scrittura creativa e giornalismo a Hildesheim e oratoria all’Università delle Arti Applicate a Vienna. È stata premiata al “Treffen junger Autor:innen” a Berlino nel 2010 e 2012, come anche al “postpoetry. NRW” a Hildesheim nel 2013. Ha pubblicato con diversi giornali e antologie, tra cui STILL e Lyrik von Jetzt 3. È poi stata nominata tra i finalisti all’Österreichische Buchpreis 2022 per il miglior debutto.

Nella sua raccolta poetica ich föhne mir meine wimpern (Suhrkamp, 2022), Elspaß suggella l’incontro tra pop e poesia, affiancando alla pubblicazione della silloge anche la creazione di una playlist su Spotify contenente tutti i brani musicali che l’hanno influenzata durante la stesura, brani di cui nelle poesie si ritrovano “[…] sovrapposizioni più o meno evidenti – nel titolo, nel tema, nello stato d’animo”. Con leggerezza e coraggio, non privi, a volte, di un sorprendente umorismo, l’autrice condensa il suo grido in immagini cristalline, tanto cangianti quanto appuntite, e strazianti proprio perché dotate della serena consapevolezza che “nessuno è al di sopra delle cose/ ci siamo tutti dentro”.


da ich föhne mir meine wimpern (Suhrkamp, 2022)

nicht ist so traurig wie der mond wenn er abnimmtim
schwindenden schein des kerzenlichtsschreibst
du folgenden satz
einen körper zu haben bedeutet enorme verantwortung
und niemand kommt auf die welt
und weiß wie es geht

aberan
der sichel hat jemand einen aushang gemacht
menschen werden gesucht
katzen werden vermisst
wenn der apfel die umarmung ist
bin ich der wurm der ihn zerfrisst

niente è triste come la luna quando tramonta
al chiarore fioco della candela
scrivi la frase seguente
avere un corpo implica un’enorme responsabilità
e nessuno viene al mondo
e sa come si fa

ma
qualcuno ha appeso un cartello alla falce
esseri umani cercasi
gatti scomparsi
se la mela è l’abbraccio
io sono il verme che le procura il marcio

6
vielleicht haben wir bereits eine grenze
überschritten als wir uns entschieden keine zu
überschreiten
ich kann uns nicht behalten
es ist zeit zu gehen
den abschied wie eine ausfahrt
nehmen aber dass ich alleine
nicht ausreiche
diese angst bleibt
mutter
komm
es wird dunkel
hol mich
heim
dann stößt mir der alte zahn durchs fleisch
mutter
rufe ich
mutter
ich
werde

6
forse un confine lo abbiamo già
superato anche se avevamo deciso di non
superarlo
non riesco più a tenerci
è tempo di andare
prendere l’addio come
un’uscita però io da sola
non basto
questa paura rimane
madre
vieni
qui diventa buio
portami
a casa
poi il dente vecchio mi trafigge la carne
madre
chiamo
madre
io
sarò

Schlafen Sie bei offenem fenster
decken Sie sich gut zu
vergessen Sie das blumengießen für
einen moment und die verletzungen
nur mut ich hege
keinen groll
Sie müssen nicht heiter sein
aber nehmen Sie jedes crescendo mit
seien Sie sanfter zu sich als Sie es sind und
lesen Sie den nächsten satz mehrmals

niemand steht über den dingen
wir stehen alle mittendrin

che dorma con le finestre aperte
e si copra bene
che dimentichi di annaffiare i fiori per
un momento e le ferite
poi solo coraggio io non
nutro rancore
e lei, non provi serenità
ma accolga ogni crescendo
che sia più buono con sé stesso di quanto non sia e
legga la prossima frase più volte

nessuno è al di sopra delle cose
ci siamo tutti dentro

Lingue di fuoco e nuovi glossari: tre poesie di Seán Hewitt

Introduzione e traduzioni a cura di Andrea Bergantino, vincitore della prima Call for Translators per l’inglese.

Seán Hewitt, nato nel 1990, è critico letterario e insegna letteratura inglese e irlandese al Trinity College di Dublino. La sua prima raccolta integrale di poesie, Tongues of Fire, è stata pubblicata nel 2020 e ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Laurel Prize. La poesia di Seán Hewitt si sviluppa intorno a una costellazione di temi ricorrenti, diversi ma interconnessi attraverso i versi, tra cui il rapporto con le proprie origini, l’immersione nella natura, ricordi ed esperienze di vita quotidiana, nonché rielaborazioni di miti irlandesi, come quello dell’esilio di Suibhne. Oltre al rapporto con la natura e al dialogo con la propria storia personale, i versi di Hewitt contengono anche eco religiose e riferimenti alla sfera della sessualità, un tema, quest’ultimo, che si ritrova anche nel memoir All Down Darkness Wide, che esplora l’identità queer dello scrittore.

