Rasoterra nella realtà e nella lingua: alcune poesie di Mosab Abu Toha

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Camilla Marchisotti

Ci si accorge subito, leggendo Mosab Abu Toha, che le cose nelle sue poesie sono davvero cose: gli alberi sono davvero alberi, non token bucolici su cui proiettare significati altri; le case sono davvero case e i bambini davvero bambini, non personaggi o simboli dell’infanzia; le bombe, soprattutto, sono davvero bombe, non metafore. Che nel suo Things you may find hidden in my ear (City Lights, 2022) le cose siano proprio così come appaiono non è il segno di un’ingenuità poetica da libro d’esordio, ma una scelta formale ben precisa, una modalità di enunciazione e posizionamento che è la regola aurea e terribile della sua scrittura. Dico terribile, perché dal punto della mappa in cui l’autore si colloca e scrive, e cioè da quella Gaza in cui è nato, i bambini sono spesso morti, feriti o menomati (come in “Seven fingers” o “We deserve a better death”); le case sventrate e il paesaggio deformato dalle bombe, dagli aerei, dai droni, dai proiettili e dalle schegge di granata che, realissimi, coprono e gareggiano con il rumore di vento, alberi e uccelli. L’una e l’altra dimensione, naturale e guerresca, convivono nel vocabolario poetico di Abu Toha e nel soundscape del suo cielo palestinese, fino a confondersi e sovrapporsi con effetti a volte stranianti. Tenere insieme questi elementi apparentemente inconciliabili è quello che fa tutti i giorni l’irreale realtà di Gaza, e che di conseguenza deve fare il poeta sulla pagina. Così, Mosab è l’occhio che ha visto e che vede; il corpo che ha patito e la memoria che registra, elenca le date dei massacri e i nomi delle vittime, ricordando anche per gli altri, come per i nonni morti con la speranza di poter tornare un giorno a Yaffa nella casa abbandonata a forza nel 1948, di cui si racconta in “My grandfather and home”. Mosab è anche l’orecchio che ha sentito e che sente: fortissima la dimensione sonora, una sorta di aurality da guerra permanente che infatti ritorna anche nel titolo del libro e nel componimento omonimo (“Things you may find hidden in my ear”); così come frequente, tra gli oggetti, è la radio. Questa attenzione al reale non vuol dire che al libro manchi una dimensione immaginifica, onirica o surreale, anzi (si vedano per esempio, qui, “The wall and the clock” e “Notebooks”); o che non ci si permetta, a volte, di allargarsi o salire liricamente (in “A litany for “one land””), ma è sempre un dire che evita i rischi della retorica, della pornografia del dolore e della banalizzazione.

Ed è tanto più sorprendente, questa capacità di stare rasoterra nella realtà e nella lingua, se si pensa che il poeta sceglie, per le sue poesie, non l’arabo (madrelingua spesso definita “sick”, malata come il popolo che la parla), ma l’inglese, a cui mancano le lettere necessarie per pronunciare correttamente il suo nome (come ci viene spiegato in “Mosab”), e che marca anche linguisticamente una situazione fisica, una condition ormai cronicizzata di displacement (uno dei numi tutelari del libro è Edward Said, a cui è dedicata “Displaced”). Mosab Abu Toha si è laureato in lingua e letteratura inglese, ha insegnato inglese nelle scuole della UNRWA (United Nations Relief and Works Agency) dal 2016 al 2019, ha studiato in America come visiting fellow e visiting librarian, ha fondato la Edward Said Library, la prima biblioteca di lingua inglese a Gaza. Questa lingua seconda gli permette di trovare e di tenere, lungo tutti i testi, la corretta misura enunciativa. Si tratta di una lingua su cui il poeta spesso ragiona mentre scrive, ma le riflessioni metaletterarie nel libro sono estranee alla freddezza dell’esercizio di stile: anche le parole sono cose, e le poesie mattoni con cui si costruiscono le case; soltanto con la penna in mano si è umani e non spettri.


