Crush: poesia e frantumaglia in Richard Siken

Traduzioni a cura di Milo Lamanna, Irene Russo e Elena Strappato

Cosa sia la crush che dà titolo alla raccolta di Richard Siken non è facile da spiegare. Alla più comune accezione di infatuazione, innamoramento ai limiti dell’ossessione, lo scheletro delle poesie che leggete in traduzione, si accompagna quella dell’urto, della pressione violenta sulla materia, umana e non, i cui frantumi sparsi premono per uscire dalla memoria sulla carta. Ha qualcosa a che vedere con il concetto di “frantumaglia” di Elena Ferrante. Definita concretamente come «una folla di materiali incoerenti, di rottami», la frantumaglia è anche suono, «un ronzio in crescendo e uno sfaldamento a vortice di materia viva e materia morta». È «un ancoraggio per la nostra vita» che segue al senso della perdita «quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo» è destinato a unirsi «a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere»; «la parola per un malessere non altrimenti definibile» che rimanda a «una folla di cose eterogenee nella testa, detriti su un’acqua limacciosa del cervello». Dove Ferrante però procede in un costante ritaglio tra chi perde e chi è perduto, Siken dispone questi frammenti in cerchio, murando sé e i ricordi all’interno della propria ossessione, fino alla spettacolarizzazione di questa (complice la parallela attività di filmmaker).

Nella prefazione all’edizione del 2019 di Crush Louise Glück dice della poesia di Siken: «[Crush] è il miglior esempio che si possa dare di profonda selvaticità che è al tempo stesso completamente intelligibile». Glück non fa riferimento a una comprensione intellettuale e razionale delle poesie di Crush, ma a un’identificazione che ha più a che fare col farsi colpire – o trafiggere – da questi versi. Leggere Siken vuol dire esporsi alla violenza che trasuda, sofferta o inflitta, da ogni poesia di questa raccolta. Per quanto sia pervasiva e costante, la violenza non è mai data per scontata, e quando non è nominata apertamente è inflitta a chi legge attraverso una metrica ossessiva e frenetica, che non lascia scampo. L’effetto è immersivo e claustrofobico – una lettura ad alta voce con un microfono troppo alto, un feedback acuto – per Glück: «pura improvvisazione maniacale».

Pur non lasciando spiragli per respirare, Siken concede brevi istanti di chiarezza e trasparenza, dove il terrore e il panico incalzante lasciano spazio a momenti luminosi; per un attimo ci sembra di poter guardare tutto dall’alto, solo per un secondo:

[…] che ci riporta
 alle spalle dell’eroe e alla dolcezza che viene
 non dall’assenza di violenza, ma a discapito
 della sua abbondanza.

Se leggere le poesie di Crush significa esporsi al loro potenziale distruttivo, tradurle significa attivare un processo opposto: raccogliere i frantumi e ricomporli. Abbiamo cercato di mantenerci il più possibile aderenti al testo e di restituire le sensazioni fisiche scatenate dall’andamento sincopato delle poesie che abbiamo scelto. 


Da Crush (yALE university press, 2019) di richard siken

The Torn-Up Road

There is no way to make this story interesting.

A pause, a road, the taste of grave in the mouth. The rocks dig into my skin

        like arrowheads.

And then the sense of being smothered underneath a sack of lentils
                 or potatoes, or of a boat at night slamming into the docks again

                                                        without navigation, without consideration,

heedless of the plank of wood that are the dock,

                                                                        that make up the berth itself.

2

   I want to tell you this story without having to confess anything,

without having to say that I ran out into the street to prove something,

                                                                                that he didn’t love me,

that I wanted to be thrown over, possessed.
                                     I want to tell you this story without having to be in it:

Max in the wrong clothes. Max at the party, drunk again.
Max in the kitchen, in refrigerator light, his hands around the neck of a beer.

                                                       Tell me we’re dead and I’ll love you even more.

I’m surprised that I say it with feeling.
        There’s a thing in my stomach about this. A simple thing. The last rung.

3

Can you see them there, by the side of the road,

                                                                                 not moving, not wrestling,

making a circle out of the space between the circles? Can you see them

     pressed into the gravel, pressed into the dirt, pressing against each other

in an effort to make the minutes stop —

                        headlights shining in all directions, night spilling over them like

gasoline in all directions, and the dark blue over everything, and them

                                                                                           holding their breath –

4

I want to tell you this story without having to say that I ran out into the street

                                             to prove something, that he chased after me

               and threw me into the gravel.
And he knew it wasn’t going to be okay, and he told me

                                                                                    it wasn’t going to be okay.

And he wouldn’t kiss me, but he covered my body with his body

       and held me down until I promised not to run back out into the street again.

But the minutes don’t stop. The prayer of going nowhere

                                                                                                        going nowhere.

5

His shoulder blots out the starts but the minutes don’t stop. He covers my body

                 with his body but the minutes

don’t stop. The smell of him mixed with creosote, exhaust —
                                             There, on the ground, slipping through the minutes,

trying to notch them. Like taking the same picture over and over, the spaces

      in between sealed up —

Knocked hard enough to make the record skip
                                     and change its music, setting the melody on its

forward course again, circling and circling the center hole in the flat black disk.

             And words, little words,

words too small for any hope or promise, not really soothing
                                                                                   but soothing nonetheless.

La strada spezzata

1

Non c’è modo di rendere questa storia interessante.

Una tregua, una strada, il sapore di ghiaia nella bocca. Le pietre mi scavano la pelle

            come punte di freccia.

E poi sentirsi soffocati da un sacco di lenticchie

o di patate, o una barca notturna che sbatte di nuovo contro il molo

                                                           senza navigazione, senza valutazione,     

incurante delle assi di legno che sono il molo

                                                                      che compongono l’ormeggio.

2

Voglio raccontarti questa storia senza dover confessare nulla,

senza dover dire che uscii in strada correndo per dimostrare qualcosa,

                                                                                                    che lui non mi amava,    

che io, posseduto, volevo farmi lasciare.

                        Voglio raccontarti questa storia senza che io ci debba essere:

Max in abiti sbagliati. Max alla festa, di nuovo ubriaco.

Max in cucina, alla luce del frigo, le mani sul collo di una birra.

                                                           Dimmi che eri morto e ti amerò persino di più.

Dirlo con sentimento mi stupisce,

È qualcosa nel mio stomaco. Una cosa semplice. L’ultimo gradino.

3

Li vedi laggiù, sul ciglio della strada,

                                                           non si muovono, non fanno la lotta,

creano un cerchio nello spazio tra i cerchi? Li vedi

            schiacciati nella ghiaia, schiacciati nel fango, schiacciandosi l’uno contro l’altro

nello sforzo di fermare i minuti —

                                   i fari fanno luce in ogni direzione, la notte si rovescia su di loro

simile a benzina in ogni direzione, e il blu scuro sopra ogni cosa, e loro

                                                                                   trattengono il respiro –

4

Voglio raccontarti questa storia senza dover dire che uscii in strada correndo

                                               per dimostrare qualcosa, che lui mi rincorse

e mi spinse nella ghiaia.

E sapeva che non sarebbe finita bene, e mi disse

                                                                             che non sarebbe finita bene.                                

E non mi baciò ma ricoprì il mio corpo con il suo corpo

e mi trattenne fino a quando non promisi di non correre più in strada.

Ma i minuti non si fermano. Non andava da nessuna parte la preghiera

                                              di non andare da nessuna parte.

5

La sua spalla cancella le partenze ma i minuti non si fermano. Copre il mio corpo

                        con il suo corpo ma i minuti

non si fermano. Il suo odore misto al creosoto, vapore di scarico –

                                                            Lì, a terra, scivolando tra i minuti,

provando a intaccarli. Come scattare la stessa foto di continuo,

                                  gli interstizi sigillati –

Un colpo abbastanza forte da far saltare il disco

                                              e cambiargli la musica, riportando la melodia

di nuovo al suo inizio, girando, girando ancora intorno al foro del disco piatto e nero.

                                   E le parole, piccole parole,

parole troppo piccole per ogni speranza o promessa, che non sono davvero di conforto

                                                                                                        ma di conforto comunque. 


Litany in Which Certain Things Are Crossed Out

Every morning the maple leaves.
                              Every morning another chapter where the hero shifts

         from one foot to the other. Every morning the same big

and little words all spelling out desire, all spelling out

                                            You will be alone always and then you will die.

So maybe I wanted to give you something more than a catalog

       of non-definitive acts,

something other than the desperation.
                 Dear So-and-So, I’m sorry I couldn’t come to your party.

Dear So-and-So, I’m sorry I came to your party

        and seduced you

and left you bruised and ruined, you poor sad thing.
                                                         You want a better story. Who wouldn’t?

A forest, then. Beautiful trees. And a lady singing.
                  Love on the water, love underwater, love, love and so on.

What a sweet lady. Sing lady, sing! Of course, she wakes the dragon.

            Love always wakes the dragon and suddenly

                                                                               flames everywhere.

I can tell already you think I’m the dragon,
              that would be so like me, but I’m not. I’m not the dragon.

I’m not the princess either.
                             Who am I? I’m just a writer. I write things down.

I walk through your dreams and invent the future. Sure,
      I sink the boat of love, but that comes later. And yes, I swallow

glass, but that comes later.

                                           And the part where I push you
flush against the wall and every part of your body rubs against the bricks,

           shut up

I’m getting to it.

                                  For a while I thought I was the dragon.
I guess I can tell you that now. And, for a while, I thought I was

                                                                                                the princess,

cotton candy pink, sitting there in my room, in the tower of the castle,

           young and beautiful and in love and waiting for you with

confidence

            but the princess looks into her mirror and only sees the princess,

while I’m out here, slogging through the mud, breathing fire,

                                                             and getting stabbed to death.

                                Okay, so I’m the dragon. Bid deal.

       You still get to be the hero.
You get the magic gloves! A fish that talks! You get eyes like flashlights!

                  What more do you want?
I make you pancakes, I take you hunting, I talk to you as if you’re

            really there.
Are you there, sweetheart? Do you know me? Is this microphone live?

                                                       Let me do it right for once,
               for the record, let me make a thing of cream and stars that becomes,

you know the story, simply heaven.
                 Inside your head you hear a phone ringing

                                                           and when you open your eyes

only a clearing with deer in it. Hello deer.

                               Inside your head the sound of glass,
a car crash sound as the trucks roll over and explode in slow motion.

           Hello darling, sorry about that.
                                                     Sorry about the bony elbows, sorry we

lived here, sorry about the scene at the bottom of the stairwell
                                     and how I ruined everything by saying it out loud.

              Especially that, but I should have known.
You see, I take the parts that I remember and stitch them back together

          to make a creature that will do what I say

or love me back.

                 I’m not really sure why I do it, but in this version you are not

feeding yourself to a bad man

                                      against a black sky prickled with small lights.

            I take it back.
The wooden halls like caskets. These terms from the lower depths.

                                             I take them back.

Here is the repeated image of the lover destroyed.

                                                                                Crossed out.
             Clumsy hands in a dark room. Crossed out. There is something

underneath the floorboards.
                  Crossed out. And here is the tabernacle

                                                                            reconstructed.
Here is the part where everyone was happy all the time and we were all

            forgiven,
even though we didn’t deserve it.

                                                       Inside your head you hear
a phone ringing, and when you open your eyes you’re washing up

         in a stranger’s bathroom,
standing by the window in a yellow towel, only twenty minutes away

                           from the dirtiest thing you know.
All the rooms of the castle except this one, says someone, and suddenly

                                                                             darkness,

                                                                       suddenly only darkness.

In the living room, in the broken yard,
                         in the back of the car as the lights go by. In the airport

    bathroom’s gurgle and flush, bathed in a pharmacy of

unnatural light,

           my hands looking weird, my face weird, my feet too far away.

And the airplane, the window seat over the wing with a view

                                            of the wing and a little foil bag of peanuts.

I arrived in the city and you met me at the station,

         smiling in a way
              that made me frightened. Down the alley, around the arcade,

           up the stairs of the building
to the little room with the broken faucets, your drawings, all your things,

                                               I looked out the window and said

                  This doesn’t look that much different from home,

            because it didn’t,
but then I noticed the black sky and all those lights.

                                    We walked through the house to the elevated train.

            All these buildings, all that glass and the shiny beautiful

                                                                         mechanical wind.
We were inside the train car when I started to cry. You were crying too,

          smiling and crying in a way that made me
even more hysterical. You said I could have anything I wanted, but I

                                                                    just couldn’t say it out loud.

Actually, you said Love, for you,
                             is larger than the usual romantic love. It’s like a religion. It’s

                                                                              terrifying. No one
                                                              will ever want to sleep with you.

Okay, if you’re so great, you do it—
               here’s the pencil, make it work . . .

If the window is on your right, you are in your own bed. If the window

            is over your heart, and it is painted shut, then we are breathing

river water.
          Build me a city and call it Jerusalem. Build me another and call it

                                                                                           Jerusalem.

            We have come back from Jerusalem where we found not

what we sought, so do it over, give me another version,
           a different room, another hallway, the kitchen painted over

and over,
            another bowl of soup.

The entire history of human desire takes about seventy minutes to tell.

              Unfortunately, we don’t have that kind of time.

                                                                              Forget the dragon,

leave the gun on the table, this has nothing to do with happiness.

                                          Let’s jump ahead to the moment of epiphany,

               in gold light, as the camera pans to where

the action is,
                lakeside and backlit, and it all falls into frame, close enough to see

                                              the blue rings of my eyes as I say

                                                                                   something ugly.

I never liked that ending either. More love streaming out the wrong way,

               and I don’t want to be the kind that says the wrong way.
  But it doesn’t work, these erasures, this constant refolding of the pleats.

                                                There were some nice parts, sure,

all lemondrop and melon ball, laughing in silk pajamas

            and the grains of sugar
on the toast, love love or whatever, take a number. I’m sorry

                                               it’s such a lousy story.

Dear Forgiveness, you know that recently
                  we have had our difficulties and there are many things

                                                                         I want to ask you.

I tried that one time, high school, second lunch, and then again,

           years later, in the chlorinated pool.
                              I am still talking to you about help. I still do not have

             these luxuries.
I have told you where I’m coming from, so put it together.

                                            We clutch our bellies and roll on the floor . . .

              When I say this, it should mean laughter,

not poison.

                  I want more applesauce. I want more seats reserved for heroes.

Dear Forgiveness, I saved a plate for you.

                                          Quit milling around the yard and come inside.

Litania di alcune cose con una croce sopra

Ogni mattina le foglie d’acero. 

                        Ogni mattina un altro capitolo dove l’eroe si sposta

            da un piede all’altro. Ogni mattina le stesse grandi

e piccole parole tutte a scandire desiderio, tutte a scandire

                                                     Sarai solo sempre e dopo morirai.

Per questo forse volevo darti qualcosa di più che un catalogo

di atti non definitivi,

qualcosa di diverso dalla disperazione.

          Caro Tal dei Tali, mi dispiace non essere venuto alla tua festa.

Caro Tal dei Tali, mi dispiace essere venuto alla tua festa

   e averti sedotto

e abbandonato, livido e malridotto, tu, povera triste creatura.

                                    Vuoi una storia migliore. Chi non la vorrebbe?

Una foresta, allora. Alberi bellissimi. E una dama che canta.

  Amore sull’acqua, amore sott’acqua, amore, amore eccetera.

Che dolce dama! Canta, dama, canta! Certo, sveglia il drago.

L’amore sveglia sempre il drago e a un tratto

                                                                               fiamme dappertutto.

So già che pensi che il drago sono io, 

 che sarebbe proprio da me, ma non lo sono. Non sono io il drago.

Non sono nemmeno la principessa.

                             Chi sono? Sono solo uno scrittore. Scrivo le cose.

Cammino attraverso i tuoi sogni e invento il futuro. Senza dubbio

   affondo la barca dell’amore, ma quello viene dopo. E sì, ingoio

vetro, ma questo viene dopo.

                                               E la parte dove ti spingo

dritto contro il muro e ogni parte del tuo corpo sfrega sui mattoni,

            zitto

ci sto arrivando.

                        Per un po’ ho creduto di essere io il drago.

Forse ora posso dirlo. E per un po’ ho creduto di essere io

                                                                                   la principessa,

rosa confetto, seduta lì nella mia stanza, nella torre del castello,

        giovane e bella e innamorata e aspettandoti con

      sicurezza

ma la principessa guarda nello specchio e vede solo la principessa,

mentre io sono qui fuori, mentre mi trascino nel fango, respiro fuoco,                                                                                            

                                                                      e sono pugnalato a morte.

            Okay, così io sono il drago. Che grande affare.

   Puoi comunque essere l’eroe.

Avrai i guanti magici! Un pesce parlante! Avrai due occhi come torce!

                        Cosa vuoi di più?

Ti faccio i pancake, ti porto a caccia, ti parlo come se ci fossi

            davvero.

Ci sei, tesoro? Mi conosci? Questo microfono funziona?

                                    Lasciami fare la cosa giusta per una volta,

per la cronaca, lasciami creare una cosa di panna e stelle che sia,

la sai la storia, semplicemente divina.

            Dentro la tua testa senti squillare un telefono

                                               e quando apri i tuoi occhi

solo una radura con un cervo. Ciao cervo.

                        Dentro la tua testa il suono del vetro,

il suono dello schianto mentre i camion si ribaltano ed esplodono

[al rallentatore.

Ciao caro, mi dispiace.

                                   Mi dispiace per i gomiti ossuti, mi dispiace

se abbiamo vissuto qui, mi dispiace per la scena sulla tromba delle scale

                    e di come ho rovinato tutto dicendo quella cosa a voce alta.

Di questo in particolare, ma avrei dovuto sapere.

                        Vedi, prendo le parti che ricordo e le ricucio insieme

                        per fare una creatura che farà quello che le dico

o che ricambierà il mio amore.

            Non capisco bene perché, ma in questa versione non sei tu

a darti in pasto a un uomo cattivo

                                      contro un cielo nero pizzicato da piccole luci.

            Me la rimangio.

Sale in legno simili a bare. Termini dagli abissi più profondi.

                                               Me li rimangio.

Ecco l’immagine ripetuta dell’amante distrutto.

                                                                                   Una croce sopra.

                        Mani goffe in una stanza buia. Una croce sopra. C’è qualcosa

sotto al pavimento di legno.

                      Una croce sopra. E qui è la nicchia                                                                               

                                                                  ricostruita.

Ecco la parte dove tutti erano felici tutto il tempo e noi eravamo tutti

                        perdonati,

anche se non lo abbiamo meritato.

                                               Puoi sentire nella testa

un telefono che squilla, e quando riapri gli occhi ti stai lavando

            nel bagno di uno sconosciuto

appoggiato alla finestra in un asciugamano giallo, a soli venti minuti

           dalla cosa più sporca che conosci.

Tutte le stanze del castello a parte questa, dice qualcuno, e a un tratto

                                               il buio,

                                   a un tratto solo il buio.

Nel salone, nel cortile sconnesso,

             dietro una macchina mentre passano le luci. Nel borboglio

               dello scarico del bagno all’aeroporto, immersi in una farmacia

di luce innaturale,

      le mie mani sembrano strane, la mia faccia strana, i miei piedi troppo distanti.

E l’aeroplano, il posto al finestrino sopra l’ala, vista

                              ala e un pacchetto di noccioline in alluminio.

Sono arrivato in città e ti ho incontrato alla stazione,

            sorridevi in un modo

            che mi ha intimorito. In fondo al vicolo, intorno al portico,

 in cima alle scale del palazzo

fino alla piccola stanza coi rubinetti rotti, i tuoi disegni, tutte le tue cose,

                                               ho guardato fuori alla finestra e ho detto

                        Non sembra così diverso da casa

   perché davvero non lo era,

poi però ho notato il cielo nero e tutte quelle luci.

                          Siamo passati attraverso la casa fino alla sopraelevata.

Tutti questi palazzi, tutto quel vetro e quello splendido

                                                                             vento meccanico.

Eravamo al vagone quando ho iniziato a piangere. Piangevi anche tu,

            sorridendo e piangendo così da farmi diventare

ancora più isterico. Hai detto che potevo avere tutto quello che volevo, ma io

                                                proprio non riuscivo a dirlo ad alta voce.

In verità hai detto, L’amore, per te,

                   è più grande del solito amore romantico. È una religione. È

                                                                       terrificante. Nessuno

                                                            vorrà mai venire a letto con te.

Ok, se tu sei così bravo, fallo tu –

ecco la matita, fallo funzionare…

Se hai la finestra sulla destra, sei nel tuo letto. Se la finestra

                   è sul tuo cuore, sigillato, allora respiriamo

acqua di fiume.

             Fai per me una città e chiamala Gerusalemme. Fanne un’altra e chiamala

                                                                                           Gerusalemme.