Delle tre poesie proposte di seguito in traduzione, accompagnate dall’originale, due sono tratte da Tongues of Fire, “Evening Poem” e “Oak Glossary”, mentre “Ancestry” è stata pubblicata su Poetry nel 2013. “Ancestry/Discendenza” e “Evening Poem/Poesia della sera” condividono la rievocazione di eventi e scene passati, che al tempo stesso è l’esplorazione di legami familiari, della propria storia personale. Partendo da stimoli quotidiani quali profumi e piccole azioni, questi componimenti evocano relazioni più profonde tra genitori e figli, vecchie e nuove generazioni. Tali connessioni non mancano in “Oak Glossary/Glossario delle querce”, dove l’albero si sostituisce all’uomo e al suo linguaggio, pur condividendo con lui vibrazioni e legami non sempre visibili in superficie. Questi versi di Seán Hewitt scavano per riportare alla luce rapporti e dinamiche naturali tramite allusioni poetiche: lasciano intendere, suonano familiari, ma non disvelano parole e verità ultime.


da poetry (2013)

Ancestry

The damp had got its grip years ago
but gone unnoticed. The heads of the joists feathered slowly in the cavity wall
and the room’s wet belly had begun to bow.

Once we’d ripped the boards up, it all came out: the smell, at first, then the crumbling wood gone to seed, all its muscles wasted.
You pottered back and to with tea, soda bread,

eighty years shaking on a plastic tray.
One by one we looked up, nodded, then slipped under the floor. We moved down there like fish in moonlight, or divers round an old ship.

Discendenza

L’umidità aveva stretto la sua presa anni prima, inosservata. Le estremità dei travetti
si erano sbriciolate nell’intercapedine
e il ventre bagnato della stanza si stava curvando.

Una volta rotti i pannelli, venne tutto fuori: l’odore, all’inizio, poi il legno vecchio ormai marcio, le fibre disfatte.
Tu andavi e venivi portando tè e pane,

ottant’anni che tremano su un vassoio di plastica.
Uno a uno abbiamo alzato lo sguardo e annuito, poi ci siamo infilati sotto il pavimento. Ci siamo mossi lì sotto come pesci
che nuotano intorno a una vecchia barca, alla luce della luna.

da tongues of fire (2020)

Evening Poem

What a world of apparitions: stifled warmth of the greenhouse, scent of tomatoes, my mother and I working closely

to shimmy the pots loose. Split sack of soil on the bench, glow
of a tealight in the jar,

and not a word between us. It is hard to tell where heaven starts, and where it ends:
me, a foot taller, standing

where her father stood,
and outside, look: the dove, like a paper lantern, is bobbing in the apple-blossom.

Poesia della sera

È un mondo di apparizioni:
il calore compresso della serra,
il profumo dei pomodori, mia madre e io che lavoriamo vicini

scuotendo i vasi.
Sacchi di terreno tagliati sulla panca, il bagliore
di una candela nel vetro,

e non una parola tra noi. È difficile dire dove il cielo comincia e dove finisce: me ne sto, solo più alto,

dove stava suo padre,
e fuori, guarda: una colomba,
come una lanterna di carta, dondola tra i fiori del melo.

Oak Glossary

In the language of the oak, sky is made by shivering the leaves to produce a hushing sound.
In winter, of course, sky is silent.

God is felt in the phloem and xylem as a deep echo of water – a low noise that must be observed by placing
an ear to the bark. For oaks, chanting

(which is akin to song) is produced via rhythms of air brought in and out of the branches in slow succession. On still days, song is not possible.

The familiar words, such as child, man, woman, are unknown, having fallen quiet from disuse. In oak, essential nouns include soil,

water and time – these are produced from their element. Water is a high and gentle noise of clearest quality which results from branches dripping.

For soil, or earth, a fastening of the roots can be felt as a low tension underfoot. Time, on the other hand, is more visual than aural, and is distinguished into

its linear and circular conceptions. As is well-known, circular time
in oak is communicated
most vividly at the site of a knot

or where the core has been exposed. The linear variety is felt only
on occasion. For this, sap is produced and is made to run from the body.