Da Things you may find hidden in my year (2022)

My grandfather and home

i
my grandfather used to count the days for return with his fingers
he then used stones to count
not enough
he used the clouds birds people

absence turned out to be too long
thirty-six years until he died
for us now it is over seventy years

my grandpa lost his memory
he forgot the numbers the people
he forgot home

ii
i wish i were with you grandpa
i would have taught myself to write you
poems volumes of them and paint our home for you
i would have sewn you from soil
a garment decorated with plants
and trees you had grown
i would have made you
perfume from the oranges
and soap from the skys tears of joy
couldnt think of something purer

iii
i go to the cemetery every day
i look for your grave but in vain
are they sure they buried you
or did you turn into a tree
or perhaps you flew with a bird to the nowhere

iv
i place your photo in an earthenware pot
i water it every monday and thursday at sunset
i was told you used to fast those days
on ramadan i water it every day
for thirty days
or less or more

v
how big do you want our home to be
i can continue to write poems until you are satisfied
if you wish i can annex a neighboring planet or two

vi
for this home i shall not draw boundaries
no punctuation marks

Mio nonno e casa

i
mio nonno contava i giorni del ritorno con le dita
poi usò le pietre per contare
non bastava
usò le nuvole uccelli persone

l’assenza si rivelò troppo lunga
trentasei anni finché non morì
ora per noi oltre settanta

mio nonno perse la memoria
dimenticò i numeri le persone
dimenticò casa

ii
nonno vorrei essere con te
avrei insegnato a me stesso come scriverti
poesie interi volumi e avrei dipinto casa nostra per te
ti avrei cucito dalla terra
un vestito decorato con piante
e alberi che avevi fatto crescere
ti avrei confezionato
profumo dalle arance
e sapone dalle lacrime di gioia dei cieli
impossibile pensare a qualcosa di più puro

iii
vado al cimitero ogni giorno
cerco invano la tua tomba
sono sicuri di averti seppellito
o sei diventato un albero
o forse sei volato via con un uccello verso il nulla

iv
metto la tua foto in un vaso di terracotta
la innaffio ogni lunedì e giovedì al tramonto
mi hanno detto che in quei giorni digiunavi
durante il ramadan la innaffio ogni giorno
per trenta giorni
o di meno o di più

v
quanto la vuoi grande questa nostra casa
posso continuare a scrivere poesie finché non sarai soddisfatto
se vuoi posso aggiungere uno o due pianeti vicini

vi
per questa casa non traccerò confini
nessun segno di punteggiatura

The wall and the clock

There is always that clock on the wall.
Every time I step into my room, I feel
curious, want to take it down, see
what’s behind its face.
I want to see how old it has become.
My father bought it when I was a child.
I want to count its teeth
to know its age.

But the clock doesn’t get old.
The numbers never change,
Only I do.

And then there’s the rocking chair,
and I am sitting in it, just me
in the room, rocking back and forth
doing nothing but
imagining the wall shouting to the clock,
“Stop ticking! You’re hurting my ears.”

I look at the cracks in the paint on the wall.
It’s more than just the sound of the clock.
Shrapnel holes stare at me
whenever I enter the room.

(The clock wasn’t harmed in that attack.)

I hurry to pull the batteries out of the clock.
I whisper to it:
I’ll take you to the doctor,
even though it’s not only you who’s sick.

The paint stops peeling.
I take the clock to the clockmaker,
ask him to make it soundless.
He removes the clock’s vocal cords,
patches its mouth shut.
I didn’t see the teeth,
didn’t ask the doctor.

At home, I put the batteries back.
The clock works silently.
It adds to the silence in the room.

I settle back into my chair, read some poems aloud
to break off the threads of silence that dangle
from the ceiling.

A cold night breeze seeps through the holes in the wall.
I tear out some pages I’ve finished reading,
stuff them into the small, shapeless non-closable windows.

I am two hours late for work the next day.

The clock wasn’t set right after its “treatment”.
Surely it would’ve alerted me
if it were capable of speech.

Number 4 falls from the clock’s face
when I try to adjust the time.

As if a front tooth has fallen out.

Four days later,
my brother Hudayfah
passes away.