                 Torniamo da Gerusalemme dove non abbiamo trovato

quello che cercavamo, quindi falla da capo, dammi un’altra versione,

                  una stanza diversa, un altro corridoio, la cucina ridipinta

e così via,

                        un altro piatto di zuppa.

Occorrono settanta minuti per raccontare l’intera storia del desiderio umano.

                        Purtroppo, non abbiamo tutto questo tempo.

                                                                       Dimentica il drago,

lascia il fucile sul tavolo, questo non ha nulla a che fare con la felicità.

                                Buttiamoci a capofitto nel momento dell’epifania,

nella luca dorata, mentre la videocamera segue dove si muove

l’azione

           sulla sponda del lago e in controluce, e tutto ricade dentro l’inquadratura, abbastanza vicino per [vedere

               gli anelli blu dei miei occhi mentre dico

                                                     qualcosa di brutto.

Non mi è mai piaciuto nemmeno quel finale. Altro amore che scorre nel verso sbagliato

                        senza essere il tipo che dice nel verso sbagliato.

Ma non funziona, queste cancellature, questo costante ripiegarsi delle pieghe.

                                   Le parti belle non sono certo mancate,

tutte caramelle al limone e succo di melone, ridendo nel pigiama di seta

            e i granelli di zucchero

   sul toast, amore amore o non importa, prendi un numero. Mi dispiace

                                                                           è una storia così triste.

Caro Perdono, sai che di recente

                 abbiamo avuto le nostre difficoltà e ci sono molte cose

                                                                che vorrei chiederti.

Ci ho provato quella volta, a scuola, la seconda colazione, e poi ancora,

            anni dopo, nella piscina di cloro.

                        Ti parlo ancora di aiuto. Non ho ancora

questi lussi.

Ti ho detto da dove provengo, fai due più due.

                        Stringiamo i nostri ventri e rotoliamo sul pavimento

Quando lo dico, dovrebbe suscitare una risata,

non avvelenare.

                     Ne voglio ancora di salsa alle mele. Voglio più posti riservati agli eroi.

Caro Perdono, ho messo da parte un piatto per te.

                        Smettila di girare intorno al giardino e vieni dentro.


“Albino” di Pedriali Dino
1950/
fotografia
stampa su carta
1982
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
Via Don Giovanni Minzoni, 14
Bologna (BO)
Snow and Dirty Rain

Close your eyes. A lover is standing too close
to focus on. Leave me blurry and fall toward me
with your entire body. Lie under the covers, pretending
to sleep, while I’m in the other room. Imagine
my legs crossed, my hair combed, the shine of my boots
in the slatted light. I’m thinking My plant, his chair,
the ashtray that we bought together. 
I’m thinking This is where
we live. 
When we were little we made houses out of
cardboard boxes. We can do anything. It’s not because
our hearts are large, they’re not, it’s what we
struggle with. The attempt to say Come over. Bring
your friends. It’s a potluck, I’m making pork chops, I’m making
those long noodles you love so much. 
My dragonfly,
my black-eyed fire, the knives in the kitchen are singing
for blood, but we are the crossroads, my little outlaw,
and this is the map of my heart, the landscape
after cruelty which is, of course, a garden, which is
a tenderness, which is a room, a lover saying Hold me
tight, it’s getting cold.
 We have not touched the stars,
nor are we forgiven, which brings us back
to the hero’s shoulders and the gentleness that comes,
not from the absence of violence, but despite
the abundance of it. The lawn drowned, the sky on fire,
the gold light falling backward through the glass
of every room. I’ll give you my heart to make a place
for it to happen, evidence of a love that transcends hunger.
Is that too much to expect? That I would name the stars
for you? That I would take you there? The splash
of my tongue melting you like a sugar cube? We’ve read
the back of the book, we know what’s going to happen.
The fields burned, the land destroyed, the lovers left
broken in the brown dirt. And then it’s gone.
Makes you sad. All your friends are gone. Goodbye
Goodbye. No more tears. I would like to meet you all
in Heaven. But there’s a litany of dreams that happens
somewhere in the middle. Moonlight spilling
on the bathroom floor. A page of the book where we
transcend the story of our lives, past the taco stands
and record stores. Moonlight making crosses
on your body, and me putting my mouth on every one.
We have been very brave, we have wanted to know
the worst, wanted the curtain to be lifted from our eyes.
This dream going on with all of us in it. Penciling in
the bighearted slob. Penciling in his outstretched arms.
Our father who art in Heaven. Our father who art buried
in the yard. 
Someone is digging your grave right now.
Someone is drawing a bath to wash you clean, he said,
so think of the wind, so happy, so warm. It’s a fairy tale,
the story underneath the story, sliding down the polished
halls, lightning here and gone. We make these
ridiculous idols so we can to what’s behind them,
but what happens after we get up the ladder?
Do we simply stare at what’s horrible and forgive it?
Here is the river, and here is the box, and here are
the monsters we put in the box to test our strength
against. Here is the cake, and here is the fork, and here’s
the desire to put it inside us, and then the question
behind every question: What happens next?
The way you slam your body into mine reminds me
I’m alive, but monsters are always hungry, darling,
and they’re only a few steps behind you, finding
the flaw, the poor weld, the place where we weren’t
stitched up quite right, the place they could almost
slip right into through if the skin wasn’t trying to
keep them out, to keep them here, on the other side
of the theater where the curtain keeps rising.
I crawled out the window and ran into the woods.
I had to make up all the words myself. The way
they taste, the way they sound in the air. I passed
through the narrow gate, stumbled in, stumbled
around for a while, and stumbled back out. I made
this place for you. A place for to love me.
If this isn’t a kingdom then I don’t know what is.
So how would you catalog it? Dawn in the fields?
Snow and dirty rain? Light brought in in buckets?
I was trying to describe the kingdom, but the letters
kept smudging as I wrote them: the hunter’s heart,
the hunter’s mouth, the trees and the trees and the
space between the trees, swimming in gold. The words
frozen. The creatures frozen. The plum sauce
leaking out of the bag. Explaining will get us nowhere.
I was away, I don’t know where, lying on the floor,
pretending I was dead. I wanted to hurt you
but the victory is that I could not stomach it. We have
swallowed him up, 
they said. It’s beautiful. It really is.
I had a dream about you. We were in the gold room
where everyone finally gets what they want.
You said Tell me about your books, your visions made
of flesh and light 
and I said This is the Moon. This is
the Sun. Let me name the stars for you. Let me take you
there. The splash of my tongue melting you like a sugar
cube… 
We were in the gold room where everyone
finally gets what they want, so I said What do you
want, sweetheart? 
and you said Kiss me. Here I am
leaving you clues. I am singing now while Rome
burns. We are all just trying to be holy. My applejack,
my silent night, just mash your lips against me.
We are all going forward. None of us are going back.

Neve e Pioggia Sporca

Chiudi gli occhi. Un amante in piedi troppo vicino
per metterlo a fuoco. Lasciami sfuocato e cadi su di me
con tutto il tuo corpo. Stai sotto le coperte, fai finta
di dormire, mentre io sono nell’altra stanza. Immagina
le mie gambe accavallate, i miei capelli pettinati, il brillare dei miei stivali
nella luce filtrata dalle assi. Sto pensando La mia pianta, la sua sedia,
il posacenere che abbiamo comprato insieme. Penso Qui è dove
viviamo. Quando eravamo piccoli costruivamo case
da scatole di cartone. Possiamo fare tutto. Non perché
i nostri cuori siano grandi, non lo sono, è quello
contro cui combattiamo. Il tentativo di dire vieni, porta
i tuoi amici. È un potluck, faccio le costolette, sto preparando
quei noodles lunghi che ti piacciono tanto. Mia libellula,
mio fuoco dagli occhi neri, i coltelli in cucina cantano
per il sangue, ma noi siamo i crocevia, mio piccolo fuorilegge,
e questa è la mappa del mio cuore, il paesaggio
dopo la crudeltà che è, ovviamente, un giardino, che è
una tenerezza, che è una stanza, un amante che dice Stringimi
forte, si sta facendo freddo. Non abbiamo toccato le stelle,
né siamo stati perdonati, che ci riporta
alle spalle dell’eroe e alla dolcezza che viene,
non dall’assenza di violenza, ma a discapito
la sua abbondanza. Il campo annegato, il cielo in fiamme,
la luce dorata che cade all’indietro attraverso i vetri
di tutte le stanze. Ti darò il mio cuore per farne un posto
dove possa accadere, prova di un amore che trascende la fame.
è aspettarsi troppo? Dare i nomi alle stelle
per te? Portarti là? Lo schizzo
della mia lingua che ti scioglie come una zolletta di zucchero? Abbiamo letto
la trama del libro, sappiamo cosa succederà.
I campi bruciati, la terra distrutta, gli amanti
spezzati nella polvere marrone. E poi è finita.
Ti rende triste. Tutti i tuoi amici se ne sono andati. Addio
Addio. Niente più lacrime. Vorrei incontrarvi tutti
in Paradiso. Ma c’è una litania di sogni che accade
da qualche parte nel mezzo. Luce di luna che si rovescia
sul pavimento del bagno. Una pagina del libro dove
trascendiamo la storia delle nostre vite, oltre i chioschi di tacos
e i negozi di dischi. Luce di luna che fa delle croci
sul tuo corpo, e io che metto la mia bocca su di ognuna.
Siamo stati molto coraggiosi, abbiamo voluto sapere
il peggio, abbiamo voluto che il velo fosse sollevato dai nostri occhi.
Questo sogno continua con tutti noi dentro. Scarabocchiandoci
lo sciattone dal cuore grande. Scarabocchiandoci le sue braccia spalancate.
Padre nostro che sei nei cieli. Padre nostro che sei sepolto
nel cortile. Qualcuno ti sta scavando la tomba proprio adesso.
Qualcuno ti sta preparando un bagno per lavarti, ha detto,
quindi pensa al vento, così felice, così caldo. È una fiaba,
la storia sotto la storia, che scivola lungo i corridoi lucidati,
un lampo arriva e poi sparisce. Creiamo questi
idoli ridicoli così da poter vedere cosa c’è dietro
ma cosa succede una volta salita la scala?
restiamo semplicemente a guardare ciò che è orribile e lo perdoniamo?
ecco il fiume, ed ecco la scatola, e qui ci sono
i mostri che mettiamo nella scatola, per testare contro di loro
la nostra forza. Ecco la torta, qui la forchetta, e qui
il desiderio di metterla dentro di noi, e poi la domanda
dietro ogni domanda: Cosa succede dopo?
Il modo in cui sbatti il tuo corpo sul mio mi ricorda
che sono vivo, ma i mostri hanno sempre fame, caro,
e sono solo qualche passo dietro di te, alla ricerca
della falla, della saldatura lenta, del punto dove non siamo stati
ricuciti bene, il punto da cui possono quasi
scivolare dentro se la pelle non stesse cercando di
tenerli fuori, di tenerli là, dall’altra parte
del teatro dove il sipario continua ad alzarsi.
Sono strisciato fuori dalla finestra e sono corso nel bosco.
Mi sono dovuto inventare io tutte le parole. Il loro
sapore, il modo in cui risuonano nell’aria. Ho attraversato
lo stretto varco, sono entrato barcollando, barcollato
in giro per un po’, e mi sono trascinato fuori. Ho creato
questo posto per te. Un posto dove tu possa amarmi.
Se non è questo un regno, allora non so cosa lo sia.
Quindi come lo catalogheresti? Alba nei campi?
Neve e pioggia sporca? Luce che cade a secchiate?
Cercavo di descrivere il regno, ma le lettere
continuavano a sbavarsi mentre le scrivevo: il cuore del cacciatore,
la bocca del cacciatore, gli alberi e gli alberi e lo
spazio tra gli alberi, che nuotano nell’oro. Le parole
congelate. Le creature congelate. La salsa di prugne
che cola dalla busta. Spiegare non ci porterà da nessuna parte.
Ero lontano, non so dove, sdraiato sul pavimento,
facevo finta di essere morto. Volevo farti del male
ma la vittoria è non essere riuscito a sopportarlo. L’abbiamo
ingoiato, hanno detto. È bello, è davvero bello.
Ti ho sognato. Eravamo nella stanza dorata
Dove ognuno finalmente ottiene ciò che vuole.
Mi hai detto parlami dei tuoi libri, delle tue visioni
di carne e luce e io ho detto Questa è la Luna. Questo è
il Sole. Fammi dare nomi alle stelle per te. Lascia che ti ci porti.
Lo schizzo della mia lingua che ti scioglie come una zolletta
di zucchero… Eravamo nella stanza dorata dove ognuno
finalmente ottiene ciò che vuole, quindi ho detto Cosa vuoi,
tesoro? E tu hai detto Baciami. Eccomi,
ti lascio degli indizi. Sto cantando mentre Roma
brucia. Stiamo solo cercando di essere tutti santi. Mio applejack,
mia notte quieta, schiaccia solo le tue labbra contro di me.
Stiamo tutti andando avanti. Nessuno di noi torna indietro.


Boot Theory

A man walks into a bar and says:
                                                Take my wife–please.
                                                                                    So you do.
            You take her out into the rain and you fall in love with her
                                                and she leaves you and you’re desolate.
You’re on your back in your undershirt, a broken man
                        on an ugly bedspread, staring at the water stains
                                                                                                on the ceiling.
                  And you can hear the man in the apartment above you
                                    taking off his shoes.
You hear the first boot hit the floor and you’re looking up,
                                                                                    you’re waiting
            because you thought it would follow, you thought there would be
                        some logic, perhaps, something to pull it all together
                  but here we are in the weeds again,
                                                                                         here we are
in the bowels of the thing: your world doesn’t make sense.
                        And then the second boot falls.
                                                            And then a third, a fourth, a fifth.

            A man walks into a bar and says:
                                                Take my wife–please.
                                                                        But you take him instead.
You take him home, and you make him a cheese sandwich,
            and you try to get his shoes off, but he kicks you
                                                                              and he keeps kicking you.
            You swallow a bottle of sleeping pills but they don’t work.
                        Boots continue to fall to the floor
                                                                        in the apartment above you.
You go to work the next day pretending nothing happened.
            Your co-workers ask
                                    if everything’s okay and you tell them
                                                                                    you’re just tired.
            And you’re trying to smile. And they’re trying to smile.

A man walks into a bar, you this time, and says:
                                    Make it a double.
            A man walks into a bar, you this time, and says:
                                                                                 Walk a mile in my shoes.
A man walks into a convenience store, still you, saying:
                                    I only wanted something simple, something generic…
            But the clerk tells you to buy something or get out.
A man takes his sadness down to the river and throws it in the river
                        but then he’s still left
with the river. A man takes his sadness and throws it away
                                                      but then he’s still left with his hands.

Teoria dello Stivale

Un uomo entra in un bar e dice:

prendi mia moglie – per favore. 

quindi esegui. 

La porti fuori nella pioggia e ti innamori di lei

e lei ti lascia e tu sei disperato.

Sei sdraiato sulla schiena in canottiera, un uomo spezzato

su un brutto copriletto, a fissare le macchie di umidità

                                                                       sul soffitto. 

E puoi sentire l’uomo nell’appartamento di sopra 

                 che si toglie le scarpe. 

Senti il primo stivale cadere al suolo e guardi in alto, 

                                                                       attendi 

perchè pensavi che avrebbe continuato, pensavi che ci sarebbe stata 

     una qualche logica, magari, qualcosa che tenesse tutto insieme

ma siamo di nuovo tra le ortiche, 

                                                                   eccoci

nelle viscere della cosa: il tuo mondo non ha senso. 

                 E poi cade il secondo stivale. 

                                                            e poi un terzo, un quarto, un quinto. 

Un uomo entra in un bar e dice: 

                                            prendi mia moglie – per favore. 

                                                                      Ma tu prendi lui invece. 

Lo porti a casa e gli prepari un panino al formaggio, 

            e cerchi di togliergli le scarpe, ma lui scalcia 

                                                                                   e continua a scalciare. 

Mandi giù un’intera bottiglia di sonniferi ma non fanno effetto. 

            Gli stivali continuano a cadere al suolo

                                                           nell’appartamento di sopra.

Vai al lavoro il giorno dopo fingendo che non sia successo niente.

            Il tuo collega chiede 

                                   se è tutto okay e gli dici 

                                                                                   che sei solo stanco. 

            E cerchi di sorridere e anche lui cerca di sorridere.

Un uomo entra in un bar, sei tu stavolta, e dice: 

                                               fammene uno doppio. 

            Un uomo entra in un bar, sei tu stavolta, e dice: 

                                                                       Mettiti nei miei panni. 

Un uomo entra in un minimarket, sempre tu, dicendo: 

                                   Io volevo solo qualcosa di semplice, qualcosa di generico… 

            Ma il commesso ti dice di comprare qualcosa o di uscire. 

Un uomo porta la sua tristezza al fiume e la getta nel fiume

            ma poi gli rimane 

il fiume. Un uomo prende la sua tristezza e la butta via

                                                           ma poi gli rimangono le sue mani. 


I Had a Dream About You

All the cows were falling out of the sky and landing in the mud.
You were drinking sangria and I was throwing oranges at you,
but it didn’t matter.
I said my arms are very long and your head’s on fire.
I said kiss me here and here and here
and you did.
Then you wanted pasta,
so we trampled out into the tomatoes and rolled around to make the sauce.
You were very beautiful.
We were in the Safeway parking lot. I couldn’t find my cigarettes.
You said Hurry up! but I was worried there would be a holdup
and we would be stuck in a hostage situation, hiding behind
the frozen meats, with nothing to smoke for hours.
You said Don’t be silly,
so I followed you into the store.
We were thumping the melons when I heard somebody say Nobody move!
I leaned over and whispered in your ear I told you so.
There was a show on the television about buried treasure.
You were trying to convince me that we should buy shovels
and go out into the yard
and I was trying to convince you that I was a vampire.
On the way to the hardware store I kept biting your arm
and you said if I really was a vampire I would be biting your neck,
so I started biting your neck
and you said Cut it out!
and you bought me an ice cream, and then we saw the UFO.
These are the dreams we should be having. I shouldn’t have to
clean them up like this.
You were lying in the middle of the empty highway.
The sky was red and the sand was red and you were wearing a brown coat.
There were flecks of foam in the corners of your mouth.
The birds were watching you.
Your eyes were closed and you were listening to the road and I could
hear your breathing, I could hear your heart beating.
I carried you to the car and drove you home but you
weren’t making any sense
I took a shower and tried to catch my breath.
You were lying on top of the bedspread
in boxer shorts, watching cartoons and laughing but not making any sound.
Your skin looked blue in the television light.
Your teeth looked yellow.
Still wet, I lay down next to you. Your arms, your legs, your naked chest,
your ribs delineated like a junkyard dog.
There’s nowhere to go, I thought. There’s nowhere to go.
You were sitting in a bathtub at the hospital and you were crying.
You said it hurt.
I mean the buildings that were not the hospital.
I shouldn’t have mentioned the hospital.
I don’t think I can take this much longer.
In the dream I don’t tell anyone, you put your head in my lap.
Let’s say you’re driving down the road with your eyes closed
but my eyes are also closed.
You’re by the side of the road.
You’re by the side of the road and you’re doing all the talking
while I stare at my shoes.
They’re nice shoes, brown and comfortable, and I like your voice.
In the dream I don’t tell anyone, I’m afraid to wake you up.
In these dreams it’s always you:
the boy in the sweatshirt,
the boy on the bridge, the boy who always keeps me
from jumping off the bridge.
Oh, the things we invent when we are scared
and want to be rescued.
Your jeep. Your teeth. The coffee that you bought me.
The sandwich cut in half on the plate.
I woke up and ate ice cream in the dark,
hunched over on the wooden chair in the kitchen,
listening to the rain.
I borrowed your shoes and didn’t put them away.
You were crying and eating rice.
The surface of the water was still and bright.
Your feet were burning so I put my hands on them, but my hands
were burning too.
You had a bottle of pills but I wouldn’t let you swallow them.
You said Will you love me even more when I’m dead?
And I said No, and I threw the pills on the sand.
Look at them, you said. They look like emeralds.
I put you in the cage with the ocelots. I was trying to fatten you up
with sausage and bacon.
Somehow you escaped and climbed up the branches of a pear tree.
I chopped it down but there was no one in it.
I went to the riverbed to wait for you to show up.
You didn’t show up.
I kept waiting.