Glossario delle querce

Nella lingua delle querce, cielo
si fa scuotendo le foglie
per produrre un suono sommesso.
In inverno, naturalmente, cielo non si pronuncia.

Dio si sente in floema e xilema
come un’eco d’acqua profonda – un rumore basso da osservare poggiando
l’orecchio alla corteccia. Per le querce, cantare

(che è simile a canzone) si produce
tramite ritmi d’aria portata dentro e fuori dai rami in lenta successione.
Nei giorni di quiete, canzone non si può dire.

Le parole familiari come bambino, uomo, donna sono sconosciute, cadute in disuso. Per le querce
sostantivi essenziali includono suolo,

acqua e tempo – queste sono prodotte dai loro elementi. Acqua è un rumore alto e gentile di qualità chiarissima
che proviene dai rami grondanti.

Per suolo, o terra, si possono sentire
le radici allacciarsi, una tensione sotto i piedi. Tempo, invece, è più visivo
che uditivo, e si distingue nelle

sue concezioni lineari e circolari.
Com’è noto, il tempo circolare
tra le querce si comunica
nel più vivido dei modi nel punto di un nodo

o dove la parte centrale è esposta.
La varietà lineare si sente solo occasionalmente. Per questa si produce la linfa e la si fa scorrere dal corpo.

Copertina di Tongues of Fire di Seán Hewitt

Come le cicale: tre poesie di Phoebe Giannisi

Introduzione e traduzioni acura di Valeria Cassino, vincitrice della prima Call for Translators per il greco moderno.

“Sono una chimera, un essere ibrido tra animale e macchina, una poeta, un’architetta. La mia poetica si esprime inevitabilmente con i mezzi a mia disposizione, senza censurarne la molteplicità”. Nata ad Atene nel 1964, Phoebe Giannisi è poeta e architetta, ha un dottorato in Lettere Classiche e insegna presso l’Università della Tessaglia. Fondatrice e co-editrice della rivista “Mavro Mouseio” negli anni ’80, attualmente è membro della redazione di “FRMK”, rivista biennale di poesia, critica letteraria e arti visive, punto di riferimento nel panorama poetico greco contemporaneo, di cui Giannisi è una voce di spicco.

La sua ricerca si concentra sui confini tra poesia e performance, identità e metamorfosi, tempo e memoria, e indaga i legami della poesia con il corpo, la voce e lo spazio. Giannisi si inserisce nella tendenza tipica della poesia greca contemporanea definita come diakallitechnikotita, ovvero “trasversalità fra le arti”: il suo lavoro è frutto di un dialogo continuo fra espressioni artistiche diverse, parte da modelli archetipici per declinarli in nuove forme ed espanderli attraverso la sperimentazione transmediale. La lingua di Giannisi è disadorna, minimalista; tratteggia immagini apparentemente disarticolate fra loro, ma architettate con cura artigianale, che esplorano con icastica immediatezza la relazione del linguaggio con lo spazio urbano e naturale.

Dal 1995, anno del suo esordio con Achinoi (“Ricci di mare”), ha pubblicato otto raccolte poetiche, alcune delle quali sono state tradotte anche in inglese e in tedesco. Giannisi è stata inoltre inclusa nelle antologie di poeti greci contemporanei Futures. Poetry of the Greek Crisis (2015), a cura di Theodoros Chiotis, e Austerity Measures. The New Greek Poetry (2016), a cura di Karen Van Dyck.

Le poesie presentate in questo contributo appartengono alle raccolte Omirika (Kedros, 2009) e Rapsodia (Gutenberg, 2016). Omirika intreccia la mitologia classica con l’esperienza moderna; personaggi, episodi e luoghi dell’Odissea sono i diversi tasselli della narrazione, che crea in questa raccolta un io polifonico attraverso cui parlare di temi come l’amore, lo straniero, la maternità, il viaggio, la memoria, la nostalgia. Ispirandosi inoltre alla tradizione orale dell’epica, Giannisi modella la propria poetica sperimentando con il ritmo, il suono, la ripetizione. Rapsodia è un’opera composita che racchiude più di cento poesie ed è il culmine di un progetto che comprende manoscritti poetici, performance, video, mostre e installazioni multimediali, fra cui spicca Tettix (“cicala” in greco antico), che si ispira all’associazione della figura del poeta con quella dell’insetto attraverso l’antica mitologia greca, la filosofia e la poesia.