L’orologio e il muro

C’è sempre quell’orologio sul muro.
Ogni volta che entro in camera, mi
incuriosisco, vorrei tirarlo giù, vedere
cos’ha dietro alla faccia.
Voglio vedere com’è invecchiato.
Mio padre l’ha comprato che io ero un bambino.
Voglio contargli i denti
conoscere i suoi anni.

Ma l’orologio non invecchia.
I numeri non cambiano.
Soltanto io.

E poi c’è la sedia a dondolo,
e io sono seduto qui, soltanto io
nella stanza, dondolo avanti e indietro
non faccio nulla, se non immaginare
il muro che grida all’orologio,
“Smettila di ticchettare! Mi fai male alle orecchie”.

Guardo le crepe nell’intonaco sul muro.
Non è solo il suono dell’orologio.
Buchi di granata mi fissano
ogni volta che entro in camera.

(L’orologio non è rimasto ferito in quell’attacco.)

Veloce, tiro fuori le pile dall’orologio.
Gli sussurro:
ti porto dal dottore,
anche se non sei solo tu a essere malato.

L’intonaco smette di creparsi.
Porto l’orologio dall’orologiaio
gli chiedo di renderlo silenzioso.
Rimuove le corde vocali all’orologio,
gli chiude la bocca.
Non ho visto i denti,
non ho chiesto al dottore.

A casa, rimetto dentro le pile.
L’orologio funziona in silenzio.
Che si aggiunge al silenzio della stanza.

Torno alla mia sedia, leggo poesie ad alta voce
per rompere i fili di silenzio che pendono
dal soffitto.

Una brezza serale e fredda filtra dai buchi sul muro.
Strappo delle pagine già lette,
le infilo in quelle piccole finestre senza forma, impossibili da chiudere.

Il giorno dopo vado a lavoro con due ore di ritardo.

L’orologio non era stato riprogrammato bene dopo la “cura”.
Sicuramente mi avrebbe avvertito
se avesse potuto parlare.

Il numero 4 cade dalla faccia dell’orologio,
quando provo ad aggiustare il tempo.

Come se gli fosse caduto un incisivo.

Quattro giorni dopo,
mio fratello Hudayfah
muore.

A litany for “one land”

After Audre Lorde

For those living on the other side,
we can see you, we can see the rain
when it pours down on your (our) fields, on your (our) valleys,
and when it slides down the roofs of your “modern” houses
(built atop our homes).

Can you take off your sunglasses and look at us here,
see how the rain has flooded our streets,
how the children’s umbrellas have been pierced
by a prickly downpour on their way to school?

The trees you see have been watered with our tears.
They bear no fruit.
The red roses take their color from our blood.
They smell of death.

The river that separates us from you is just
a mirage you created when you expelled us.

IT IS ONE LAND!

For those who are standing on the other side
shooting at us, spitting on us,
how long can you stand there, fenced by hate?
Are you going to keep your black glasses on until
you’re unable to put them down?

Soon, we won’t be here for you to watch.
It won’t matter if you blink your eyes or not,
if you can stand or not.
You won’t cross that river
to take more lands,
because you will vanish into your mirage.
You can’t build a new colony on our graves.

And when we die,
our bones will continue to grow,
to reach and intertwine with the roots of the olive
and the orange trees, to bathe in the sweet Yaffa sea.
One day, we will be born again when you’re not there.
Because this land knows us. She is our mother.
When we die, we’re just resting in her womb
until the darkness is cleared.

For those who are not here anymore,
We have been here forever.
We have been speaking but you
never cared to listen.

Litania per “un’unica terra”

Come Audre Lorde

Per quelli che vivono dall’altra parte,
possiamo vedervi, possiamo vedere la pioggia
quando cade sui vostri (nostri) campi, sulle vostre (nostre) valli,
quando scivola lungo i tetti dei vostri edifici “moderni”
(costruiti sulle nostre case).

Potreste togliervi gli occhiali da sole e guardare noi, qui,
come la pioggia ci ha invaso le strade
come gli ombrelli dei bambini sono stati perforati
da un acquazzone pungente sulla via di scuola?