Ti ho sognato

Tutte le vacche cadevano dal cielo e atterravano nel fango
Tu bevevi sangria e io ti lanciavo addosso delle arance,
ma non aveva alcuna importanza.
Ho detto le mie braccia sono davvero lunghe e la tua testa va a fuoco.
Ho detto baciami qui, e qui, e qui
E tu hai eseguito.
Dopo volevi mangiare la pasta,
Così abbiamo pestato i pomodori e ci siamo rotolati per farne la salsa.
Eri stupendo.
Ci trovavamo nel parcheggio di Safeway. Non riuscivo a trovare le mie sigarette.
Mi dicevi Sbrigati! ma mi preoccupava l’idea di una rapina
E che saremmo rimasti bloccati, come ostaggi, nascosti dietro
La carne surgelata, con niente da fumare per ore.
Mi hai detto Non fare l’idiota,
Così ti ho seguito dentro il negozio.
Stavamo tamburellando sui cocomeri quando abbiamo sentito qualcuno dire Nessuno si muova!
Mi sono piegato e ti ho sussurrato all’orecchio: te l’avevo detto.
In televisione mandavano in onda uno show sui tesori sepolti.
Stavi cercando di convincermi a comprare delle vanghe
e andare fuori in giardino
e io provavo a convincerti di essere un vampiro.
Sulla strada per il ferramenta continuavo a morderti il braccio
E tu mi hai detto che se fossi stato davvero un vampiro avrei puntato alla gola,
così ho iniziato a morderti il collo
e tu hai detto: dacci un taglio!
e mi hai comprato un gelato, e poi abbiamo visto l’UFO.
Questi sono i sogni che dovremmo fare. Non dovrei doverli ripulire così.
Tu eri sdraiato nel bel mezzo della strada vuota.
Il cielo era rosso, la sabbia era rossa e tu portavi un cappotto marrone.
C’erano rivoli di bava agli angoli della tua bocca.
Gli uccelli ti fissavano.
I tuoi occhi erano chiusi e stavi ascoltando la strada e riuscivo a
sentirti respirare, riuscivo a sentire il tuo cuore battere.
Ti ho portato alla macchina e accompagnato a casa ma tu
non avevi alcun senso
Ho fatto una doccia e ho provato a riprendere fiato.
Tu eri sdraiato in sul copriletto
in boxer, a guardare cartoni animati e a ridere ma senza fare alcun suono.
La tua pelle sembrava blu alla luce del televisore.
I tuoi denti sembravano gialli.
Ancora fradicio, mi sono sdraiato accanto a te. Le tue braccia, le tue gambe, il tuo petto nudo, le tue costole marcate come un cane randagio.
Non c’è dove andare, ho pensato. Non c’è dove andare.
Tu sedevi in una vasca da bagno all’ospedale e piangevi.
Dicevi che ti faceva male.
Intendo gli edifici che non erano l’ospedale.
Non avrei dovuto nominare l’ospedale.
Non penso di poter continuare a lungo.
Nel sogno che non racconto a nessuno, tu poggi la testa sul mio grembo.
Diciamo che guidi lungo la strada tenendo gli occhi chiusi
ma anche i miei occhi sono chiusi.
Tu sei sul ciglio della strada.
Tu sei sul ciglio della strada e parli solo tu
mentre io mi fisso le scarpe.
Sono delle belle scarpe, marroni e comode, e la tua voce mi piace.
Nel sogno che non racconto a nessuno, ho paura di svegliarti.
In questi sogni sei sempre tu:
il ragazzo con la felpa,
il ragazzo sul ponte, il ragazzo che mi salva
dal saltare giù dal ponte.
Ah, le cose che inventiamo quando abbiamo paura
e desideriamo essere salvati.
La tua jeep. I tuoi denti. Il caffè che mi hai comprato.
Il sandwich tagliato a metà sul piatto.
Mi sono svegliato e ho mangiato il gelato al buio,
Curvo sulla sedia di legno della cucina,
Ascoltando la pioggia.
Ho preso in prestito le tue scarpe e non le ho tolte.
Tu piangevi mangiando riso.
La superficie dell’acqua era ferma e luminosa.
I tuoi piedi andavano a fuoco, così ho messo le mie mani su di loro, ma le mie mani
pure andavano a fuoco.
Avevi una boccetta di pillole, ma non le ingoiavi.
Mi dicevi Mi amerai ancora di più quando sarò morto?
E io rispondevo No, e lasciavo le pillole sulla sabbia.
Guardale, mi dicevi. Sembrano smeraldi.
Ti mettevo in gabbia con i leopardi. Provavo a ingrassarti
Con salsiccia e bacon.
In un qualche modo scappavi e ti arrampicavi sui rami di un pero.
Lo abbattevo, ma non c’era nessuno dentro.
Andavo sul letto del fiume ad aspettarti.
Non ti sei presentato.
Ho continuato ad aspettare.


Quando ho scoperto Kathy Acker

Restituzione dell’incontro “Tradurre genealogie femministe: da Kathy Acker a Lidia Yuknavitch” a cura della rassegna di letteratura e traduzione Quasi La Stessa Cosa.

Introduzione a cura di Elena Strappato, contributi a cura di Guia Cortassa, Alessandra Castellazzi e Arianna Preite

Se è vero, come ricorda un narratore da L’Impulso (Nottetempo, 2024) di Lidia Yuknavitch, che le storie sono «quanti», particelle elementari che connettono esistenze, da quale interazione, da quale groviglio di vita e di materia si generano a loro volta le storie? Quali incontri materiali le precedono? Quali nuovi incontri riproducono?

Il 12 ottobre, insieme alle traduttrici Guia Cortassa e Alessandra Castellazzi, e alla dottoranda Arianna Preite, ci siamo trovate alla Biblioteca delle donne per raccontare un libro e un incontro. Quell’innesto di materia esplosa, violenza e tenerezza che è L’Impero dei non sensi di Kathy Acker (NERO Editions, 2024) con un occhio aperto su una sua lettrice, e poi scrittrice, privilegiata: Lidia Yuknavitch. Un incontro, quello tra Kathy Acker e Lidia Yuknavitch, fuori e dentro il testo; un incontro, il nostro, con le loro voci.

Abbiamo tentato di leggere Acker con Yuknavitch e Yuknavitch con Acker per ricreare una genealogia delle nostre letture. Non solo perché queste autrici si sono incontrate, e l’influenza di una è stata fondamentale per la seconda. Ma anche perché la voce dell’una scopre e riscopre quella dell’altra, senza gerarchie o ordine che tenga, ma in un gioco di echi e reti nate fuori dal testo, cause ed effetti di un incontro incanalato dalla parola scritta e poi condivisa.

In una, è il desiderio di lacerare tutto, fare della pagina la ferita e la cassa di risonanza della ferita, nell’altra, la voglia di cucire insieme i tagli, ricreare una mappa con le suture. Nelle loro differenze abbiamo cercato uno spazio per raccontare i loro testi senza addomesticarne suoni e sensi.

Riportiamo qui una traccia dell’incontro nei contributi di Guia Cortassa, Alessandra Castellazzi e Arianna Preite.

PRENDERE. DISTRUGGERE. RICOSTRUIRE.

[Kathy] Acker racconta ripetutamente la stessa storia: la madre è incinta della figlia e il padre se ne va. La madre incolpa la figlia e cerca di abortirla. Il corpo della figlia sopravvive, ma non il suo sé unificato… È vero? Ha importanza?… Acker libera la libido dal mondo sotterraneo represso di Freud.[1]

Ma poi, ancora, non ha fatto quello che tutti gli scrittori devono fare? Creare una posizione da cui scrivere?

La vita di Acker era una favola, e descrivere la confusione, l’amore e gli obiettivi contrastanti dietro questi memoriali sarebbe come abbozzare un’allegoria apocrifa di una vita artistica alla fine del ventesimo secolo.[2]

Si è parlato molto della sperimentazione formale di Yuknavitch, in particolare dell’uso di forme ibride nel testo… Ma l’aspetto genuinamente sovversivo e stimolante dell’opera di Yuknavitch è la sua messa in primo piano del corpo, e in particolare la sua presentazione del sesso. Yuknavitch ci costringe a vedere il corpo in tutta la sua fisicità, la sua carne, i suoi fluidi e le sue escrezioni, e raffigura scene di sesso, tra cui sesso feticista e sadomasochistico, che sono brutalmente viscerali. Le scene di sesso di Yuknavitch sono famose tra le scrittrici americane contemporanee, non solo per la loro esplicitezza, ma per il modo in cui le usa per perseguire questioni di intenzione, individualità e implicazioni etiche del fare arte.[3]

Se un lavoro è abbastanza immediato, abbastanza vivo, la risposta più adeguata non è essere accademiche, scriverne, ma usarlo, per andare avanti. Usandoci l’un l’altra, usando i testi delle altre, continuiamo a vivere, immaginare, fare, scopare, e combattiamo a morte questa società.[4]

Allora non limitarti a leggere questo testo. Usalo – come un attrezzo, un martello, una pietra per infrangere qualsiasi barriera ti impedisca di immaginare un posto altro e migliore. I testi letterari partecipano alle conseguenze nel mondo reale.[5]

Non è vero che non sei niente. Sei vitale per la tua cultura. Noi disadattati siamo quelli capaci di entrare nel dolore. Nella morte. Nel trauma. Ed emergerne. Ma dobbiamo continuare a raccontare le nostre storie, ad affidarle l’uno all’altra, o ci mangeranno vive. La nostra sofferenza non è la storia di Cristo. La nostra sofferenza genera un significato secolare. Mettiamo al mondo delle forme ordinarie di speranza così che gli altri, trasandati o raffinati che siano, possano andare avanti.[6]

di Guia Cortassa

Kathy Acker + Lidia Yuknavitch

Ho deciso che volevo saperne di più di Kathy Acker quando l’ho incontrata per la seconda volta, nel giro di pochi mesi, in un libro che stavo traducendo. Il primo era Everybody di Olivia Laing (Saggiatore,2022), un saggio sui corpi e sulla libertà. A partire dal potentissimo “The Gift of Disease”, un articolo in cui Acker descrive il proprio rapporto con la malattia, Laing rifletteva sulla sua scelta di rifiutare le cure convenzionali per il cancro, di cui morì nel 1997. L’altro era La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch (Nottetempo, 2022), un memoir in cui Acker appare in compagnia di George Bataille e il Marchese de Sade, Dennis Cooper e William Burroughs, a formare il «ventre molle della letteratura» (e in carne e ossa, a nuotare con l’autrice).

«Ho trovato una progenitrice letteraria in Kathy Acker» conclude Yuknavitch. E in effetti tra le due c’è più di un’affinità. Per cominciare, c’è la voglia di sbattere in faccia a chi legge il dolore e la violenza del mondo, e il modo in cui ricadono sul corpo di una donna o di una bambina, senza mai edulcorare il racconto. «Una caratteristica notevole dei romanzi di Acker è che sono popolati da alter ego» scrive Laing, «che a prescindere dall’età restano povere bambine abbandonate, trascurate, precocemente sessualizzate, perse in un paesaggio psichico sudicio, pericoloso, spesso letale». Ci sono figure ricorrenti nei suoi romanzi: pirati, motociclisti, tatuatori – bambine stuprate dai padri. In L’impero dei non sensi queste figure deflagrano nel viaggio allucinato di Thivai (un pirata) e Abhor (mezza donna e mezza robot), due amanti che si odiano, nelle strade di una Parigi messa a ferro e fuoco da una rivolta algerina, alla ricerca di un farmaco salvavita. Esplode tutto: la città simbolo dei lumi europei, i corpi che – come figurine di pongo – sopravvivono a ogni brutalità immaginabile. Salta in aria l’ordine patriarcale, occidentale, del capitale. Restano le macerie in cui continua a formicolare ostinata, mutilata, la vita.

Anche i romanzi di Yuknavitch sono pieni di alter ego. C’è sempre una bambina – la bambina che è stata, la figlia che ha perso. In L’impulso è una ragazzina che viaggia nel tempo tuffandosi in acqua; in Lasciarsi cadere (Nottetempo, 2023) è l’unica superstite di una famiglia annientata dalla guerra. C’è sempre una donna che insegna a purificare il dolore nel sesso: a volte assume i connotati di una fotografa, altre della maitresse di un bordello. Sempre, è l’artefice di una catarsi. Il suo intervento sprigiona il desiderio nella scrittura di Yuknavitch, una fame di piacere, di dissoluzione, che racchiude in sé gli opposti della distruzione e della speranza. Serpeggia nei romanzi, asseconda il fluire del racconto: la speranza intima e feroce è il motore che muove la scrittura di Yuknavitch. «È il mio fuoco» spiega. «Le storie nascono dal luogo dove in me sono avvenute la vita e la morte». 

Di Alessandra Castellazzi

Giochi della matassa collettivi dentro e fuori dall’opera di Kathy Acker

Parlare di Kathy Acker a quattro voci ha creato un momento di riflessione e comprensione nuova della sua scrittura, attraverso quello che mi è sempre sembrato chiedere la sua opera: un gesto attivo di ingaggio con i suoi testi, molto più che una lettura solitaria, silenziosa e attenta. Le sue pagine hanno più spesso evocato l’idea che il modo migliore per comprenderle fosse quello di saper creare dei momenti condivisi a partire da queste, dei rituali che si riverberassero nel mondo, che uscissero in maniera radicale dall’oggetto-libro.

Quando questo accade, quello che mi colpisce sempre è vedere come ogni persona segua il proprio filo rosso, tra i molteplici che possono condurre a questa autrice, e lo percorra religiosamente sulla base della sua genealogia di Acker alla quale i propri personalissimi giochi della matassa nel tempo hanno condotto. Questo ovviamente genera a sua volta delle letture che moltiplicano la percezione che si ha della sua scrittura: il fatto di averla scoperta tramite una certa altra autrice, che ha nascosto un pezzo di lei in un suo testo, spalanca le porte a una specifica visione della sua narrativa, basata sulla fonte della scoperta, sulla sorgente che ne ha consentito la rivelazione. Lo scambio collettivo fa incontrare tutte queste diverse versioni di lei, e scoprire quante ne esistono e come si relazionano tra loro consente di osservare quello che ha visto qualcun’altra e di confrontarlo con quello che hai visto tu.

Lo facciamo con tutte le scrittrici? Lo facciamo con tutte le opere letterarie? In qualche modo sì, ma forse in una maniera diversa quando i testi in questione, e soprattutto la loro autrice, hanno molte voci e una narrativa fondata sulla liberazione di tutte queste contemporaneamente, sull’intersezione di medium diversissimi, che chiedono a chi legge di approcciarsi a ogni pagina in modo nuovo: di girare il libro al contrario, di guardare le parole diventare immagini, di decifrare una lingua inconoscibile. Forse da questo possiamo riconoscere una grande scrittrice, e non da quanto i burocrati del canone ritengano valido o meno inserire il suo nome nei loro registri, ma dalla sua capacità di rifiutare così radicalmente ogni confine da portarci fuori dal testo, e anche se in qualche modo insieme, ognuna in una direzione diversa.

di Arianna Preite

Note

1] Dodie Bellamy, Digging Through Kathy Acker’s Stuff, citato in Chris Kraus, “Littoral Madness: On Kathy Acker”, the Paris Review, 22 agosto 2017, https://www.theparisreview.org/blog/2017/08/22/littoral-madness/

[2] Chris Kraus, “Littoral Madness: On Kathy Acker”, the Paris Review, 22 agosto 2017, https://www.theparisreview.org/blog/2017/08/22/littoral-madness/

[3] Garth Greenwell “The Wild, Remarkable Sex Scenes of Lydia Yuknavitch” in the New Yorker, 25 agosto 2015,​​https://www.newyorker.com/books/page-turner/the-wild-remarkable-sex-scenes-of-lidia-yuknavitch

[4] Kathy Acker citata in Alexandra Kleeman “The Future Is a Struggle: On Kathy Acker’s Empire of the Senseless”, the Paris Review, 12 giugno 2018, https://www.theparisreview.org/blog/2018/06/12/the-future-is-a-struggle-on-kathy-ackers-empire-of-the-senseless/

[5] Alexandra Kleeman “The Future Is a Struggle: On Kathy Acker’s Empire of the Senseless”, the Paris Review, 12 giugno 2018, https://www.theparisreview.org/blog/2018/06/12/the-future-is-a-struggle-on-kathy-ackers-empire-of-the-senseless/

[6] Lydia Yuknavitch “It’s a myth that suffering makes you stronger”, Ideas.Ted.Com, 24 ottobre 2017, https://ideas.ted.com/its-a-myth-that-suffering-makes-you-stronger/


In copertina, una fotografia di Kathy Acker scattata nel 1996 (Creative Commons Licence)

All of Us Lovers: gli amori tradotti della redazione

In attesa delle vostre proposte per la Call for Translators su poesia e amore, la sezione Traduzioni di Almanacco si mette a nudo con le sue editors’ picks.

Si chiama ‘Pur sempre amore’, l’abbiamo lanciata qualche settimana fa, è una Call for translators in cui vi invitiamo a esplorare, con le vostre traduzioni poetiche, le forme, i modi e le funzioni della scrittura d’amore contemporanea. Come l’odore del cibo fa venire fame, come chi è innamorato innamora, con queste editors’ picks vogliamo farvi venire l’acquolina in bocca. Vi offriamo una specie di Satura lanx, un piatto di primizie in cui troverete un po’ di tutto: l’inglese, il francese e lo spagnolo, ma anche il greco moderno e il polacco; il verso, il verso che va verso la prosa, e la prosa; amori mortiferi esagerati erotici sconsolati bizzarri materni. Eppure, per quanto diversificata, la nostra è una selezione di testi che non vuole esaurire, quanto piuttosto suggerire, provocare, invitare ad aggiungere…

Aliquot lineae desiderantur, ‘mancano alcune linee’, è la formula che i filologi utilizzavano per segnalare la presenza di una lacuna in un testo. “Desiderantur…desiderantur…desiderantur”, insiste anaforicamente Sanguineti nel primo tassello del suo Laborintus, lasciando intuire come la lacuna in questione non sia più soltanto testuale, ma si apra nel ventaglio di una polisemica mancanza.

Donne desideranti (e non solo desiderate), donne scriventi (e non solo scritte), donne amanti (e non solo amate), donne osservanti (e non solo osservate), per esempio: una lacuna nella storia ufficiale della letteratura occidentale. Così, tradurre le voci contemporanee di Sara Torres, Bronka Nowicka, Phoebe Giannisi, ma anche le meno contemporanee di Louise Bogan e Catherine Pozzi, è il nostro tentativo parziale di colmare questa mancanza, ma è anche un modo per farvi venire voglia di tradurre, un invito ad aggiungere i vostri amori ai nostri, le vostre voci alle nostre. Perchè “solo nel coro”, diceva Kafka, “può esserci una certa verità”.

Da Phantasmagoria (La Bella Varsovia, 2019) di Sara Torres, traduzione di Camilla Marchisotti

has construido un escritorio en tu habitación nueva. la única en la qué me acuesto sabiendo que será necesario desaparecer a la mañana siguiente. hay flores secas en jarrones de cristal distinto. otras no tan muertas todavía en violáceo. verde oscuro. copa con agua. segunda fotografía de alguien que podría ser tú. tu figura y la suya son similares. vuelvo a mirar atenta. debo entenderlo todo. he de ser certera afilada contemplar todas las pistas en el mapa del dolor. seguir hasta la extenuación hasta la extenuación. busco y me encuentro también en los objetos. deseo trazar la jerarquía. más restos que lleven a mí. adherida con cinta a la pared una moneda de cinco peniques con la que codiciamos en tiempos de derrumbe. solo unos días atrás.  vamos a intentarlo ―y entonces la respuesta es no. será heroico y tozudo o no será. será grandilocuente ostentado burdeos o no será. no será si no basa su entereza en la creencia de la gran mentira. la ciega. la fe. la ciega. la fe. voy abajo hasta el poso naranja de las huellas frescas. voy al compost buceando palmas palas de arcilla rota. será caprichoso y hambriento. irrrumpiente y trastornado como el carro que desborda la velocidad de las bestias que iban tirando de él y las empuja a las esquinas del camino. flancos hacia arriba. mirando perplejas. será como el gesto de sorpresa en los ojos redondos y oscuros de las bestias súbitamente arremetidas o no será  

hai costruito una scrivania nella tua stanza nuova. l’unica in cui dormo sapendo che dovrò sparire la mattina dopo. ci sono fiori secchi in vasi di diversi vetri. alcuni non ancora così morti in viola intenso. verde scuro. acqua nel bicchiere. seconda foto di qualcuno che potresti essere tu. la tua e la sua figura sono simili. guardo di nuovo attenta. devo capire tutto. devo essere precisa affilata contemplare ogni indizio sulla mappa del dolore. continuare fino all’estenuazione fino all’estenuazione. cerco e mi ritrovo anche negli oggetti. voglio tracciare la gerarchia. altri resti che conducano a me. appiccicata con il nastro alla parete una moneta da cinque pence con cui tanto abbiamo desiderato  in tempi di rovina. appena qualche giorno fa. proviamoci ―allora la risposta è no. sarà eroico e ostinato o non sarà. sarà grandiloquente ostentato porpora o non sarà. non sarà se non basato interamente sulla credenza nella gran menzogna. quella cieca. la fede. quella cieca. la fede. scendo fino al residuo arancio delle tracce fresche. scavando verso il compost i palmi pale di argilla rotta. sarà capriccioso e affamato. dirompente e frastornato come il carro che sorpassa in velocità le bestie che lo tirano e le spinge ai lati della strada. pancia in su. sguardo perplesso. sarà come il gesto di sorpresa negli occhi tondi e oscuri delle bestie d’improvviso soggiogate o non sarà

Da Kodeks pomylonych (Biuro Literackie, 2020) di Bronka Nowicka, traduzione di Marta Wanicka

SERCE
Serce im prostsze, tym lepsze. Nie wydziwiaj przy nim. Uszyj mieszek. Nie za słaby, bo pęknie, zbyt mocny stwardnieje. Skrój go z płótna, które kurczy się i oddycha. Uchwyć właściwą pojemność. Serce ma pomieścić najcenniejsze rzeczy. Po odłożeniu igły weź coś ulotnego. Jednym dmuchnięciem tchnij płochliwość w środek. Dorzuć głośno chodzący zegarek.