Da Oμηρικά (2009)

Προοίμιο

μία πέτρα στον βυθό άσπρη
σειρές από γαλάζια χαλίκια το μούτρο
πάνω τους μες στο νερό
η αναπήδηση της βάρκας στα κύματα
πάνω στα κύματα ταχύτητα του αέρα η ώθηση
πετάμε
ένα μοναχικός γλάρος στην ξέρα
συνέλευση γλάρων οι γλάροι κρώζουν ασταμάτητα
κατά περιόδους
σιωπούν
όπως τα τζιτζίκια
ο ασταμάτητος βόμβος τους απότομα παύει την ώρα
της μεγαλύτερης αιθρίας της ζέστης του μεσημεριού
με το αυτοκίνητο ο βόμβος των τζιτζικιών πιο συχνός
πιο συνεχής
πιο γρήγορος
τα ξέχασες όλα
δεν μπορείς να θυμηθείς
το πώς
αρχίζεις να ξεχνάς το τι
Ας ήτανε το πώς μια επανάληψη του τι
η λήθη των στιγμών για σένα φάρμακο
ενάντια
στου αμετάκλητου την λύπη
με καλυμμένο το κεφάλι σε τόπο αχαρτογράφητο
ακούς του εαυτού σου τον τραγουδιστή
λέξεις του Κανενός
δαήμονος ανδρός περιπλανήσεις
αέρα θάλασσα λάθη ανεπίστρεπτα δώρα
να αριθμεί
ξέρεις καλά ότι η σειρά των τι είναι εαυτός
αλλά άραγε να έμαθες πως η σειρά των πώς
είναι ο άνεμος;

Proemio

una pietra sul fondo bianca
serie di sassolini azzurri la faccia
su di loro dentro l’acqua
il sobbalzare della barca fra le onde
velocità sulle onde la spinta del vento
voliamo
un gabbiano solitario sulla secca
adunanza di gabbiani i gabbiani gracchiano senza sosta
di tanto in tanto
tacciono
come le cicale
il ronzio senza sosta interrompe brusco il tempo
di maggior chiariore del caldo di mezzogiorno
con la macchina il ronzio delle cicale più costante
più continuo
più veloce
hai dimenticato tutto
non riesci a ricordare
il come
inizi a dimenticare il cosa
Se solo il come fosse una ripetizione del cosa
l’oblio degli attimi per te medicina
contro
la tristezza dell’irrevocabile
con il capo coperto in un luogo senza mappa
ascolti il cantore di te stesso
mentre conta
parole di Nessuno
il vagare di un uomo navigato
aria mare errori irreversibili doni
sai bene che la serie dei cosa è il sé
ma hai forse imparato che la serie dei come
è il vento?

Da Ραψωδία (2016), sezione “Τέττιξ”

Γενέθλια

Φαγουρίζουνε τα φτερά όταν βγαίνουν;
όταν από την έξοδο της κοιλιάς
έβγαλες πρώτα το κεφάλι
και σπρώχνοντας από τον πόνο
πετάχτηκες έξω στο φως
για να φωνάξεις
ήταν τα μάτια σου ανοιχτά;
άκουσες τα λόγια αυτών
που σε κρατούσαν βοηθώντας
όλο το σώμα συστραμμένο
μαζεμένο τα πόδια λυγισμένα
και η μέρα ζεστή;
μία γυναίκα γεννούσε
στου αυτοκινήτου της το πάτωμα–
κάθε μεγάλωμα άραγε
πονάει σαν το πρώτο;
δεν μεγαλώνει κανείς
με τον ίδιο ρυθμό αδιόρατα;
ή μήπως μετά από περιόδους στάσης
αίφνης η κίνηση σε κατακτά
κι αυξάνεσαι και ανυπόφορα αλλάζεις;
πετάς από πάνω σου
σαν το λουλούδι τα πέταλα
μέσα στη δρόσο που ρουφάς
κάτι παλιό και ξανά;
κατοικημένος
από της νύχτας τις αγωνίες
ανοίγεις τα πρωινά σου μάτια
ανάποδα να κοιτάξεις τον κόσμο;
έχεις μαζέψει τ’ άστρα τα κρατάς
στα χέρια τα σκορπάς
στο χώμα την άμμο
έχεις ψηλώσει πια
το δέντρο εσύ
στη μικρή σου σκιά μάς χωράς
πιο ελαφρούς τώρα πιο ελαφρούς