Gli alberi che vedete le nostre lacrime li hanno innaffiati.
Non danno frutto.
Le rose rosse hanno il colore del nostro sangue.
Puzzano di morte.

Il fiume che ci separa è solo un miraggio
che avete creato quando ci avete espulso.

È UN’UNICA TERRA!

Per quelli che stanno dall’altra parte
e ci sparano, ci sputano,
per quanto tempo ancora ve ne starete là, recintati dall’odio?
Continuerete a indossare i vostri occhiali neri finché
non potrete più toglierli?

Presto, non saremo più qui per farci guardare da voi.
Non importerà se sbatterete o no le palpebre
se potrete stare o meno in piedi.
Non attraverserete quel fiume
per prendere altre terre
perché svanirete nel vostro miraggio.
Non potete costruire una nuova colonia sui nostri cimiteri.

E da morti,
le nostre ossa continueranno a crescere
per raggiungere e allacciarsi alle radici dell’ulivo
degli aranci, e bagnarsi nel dolce mare di Yaffa.
Un giorno, quando non sarete qui, noi di nuovo nasceremo.
Perché questa terra ci conosce. È nostra madre.
E da morti, stiamo soltanto riposando nel suo ventre
finché farà più chiaro.

Per quelli che NON sono più qui,
noi siamo qui da sempre.
Da sempre noi parliamo ma voi
non avete mai voluto ascoltare.

We deserve a better death

We deserve a better death.
Our bodies are disfigured and twisted,
embroidered with bullets and shrapnel.
Our names are pronounced incorrectly
on the radio and TV.
Our photos, plastered onto the walls of our buildings,
fade and grow pale.
The inscriptions on our gravestones disappear,
covered in the feces of birds and reptiles.
No one waters the trees that give shade
to our graves.
The blazing sun has overwhelmed
our rotting bodies.

Meritiamo una morte migliore

Meritiamo una morte migliore.
I nostri corpi sfigurati e storti,
ricamati con proiettili e schegge.
I nostri nomi pronunciati male
alla radio e alla televisione.
Le nostre foto, sui muri dei palazzi,
sbiadiscono e diventano pallide.
Le iscrizioni sulle nostre lapidi scompaiono,
coperte da feci di uccelli e rettili.
Nessuno innaffia gli alberi che ombreggiano
le nostre tombe.
Il sole rovente ha sopraffatto
i nostri corpi marcescenti.

Seven fingers

Whenever she meets new people, she sinks
her small hands into the pockets of her jeans,
moves them
as if she’s counting
some coins. (She’s just lost seven
fingers in the war.) Then she
moves away,
back hunched,
tiny as a dwarf.

Sette dita

Ogni volta che incontra persone nuove, affonda
le sue piccole mani nelle tasche dei jeans
le muove
come se contasse
monete. (Ha appena perso sette
dita in guerra). Poi si
allontana,
la schiena curva,
piccola come un nano.

Displaced

In memory of Edward Said

I am neither in nor out.
I am in between.
I am not part of anything.
I am a shadow of something.
At best,
I am a thing that
does not really
exist.
I am weightless,
a speck of time
in Gaza.
But I will remain
where I am.

Dislocato

In memoria di Edward Said

Non sono né dentro né fuori.
Sono in mezzo.
Non sono parte di niente.
Sono l’ombra di qualcosa.
Alla meglio,
sono una cosa che
non esiste
davvero.
Sono senza peso,
un bruscolo di tempo
a Gaza.
Ma rimarrò
dove sono.

Notebooks

I walk carefully on the beach, look to
see if a child’s footsteps lie ahead,
a child who’s lost a leg, or two,
or can no longer hear the waves.


This angel of death just turned my body into pieces
and took my soul. It
left me lying there on the bloody ground,
my fingers resting on a neighbor’s broken window.
It didn’t look back to see if I was smiling or crying,
or if my mouth was even intact.
It just wanted my soul.
My family was out looking for my body.


During the night airstrikes, all of us turned
into stones.


When I hear the explosion, I can smell the sand, sand that blows through the still air
to gather on my windowsill.
I can hear the little dog that barks whenever the branches of an almond tree stir.
He thinks it’s a bird trying to scare him. Is it time to play?
The thick dust falling onto the tree and the dog, and blowing in through my window,
clears the confusion.