CUORE
Il cuore più è semplice, meglio è. Non sbizzarrirti troppo. Cuci un borsellino. Non troppo debole, così scoppia, troppo forte poi diventa duro. Ritaglialo dal telo che si stringe e respira. Cogli la capienza giusta. Il cuore è fatto per tenere le più care cose. Dopo aver riposto l’ago prendi qualcosa di effimero. Con un soffio inspiragli l’istinto della fuga. Buttaci l’orologio che ticchetta forte.

OKO
Kulkę kwiatu bawełny nasącz wodą. Już z tego możesz uzyskać nie najgorsze oko. O ile nada się do czułego opatrzenia rany, zachowaj je jako udane. Jeżeli będzie mogło tylko widzieć – wyrzuć. 

OCCHIO
Bagna una pallina di fiore di cotone. Già così può uscirne un occhio niente male. Se si presta a fasciare con cura una ferita, tienilo per buono. Se può solo vedere – buttalo.

USTA
Usta wykop w ciele. Lej mleko w ten dół. Jeżeli płyn wsiąknie, to znaczy, że się przyjęły. Sprawdzaj, czy zamieszkał tam czerwony robak. Jeśli tak, uwiąż go do nory, by nie wyszedł dalej niż za krawędź. Codziennie pobudzaj obleńca do ruchu. Jeżeli okaże się leniwy, zrobiłeś paszczę. Lecz gdy robak zacznie się uwijać i otwór przemówi, dokonałeś ust ludzkich.

BOCCA
Scava la bocca nel corpo. Versa del latte nella fossa. Se assorbe il liquido, vuol dire che ha attecchito. Controlla regolarmente se ci è andato a vivere un lombrico rosso. Se sì, legalo alla tana, in modo che non vada oltre il bordo. Ogni giorno stimola il verme a muoversi. Se viene fuori pigro, hai creato delle fauci. Ma se il lombrico comincia a dimenarsi e il buco parla, hai realizzato una bocca umana.

SZEPT
Opakuj głos mówiący w aksamit, w którym ukryłeś listek celofanu. Podawaj zawiniątko przez wąską szczelinę.

SUSSURRO
Avvolgi la voce parlante nel velluto in cui hai nascosto un foglietto di cellofan. Il pacchettino va servito da una fessura stretta.

SŁOWO
Mowa jest niczym pokarm. Zawiera treść. Może krzepić jak cukier lub palić jak pieprz. Truje bądź odżywia. Dlatego tak wyrabiaj słowa, żeby podawane z ust do ust były jak świeże ryby, winne jabłka, miód.

PAROLA
Il parlare assomiglia all’alimentazione. Contiene sostanza. Può rinvigorire come lo zucchero o bruciare come il pepe. Avvelena o nutre. Per questo, lavora le parole in modo che servite da labbra a labbra siano fresche come pesci, mele succose, miele.

SKŁADNIA
Sztukę scalania słów poprzedzaj praktyką dotyku. Nim wypowiesz „miękka sierść”, długo trzymaj rękę na psim łbie.

SINTASSI
All’arte di assemblare le parole fai precedere la pratica del tocco. Prima di dire “pelo morbido” tieni una mano poggiata a lungo sulla testa di un cane.

WIERSZ
Uszyj brzuch. Umieść w nim embrion – zwitek czystej kartki. Przywiąż ciążę trokami i noś. Chodząc, kołysz. Kiedy poczujesz, że to już, przykucnij, przyj. W pęknięciu błyśnie główka, zmarszczone papierzątko. Przytul kukiełkę ze znamieniem pisma. Odczytaj z jej czoła pierworodny wiersz.

POESIA
Cuci un ventre. Piazzaci un embrione – foglio bianco arrotolato. Allaccia la gravidanza con le cinghie e portala. Nel camminare, ondeggia. Quando senti che è arrivato il momento, accovacciati, spingi. Nella fessura risplenderà una testolina, un pezzetto di carta sgualcito. Abbraccia il pupazzetto macchiato di scrittura. Leggi dalla sua fronte la poesia primogenita. 

Da Très Haut Amour. Poèmes et autres textes di Catherine Pozzi (ed. di Claire Paulhan e Lawrence Joseph, Gallimard, 2002), traduzione di Elena Strappato

N’ayant absolument plus aucun espoir
Ne comptant, même plus, sur l’intelligence
Comprenant que la gloire est pour les heureux ;
Empêchée de vivre de ce corps foudroyé,
Les amis étant morts,
La science utile étant pour les vivants ;
Objet d’étonnement à ceux qui passent,
Scandale à ceux qui se contentent,
Assise sans presque respirer,
Elle travaille,
Une rose au cœur.

Non avendo assolutamente più nessuna speranza
Non contando più nemmeno sull’intelligenza,
Preso atto che la gloria è per i felici;
Impedita a vivere da questo corpo fulminato,
Gli amici ormai morti,
La scienza utile riservata ai vivi;
Oggetto di stupore per i passanti,
Scandalo per chi si accontenta,
Seduta quasi senza respirare,
Lei lavora,
Una rosa al cuore.

Da Body of this Death: Poems (Robert M. McBride, 1923) di Louise Bogan, traduzione di Elena Strappato

“Epitaph for a Romantic Woman”

She has attained the permanence
She dreamed of, where old stones lie sunning.
Untended stalks blow over her
Even and swift, like young men running.

Always in the heart she loved
Others had lived,—she heard their laughter.
She lies where none has lain before,
Where certainly none will follow after.

“Epitaffio per una donna romantica”

Ha raggiunto la permanenza
che sognava, dove vecchie pietre stanno al sole.
Steli negletti le respirano accanto
rapidi e compatti, simili a giovani in corsa.

Sempre nel cuore ha amato
altri hanno vissuto – li ha sentiti ridere.
Sta dove nessuno è mai stato
dove è certo che nessuno seguirà.

Da ομηρικά (οmeriche, Kedros, 2007) di Phoebe Giannisi, traduzione di Vassilina Avramidi

“(Πηνελόπη ΙΙΙ)”

λατρεύει τα παιδιά της
όταν ήταν μικρά από το πιάτο τελείωνε αυτή το φαγητό τους
ακόμα τρώει τα υπολείμματα
και τώρα πλέον
φορά τα ρούχα της κόρης της από εκείνης ψηλότερης
όταν τα έχει βρωμίσει και στο καλάθι τα αφήνει για πλύσιμο
φορά τα καλτσάκια
και πάει μ αυτά στη δουλειά
τα λερωμένα δανείζεται
άραγε κάνει οικονομία στις πλύσεις ή
το φυλαχτό είναι ενεργό

μονάχα
όταν κρατά από το σώμα
το πιο δικό μας
ίχνος
των εκκρίσεων τη μυρωδιά;

“(Penelope III)”

adora i suoi figli
quando erano piccoli lei stessa dal piatto finiva il loro cibo
ancora mangia gli avanzi
e adesso ormai
porta i vestiti della figlia, più alta di lei
quando sporchi li lascia nel cesto del bucato
si mette i calzini
e con questi va al lavoro
prende in prestito quelli sudici
sarà per risparmiare sui bucati oppure
l’incantesimo rimane attivo

soltanto
quando mantiene dal corpo
traccia
quella più nostra
l’odore delle secrezioni?

“(Πηνελόπη IV)”

όταν γεννιέται ένα παιδί
η τρυφερότητα ρέει
όπως το γάλα απ’ τις ρώγες
ο ουρανός καθαρός
όπως τα μάτια του που θολά βλέπουν
γεννιέται μεγάλο μέσα στο τόσο μικρό

ανοιχτό και κλειστό
κάθε νεογέννητο ο Δίας στο άντρο του
θηλάζει απ’ την κατσίκα το γάλα
ανίσχυρο και για αυτό
δυνατότερο όλων
έτοιμο
έχει στα χέρια του τον κόσμο

ξύπνησα μέσα στη νύχτα
να μουρμουρίσω την αγάπη μου για αυτό
τον αγώνα τη δύναμή του για ζωή

τις κάλτσες τα ρούχα του
την δική μας ανίκητη μυρωδιά
τον ήσυχο ύπνο του
ένα απέραντο δώρο έπεσε πάλι από τα αστέρια

“(Penelope IV)”

quando nasce un bimbo
la tenerezza cola
come il latte dai capezzoli
il cielo chiaro
come i suoi occhi che guardano sfocati
nasce grande dentro quel tanto piccolo

aperto e chiuso
ogni neonato è Zeus nel suo antro
prende il latte dalla capra
impotente e perciò
più forte di tutti
pronto
tiene nelle mani il mondo

mi sono svegliata nella notte
a mormorare il mio amore per lui
la sua gara la forza per la vita

i suoi calzini i vestiti
il nostro invincibile odore
il suo sonno quieto
un altro regalo infinito caduto dalle stelle

Sette domande sul post-esotismo. Intervista ad Antoine Volodine

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Lorenzo Petrachi (Università di Bergamo; Dalla Ridda)

L’utilizzo del “noi” e del “voi”, in quest’intervista del 7 ottobre 2024, è dovuto allo statuto peculiare della funzione autore nella letteratura post-esotica, statuto accomunabile per certi versi all’eteronimia. Antoine Volodine si vuole infatti unico “portavoce” di una letteratura scritta altrove, composta da una molteplicità di voci autoriali che, nella finzione post-esotica, abitano un universo concentrazionario e prendono il nome di “surnarratori”. Tra questi, Manuela Draeger, Elli Kronauer, Lutz Bassmann e lo stesso Antoine Volodine, eteronimo sui generis del solo individuo in carne ed ossa che congegna e dà alle stampe il post-esotismo. “Essere un collettivo”, scrive, “è qualcosa di molto delicato”. Si ringraziano Anna D’Elia, traduttrice del volume Liturgia del disprezzo, e la casa editrice 66thand2nd.


Lorenzo Petrachi: Il rapporto della letteratura post-esotica con l’attività di traduzione è tutt’altro che esteriore, al contrario, si potrebbe dire che è particolarmente stretto, forse persino costitutivo. In primo luogo, perché lei, Antoine Volodine, oltre che portaparola e delegato degli scrittori post-esotici – quanto a loro morti, imprigionati, impazziti, comunque sia impossibilitati a parlare da sé fuori dalle mura del loro universo concentrazionario –, è traduttore dal russo e dal portoghese di una letteratura che non appartiene agli orizzonti del post-esotismo (con l’eccezione degli Slogans di Maria Soudaïeva). Poi, e più fondamentalmente, perché i volumi che compaiono in libreria accompagnati dalle vostre firme costituiscono le prove materiali dell’esistenza di un altrove, rappresentano e veicolano una cultura non solo relativamente, ma assolutamente straniera. Nelle vostre parole, il post-esotismo è «una letteratura straniera scritta in francese», pensata in una lingua estranea al francese, indistinta quanto alla sua nazionalità. Per questo motivo, i vostri libri prendono forma in una «lingua di traduzione» da situare a valle rispetto a un originale inaccessibile, spurio e dall’esistenza comunque incerta. Qual è il rapporto tra questa traduzione primaria e quelle che ne derivano, come ad esempio quelle in lingua italiana? In che modo gli scrittori post-esotici affrontano la traduzione dei loro libri in più lingue, tutte estranee a diverso titolo al loro mondo e alle loro abitudini?

Antoine Volodine: È un grande piacere per me essere tradotto in una lingua straniera, e in particolare – siamo in Italia – in particolare in italiano, perché ciò che adesso è disponibile in traduzione non è un piccolo libro isolato, ma già una parte dell’edificio post-esotico. Infatti, Isabella Ferretti, che dirige 66thand2nd, ha in progetto di pubblicare tutto il post-esotismo, e sono davvero molto felice di vedere questo progetto prendere forma. Si sta concretizzando rapidamente e con costanza. Inoltre, ho una traduttrice straordinaria, Anna D’Elia, che ha recentemente tradotto – ma non era il primo libro che traduceva – Liturgia del disprezzo, ed è davvero molto piacevole sapere che questi testi, che hanno all’origine un’esistenza in lingua francese, riprendono vita in Italia in altro modo, grazie alla magia della traduzione. Per me, è un vero piacere sapere che i libri esistono in un altrove vicino o lontano e toccano un pubblico non francese, dialogando con un pubblico non francofono. È magico. E infatti, come lei ha sottolineato, il fatto che il post-esotismo esista in lingue diverse, comprese lingue poco abituali, come il coreano, il cinese, lo sloveno, fa parte di questa costruzione senza bandiera che è il post-esotismo. È un’estensione del nostro progetto, un superamento degli ostacoli che esistevano all’inizio, quando la nostra «letteratura straniera scritta in francese» restava meno accessibile, meno internazionalista. Oggi questa proclamazione internazionalista è meno astratta. In Italia, diventa profonda. Questo non cambia in nulla le nostre abitudini di scrittura, i nostri fondamenti ideologici, ma rafforza il nostro progetto. Molte lingue mancano all’appello, anche in Europa. Speriamo che la situazione evolva!

L.P.: Leggendo i vostri libri e le vostre interviste ciò che risalta immediatamente è il valore che attribuite a ciò che chiamerei l’autonomia di questo universo letterario. Un’autonomia che non si illude certo di essere assoluta e che forse non è ostentata, ma che risulta inaggirabile, dacché indica precisamente l’alterità propria al post-esotismo. Avete più volte sottolineato come questo enorme edificio letterario si sia formato senza tenere conto dei gusti, delle tendenze, delle tradizioni del mondo editoriale, senza badare a eredità e filiazioni nella «letteratura ufficiale», avendo cura soltanto di produrre qualcosa che vi piacesse – cioè che piacesse a voi e al vostro pubblico immaginario, caratterizzato significativamente dalla condivisione pressoché totale della vostra sensibilità, della vostra visione del mondo, delle vostre ribellioni. Nel concreto, questa alterità si è prodotta sistematicamente, lavorando con metodo affinché nomi, luoghi ed eventi non portassero alcuna traccia che potesse ricondurli a un territorio culturale preciso, impegnandovi in una ginnastica traduttiva operante tramite l’auto-censura, la sovrapposizione di filtri onirici e la proliferazione di generi letterari inediti (narrats, entrevoûtes, Shaggäs…). Forse è anche per questo che avete descritto la vostra scrittura come non tanto schizofrenica quanto «ostinata», come una scrittura che procede, incurante, per la sua strada. Cos’è in gioco in questa questione dell’autonomia? Si tratta con ogni evidenza di un nodo cruciale della vostra poetica, dal momento che riguarda la centralità quasi fondativa del piacere dello scrittore-lettore, il metodo teorizzato e messo in opera dai surnarratori post-esotici e, di conseguenza, il procedimento di scrittura che costituisce la letteratura post-esotica in quanto tale.

A.V.: Uno dei miei obiettivi, l’unico obiettivo, è scrivere per i lettori. Includere lettori e lettrici nelle opere post-esotiche che hanno tra le mani, condividere le nostre emozioni, le nostre avventure, i nostri percorsi, e, prima di tutto, le nostre immagini. I lettori sono, in una prima cerchia, in un primo tempo, lettori immaginari, che sono prigionieri e prigioniere in una prigione immaginaria, e che forniscono anche dei frammenti di testo sui quali lavorano gli eteronimi per creare libri che appaiono all’esterno, al di fuori dei muri della prigione. Questo è il principio. Una letteratura puramente carceraria che funziona a circuito chiuso, in cui tutte le ricerche formali e le immagini, le allusioni storiche, i segreti, i falsi segreti, i giochi, l’umorismo, sono composti in un’atmosfera estremamente complice, e che, una volta pubblicata, diventerà una sorta di letteratura di poetica e di cultura testimoniale, offerta ai simpatizzanti e ai lettori e alle lettrici delle librerie. Una sequenza letteraria strana, offerta a un pubblico vasto, un pubblico che è chiamato a unirsi, simpatizzando, ai fantasmi, alle storie filmate o teatralizzate, alle ruminazioni di autori immaginari, la cui creazione è molto diversa da ciò che chiamiamo «la letteratura ufficiale». Ma, ben inteso, si può anche mettere tra parentesi questo sfondo carcerario, questa presenza genetica di un coro immaginario di voci imprigionate. Scrivo, come anche lei ha sottolineato, per il piacere di creare qualcosa che è sì marginale nella letteratura, ma che al contempo cerca di avere una propria estetica, una propria bellezza. Non nascondo che per me scrivere è un piacere, mi fa stare bene. Anche quando i passaggi che attraversano i libri sono dolorosi o inquietanti. Per la mia primissima opera, Biographie comparée de Jorian Murgrave, scrivevo soprattutto per me stesso, come avevo fatto fin dall’infanzia. Non avevo ancora pubblicato e scrivere era un piacere solitario. Ma, dal secondo libro in poi, ho preso coscienza che scrivevo per lettori concreti. E, da quel momento, ho saputo di avere il compito di coinvolgere uomini e donne concreti in sequenze di immagini, di farli entrare nelle storie e, se possibile, di renderli parte dei mondi onirici che mi perseguitavano, che ci perseguitavano.

L.P.: Alcune immagini post-esotiche portano con sé un alone piuttosto caratteristico di indefinitezza e indecidibilità. Penso ad esempio a quei personaggi che vengono descritti come uccelli, senza altre specificazioni, e che vengono poi visti compiere gesti che richiedono evidentemente una costituzione e una postura antropomorfe, senza che per questo smettano di essere degli uccelli. Si sarebbe tentati di dire che queste immagini facciano parte del funzionamento della complicità post-esotica tra scrittori e lettori, i quali, avendo una cultura, una memoria, una sensibilità comuni e condividendo la stessa necessità di eludere lo sguardo onnipresente del nemico, non hanno bisogno di esplicitarle ulteriormente, temendo anzi di venir troppo compresi da chi è estraneo alla loro solidarietà tramante e sediziosa. Queste immagini ambigue sono tali anche nel braccio di massima sicurezza o scaturiscono al contrario quali effetti di traduzione?

A.V.: Non si tratta di una questione di traduzione. Si tratta di costruire effettivamente una cultura, come ha detto anche lei, una cultura condivisa tra lettori, narratori, surnarratori. Si tratta di fare in modo che i lettori si approprino di questa cultura durante la lettura e non siano disorientati da ciò che hanno sotto gli occhi e da ciò che, consapevolmente o inconsapevolmente, emerge nei loro stessi sistemi di immagini. È nostra responsabilità, in quanto autori (parlo a nome di tutti noi, Lutz Bassmann, Elli Kronauer, Manuela Draeger e altri), riuscire in questa immersione accompagnata del pubblico nei nostri libri. Ciò significa che alcune nozioni stabilite dal “senso comune” vadano alla deriva verso un mondo più onirico, senza che ciò disturbi la lettura. Lei ha infatti segnalato una porosità completa tra l’animale e l’umano, che non è decisa, non è decidibile, e che consente, penso, al lettore di sognare a modo suo, di introdursi in personaggi totalmente marginali, estremamente mal posizionati nel mondo. Nei nostri romanzi più recenti, questa porosità si estende anche tra viventi e non viventi. Molti dei nostri personaggi non appartengono al mondo dei viventi, ma agiscono con normalità (con una normalità relativa), sebbene ciò avvenga dopo la morte, in mondi oscuri (come in Black village) o luminosi (come in Terminus radioso). In generale, si potrebbe dire che tutti questi mondi sono «magici», un aggettivo che uso con cautela, poiché troppo utilizzato, a torto e a ragione. Ci organizziamo affinché lettori e lettrici siano trasportati là dentro e ammettano questa nuova normalità che offriamo loro…

L.P.: L’edificio post-esotico sta per completarsi con la pubblicazione del quarantanovesimo volume, il ciclopico Retour au Goudron, cui lavorate ormai da molto tempo e che verrà firmato col nome collettivo di Infernus Iohannes. Antoine Volodine ha recentemente pubblicato il suo ultimo romanzo, Vivre dans le feu, congedandosi in maniera tutt’altro che mesta dal mondo editoriale, mentre Manuela Draeger ha annunciato Arrêt sur enfance, quarantottesimo e dunque penultimo tassello del mosaico. Come hanno preso il ritiro Elli Kronauer e Lutz Bassman? E Volodine, cos’ha intenzione di fare adesso, raggiungerà «finalmente» gli altri nel braccio di massima sicurezza? Come immaginate, una volta stampata l’ultima frase, quel «mi taccio» [Je me tais] che chiuderà Retour au Goudron, la posterità di questo strano oggetto letterario che è il post-esotismo?