Compleanno

Prudono le ali quando spuntano?
quando dall’uscita del ventre
hai tirato fuori prima la testa
e spingendo dal dolore
sei saltato fuori alla luce
per urlare
avevi gli occhi aperti?
hai sentito le parole di quelli
che ti tenevano aiutando
il corpo tutto attorcigliato
raggomitolato le gambe piegate
e la giornata calda?
una donna stava partorendo
sul tappetino della sua macchina –
forse ogni crescita
fa male come la prima?
non si cresce
con lo stesso ritmo impercettibilmente?
o forse dopo periodi di stasi
all’improvviso il movimento ti possiede
e cresci e cambi insopportabilmente?
ti scrolli di dosso qualcosa di vecchio
come un fiore i petali
nella rugiada che succhi
ancora e ancora?
abitato
dalle ansie della notte
apri gli occhi mattutini
per guardare il mondo sottosopra?
hai raccolto le stelle le tieni
in mano le spargi
sulla terra sulla sabbia
ormai sei diventato alto
l’albero tu
nella tua piccola ombra ci contieni
più leggeri ora più leggeri

Sezione “Τ-ώρα”

Η παρούσα στιγμή

Ι

Ο άνεμος ο φέρων τις φωνές
δροσίζοντας σαλεύει το μανίκι
κουνάει του φουστανιού την άκρη
ενώ στην άσφαλτο
μπροστά στις ρόδες
χορεύει το σπουργίτι με την πεταλούδα

ΙΙ

Ανοίγω το στόμα να μιλήσω
αλλ’ αυτό σφίγγει τα δόντια
κοχύλι εσύ
λέξη κρυμμένη
στο βυθό θαμμένη
μαλάκιο
ακίνητο στην άμμο
με τις κεραίες
προς τα μένα να σαλεύουν

ΙΙΙ

Γιατί η στιγμή είναι ασύλληπτη
καθόλου παρούσα
το «παρόν»
«αυτό που είναι εδώ»
χώρος αντί για χρόνο
η γλώσσα την έλλειψη μιλά

ΙV

Γιατί διαφεύγει του νοήματος η γλώσσα
τα λόγια μου
η σκυτάλη
ένα χαλίκι
δανεισμένα
αόριστα θυμίζουν μίαν άλλη παρουσία
πριν από εμένα
να ανοίγει δρόμο
κι ο δρόμος όταν ξαναπατηθεί
είναι δικός μου
και δεν είναι
κι ο δρόμος όταν ξαναπατηθεί
έγινε λάκκος
για να πέσω

V

Γιατί το χέρι που γράφει
τα λόγια
μιλά μία φωνή
μοιράζει νέμει
το πιο δικό σου φέροντας
κι ας είναι δανεισμένο
μοιράζει
τον χρόνο σε κομμάτια
μοιράζει προεκτείνει
πέρα από όλους εμάς
καλὰ καὶ ὕψι βιβὰς
τα πόδια ψηλά με ρυθμό
μουσική
προς τον άλλο
ανοίγεται
προς τον ουρανό
καθαρή αγάπη
μέσα στην έλλειψη
απολλώνειος χορός

πάνω στην προκυμαία το φεγγάρι
αρνείται με τη σειρά του να βγει

L’attimo presente

I

Il vento foriero di voci
rinfrescando muove la manica
agita il lembo dell’abito
mentre sull’asfalto
davanti alle ruote
il passero balla con la farfalla

II

Apro la bocca per parlare
ma quella stringe i denti
conchiglia tu
parola nascosta
sul fondale sepolta
mollusco
immobile sulla sabbia
con le antenne
che si muovono verso di me

III

Perché l’attimo è inafferrabile
affatto presente
il “presente”
“ciò che è qui”
spazio anziché tempo
la lingua dice l’assenza

IV

Perché la lingua del senso rifugge
le mie parole
il testimone
un sassolino
prestate
indefinite ricordano un’altra presenza
prima di me
che spiana la strada
e la strada quando si calpesta ancora
è mia
e non lo è
e la strada quando si calpesta ancora
è diventata una fossa
dove cadrò

V

Perché la mano che scrive
le parole
dice una voce
divide distribuisce
portando ciò che è tuo
anche se è in prestito
divide
il tempo in frammenti
divide estende
oltre tutti noi
a passi rapidi e eleganti
le gambe in alto a ritmo
musica
verso l’altro
si apre
verso il cielo
amore puro
dentro l’assenza
danza apollinea

sopra il molo la luna
quando è il suo turno si rifiuta di spuntare