I turn off the lights at night so the F-16s
and their bombs don’t catch me,
so the dust doesn’t race in to cover my new clothes,
so the bullets don’t hit my shoulders
when they cut through the skinless air.


I walked down the road and saw a tree.
I wrote a poem about its slim branches and vivid leaves,
a robin in its nest, watching a baby
in a stroller, a mother rolling up her sleeves.

The next day, I walked down and found the tree not there.
I hurried to my room, looked for the poem in my notebook.
The page was torn out.

I return to that road.
No tree.
I go back to my room.
The notebook is not there.

I look into the mirror,
and see a specter of my younger self.
I squat to pick up my pen from the floor.
The mirror follows me,
and shatters on my head.
I wake up.


Raindrops slip into the frying pan
through a hole in a tin roof.


We left the house,
took two blankets,
a pillow, and the echo
of the radio with us.


Why is it when I dream of Palestine,
that I see it in black and white?


People say silence is a sign of consent.
What if I’m not allowed to speak,
my tongue severed, my mouth sewn shut?


Even the pens wanted to write about what they heard,
what shook them when they were napping
in the early afternoon.


The grave was brimming with sand
and prayers and stories that fell from visitors passing by.


It’s been noisy for a long time
and I’ve been looking for a recording
of silence to play on my old headphones.

Taccuini

Con cautela cammino sulla spiaggia, cerco
davanti a me l’impronta di un bambino,
un bambino che ha perso una gamba, o due
o che non può più sentire il suono delle onde.


Questo angelo della morte mi ha appena ridotto il corpo a pezzi
e si è preso la mia anima. Mi ha
lasciato lì disteso sul terreno sanguinoso,
le dita posate sulla finestra rotta di un vicino.
Non si è voltato per vedere se sorridevo o piangevo
o se la mia bocca fosse almeno intatta.
Voleva solo la mia anima.
La mia famiglia, fuori, cercava il mio corpo.


Durante i bombardamenti notturni, ci trasformammo tutti
in pietre.


Quando sento l’esplosione, annuso nell’aria ferma la sabbia, la sabbia che soffia
e si posa sul mio davanzale.
Posso sentire il piccolo cane che abbaia ogni volta che i rami di un mandorlo si muovono.
Pensa che sia un uccello che prova a spaventarlo. È tempo di giocare?
La polvere spessa che cade sull’albero e sul cane, e soffia dentro alla finestra,
chiarisce la confusione.


Di notte spengo le luci perché gli F-16
e le loro bombe non mi prendano,
perché la polvere non venga a ricoprire i miei vestiti nuovi,
perché i proiettili non mi colpiscano le spalle
quando tagliano l’aria senza pelle.


Camminavo per la strada e ho visto un albero.
Ho scritto una poesia sui suoi rami magri e le sue foglie brillanti,
con un pettirosso nel nido, che guardava un neonato
in un passeggino, una madre tirarsi su le maniche.
Il giorno dopo, sono ripassato e l’albero non c’era più,
sono corso in camera, cercavo la poesia nel mio taccuino.
La pagina era stata strappata.

Torno in quella strada.
Nessun albero.
Torno alla mia stanza.
Nessun taccuino.

Guardo nello specchio,
e vedo lo spettro di un me più giovane.
Mi piego per raccogliere la penna da terra.
Lo specchio mi segue,
mi si spacca sulla testa.
Mi sveglio.


Gocce scivolano nella padella
attraverso un buco in un tetto di latta.


Abbandonata la casa, abbiamo
preso due coperte,
un cuscino, e l’eco
della radio con noi.


Perché quando sogno la Palestina
la vedo in banco e nero?


La gente dice che il silenzio è assenso.
E se non mi permettono di parlare,
la lingua tagliata,
la bocca cucita?


Anche le penne volevano scrivere di ciò che hanno sentito,
di quel che le ha scosse mentre sonnecchiavano
nel primo pomeriggio.