A.V.: Innanzitutto, è molto difficile immaginare una posterità. E d’altra parte, l’ultima frase – l’ho detto e ridetto – sarà proprio «Je me tais», taccio, e, dopo essermi taciuto, non farò più apparizioni pubbliche né pubblicazioni. Vedo che è molto informato sugli ultimi titoli. Effettivamente, Manuela Draeger pubblicherà tra qualche mese, nella primavera del 2025, Arrêt sur enfance, che sarà l’ultimo titolo dell’edificio post-esotico romanzesco propriamente detto. Abbiamo dato grande importanza alle voci femminili in tutte le nostre opere (qualunque ne sia stato l’autore) e Manuela Draeger ha firmato moltissimi testi dell’edificio: è normale che dopo «l’ultimo di Volodine» esca «l’ultimo di Manuela Draeger» per chiudere il ciclo. Poi ci sarà un’ultima performance. Se vogliamo considerare la scrittura del post-esotismo come una performance letteraria che si è svolta per quarant’anni, allora questo ciclopico Retour au Goudron è una performance nella performance. Firmato Infernus Iohannes, 4000 pagine e anche più, 4400 pagine, 343 brochure «bardiche», con fotografie, testi e rubriche regolari: un oggetto gigantesco che non può avere una sua esistenza editoriale e si presenterà quindi (almeno in un primo momento) come una scultura labirintica, posta nello spazio di un’esposizione. Una struttura a cerchi concentrici, artistica, architettonica, ipnotica, nella quale i visitatori (non avendo quindi più lo statuto di «lettori») saranno invitati a passeggiare e a immergervisi. Le 4400 pagine saranno esposte – è enorme. Un oggetto onirico, concreto, posato nel mondo reale da tutti gli autori post-esotici: la firma Infernus Iohannes è collettiva e raggruppa tutte le voci del post-esotismo, anonime e non anonime. Non ci sarà alcun testo firmato all’interno di queste innumerevoli pagine. Infernus Iohannes, lo ricordo, è già esistito editorialmente nel panorama francese con un libro uscito due anni fa, Débrouille-toi avec ton violeur. Ma nel caso di Retour au Goudron, che non vedrà la luce prima del 2026-2027, entreremo tutti in un’altra dimensione.

L.P.: In diverse occasioni, avete spiegato che il post-esotismo è nato a tastoni e intuitivamente, facendosi man mano, dunque senza un progetto ben definito a monte e senza seguire tracciati o costrizioni compositive particolarmente vincolati, del tipo Oulipo. Ora, a un passo dal completamento di tale edificio, in che modo è cambiata, se è cambiata, la vostra visione di questa impresa? Più in generale, qual è la temporalità propria alla letteratura post-esotica? Si tratta di una letteratura immobile o ha al contrario attraversato delle fasi? Come appaiono, retrospettivamente, i vostri primi quattro romanzi editi – tra cui Rituel du mépris, appena apparso in traduzione italiana – e che sono in qualche modo precedenti alla presa di coscienza di sé da parte del post-esotismo? A noi lettori, probabilmente con una bramosia del principio che non vi appartiene, viene senz’altro voglia di leggere Biographie comparée de Jorian Murgrave

A.V.: I primi quattro libri che ho pubblicato non sono i primi quattro libri che ho scritto. Ho scritto moltissimo sin dall’infanzia, come si vede in Scrittori, dove figura l’episodio autobiografico del piccolo ragazzo preso da una trance di scrittura. Ho iniziato a pubblicare solo nel 1985, avevo 35 anni, e ho lasciato dietro di me numerosi manoscritti che non erano affatto destinati alla pubblicazione e che, peraltro, ho praticamente distrutto integralmente, secondo il principio «non lasciare tracce». Già in questi primi scritti c’era una sorta di slancio scritturale, di slancio nei temi, e nel modo di costruire i romanzi a partire da frammenti e da voci incrociate, che si ritrovano poi nei miei quattro primi libri pubblicati. Sono stati pubblicati in una collana di fantascienza, ma, per me, erano soprattutto e prima di tutto, marginali rispetto alla letteratura francese, e non segnati dal marchio della fantascienza. Non sapevo davvero cosa stessi facendo, semplicemente era per me chiaro che non mi collegavo a nessuna tradizione contemporanea ben definita. Avevo in mente molta letteratura sovietica, molta letteratura fantastica, molto surrealismo, molte influenze cinematografiche, ma ero consapevole di iniziare a camminare su un sentiero nuovo. E quindi ho continuato su questa scia, e infatti, è dopo una decina di romanzi, forse anche un po’ prima, che il progetto si è veramente cristallizzato per mostrare questa idea del post-esotismo come letteratura completa, a parte, totalitaria anch’essa, che non guarda né a destra né a sinistra, che non considera ciò che accade nella letteratura contemporanea, ma che si costruisce completamente, senza concessioni, con le proprie esigenze e le proprie regole. E poco a poco, effettivamente, ho camminato su questo sentiero, sempre con piacere, senza costrizioni, guardando indietro, senza rimpiangere ciò che avevo già pubblicato. I miei libri, i nostri libri, sono spesso molto diversi l’uno dall’altro. Nessuno, a mio avviso, deve essere considerato un errore, qualcosa da correggere o da dimenticare. Così, le stranezze narrative si sono completate per costituire un edificio che sta in piedi, e che noi rivendichiamo tutti senza sfumature. E oggi, dove l’edificio sta per essere coronato da questa performance, Retour au Goudron, non ho più quell’angoscia che a lungo ho provato. Avevo paura di non avere il tempo (per motivi fisici, di invecchiamento, medici, ecc. – ma mai per mancanza di ispirazione!) di terminare il progetto: di firmare 49 titoli e di scrivere la famosa frase «Je me tais». Ora, invece, posso tirare un sospiro di sollievo: è fatta!

L.P.: Forse da sempre, ma apparentemente con una centralità via via maggiore, uno dei motivi ricorrenti del post-esotismo è ciò che di recente ha descritto come la volontà o addirittura l’arte di riuscire a sopravvivere in un contesto sempre più sfavorevole e inospitale, rispetto cui ciò che abbiamo appreso non sempre risulta adeguato e sufficiente. Proprio quest’anno è comparso un suo scritto piuttosto atipico, un «racconto morale», le cui conclusioni sono così formulate: «Una volta nel Bardo, non contare troppo sulle Tesi d’aprile per uscirne». Non avete mai smesso di ribadire il vostro rifiuto di una letteratura che voglia imporre una visione del mondo o delle tesi, così come la disillusione degli scrittori post-esotici nei confronti del potenziale politico della letteratura. Ma d’altra parte avete anche sottolineato come, negli anni, la tonalità dei vostri libri sia andata modificandosi, accompagnando a suo modo la storia mondiale, le sue inversioni e i suoi crolli. Così, ad esempio, la fine dell’umanità è divenuta un tema più insistente, e oggi è davvero difficile, leggendovi, non pensare alla catastrofe ecologica e a tutta una serie di crisi conclamate e tra loro incrociate. Se il post-esotismo non vuole proporre niente di utile per confrontarsi con le sfide della contemporaneità, come dobbiamo intendere questo suo intervento inatteso nel dibattito francese che cerca di ripensare il rapporto tra letteratura e politica?

A.V.: Sin dall’inizio delle mie pubblicazioni, i libri che sono stati pubblicati erano caratterizzati da una riflessione politica profondamente rivoluzionaria, ribelle, con una visione del mondo marxista e che rimane tuttora totalmente marxista. Ma devo segnalare comunque che i miei primi libri sono esistiti in un momento in cui l’URSS esisteva e non era affatto pronta a scomparire. C’era nel mondo uno scontro tra, diciamo, una forma di socialismo e il capitalismo. Dopo gli anni di tumulto che hanno segnato la fine del XX secolo, l’alternativa tra socialismo e barbarie è cambiata e solo la barbarie è rimasta. Viviamo – a mio avviso, ma non sono l’unico a pensarla così – viviamo in un mondo barbaro. L’assenza di prospettiva è molto più grande rispetto agli anni ’80, quando uscivano i miei primi libri, in cui l’idea stessa della rivoluzione mondiale esisteva ancora. La rivoluzione mondiale non era un fantasma, un delirio militante, era concretamente davanti a noi. Oggi, siamo entrati in un periodo buio dell’umanità, ecco perché a partire dall’inizio del XXI secolo, si osserva un’evoluzione nel trattamento delle mie storie, dei miei personaggi. Per ogni autore, l’evoluzione è normale, e, anche se le mie opere “giovanili” sono rimaste nell’ombra, anche se, in un certo senso, i miei primi libri appartengono a un periodo di scrittura che si può definire “maturo”, il post-esotismo è evoluto. Non posso riscrivere all’infinito gli stessi libri. Mi sono interessato – dico “mi” per riferirmi a tutti gli autori post-esotici, Lutz Bassmann, Manuela Draeger, Elli Kronauer e Infernus Iohannes come collettivo – ci siamo interessati più spesso a destini individuali segnati da un cammino nell’aldilà. Il Bardo Thödol è il nostro faro poetico, Libro dei morti tibetani racconta che dopo la morte la vita continua. E quindi, se all’inizio nei nostri primi libri le storie già si situavano «dopo il crollo», «dopo la fine», con personaggi che si dibattevano negli incubi che seguono la catastrofe, nei nostri ultimi libri, il più delle volte, i personaggi hanno un altro status. Prima sopravvissuti, combattenti di una realtà amara e terribile nei primi titoli, diventano non viventi negli ultimi. Non si preoccupano più della catastrofe, sono in cammino verso la propria estinzione, sono passati in un aldilà della morte, in un aldilà dell’umanità. Intorno a loro il mondo è molto meno frenetico di quello descritto in Liturgia del disprezzo. L’estinzione del vivente è avvenuta, l’estinzione dell’umanità è quasi totale, come per l’elefante di Gli animali che amiamo, per esempio (o in Terminus radioso, o in Angeli minori, ecc.). Certamente, si può vedere qui non solo un’evoluzione dell’autore, ma anche il cambiamento di prospettiva che si è aperto fin dalla fine del XX secolo: la fine programmata dell’umanità, il suo suicidio inevitabile, la crescente prossimità della guerra nera generalizzata, ecc. Sempre più spesso i nostri personaggi accompagnano la fine e, con l’umorismo del disastro che ci caratterizza, pensano al fallimento di tutto ciò che è venuto prima. E quindi camminano nel buio, nelle ceneri della civiltà. Non combattono più come Moldscher in Liturgia del disprezzo.

L.P.: Da lettore appassionato e simpatizzante del post-esotismo, ho sempre cercato di accettarne le regole, consapevole che «il vero lettore del romanzo post-esotico è uno dei personaggi del post-esotismo». Ho dunque letto i vostri libri senza farmi troppe domande, perché la complicità presupposta tra scrittore e lettore implicava che io dovessi già conoscere le risposte e che i vuoti, le divagazioni, le menzogne contenute nel testo non erano rivolte a me, ma agli inquisitori estranei al nostro patto che a un certo punto, immancabilmente, l’avrebbero maneggiato, ponendogli domande senza risposta poiché, con le vostre parole, «non c’è nessun enigma, il libro sigilla un’alleanza amorosa che la bruttezza della politica e della guerra non può intaccare». Per questo, come probabilmente già saprete, non è un compito facile intervistarvi, bisogna cercare di schivare lo scenario dell’interrogatorio, dell’interpretazione, della spiegazione… Che rapporto avete con la critica, le letture e le interpretazioni più o meno accademiche della vostra opera? È possibile fare un’analisi non inquisitoriale?

A.V.: Ovviamente, non penso che i ricercatori siano degli inquisitori. Questo è scontato. La maggior parte sa che in Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, c’è una descrizione terribile dei critici che vengono in prigione a porre domande sul post-esotismo, sulle forme del post-esotismo, sulle tematiche del post-esotismo. E naturalmente, non possono fare a meno di essere imbarazzati e di dire: «spero di non essere come Niuki e Blotno che pongono queste domande»! Ma in realtà, ho ottimi rapporti con tutta la critica letteraria che, forse perché i miei libri sono abbastanza particolari, abbastanza ricchi, pone diverse questioni che sono interessanti anche per me. Quindi, certo, ho avuto l’occasione di leggere molti lavori accademici, in Francia in particolare, con approcci che non capisco dal punto di vista tecnico – non sono capace di comprendere un certo numero di questioni che si pongono sulla diegesi, sulla focalizzazione interna, ecc… sono cose che mi risultano piuttosto oscure. Perché personalmente non ho questa formazione e perché mi muovo a tentoni, nella mia scrittura, cercando essenzialmente di trasmettere immagini, impressioni, sogni. Ho le mie tecniche, un laboratorio davvero poco definibile, e la pretesa suprema di riuscire a entrare in contatto con il lettore e con la lettrice, di avviare un dialogo «da inconscio a inconscio». Tutto è spontaneo, non teorizzato, con molto lavoro. Non cerco, appunto – poco fa ha parlato di Oulipo – di obbedire rigorosamente a delle costrizioni che degli scrittori accademici potrebbero imporsi, per esempio: nella stesura del mio libro, a quale schema eterodiegetico o non so cosa risponderà questo personaggio?. Sto caricaturando, ma so che questo avvelena tutta la spontaneità di quegli scrittori che sanno sin troppe cose sul processo di scrittura. Questo tipo di questioni mi è estraneo. Ma lo accetto, e mi diverte anche molto essere analizzato. C’è un tipo di analisi che non ho mai visto fare finora ed è la psicoanalisi. E poiché ci sono moltissimi aspetti fantastici e onirici in ciò che scrivo, sono un po’ stupito che non ci sia stato un approccio psicoanalitico al post-esotismo. Ma forse è un bene che al momento non ci sia, perché potrebbe implicare il rischio di bloccarmi completamente sul finale. Di non riuscire a scrivere «Je me tais» e, al contrario, di sdraiarmi su un divano e parlare, parlare, parlare…


Nato in Francia (Chalon-en-Saône) nel 1950, ANTOINE VOLODINE è uno scrittore che sfugge a ogni classificazione. 

Dopo un’attiva partecipazione al movimento del ’68, denunciando da allora le derive della «barbarie planetaria», si è dedicato a studi di lingua e letteratura russa. Con il romanzo Biografia comparata di Jorian Murgrave (Biographie comparée de Jorian Murgrave, 1985, nt) ha esordito nel genere della fantascienza, rivisitato con pratiche di sconfinamento linguistico e tematico in direzione dei grandi classici della sua formazione, da Lautréamont a Beckett, da Dostoevskij ai formalisti russi degli anni ’20, alla narrativa latinoamericana degli anni ’70. Nelle sue opere successive (Alto solo, 1991, nt; I nostri animali preferiti, Nos animaux préférés, 2006, nt; il romanzo Scrittori, Écrivains, 2010) ha sviluppato le sue pratiche di attraversamento dei più diversi generi letterari proponendo una concezione della scrittura come «arte marziale», corpo a corpo con gli stereotipi e i limiti della narrazione e del pensiero. I suoi testi hanno ricevuto numerosi premi, compresi i prestigiosi Prix Wepler e Prix du Livre Inter assegnati entrambi ad Angeli minori, edito in Italia da L’Orma Editore nel 2016. Nello stesso anno esce Terminus radioso (66thand2nd), vincitore del Prix Médicis 2014. Nel 2024 esce Liturgia del disprezzo (66thand2nd), dall’originale Rituel de mèpris.

“If I knew the house would fall but would not hear”: tre poesie di Jan Verberkmoes

Introduzione e traduzione dall’inglese a cura di Federico Rosati, secondo vincitore della Call for translators “Poesia e Lutto”.

Jan Verberkmoes è una poetessa, editor e ricercatrice statunitense. Originaria dell’Oregon, ha studiato all’Università del Mississippi, alla Bucknell University e in Germania. Ora vive in Colorado, dove frequenta un corso di dottorato in English and Creative Writing presso l’Università di Denver. Le sue poesie sono apparse in diverse riviste, tra cui  Lana Turner: a Journal of Poetry and Opinion, Nashville Review, The Adroit Journal, 32 poems, Ecotone e The Poetry Foundation. Nel 2021 ha pubblicato la sua prima raccolta poetica, Firewatch (Fonograf Editions), da cui sono tratti i testi qui tradotti. 

La lettura delle poesie di Verberkmoes conduce a un intenso confronto con i recessi più porosi della memoria e dell’incertezza, che si manifestano quando ci si avventura in territori psicologici e fisici segnati dal trauma. Gli spazi bianchi permeano l’intera raccolta, come se cercassero di esprimere una repressione verbale, ma anche un rispettoso intervallo nel silenzio naturale della pagina di fronte a concetti indicibili. I termini in corsivo, come “now“, “then” e “the stars”, impostano un rapporto in continua evoluzione del narratore con il tempo e l’universo, mentre viene narrato il quotidiano e violento deterioramento della vita terrestre. Si delinea un tentativo di comprensione in un paesaggio fisico e mentale che è sia minaccioso che minacciato, e che si trasforma in un’elegia per un mondo e un sé che non sono ancora scomparsi, ma in pericolo di sparire.

Il termine ‘elegia’, che ricorre nel titolo delle tre poesie, non è da intendersi solamente nel senso di un componimento legato al congedo dalla vita materiale o al suo disfacimento, occasione per l’io lirico di sancire la propria presa di coscienza di fronte a una realtà in rovina.  È importante osservare che il simbolismo delle due immagini naturalistiche presenti in Elegy as Conditionality: Hornets Building e Elegy as Hypothesis: Burning the boat (l’alveare e i calabroni; la balena e la barca) porta anche a una riflessione su dinamiche di tipo relazionale. Nel primo caso l’alveare è il risultato del duro lavoro e della sinergia tra le parti coinvolte; tuttavia, la sua distruzione, anche solo ipotetica, rappresenta un sogno infranto sia dalle circostanze esterne (“se l’alveare si disfa e la pera fa breccia nella carta grigia”) sia dalla negligenza dell’io lirico e del suo destinatario verso il pericolo imminente (“se avessi saputo che la casa sarebbe caduta    ma avessi scelto di non / sentire”; “se io sospiro        se tu non puoi sentire”; “se nessuno parla della breccia”). Nel secondo caso, viene sottolineata l’incapacità dell’io lirico e del destinatario di trasportare la barca in mare (“perché incapaci di risollevarla / in acqua”; “perché non sapevamo     reggere il corpo”), l’incapacità di assistere alla sua disgregazione per poi darla alle fiamme, decretando così la sua fine in modo prematuro, pur di superare il dolore prima del tempo (“così bruciammo sulla pira il suo scheletro di legno perché / non sapevamo vederla marcire”).

In Elegy as Insistence: Bulls in a Field l’inquietudine delle prime due poesie e la loro disperata ricerca di significato sembrano invece placarsi. La soluzione pare emergere dal gesto solenne e definitivo del fratello anonimo che libera in un ruscello le ceneri della sorella , ultima traccia materiale e ricordo di lei. I tori che prima correvano senza sosta nel ‘campo’ della mente, turbandone la quiete, ora rimangono “bassi dietro i suoi occhi”, mentre egli si congeda definitivamente da quel che resta della sorella e trova pace in una fusione con lo spazio naturale circostante (“e i tori gemono cupi dalle loro teste d’incudine / mentre lui si immerge fino alle ginocchia nella corrente”). Se nei primi due componimenti il mondo naturale è associato a simboli di disgregazione e rimpianto, nel terzo si intravede la possibilità di ritrovare in esso un “luogo in cui poter dormire”. La soluzione sembra risiedere allora nel ricongiungimento panico con la natura, un cammino che permette di superare l’inquietudine esistenziale in favore di un progressivo riconoscimento della propria esistenza come parte di un’essenza cosmica che trascende le vicende umane.