Il cimitero brillava di sabbia
e preghiere e storie che cadevano dai visitatori di passaggio.


C’è rumore da così tanto tempo
e io sto cercando la registrazione
di un silenzio, da ascoltare nelle vecchie cuffie.

Things you may find hidden in my ear

For Alicia M. Quesnel, MD

I
When you open my ear, touch it
gently.
My mother’s voice lingers somewhere inside.
Her voice is the echo that helps me recover my equilibrium
when I feel dizzy during my attentiveness.

You may encounter songs in Arabic,
poems in English I recite to myself,
or a song I chant to the chirping birds in our backyard.

When you stitch the cut, don’t forget to put all these back in my ear.
Put them back in order as you would do with books on your shelf.

II
The drone’s buzzing sound,
the roar of an F-16,
the screams of bombs falling on houses,
on fields, and on bodies,
of rockets flying away –
rid my tiny ear canal of them all.

Spray the perfume of your smiles on the incision.
Inject the song of life into my veins to wake me up.
Gently beat the drum so my mind may dance
with yours,
my doctor, day and night

Cose che potresti trovare nascoste nel mio orecchio

Per Alicia M. Quesnel, Dottoressa

I
Quando apri il mio orecchio, toccalo
con gentilezza.
La voce di mia madre è ancora sospesa lì, da qualche parte.
La sua voce è l’eco che mi aiuta a ritrovare l’equilibrio
quando, nello sforzo dell’attenzione, vengo meno.

Potresti trovare canzoni in arabo,
poesie in inglese che recito a me stesso
o un mio canto per gli uccelli che cinguettano nel nostro cortile.

Quando ricucirai il taglio, non dimenticare di rimettere tutte queste cose nell’orecchio.
Ordinate, come faresti con i libri sul tuo scaffale.

II
Il ronzio dei droni
il boato di un F-16
le urla delle bombe che cadono sulle case
sui campi, sui corpi,
dei razzi che sfrecciano –
queste toglile dall’orecchio, dal suo canale stretto.

Sull’incisione, spruzza il profumo dei tuoi sorrisi.
Iniettami nelle vene la canzone della vita per svegliarmi.
Batti con gentilezza il timpano, così che la mia mente possa
ballare con la tua,
mia dottoressa, giorno e notte.

Mosab

My father gave me a difficult name.
Inside it sit two letters that don’t exist in English.

My father didn’t know I would
have English-speaking friends,
always asking how to pronounce my name,
or trying to avoid saying it.

But Dad, I like to hear others address me by name,
especially friends.

Even my name’s root means difficult.
A camel that is described as Mosab
is one that’s difficult to mount and ride.

But I’m not difficult in any way.
I will undress myself and show you
my shoulders, how dust has come to rest on them,
my chest, how tears have wet its thin skin,
my back, how sweat has made it pale,
my belly, how hair has covered my navel,
the spot where my mother fed me before birth.

The same spot, they say, the angel of death
will pierce to take away my soul.

And now, at night, my son’s head hurts
when he rests it on my belly.

And my clothes, I feel them loose,
while others see them tight on me.

When someone from the life insurance company calls
and pronounces my name in English,
I see the angel of death in the mirror,
with eyes that watch me
crumbling onto this foreign ground.

Mosab

Mio padre mi ha dato un nome difficile.
Dentro, siedono due lettere che non esistono in inglese.

Mio padre non poteva sapere
dei miei amici anglofoni
che chiedono sempre come pronunciarlo
o evitano di dirlo.

Ma papà, a me piace che gli altri mi chiamino per nome,
soprattutto gli amici.

Anche la radice del mio nome significa difficile.
Si dice che un cammello è Mosab
quando è faticoso da montare e cavalcare.

Ma io non sono per niente difficile.
Mi spoglierò e ti mostrerò
le mie spalle, come la polvere ci si è posata sopra,
il mio petto, come le lacrime hanno inumidito la pelle sottile,
la mia schiena, come il sudore l’ha resa pallida,
la mia pancia, come i peli hanno coperto l’ombelico,
il punto da cui mia madre mi nutriva prima di nascere.