Da Firewatch, 2021

Elegy as Hypothesis: Burning the boat

If there is a now     this must be it     which I think is why
this sand-matted tuft of kelp     crisps in the winter sun
just like the varnish curling from the side of the boat
we burned on the beach          because we could not lift it
back to the water          because the tide     would not carry it
but the boat     more than anything          was a whale
when it held us      in the dark piano of its fat and wood
cords and padded bones that rang the water
once      and over and over
and so we lit the pyre of its planked frame because
we could not bear to watch it rot
because we could not     bear the body     and the ocean
reaching and receding          would not hold
and only then did I see there is nothing more grand
than an animal burning
the hull of its belly falling open to a blackened spindle
and when I say animal      that includes you too
which must be my way of suggesting          weren’t you
in flames          fighting your way     out of your own skin
until you fell into the sound      where the whale ripped the seam
between water and sky          a sky that now dims
as I search it for a then     that will show me our boat again
on a water that ripples when the whale clenches
the way the skin of the face rides the muscle underneath     but never splits

Elegia come Ipotesi: Bruciare la barca

Se c’è un ora    deve essere questo   ragione per cui
questo ciuffo di alghe insabbiato     si increspa al sole invernale
come i riccioli della vernice sul fianco della barca
che bruciammo sulla spiaggia          perché incapaci di risollevarla
in acqua          perché la marea     non l’avrebbe sostenuta
ma la barca     più d’ogni altra cosa          era una balena
quando ci teneva      nel suo scuro piano di cordegrasse e lignee, di ossa piene che battevano sull’acqua
un tempo      e ancora e ancora
così bruciammo sulla pira il suo scheletro di legno perché
non sapevamo vederla marcire
perché non sapevamo     reggere il corpo    e l’oceano
che avanzava e si ritirava          non avrebbe retto
e solo allora vidi che non c’era nulla di più grandioso
di un animale in fiamme
lo scafo del suo ventre che si apre su un fuso annerito
e quando dico animale      parlo anche di te
e deve essere il mio modo di suggerire che          forse eri tu
in fiamme          a lottare per uscire     dalla tua pelle
fino a sprofondare nel suono      dove la balena strappò la cucitura
tra acqua e cielo          un cielo che ora si oscura
mentre lo scruto per trovare un allora     che mi mostri la nostra barca ancora
su un’acqua che s’increspa quando la balena si contrae
così come la pelle del viso scorre sul muscolo sottostante     ma non si stacca.


Elegy as Insistence: Bulls in a Field

There is only morning     it shimmers
and shifts into bodies     into beasts
into the man sleeping     now waking     in the damp grass
a jar of ashes at his side     and the bulls still running loose     though tired
inside his skull     they ram here and there against its walls
as last night’s star-smeared sky     spreads clean now     and flat over him
jar in hand     he walks toward the spring creek
its water draws a cold thrill through the meadow
and the bulls groan dark     from their anvil heads
as he wades knee-deep into the current
he remembers the ashes back into his sister     when she told him
loss     is no more one thing than the sky is one thing
the pasture behind her eyes     lay wide and empty
and looked like a place he could sleep
he tips the jar and lets the ash fall into the stream     and the cold
rolls over in its bed     over     over
until she’s neither ash     nor water
the stars the stars the bulls low behind his eyes
he forgets about the stream     and the meadow
and nothing could be so empty     as the jar in his hands

Elegia come Insistenza: Tori in un campo

C’è solo il mattino     brilla
e si trasforma in corpi     in bestie
nell’uomo che dorme     e ora si sveglia     nell’erba umida
un’urna di ceneri al suo fianco     e i tori che corrono ancora liberi     anche se stanchi
dentro il suo cranio     si scagliano qua e là contro le pareti
mentre il cielo stellato della scorsa notte     ora si stende terso    e piatto su di lui
con l’urna in mano     cammina verso la sorgente del ruscello
la cui acqua trascina un brivido freddo attraverso il prato
e i tori gemono cupi    dalle loro teste d’incudine
mentre lui si immerge fino alle ginocchia nella corrente
rimembra le ceneri di sua sorella     quando gli disse
la perdita     non è una cosa sola più di quanto non lo sia il cielo
il pascolo dietro gli occhi di lei     si stendeva ampio e vuoto
e sembrava un luogo in cui poter dormire
inclina l’urna e lascia che le ceneri cadano nel ruscello     e il freddo
si rigira nel suo letto     ancora     ancora
finché lei non è più cenere     né acqua
le stelle le stelle i tori bassi dietro i suoi occhi
lui dimentica il ruscello     e il prato
e niente potrebbe essere più vuoto     dell’urna che porta.


Elegy as Conditionality: Hornets Building

when a hornet nest swells in the pear tree
with a pear at the hive’s green center
if the hornets swaddle the pear in grey paper over paper
until it cannot see        and cannot hear for the humming
if the pear begins to rot        before it can say
when the hive grows heavy with quiver and grit
and the tree begins to fall    patiently    like a house going to ruin
if the pear is the last door to the house
if I fall inside the house    as it sighs and kneels
if I sigh        if you cannot hear
when the house is ruined    and you cannot say
if the hive unravels    and the pear breaches the grey paper
if no one speaks of the breach
if the hive was made by hundreds of mouths
when the hornets knew the pear would rot in the hive
but could not see to leave
if I knew the house would fall    but would not hear
if you pull the pear from its limb       if I go dark
when it is so dark I can only see    how it could have been
if you hum as you leave        when I fall
if I was made by your mouth

Elegia come Condizionalità: I calabroni costruiscono

quando un nido di calabroni si gonfia nel pero
con una pera al centro verde dell’alveare
se i calabroni avvolgono la pera in carta grigia su carta
finché quella non può vedere        né udire per il ronzio
se la pera inizia a marcire        prima di poterlo dire
quando l’alveare si fa pesante di fremito e sabbia
e l’albero inizia a cadere    paziente    come una casa in rovina
se la pera è l’ultima porta di casa
se io cado dentro la casa    mentre sospira e si inginocchia
se io sospiro        se tu non puoi sentire
quando la casa è distrutta    e non lo puoi dire
se l’alveare si disfa    e la pera fa breccia nella carta grigia
se nessuno parla della breccia
se l’alveare fosse fatto da centinaia di bocche
quando i calabroni sapevano che la pera sarebbe marcita nell’alveare
ma non riuscivano ad andarsene
se avessi saputo che la casa sarebbe caduta    ma avessi scelto di non sentire
se stacchi la pera dal suo ramo     se mi spengo
quando è così buio che posso vedere solo   come sarebbe potuto essere
se tu ronzi mentre te ne vai        quando cado
se fossi fatta dalla tua bocca


«amuk is a prayer»: declinazioni del lutto nella poesia di Khairani Barokka

Introduzione e traduzione dall’inglese a cura di Chiara Liso, vincitrice della Call for translators “Poesia e Lutto”.

La storia semantica della parola amuk è intrinsecamente legata a quella dei soprusi del colonialismo. Se in indonesiano e malese il termine sta a indicare il sentimento e l’atto di collera, a partire dal sedicesimo secolo si diffonde l’inesatta interpretazione che i coloni europei danno del vocabolo, ovvero di una condizione di furia violenta e omicida diffusa in alcune culture dell’Asia sudorientale. È proprio in questa traduzione erronea che si cela il pretesto per giustificare la criminalizzazione e sottomissione di intere popolazioni, l’accaparramento di terre e la distruzione di ecosistemi. A tutt’oggi, il lascito coloniale di tale mistraduzione è cristallizzato nell’espressione idiomatica inglese to run amok con cui si denota la perdita del raziocinio.

Amuk è anche, significativamente, il titolo della terza e ultima silloge poetica di Khairani Barokka, scrittrice, traduttrice e artista interdisciplinare nata nel 1985 a Giacarta e attualmente residente a Londra. Pubblicata nel marzo 2024 dalla casa editrice indipendente britannica Nine Arches Press, la raccolta si dipana lungo il filo di un’acuta riflessione sulla violenza perpetrata sul e dal linguaggio. La poesia di Barokka si offre, al contempo, come antidoto a qualsivoglia forma di tirannia, nel segno della riappropriazione dell’etimo originario di amuk e della rivendicazione, spiccatamente anticoloniale e femminista, della liceità della rabbia e della sua ancestrale sacralità. La scrittura poetica diventa, dunque, luogo d’elezione per l’elaborazione del lutto, personale e collettivo, e la celebrazione del resistere – di individui e comunità, di lingue e paesaggi – a ogni tentativo di dominazione e distruzione.

Si tratta di un libro, come la stessa autrice dichiara nei ringraziamenti finali, che reca l’impronta sia del dolore della perdita degli affetti che della furente solidarietà con i sopravvissuti e le vittime dei genocidi contemporanei, dalla Palestina al Papua, dal Sudan al Congo, eccidi che hanno come matrice comune il capitalismo coloniale (Barokka 2024: 105). La vena elegiaca pervade soprattutto la seconda delle due sezioni che compongono il volume, intitolata «doa», parola indonesiana di origine arabo-islamica che significa ‹preghiera›.

Come sostiene il critico Jahan Ramazani, introdurre la preghiera musulmana nella poesia di lingua inglese significa sintonizzare un linguaggio letterario saturato dal cristianesimo con l’esperienza discorsiva del mondo islamico (Ramazani 2013: 175). La ritualità e il linguaggio religiosi non vengono svuotati del loro significato divino, bensì la retorica della preghiera si intreccia con la tensione estetica e l’autoriflessività del genere poetico. Inoltre, sebbene profondamente radicati nella tradizione religiosa dell’Islam, i componimenti di questo ciclo delineano, allo stesso tempo, una liturgia ibrida portatrice di un messaggio di lotta e resistenza. Così recita icasticamente un verso della poesia di apertura: «amuk is a prayer» (Barokka 2024: 69).


Quattro poesie da amuk (Nine Arches Press, 2024)

withstanding is a prayer

pain is a prayer, the soulbody screeching
it asks for help in the guise of fire

amuk is a prayer
is a word that prays
and is itself a unit of asking

prayer is a form of rage
while you rage, remember to keep the truth
within these arms: [ ]


il resistere è una preghiera

il dolore è una preghiera, il corpoanima stridente
chiede aiuto in guisa di fuoco

amuk è una preghiera
è una parola che prega
è in sé unità di richiesta

la preghiera è una forma di rabbia
mentre ti arrabbi, ricorda di tenere la verità
tra queste braccia: [ ]


tub

what digs you out with a verdigris scalpel, while a powerful blast ignited in their latest attempt to grow lives in the dirt of your online receipt, human blood carries all kinds of filigreed debris, coexisting with the coffin hinges from grotesquely groping eyes panoptic that brought you your morning kettle-hiss, faucet fiddling now, let loose, hotness coldness, piety, lust, bewilderment, supremacy writ into capital, rent hikes for men oiling hair with your rainforests, corners hiding gaspings for breath, a ladybug swatted away by a tank in gaza, a man with down’s syndrome killed with no consequences, violet memories of neuropathic pain still imprinted on your body you are soaking in a fluid warm enough to let it bleed out, breathe in, deliberately feel the edges of a ghost, the heart already drawn in pencil on your hospital radiator seven years ago, fuzzy twinges bear on your muscle feel these deliberate, you may not bathe in kind waters so lower your head below the surface, part your lips and scream it


vasca

cosa ti estrae con un bisturi verderame, mentre un potente boato innescato nel loro ultimo sforzo espansionistico vive nello sporco della tua ricevuta online, sangue umano trascina detriti filigranati di ogni sorta, coesistendo con le cerniere della bara dalle panottiche pupille grottescamente brancolanti che ti hanno portato il tuo mattutino fischio di bollitore, ora armeggiando con il rubinetto, lascia andare, caldo freddo, pietà, brama, perplessità, supremazia iscritta nel capitale, affitti rincarati per gli uomini che oliano i capelli con le tue foreste pluviali, angoli che celano respiri annaspanti, una coccinella spazzata via da un tank a gaza, un uomo con la sindrome di down ucciso senza conseguenze, ricordi violacei di dolore neuropatico ancora impressi sul tuo corpo a mollo in un fluido caldo abbastanza da dissanguarlo, inspira, senti deliberatamente i contorni di un fantasma, il cuore già disegnato a matita sul tuo radiatore ospedaliero sette anni fa, fitte sfocate pesano sul tuo muscolo sentile deliberate, non ti puoi bagnare in acque docili quindi china il capo sotto la superficie, schiudi le labbra e gridalo


prayer for dzikir as mnemonic device

still all your percussive orbits
and soft-click a thumb
to each third
of each finger

praise
how light
work is, unshirking
remembrance

vicissitudes plant grief
in skin-pricks,
out of the gasping sun
climbs daybreak

crackling, cyclonic
core tenets and ninety-nine names
flooding back
to thick bloodstream

memento mori, recuerda tu vida
ingat, ingat
ingat-ingat


preghiera per lo dzikir come espediente mnemonico

frena tutte le tue orbite percussive
e schiocca lievemente il pollice
su ogni terzo
di ogni dito

ringrazia
quanto leggero
sia il compito, ineludibile
il ricordo

le vicissitudini piantano il lutto
in punture cutanee,
dal sole ansimante
spunta l’aurora

crepitando, ciclonici
capisaldi e novantanove nomi
ritraboccano
in un denso flusso sanguigno

memento mori, recuerda tu vida,
ingat, ingat
ingat-ingat


dust ablution

spreading fingers against a wall then onto self,
what cleansing’s reachable when spent,
followed by what supposedly-holy movements can.

salvation comes from trying
and wanting god as much as from calmer tendon stretch, from anti-affirmation of what,

to much of venal world, a good body should
a good body can a good body best
a best body as though heaven’s narrow-gauged

and god a headmistress rapping rulers against
these many best bodies not marked so by others,
against totalities given to her beneficence.


abluzione pulverale

dita distese contro un muro poi su di sé,
quale purificazione è raggiungibile se a secco,
seguita da ciò che movimenti presumibilmente sacri possono.

la salvezza viene dal provare
e volere dio tanto quanto dall’allungare i tendini con più calma, dall’antiaffermazione di ciò che,

per gran parte del mondo venale, un buon corpo dovrebbe
un buon corpo può un buon corpo meglio
un corpo migliore come se i cieli fossero a scartamento ridotto

e dio una preside che scaglia la bacchetta contro
questi tanti corpi migliori non marchiati così dagli altri,
contro le totalità affidate alla sua beneficenza.


Foto di Khairani Barokka.
amuk di Khairani Barokka (Nine Arches Press, 2024)

“frammenti di storia / che si torcono al sole”: la poesia nativa di Maurice Kenny

Giorgio Drago traduce dall’inglese alcune poesie di Maurice Kenny

Maurice Kenny è stato un poeta Mohawk. Nato a Watertown, New York nel 1929, viene considerato uno degli interpreti più importanti delle istanze politiche e culturali dei popoli nativi americani. Dopo una carriera di sessant’anni dedicata alla poesia e all’insegnamento, muore nel 2016 a Saranac Lake.

Come poeta, Maurice Kenny è stato attivo tanto nel contesto del movimento politico conosciuto come Red Power che in quello letterario della Native American Renaissance, di cui rifiuta l’etichetta, conscio che il termine “rinascimento” presuppone l’idea di una cesura nella tradizione della poesia nativa, di cui invece ha sempre valorizzato la continuità attraverso la sua dimensione orale. Nel corso della sua lunga carriera ha pubblicato innumerevoli raccolte. Le più significative sono state pubblicate dall’editore White Pine Press, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, quando una rinnovata consapevolezza rispetto alle proprie radici lo porta a rifondare il suo mondo poetico, inizialmente vicino alla poesia modernista americana dei suoi maestri Louise Bogan e William Carlos Williams. La gioia della riconnessione con un passato prima ignorato che traspare nella poesia più campestre, dove viene ristabilito un legame sano e organico tra l’uomo e la natura grazie alle tradizioni Irochesi, lascia spazio anche allo sgomento e alla tristezza, alla rabbia e al lamento per un mondo gravemente compromesso dalla violenza coloniale.

Autore del primo saggio e della prima lirica che descrivono in epoca contemporanea le figure tradizionali dei Two-Spirit, rispettivamente «Tinselled Bucks: A Study on Indian Homosexuality» e «Winkte», Kenny ha svolto un infaticabile lavoro di organizzazione e di insegnamento universitario che, insieme ai centinaia di reading annuali organizzati negli Stati Uniti e in Europa, è stato seminale per la creazione della nuova sensibilità scrittoria nativo-americana. In contatto con autori celebri come N. Scott Momaday, Leslie Marmon Silko e Paula Gunn Allen, Kenny non ha vissuto un grande successo editoriale, ma ha attirato l’attenzione dei colleghi e della critica, ottenendo l’American Book Awards (per The Mama Poems) e due nomination al premio Pulitzer per le raccolte Between Two Rivers e Black Robe: Isaac Jogues.

The Mama Poems e Blackrobe rappresentano due modi diversi di risalire alle radici, quello privato e quello storico-comunitario. Questo secondo filone è sviluppato in particolare in quello che Kenny stesso considerava il suo capolavoro Tekonwatonti/Molly Brant: Poems of War dove sono esplorate la violenza e le brutalità coloniali. Pur innestandosi su un apparato retorico ricco di sfumature e su ricerche storiche amalgamate da un poetico revisionismo, la raccolta tenta di far rivivere le antiche passioni e i veri moventi dei protagonisti della guerra franco-indiana e della rivoluzione americana. Il linguaggio rimane semplice e diretto, scandito da un verso libero proteiforme che si piega e si modella sulla voce dei vari personaggi del poema.


Da Tekonwatonti/Molly Brant: Poems of War, 1992

Molly: Report Back to the Village

“Leg
   blackened at the stump with blood

Fingers
   scattered through brush

Torso
   painted and jeweled

                                    porcupine quills
                                    pretty beads

   beads rolling off in a line

                                    ants

   scurrying from a foot;

   torso split open a ripe pumpkin

   entrails

           hang/drip from rib cage

                                                    belly

Swath of black hair

                                   blue

                        from clouds and river water

                                    three feathers stir in the breeze

The head…

               missing

                            kicked off into the brush

                                                          a ball

Name
   unknown/unsung
   there are many
              too many

Buzzards wait in the sky

Why do they call this the Indian war?
It isn’t Indians who want rivers
and land and more pelts to ship to kings
or throats to pour whisky down.

Why?
This is my report. That is all. Niaweh.


Molly: rapporto di ritorno al Villaggio

“Gamba
   nera di sangue sul moncone

Dita
   sparse tra gli sterpi

Torso
   dipinto e ornato

                                   aculei di porcospino

                                   belle perline

   perline che rotolano via in fila

                                   formiche

   scappano da un piede;

   il corpo spaccato una zucca matura

   interiora

                   penzolano/gocciolano dalla gabbia toracica
                                                                                          pancia

Ciocca di capelli neri
                                      blu

                             di nuvole e di fiume

                                        tre penne si spostano nella brezza

La testa…

                mancante

                          calciata via tra gli sterpi
                                                                 una palla

Nome
   ignoto/ignorato
   ce ne sono tanti
                  troppi

Poiane aspettano in cielo

Perché la chiamano la Guerra Indiana?
Non sono gli indiani a volere fiumi
e terra e più pellicce da spedire ai re,
o gole per versarci il whisky.

Perché?
Questo è il mio rapporto. È tutto. Niaweh.”


George Washington: “Town Destroyer”

Flames river the low valleys.

Their music crackles like a kettledrum.

Vines, stalks, orchards on fire.

Melons explode, apples spit sweet

                                                     juice

on broken boughs of dying trees.

Horseflesh and pig fume in the morning air.

Barns wither and topple as insane

                                                          cows

run wild, flames snorting out

                                              their nostrils

and lambs bleat, their wool a coat

                                                         of fire.

Log huts and houses crumble beneath

                                                                 the forest.

The valleys rise in smoke.


George Washington: “Distruttore di Città”

Fiamme inondano le basse valli. 

La loro musica crepita come un timpano. 

Viti, spighe, frutteti a fuoco. 

Meloni esplodono, mele sputano dolce

                                                                    succo

sui rami rotti degli alberi morenti.

Carni di cavallo e maiale fumano nell’aria del mattino.  

Le stalle seccano e crollano mentre mucche

                                                                                   impazzite

corrono via, soffiando fiamme

                                                                     dalle narici

e agnelli belano, la lana un manto

                                               di fuoco.

Capanne di tronchi e case si sgretolano sotto

                                                                            la foresta.

Le valli si alzano in fumo.


Molly

I wish never to live to see

      another war.

I’ve gagged on flesh

      and chocked on blood.

I’ve seen the bones of my brothers

      float in the river,

smelled the stench of their rot.

My nostrils are clogged

      with powder smoke.

My arms are weary from the

      weight of rifles.

Villages are burned to the ground,

old men pierced on stockade posts.

Women and babies sleep on the

      scars of bayonets.

Maggots infest the bed.

General George, town destroyer,

       you have won.

Won and accomplished more in your

       victory

than you ever dreamed.

Our blood is your breakfast.

The flames of your village smoke

       the ham you carve and bring to your lips.

General George, leader of a new

       country,

our stars are yours now,

but our blood stains your flag.

Remember we were once

      powerful, a formidable nation

now on our knees.

Your hatred controls

      our destiny.

May your nation never know

      this unbearable loss, this pain,

      this exodus from home, the smoking 

      earth,

      the sacred graves of the dead.

I bathe in this river to wash

      away the blood of war,

      But no water can

      wash away

      the horrors tattooed

      on my flesh.

I pray I shall never smell

      the cannons of war again,

      nor hear the cries,

      nor see the body of a chief

      mutilated by hate and fear

      and greed.

As your stars, General George, rise

      above the many battlegrounds

I want you to remember all those

      who died

so that your flag may wave

      in tribute.


Molly

Non voglio vivere tanto da vedere

      un’altra guerra.

la carne mi ha asfissiato

      e il sangue soffocato.

Ho visto le ossa dei miei fratelli

      galleggiare nel fiume,

annusato il tanfo del loro putrefarsi.

Le mie narici sono occluse

      dal fumo delle polveri.

Le mie braccia sono sfinite

      dal peso dei fucili.

I villaggi sono rasi al suolo,

i vecchi impalati sulle palizzate.

Donne e bambini dormono sulle

      ferite da baionetta.

Larve infestano il letto.

Generale George, distruttore di città,

      hai vinto tu.

Hai vinto e ottenuto di più dalla tua

      vittoria

di quanto non avessi mai sognato.

Il nostro sangue è la tua colazione.

Le fiamme del tuo villaggio affumicano

      il prosciutto che tagli e porti alle labbra.

Generale George, capo di un nuovo

      paese,

le nostre stelle sono tue ora,

ma il nostro sangue macchia la tua bandiera.

Ricorda che una volta eravamo

      potenti, una nazione formidabile

ora in ginocchio.

Il tuo odio controlla

      il nostro destino.

Possa la tua nazione mai conoscere

      questa perdita insopportabile, questo dolore,

      questo esodo da casa, dalla terra

      fumante,

      dalle sacre tombe dei morti.

Mi bagno in questo fiume per lavare

      via il sangue della guerra,

      ma l’acqua non può

      lavare via

      gli orrori tatuati

      sulla mia carne.

Prego di non dover mai più fiutare

      i cannoni di guerra,

      né udire le grida

      né vedere il corpo di un capo

      mutilato da odio e paura

      e cupidigia.

Mentre le tue stelle, Generale George, sorgono

      sopra i tanti campi di battaglia,

voglio che ricordi tutti

      i morti

così che la tua bandiera sventoli

      in tributo.


Aroniateka/Chief Hendrick at the Battle of lake George

Mountain pool

                    eye of this woods

reflects

                    robin wing

                    smoke of war camps

the march of angry feet which

                    ruffle ripples

Here a birch bends

                    into the clarity

deer takes a drink

fish jumps for flies

Fed by freezing mountain creek

                    winter snows

young boys swim like brown trout

                    warriors canoe

women wash clean the innards of fish

                    for a hot supper

and a general bathes exhausted feet

Mountain pool

                    eye of this woods

reflects

                    eagle wing

perched on a pine

                    a lofty tower

for surveillance

Mountain pool

                    soon

will reflect

                    stains of blood

                    a young soldier’s broken dream

                    an old man’s scattered vision

reflect

                    an absent king’s crown

Pool

                    prism of tomorrow

                    fragments of history

                    twisting in the sun


Aroniateka/Capo Hendrick alla battaglia di Lake George

Lago di montagna

                    occhio di questi boschi

riflette

                    ala di tordo

                    fumo di accampamenti

la marcia di piedi rabbiosi che

                    rimestano increspature

Qui una betulla si piega

                    nel chiarore     

il cervo beve

il pesce salta alle mosche

Nutriti dal gelido torrente di montagna

                    nevi invernali

ragazzini nuotano come trote

                    guerrieri pagaiano su canoe

donne puliscono viscere di pesce

                    per un pasto caldo

e un generale immerge piedi esausti

Lago di montagna

                    occhio di questi boschi

riflette

                    ala d’aquila

appollaiata su un pino

                    un’alta torre

di sorveglianza

Lago di montagna

                    presto

rifletterà

                    macchie di sangue

                    i sogni spezzati di un giovane soldato

                    lo sguardo sperduto di un vecchio

riflette

                    la corona di un re assente

Lago

                    prisma del domani

                    frammenti di storia

                    che si torcono al sole

Tekonwatonti / Molly Brant di Maurice Kenny

 

“Per scrivere poesia che non sia politica”: tre poesie di Marwan Makhoul

Introduzione e traduzioni dall’arabo a cura di Enrica Fei.

Queste traduzioni sono associate a un’intervista condotta al poeta dalla traduttrice Enrica Fei. La trovate qui, sul nostro sito.

Marwan Makhoul (1979) è un poeta palestinese nato nel villaggio di al-Buqaia, nella Galilea settentrionale. Vive nella città israeliana di Maalot Tarshiha e, oltre a mandare avanti la sua attività poetica e letteraria, lavora come ingegnere edile.

Nel 1997, a soli 17 anni, ha vinto il Premio Giovane Scrittore indetto dalla rivista periodica Kul al-Arab. Il suo primo libro, la prosa Una lettera dall’ultimo uomo, è stato pubblicato nel 2002. Nel 2005 ha ricevuto una borsa di studio per la partecipazione a un workshop di traduzione organizzato dalla Helicon Society for the Advancement of Poetry in Israele.

Da allora ha pubblicato numerose raccolte poetiche, libri in prosa e opere teatrali. Tra queste, ricordiamo le raccolte La terra della passiflora triste (che ha conosciuto quattro edizioni tra il 2011 e il 2015 a Baghdad, Beirut, Haifa e Il Cairo), Versi che i poemi hanno dimenticato con me (Raya publishing house, Haifa 2012, e al-Jamal Baghdad e Beirut 2013), Dove è mia madre (Dar al-Saqi, Beirut 2019) e la pièce Non l’arca di Noé (2009). Nel 2011, La terra della passiflora triste ha vinto il prestigioso Premio dell’Associazione Mahmoud Darwish per la Poesia Palestinese.

Le sue raccolte o alcuni estratti sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, italiano, portoghese, ebraico, turco, russo, polacco, albanese, serbo, olandese e hindi. Molta della sua produzione poetica è stata messa in musica e adattata per opere teatrali e cinematografiche. È stato questo il caso, tra gli altri, del poema L’immagine del popolo di Gaza, portato nei teatri dalla regista Dalal Maqari e interpretata da artisti provenienti dalla Palestina, l’Iraq, l’Algeria, la Tunisia e la Libia, Il dio della rivoluzione, da cui è stato realizzato uno spettacolo che combina recitazione poetica, musica e ballo contemporaneo, e La sposa di Galilea, da cui è stato realizzato un documentario omonimo che ha ottenuto il secondo premio al Festival Internazionale del Cinema Documentario di Haifa nel 2006.

Marwan stesso si esibisce su palcoscenici locali e internazionali, spesso in occasione dei festival letterari e poetici in Europa e negli Stati Uniti a cui viene invitato come una delle voci di spicco della poesia palestinese contemporanea.

L’elemento performativo è uno dei tratti distintivi della poetica di Makhoul. Il primo tra i componimenti qui proposti, Un arabo all’aeroporto di Ben Gurion, è un ottimo esempio, ed è infatti stato recitato in numerosi teatri e nelle piazze in occasione delle varie manifestazioni contro l’occupazione dei territori palestinesi e la violenza dello Stato d’Israele, come Makhoul ci ha raccontato nella sua intervista.

Numerose strofe del poemetto hanno un andamento discorsivo, prosaico: il lessico immediato e d’impatto descrive una situazione comune, ordinaria – quella di un palestinese che si trova all’aeroporto di Ben Gurion a Tel Aviv –, che d’improvviso si fa tesa, nervosa. Il ritmo dei versi quindi accelera, la musicalità si fa vibrante, la voce dell’io poetico s’innalza e repentina racconta, denuncia, urla.

Da queste sequenze concitate, Makhoul passa poi con naturalezza a passaggi lirici: il ritmo si fa più avvolgente e disteso, le immagini si rarefanno nella metafora, nelle sospensioni di senso, nella resa più intima e raccolta delle falde del sentimento. L’io poetico è un io collettivo e la lirica si dipana nello spazio e nel tempo. Ai versi di riflessione e nostalgia che superano i confini geografici dell’io – «Dai gemiti dei rifugiati / spiega le ali la nostalgia oltre i confini / non una guardia né mille l’arresteranno» –, si affiancano digressioni storiche dal timbro mitico, leggendario.

Come in altri poemetti di Makhoul, le narrazioni delle Sacre Scritture sono citate non come testi religiosi – il poeta, di famiglia cristiana, ha sempre dichiarato il suo ateismo – ma come espressione della saggezza antica, del tempo ancestrale dell’unità. I testi sacri, dunque, non come testi di Dio ma testamenti del Verbo, della saggezza del tempo che precede l’uomo.

Gli aneddoti quotidiani e ordinari che Makhoul descrive nella sua poesia rappresentano sempre un’occasione narrativa e poetica per descrivere il microcosmo di sopruso e precarietà relativo al tema della «casa», della nostalgia per la patria perduta o sotto attacco, del senso di appartenenza a una comunità in diaspora a cui si nega il legittimo ritorno. Una realtà, questa, che caratterizza la vita quotidiana del popolo palestinese e tutti i gruppi «vulnerabili» del mondo, a cui Makhoul si rivolge e a cui intende dare voce, come ci ha spiegato.

In Paese mio, la seconda poesia qui tradotta – un componimento meno narrativo e più lirico, tratto dalla raccolta Dove è mia madre –, il tema della patria, della diaspora, del senso di appartenenza a un popolo che permane nella nostalgia, nella memoria, nel coraggio e nella dignità di chi lotta per il ritorno si intreccia a quello dell’unità familiare, degli affetti più cari, dell’amore più intimo. «Mani che costruiscono un fronte completo, perfetto. / A te [paese mio, N.d.T.] la speranza, su di te la pace. / Paese mio, bambina mia.»

Per scrivere poesia che non sia politica, l’ultimo breve componimento qui presentato, è una poesia che, da ottobre 2023, è diventata uno slogan invocato da decine di milioni di manifestanti in tutto il mondo: nelle piazze, sui muri, nelle piattaforme social di tutti coloro che denunciano il genocidio in corso. Consapevoli che le nostre parole non saranno mai sufficienti, mai complete, mai all’altezza del dolore e della rabbia che proviamo per quanto sta accadendo a Gaza non solo da ottobre 2023 ma da un numero di giorni, mesi, anni che non peseranno mai abbastanza, nemmeno se li contassimo uno a uno e pronunciassimo, tra un numero all’altro, tutti i nomi di tutte le vittime di tutto il conflitto dal 1948 a oggi, abbiamo deciso, traducendo i suoi versi, che fosse Marwan Makhoul a farlo per noi.


عربي في مطار بن غوريون

!أنا عربي

صحت في باب المطار

،فاختصرتُ لجنديّةِ الأمنِ الطّريقَ إليّ

ذهبتُ إليها وقلتُ: استجوبيني، ولكن

سريعًا، لو سمحتِ، لأنّي لا أريد التّأخّرَ

.عن موعد الطّائرة

قالت: من أين أنت؟

من غساسنةِ الجَولان أصلُ فروسيّتي – قلتُ

جارُ مومِسٍ من أريحا؛

تلك الّتي وشَتْ إلى يوشع بالطّريقِ إلى الضِّفّة الغربيّة

يوم احتلّها فاحتلّها التّاريخُ من بعدهِ

في الصّفحةِ الأولى.

من حَجر الخليل الصُّلبِ أجوبتي

وُلدتُ زمنَ المؤابيّينَ النّازلينَ من قبلكم

،أرضَ الزّمانِ الخانعة

من كَنعانَ أبي

وأمّي فينيقيّةٌ من جنوبِ لبنان في السّابقْ،

ماتت أمُّها، أمّي، قبل شهرين

،ولم تودّعْ جثمانَ أمّها، أمّي، قبل شهرين

بكيتُ بِحضنها كي تؤانسَها الأُلفةُ في البُقَيعَةِ

،عند سفحِ المُصيبة والنّصيب

لبنانُ يا أختُ المستحيلْ، وأنا

أمُّ أمّي الوحيدةُ

!في الشِّمال

***

سألتني: ومن رتَّبَ الحقيبةَ لك؟

!قلتُ: أسامة بنُ لادن، ولكن

،رويدكِ، فهذا مُزاحُ الجراحِ المتاحْ

نكتةٌ يحترفُها الواقعيّونَ مثلي ها هنا

،في الكفاحْ

،أناضلُ منذ ستّينَ عامًا بالكلام عن السّلام

،لا أسطو على المستوطنة

ولستُ أملِكُ مثلَكُم دبّابةً كالّتي

،على متنها، دغدغَ الجنديُّ غزّة

لم أرمِ قنبلةً من الأباتشي في سِجلّيَ الشّخصيّْ

لا لنقصٍ فيّ

بل لأنّي أرى في الأفقِ المدى صدى السّأمِ

من ثورةِ السِّلميِّ في غير موضعها

.ومن حُسن السّلوك

***

،هل أعطاكَ أحدُهُم شيئًا في الطّريق إلى هنا – سألت

قلتُ: هو المنفيُّ في النَّيربْ

أعطانيَ الذّكرياتْ

ومِفتاحَ بيتٍ في الحكاياتْ

صدأُ الحديد على المفتاحِ وَتّرَني ولكنّي

كالمَعدِنِ الأصليِّ؛ أُرجِّعُ ذاتي بذاتي، إن أحنّ،

من أنينِ اللاجئينْ

يَبعثُ الشّوقُ جناحهُ عبر الحدودِ

لا حَرسٌ أو ألفُ يمنعُهُ

.ولا أنتِ، أكيد

***

قالت: هل من أداةٍ حادّةٍ في حيازتك؟

قلتُ: عاطفتي

بَشَرتي.. وملامحُ القمحيِّ فيّْ،

،وُلدتُ هنا بلا ذنبٍ سوى الحظّ

متشائلًا قد كنتُ في السّبعين

أنا المتفائلَ بأنشودتين عصيّتينِ عليكِ الآن

.في سجنِ جِلْبُوَّعْ

أَصْلي

وفصلي من رواياتِ الزّمانِ الفجِّ

جنازةُ الماضي وعرسٌ

في قاعةِ الأملِ القريب،

بلحٌ من الغَورِ رعرعني

.وفسّرني الكلام

في حيازتي طفلٌ أجّلتُه عن موعد التّوليدِ كي يأتي

.إلى صباحٍ لا كهذا الهشِّ يا بنت أوكرانيا

في حيازتي أنّ المؤذّنَ صادحًا يُطربُني رغم إلحادي

أصيحُ كي تَجفُلَ الأنّاتُ في النّاياتْ

.وكي تَصدَحَ الكمنجةُ في الطّبنجةِ من خلودٍ في الوجود

***

تأخذني الجنديّةُ إلى تفتيشِ حاجاتي

،تأمرُني بفتحِ الحقيبة

!أفعلُ ما تشاء

فينِزُّ من قلب الحقيبةِ قلبي، وأغنيتي

.ومعنى المعنى يفُزُّ فصاحةً وفجاجةً منها وفيها كلُّ ما فيّ

***

تسألني: وما هذا؟

،أقولُ: سورةُ الإسراءِ من معراجِ أوردتي وتفسيرُ الجلالين

ديوانُ أبي الطّيّب المتنبّي وأختي مرام، صورةً وحقيقةً في آن،

شالٌ حريريٌّ يدثّرني ويحميني من برد البُعادِ عن الأقاربْ،

تَبغٌ من عرّابة البطّوفِ دَوَّخَني إلى أن حشّشَ المجهولُ فيّْ

وفيَّ وفيٌّ وفيّْ.. زعترٌ بلديّْ

جلّنارُ النّارْ، جليليٌّ بَهيّْ

.عقيقي، كافوري، بَخورُي وأنّيَ حَيّْ

مَرجانُ حيفا المشعُّ المستديمُ المستنيرُ

المستحيلُ المستريحُ في جيبِ عودتنا بلا سببٍ

سوى أنّا عَبَدنا حُسنَ نِيّتنا وأوثقنا

!النّكبةَ السّقطةَ في الماضي وفيّ

***

تُسَلِّمُني الجنديّةُ إلى الشّرطيِّ الّذي

:تحسّسني في فجأةٍ ثمّ صاح

!ما هذا؟

عضويَ الوطنيّْ – أقولُ

ونسلي.. حمى أهلي وبيضتا حمامٍ

تفقّسانِ رجولةً وأنوثةً منّي ولي،

يبحثُ بي

عن كلّ شيء ممكنٍ وخطيرْ

لكنّهُ أعمى هذا الغريبَ الّذي

:ينسى قنابلَ بي أشدَّ مضاضةً وأهمّ

عنفواني، جُموحي، نزقَ النّسور في لهفي وفي جسدي

شامَتي وشهامتي، هذا أنا

كاملًا متكاملًا لن يراني فيما يرى

.هذا الغبيّ

***

الآن، وبعد ساعتينِ من معركة المعنويّاتْ

ألعَقُ جرحي لخمسِ دقائقَ كافياتْ

ثمّ أصعدُ الطّائرة الّتي ارتفعت. لا للذّهاب

،ولا للإياب

بل لأرى جنديّةَ الأمنِ تحتي

الشّرطيَّ في نشيدِ حذائيَ الوطنيِّ تحتي

وتحتي أكذوبة التّاريخِ المعلّبِ مِثلَ

بن غوريون الّذي صارَ كما كان كما كان كما كان

.تحتي

                                                               مروان مخّول

Un arabo all’aeroporto di Ben Gurion

Sono arabo!

Ho urlato nell’area partenze dell’aeroporto

accorciando alla soldatessa la strada per raggiungermi.

Sono andato da lei e ho detto: interrogami! Ma

in fretta, per favore, perché non voglio fare tardi

e perdere l’aereo.

Ha detto: da dove vieni?

Dai Ghassanidi del Golan discende il mio cavalierato, ho detto io,

il vicino di una meretrice di Gerico.

Colei che indicò a Giosuè la strada per la Cisgiordania,

il giorno in cui la occupò e dopo di lui la occupò la storia

da quel momento a tutti quelli a venire.

Dalla pietra inscalfibile di Hebron le mie risposte,

sono nato al tempo dei Moabiti che scesero prima di voi

sull’antica terra sottomessa.

Da Canaan mio padre,

e mia madre è una fenicia, il sud del Libano in passato.

Mia madre, è morta sua madre, due mesi fa

non ha detto addio al corpo di sua madre, mia madre, due mesi fa.

Ho pianto nel suo grembo perché l’intimità di al-Buqaia la consolasse

ai piedi della calamità, del destino.

Libano, sorella impossibile, e io

unica madre di mia madre

nel nord!                          

Mi ha chiesto: Chi ha preparato la tua valigia?

Ho detto: Osama Bin Laden! Ma,

calma. Questa è uno scherzo di cattivo gusto, l’umorismo delle ferite,

una battuta per i realisti come me, ecco,

al servizio della lotta.

Combatto da sessant’anni con parole di pace

non attacco gli insediamenti

non posseggo come voi un carro armato

sulla cui torretta il militare punzecchia Gaza.

Non ho lanciato una bomba da un elicottero Apache, non è nel mio curriculum

non perché manchi qualcosa in me, no

ma perché vedo all’orizzonte l’eco lontana dell’indifferenza

alla rivoluzione della pace, fuori luogo qui

e alla condotta giusta.

Qualcuno ti ha dato qualcosa mentre venivi qui?, mi ha chiesto

ho detto: l’esule del campo profughi di Neirab

mi ha dato i ricordi

e la chiave di una casa nei racconti,

la ruggine del ferro della chiave mi corrodeva, ma io

come il metallo puro, ritorno a me stesso attraverso me stesso nella malinconia.

Dai gemiti dei rifugiati

spiega le ali la nostalgia oltre i confini

non una guardia né mille l’arresteranno

né tu, è certo.

Ha detto: hai oggetti taglienti in tuo possesso?

Ho detto: la mia passione

la mia pelle, il carnato del grano.

Sono nato qui senza colpa, solo sorte 

ero pessimista, certo, negli anni Settanta

ma sono ottimista per gli inni che si innalzano contro di te proprio adesso,

nella prigione di Gilboa.

La mia origine

e il mio distacco dalle storie false del tempo amaro

sono un funerale del passato e un matrimonio

nella grande sala della speranza, che è vicina.

I datteri di Gawr mi hanno cresciuto

e mi hanno insegnato a parlare.                

Ho un bambino di cui ho ritardato il giorno della nascita perché arrivasse

non una mattina come questa, fragile, figlia dell’Ucraina.

Ho un muezzin la cui preghiera mi allieta, nonostante il mio ateismo.

Grido perché taccia il lamento dei flauti,

e perché il violino risuoni nel fucile in un sempiterno canto.

La soldatessa perquisisce le mie cose,

mi ordina di aprire la valigia

faccio quello che vuole!

Dal cuore della valigia stilla goccia a goccia il mio cuore, la mia musica,

e il senso di tutto zampilla, fecondo e crudo, e dentro di esso tutto ciò che è in me.

Mi chiede: e questo cos’è?

Dico: la sura del Viaggio Notturno, l’ascesa del mio sangue, e il Tafsir di Jalanain,

il diwan di Abu al-Tayyib al-Mutanabbi e mia sorella Maraam, sia foto che realtà,

uno scialle di seta che mi avvolge e protegge dal freddo della distanza dei miei cari,

il tabacco di un chiosco di Arraba che mi ha dato il capogiro, le vertigini e l’ignoto,

la lealtà, la lealtà, la lealtà… il timo selvatico del mio paese,

il fuoco dei chicchi di melograno, fulgidi, della mia Galilea,

la mia agata, la mia canfora, il mio incenso, e me stesso vivo.

Il corallo che è Haifa, radiosa, eterna e illuminata

l’impossibile che riposa nella tasca del nostro ritorno senza alcun motivo

se non la venerazione sacra delle nostre buone intenzioni e il confino

della nakba a un errore del passato e dentro di noi!

La soldatessa mi consegna al poliziotto che

d’improvviso mi perquisisce e urla:

Cos’è questo?!

Gli organi della mia nazione, dico,

e la mia progenie, la protezione della mia famiglia e due uova di colomba.

Covano la mascolinità e la femminilità, da me e per me.

Cerca sul mio corpo, lui

qualsiasi cosa che possa essere pericolosa.

Ma è cieco, questo sconosciuto,

e dimentica le bombe più feroci e capitali:

il mio vigore, il mio disprezzo, i falchi indomiti dello spirito e del corpo,

l’orgoglio e il coraggio. Questo sono io

tutto, completo, non mi vedrà mai in ciò vede

lui, questo ottuso.

Ora, dopo due ore di battaglia di spirito, di significato,

mi lecco le ferite per cinque minuti, quanto basta.

Poi salgo sull’aereo che è partito. Non per andare,

non per tornare.

Ma per vedere la soldatessa ai controlli, sotto di me

il poliziotto nell’inno nazionale delle mie scarpe, sotto di me

e sotto di me la menzogna della storia in una scatoletta di latta,

come Ben Gurion che è rimasto sempre, sempre, sempre,

sotto di me.


بلادي

إليك بلادي
جموحَ الطُّموحِ لسقف انتمائي،
إليك تعود الحَياةُ جَديدة
فتشفي جِراحَ العنيدْ
وتحيي الوئيدةْ

إليك اشتهاءَ الشهامةْ
وكرْمِ الكرامةْ
سواعدَ تبني الأمامَ التّمامْ
إليك المرام عليك السلامْ
بلادي الوليدةْ

Paese mio

A te paese mio

la tenacia ostinata dell’ambizione come tetto della mia appartenenza.

A te la vita ritorna, nuova

guarisce le ferite ostinate,

riporta in vita i racconti antichi.

A te il trasporto del coraggio,

l’onore della generosità.

Mani che costruiscono un fronte completo, perfetto.

A te la speranza, su di te la pace.

Paese mio, bambina mia.


لكي أكتب شعزا ليس سياسيْا يجب

،أن أصغى إلى العصافير

ولكي أسمع العصافير يجب

أن تَخرس طائرة

Per scrivere poesia che non sia politica,

devo ascoltare gli uccelli.

E per sentire gli uccelli

le bombe degli aerei devono tacere.

“Come qualsiasi altro poeta” – Intervista a Marwan Makhoul

Intervista e traduzione dall’arabo a cura di Enrica Fei.

Quest’intervista, avvenuta telefonicamente il 22 marzo del 2024, è associata alla traduzione commentata di tre opere del poeta sempre a cura di Enrica Fei. La trovate qui, sul nostro sito.

Marwan Makhoul (1979), di cui abbiamo analizzato la poetica qui, è un poeta palestinese che vive nello Stato d’Israele. È nato da un padre palestinese e una madre originaria del Libano. Raccontando situazioni ordinarie, comuni, aneddoti apparentemente banali della vita di tutti i giorni, Makhoul racconta la realtà del popolo arabo nello Stato d’Israele, l’identità e diaspora palestinese e i soprusi che subiscono tutte le comunità «vulnerabili» del mondo, per usare le sue parole. Lo abbiamo incontrato per chiedergli cosa significhi essere un palestinese con passaporto israeliano e discutere con lui della sua attività poetica.

EF: Cosa significa essere un poeta arabo e palestinese che vive in Israele?

MM: Ci sono circa due milioni di palestinesi che non hanno lasciato la loro patria nel 1948 durante la guerra tra le organizzazioni sioniste e gli eserciti arabi. Centosessantacinquemila palestinesi sono rimasti a vivere nelle loro città nel 1948 e nel tempo si sono trasformati in due milioni di cittadini. Questo in termini di informazioni storiche, ma in termini di come mi sento come cittadino palestinese o poeta che vive in Israele, credo che non sia certo colpa mia se sono nato nello Stato di Israele.

Sono nato nella mia patria. Israele è lo stato che è venuto dopo e che è stato costruito sulla mia patria, sulla sua cancellazione e sulla cancellazione dei miei antenati. È lo Stato di Israele che è venuto dopo, non sono io che mi sono trasferito in Israele. La mia presenza è legittima. Perché vivo in Israele o perché accetto Israele? Non ho scelto di vivere in Israele, ho scelto di rimanere nella mia patria. La differenza tra patria e stato è enorme. Lo stato è un’istituzione, la patria è la terra, il luogo di un popolo, la sua storia e la sua cultura: io sono rimasto nella mia storia e nella mia cultura continuando a rappresentarne un legittimo membro.

I miei sentimenti a riguardo non sono dei migliori, perché un palestinese che vive all’interno dei territori del 1948, oggi chiamati Israele, è un palestinese che soffre di una crisi: che patria e stato non coincidano e che il popolo, quello palestinese, non governi il proprio paese ma sia governato dalla comunità ebraica.

Vorrei vivere in uno stato di tutti i cittadini; uno stato in cui possiedo gli stessi diritti di qualsiasi altra persona. Non ho gli stessi diritti di un cittadino ebreo. Vorrei vivere in un paese laico, non costruito su base settaria o religiosa. Penso che non ci sia differenza tra Daesh (Stato Islamico dell’Iraq e Siria, ISIS, N.d.T.) e lo Stato ebraico: a mio avviso, sono entrambi stati che si fondano su principi religiosi, ben lontani da uno stato laico. Uno stato civile deve tenere ben distinti le istituzioni statali e la religione. Una delle ragioni dell’arretratezza della comunità araba e islamica è il legame profondo tra religione e stato. Questo è ciò che sento e in cui mi sto impegnando. Alcuni dei miei scritti poetici trattano proprio di questo.

EF: Come si vive giorno per giorno, da persone arabe, nello Stato d’Israele?

MM: Credo che la vita dei palestinesi che risiedono all’interno dei territori del 1948 – all’interno della cosiddetta Linea Verde (linea di demarcazione stabilita negli accordi d’armistizio del 1949 fra Israele e Siria, Giordania ed Egitto alla fine della guerra del 1948–1949, N.d.T.) – sia migliore dei palestinesi che vivono in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza, e nettamente migliore dei palestinesi che vivono nei campi profughi. I palestinesi che vivono nei territori del 1948 non hanno perso la loro terra, la loro casa. D’altra parte, però, sono cittadini che non godono di tutti i diritti di cui dovrebbero godere in democrazia. Abbiamo visto di recente come lo Stato d’Israele non sia più una democrazia ma una dittatura, che impedisce ai cittadini nei territori del 1948, me compreso, di esprimere la propria appartenenza al suo stesso popolo, di sostenere la propria causa, manifestare per il cessate il fuoco e per fermare l’uccisione dei civili a Gaza.

Gli israeliani vogliono che decidiamo se essere completamente israeliani o completamente palestinesi, ma noi non siamo né l’una né l’altra cosa. Mi spiego: siamo palestinesi a tutti gli effetti tranne che rispetto alla nostra identità civile, intesa come appartenenza nazionale, politica e come vogliamo essere riconosciuti. Siamo israeliani perché viviamo in Israele e abbiamo la cittadinanza israeliana. Non vogliamo rinunciare a questa cittadinanza, perché questa cittadinanza ci permette di rimanere nel nostro paese, nella nostra patria. Vogliamo, però, ottenere tutti i nostri diritti, e questo significa, anche, il cambiamento del nome dello Stato, il cambiamento della sua identità, il cambiamento della sua bandiera, il cambiamento dell’inno nazionale. Solo così questo Stato diventerà lo stato di tutti i suoi cittadini e anche gli altri palestinesi godranno di eguali diritti, che si trovino in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza o nei campi profughi.

EF: Passiamo al tema della diaspora. La diaspora è un elemento che pertiene sia all’identità ebraica che a quella palestinese. In che modo si articola e differenzia tra le due identità? Quali sono gli elementi che distinguono la diaspora nella storia dell’identità ebraica e in quella della storia palestinese?

MM: I musulmani vivono ovunque nel mondo. I cristiani vivono ovunque nel mondo. I buddhisti vivono ovunque nel mondo. Perché gli ebrei vogliono vivere solo in Israele? Perché sostengono che questa terra sia un loro diritto storico, loro e di nessun altro? Se hanno lasciato questo Paese tremila anni fa, perché vogliono tornare in questo Paese che non gli appartiene più, se non in senso strettamente religioso, e sradicare le persone che già vi vivevano tremila anni fa? Tremila anni fa noi eravamo lì come palestinesi.

Perché vogliono sradicarci per il loro ritorno? Io non odio gli ebrei, voglio vivere con gli ebrei perché sono Marwan, una persona non religiosa, e voglio che tutti vivano assieme, ma non sulla base dell’annullamento reciproco. Non voglio che, affinché gli ebrei tornino nella Palestina storica o in uno stato – la Terra di Israele, come la chiamano –, io debba essere sradicato dalla mia casa e il mio popolo debba essere sfollato. Questo avviene da settantasei anni e non è mai stata trovata una soluzione. Questo è il problema e questa è la differenza: Israele è uno Stato di occupazione con il mantello del vittimismo. È l’unica occupazione al mondo che si sente vittima. Non ho alcun problema che il mondo smetta di perseguitare gli ebrei e difenda questa minoranza nel mondo. La soluzione per la difesa di questa minoranza, però, non può andare a scapito del popolo palestinese.

EF: Parliamo adesso della tua attività poetica. Come esprimi i tuoi messaggi sociali e politici attraverso la tua poesia?

MM: Quando scrivo poesie, non penso a inviare messaggi. Scrivo solo poesie. Ciò che emerge dalla mia poesia è che non esprime solo me stesso, ma anche altri. Tutti i palestinesi si sentono discriminati, che vivano all’interno (della Linea Verde, N.d.T.), sotto l’occupazione, a Gaza, in Cisgiordania, o in diaspora. E questo vale per tutte le minoranze vulnerabili del mondo. Questo è l’elemento che caratterizza la mia poetica; qualsiasi essere umano che si trova sotto occupazione o in un luogo che li discrimina come minoranza vulnerabile e i cui diritti non vengono garantiti può provare empatia e identificarsi: i nativi americani, gli abitanti del continente africano, i tibetani, il popolo basco, gli irlandesi, gli scozzesi, i ciprioti, e così via. Non sono solo un poeta politico, però: sono anche un poeta ordinario che scrive di tutto, che affronta tutti gli ambiti della vita.

EF: Quali sono i tuoi modelli? Quando pensiamo alla poesia palestinese, pensiamo subito a Mahmoud Darwish. Ma la poesia palestinese, e quella araba in generale, ha una lunga storia e una ricchissima tradizione. Che impatto ha avuto su di te?

MM: Credo che una persona o un popolo che citi un solo poeta o un singolo modello sia un popolo poco istruito, un popolo con una consapevolezza limitata. È un popolo che imita: imita un poeta, o un cantante, un ballerino, un leader. Un poeta arabo dovrebbe essere come un poeta francese, nella cui tradizione letteraria rientrano decine di poeti, decine di musicisti, decine di artisti e decine di politici. Se ci aggrappiamo a nomi specifici e trasformiamo il creativo o il politico in un dio – un’icona elevata a qualità di star –, è perché non abbiamo particolari successi o raggiungimenti degni di nota.

Io sono come qualsiasi altro poeta: sono influenzato da tutti e non sono direttamente influenzato da nessuno. Sono influenzato da tutti a più livelli e in vario modo, proprio come nella vita negli ambiti più diversi.

L’autoproclamato “poeta laureato del nonsense”: quattro poesie di Edward Lear

Introduzione e traduzione dall’inglese a cura di Sara Caretta e Alessandro Valenti

Per la rubrica #mortəcheparlano, vi presentiamo quattro poesie di Edward Lear (1812 – 1888), scelte, tradotte dall’inglese e introdotte da Sara Caretta e Alessandro Valenti.

Nell’approcciarsi alla poesia di Edward Lear (1812-1888), lettori adulti e bambini si trovano di fronte a creature che inesorabilmente attraversano il confine che separa il convenzionale dal bizzarro, e l’abituale dall’eccentrico. È in questa scentratura che acquista il suo senso il delizioso nonsense di Lear, il quale all’interno dei suoi schemi metrici rigidamente prevedibili inserisce la cifra dell’incongruo – e quindi della sorpresa, a cavallo fra comicità, incertezza e simpatia.

Queste figure eccentriche, infatti, non sono oggetto di satira o derisione, pur non acquistando alcuna dimensione di pathos: nella loro configurazione più essenziale, affrontano vicissitudini che mettono in scena il confronto con una dura realtà, la quale rivela infine la loro incompatibilità con il mondo circostante. Nella prima poesia qui selezionata, “Gli abiti nuovi”, l’incongruo nasce dall’incontro assurdo tra due dei bisogni primari dell’uomo: al posto dei soliti vestiti, il protagonista in questione sfoggia un outfit interamente commestibile, e si trova poi, una volta uscito in pubblico, ad affrontare le conseguenze della sua scelta.

La selezione include poi tre limerick, la forma poetica che Lear stesso ha contribuito a popolarizzare tra il pubblico di lettori vittoriani; in questi componimenti (di quattro o di cinque versi a seconda dello spazio disponibile in sede di stampa per le illustrazioni di Lear) si ripete un’identica esperienza di straniamento, seguita quindi dal confronto (e dal conflitto) con le leggi di una realtà condivisa da tutti, men che dall’eccentrico personaggio in questione. Nello scegliere alcuni tra i numerosissimi limerick composti da Lear, abbiamo voluto privilegiare tre location situate in Italia (rispettivamente Abruzzo, Lucca e Aosta); ciò a testimonianza degli anni trascorsi da Lear nella penisola, ritratta in molti dei suoi appunti e delle sue illustrazioni. Non ci sembra inverosimile suggerire che l’esperienza artisticamente poliedrica e geograficamente vagabonda di Lear possa trovare un suo corrispondente nella popolazione eccentrica che abita i suoi versi, composta da audaci fashion designer, donzelle dal cuore spezzato, e pastori sbadati.


The New Vestments

p. 245

There lived an old man in the Kingdom of Tess,
Who invented a purely original dress;
And when it was perfectly made and complete,
He opened the door, and walked into the street.
By way of a hat, he’d a loaf of Brown Bread,
In the middle of which he inserted his head;—
His Shirt was made up of no end of dead Mice,
The warmth of whose skins was quite fluffy and nice;—
His Drawers were of Rabbit-skins;— so were his Shoes;—
His Stockings were skins,— but it is not known whose;—
His Waistcoat and Trowsers were made of Pork Chops;—
His Buttons were Jujubes, and Chocolate Drops;—
His Coat was all Pancakes with Jam for a border,
And a girdle of Biscuits to keep it in order;
And he wore over all, as a screen from bad weather,
A Cloak of green Cabbage-leaves stitched all together.
He had walked a short way, when he heard a great noise,
Of all sorts of Beasticles, Birdlings, and Boys;—
And from every long street and dark lane in the town
Beasts, Birdles, and Boys in a tumult rushed down.
Two Cows and a half ate his Cabbage-leaf Cloak;—
Four Apes seized his Girdle, which vanished like smoke;—
Three Kids ate up half of his Pancaky coat,—
And the tails were devour’d by an ancient He Goat;—
An army of Dogs in a twinkling tore up his
Pork Waistcoat and Trowsers to give to their Puppies;—
And while they were growling, and mumbling the Chops,
Ten Boys prigged the Jujubes and Chocolate Drops.—
He tried to run back to his house, but in vain,
For Scores of fat Pigs came again and again;—
They rushed out of stables and hovels and doors,—
They tore off his stockings, his shoes, and his drawers;—
And now from the housetops with screechings descend,
Striped, spotted, white, black, and gray Cats without end,
They jumped on his shoulders and knocked off his hat,—
When Crows, Ducks, and Hens made a mincemeat of that;—
They speedily flew at his sleeves in a trice,
And utterly tore up his Shirt of dead Mice;—
They swallowed the last of his Shirt with a squall,—
Whereon he ran home with no clothes on at all.
And he said to himself as he bolted the door,
‘I will not wear a similar dress any more,
‘Any more, any more, any more, never more!’

Gli abiti nuovi

Viveva un vecchietto in un villaggio reale
Che s’inventò un vestito assai originale;
Quando fu pronto e calzante a pennello,
Aprì il suo portone e uscì dal cancello.
Come cappello aveva una pagnotta integrale,
In mezzo alla quale mise la sua testa ovale;
La camicia era fatta di topolini stecchiti,
Così morbida da lasciar tutti sbalorditi;
I mutandoni erano pelli di coniglio, così come gli stivali;
Anche le calze erano di pelle, ma forse non di animali;
Gilè e pantaloni eran di carne grigliata;
I bottoni giuggiole, e gocce di cioccolata;
Pancake e marmellata gli facevan da cappotto,
Il tutto sorretto da una pancera di biscotto;
Un mantello, infine, per ripararsi dal vento,
Di foglie di cavolo, cucite con talento.
Camminava da un po’, quando udì tremendi schiamazzi,
Di ogni sorta di bestie, uccellacci e ragazzi;
E arrivarono da ogni vicolo e strada della grande città
Bestie, uccellacci e ragazzi con gran rapidità.
Due mucche e mezzo gli brucarono il mantello;
Quattro scimmie scapparono con la pancera nel borsello;
Tre bimbi si sbafarono i pancake del suo cappotto,
E le briciole andarono a un caprone vecchiotto;
Dei cani in un lampo sbranarono pantaloni e gilè
Per portar braciole e costine ai loro bebè;
E mentre questi banchettavano con la carne grigliata,
Dieci ragazzi sgraffignavano giuggiole e cioccolata.
Provò a tornare a casa di corsa, ma fu tutto invano:
Orde di maiali lo inseguivano a tutto spiano;
Arrivavano a frotte da stalle, porcili e portoni,
Per strappargli calze, stivali, e persino i mutandoni;
Con acuti miagolii scendevano ora dai tetti
Gatti striati, maculati, bianchi, neri e grigetti,
Gli saltaron sulle spalle e gli gettaron via il cappello,
Tra corvi, anitre e galline ne rimase un sol brandello;
S’avvinghiarono poi alle maniche, come impazziti,
Fino a strappare la camicia di topi stecchiti;
Con gran gusto papparono anche l’ultimo topino,
Così corse a casa nudo, senza neanche un calzino.
Si ripromise allora, barricandosi laggiù,
“Con un tale vestito non ci esco mai più,
Mai più, mai più, mai più, mai più!”


Tre limerick

(p. 27, 29, 57)

There was an Old Man of th’ Abruzzi,
So blind that he couldn’t his foot see;
⁠When they said, “That’s your toe,” he replied, “Is it so?”
That doubtful Old Man of th’ Abruzzi.

C’era un vecchio signore degli Abruzzi,
Così miope ch’i piedi gli sembravan merluzzi;
Quando gli dissero, “Ma è il tuo ditone,” lui rispose, “Ma come?”
Quel dubbioso vecchio signore degli Abruzzi.


There was a Young Lady of Lucca,
Whose lovers completely forsook her;
⁠She ran up a tree, and said, “Fiddle-de-dee!”
Which embarrassed the people of Lucca.

C’era una giovane donna di Lucca,
Dagli amanti piantata, come una vecchia bacucca;
Su di un albero si arrampicò, e disse “Piripì! Piripò!”
Il che imbarazzò la gente di Lucca.


There was an Old Man of Aôsta,
Who possessed a large cow, but he lost her;
⁠But they said, “Don’t you see, she has rushed up a tree?
You invidious Old Man of Aôsta!”

C’era un vecchio signore di Aosta,
Che perse una mucca, ma non apposta;
Gli dissero, “Ma non la vedi? È su quell’albero, in piedi!
Vecchio bilioso signore di Aosta!”


Edizione di riferimento: E. LEAR, The Complete Nonsense of Edward Lear, a cura di H. Jackson, New York, Dover Publications Inc.