Proprio il punto, dicono, che l’angelo della morte
bucherà per portarsi via la mia anima.

E ora, di notte, a mio figlio fa male la testa
quando la posa sulla mia pancia.

E i miei vestiti, li sento larghi,
mentre gli altri li vedono stretti su di me.

Quando qualcuno dell’assicurazione sulla vita chiama
e pronuncia il mio nome in inglese,
vedo l’angelo della morte nello specchio,
i suoi occhi che mi guardano
mentre crollo su questo suolo straniero.

A rose shoulders up

Don’t ever be surprised
to see a rose shoulder up
among the ruins of the house:
this is how we survived.

Spunta una rosa

Se dalle rovine della casa
vedi spuntare una rosa
tu non sorprenderti:
così siamo sopravvissuti.


Credit: Poetry from Things You May Find Hidden In My Ear. Copyright © 2022 by Mosab Abu Toha. Reprinted with the permission of City Lights Books. www.citylights.com

Si ringrazia Elaine Katzenberger di City Lights per la gentilezza e la disponibilità

Penelope se ne va: estratti da un poema di José Gardeazabal

Introduzione e traduzioni dal portoghese a cura di Vassilina (Vasiliki) Avramidi.

 «Penélope, con su bolso de piel marrón y sus zapatos de tacón y su vestido de domingo» cantava Joan Manuel Serrat già nel 1969, e questa precisa immagine viene ripresa nella copertina di un’altra versione iberica dell’eroina omerica, quella di Penélope Está de Partida (2022) di José Gardeazabal (Prémios Autores SPA, 2023). Pubblicata presso Relógio d’Água in contemporanea con Da Luz Para Dentro, i due libri-gemelli di lirica, entrambi nella ricerca del come si parli del corpo desiderante, del cosa si intraveda nel buio. Mentre però in Da Luz Para Dentro l’io, il tu e il noi rimangono generali, astratti, in Penélope Está de Partida gli interlocutori sono ben chiari: Penelope, stanca ormai di aspettare, sta per cominciare il suo viaggio e lascia questo bigliettino in versi a Ulisse.

Ma l’antica veste dell’epica non è adatta a questo personaggio, cui la maggior parte della trama si sviluppa all’interno di una sola stanza, la sua camera da letto. Lei opta per un viaggio lirico e si sbarazza degli aggettivi imposti dalla tradizione. Lo stesso vale per il noto stratagemma della tela che qui non porta a nulla («tecia tecia e nada acontecia»). L’attenzione si sposta invece sulla difficile creazione del soggetto femminile: attraverso un gioco continuo con i verbi riflessivi, in questo long poem Penelope cerca di stabilire la propria identità e di mettere in atto la propria volontà pur vivendo nella perenne mancanza di un dialogo. Infatti, questa riscrittura non propone una rottura (come fanno, per esempio, Meadowlands di Louise Glück o Penelope’s Confession di Gail Holst-Warhaft): le parentesi lasciano a Ulisse la porta aperta, senza però garantire che dentro casa ci sarà la donna che lo aspetta.


Da Penélope Está de Partida (2022)

ainda tenho um pé na epopeia
por pouco tempo
duas malas na mão
ou seja   estou de mãos livres
até aqui tecia   tecia   e nada acontecia
agora aqui   em breve desapareço
sem raiva nem ruído
por ti não espero mais   nem em literatura
(deixo a porta aberta para entrares)
já recebi todos os presentes
fui todos os adjetivos
viajaste-me por muito tempo
acho-me demasiado cheia das coisas de dentro
já conversei tudo com a mobília
tecida e entretida   tornei-me pouco a pouco uma história
odisseia   se vista de fora
é bom que fábulas assim cheguem ao fim

sto ancora con un piede nell’epopea
per poco 
due valigie in mano
cioè   ho le mani libere
fin qui tessevo    tessevo    e nulla accadeva
adesso qui   tra poco sparisco
senza rabbia né rumore
non ti aspetto più   nemmeno in letteratura 
(lascio la porta aperta così entri)
ho già ricevuto tutti i presenti
sono stata tutti gli aggettivi
mi hai viaggiata a lungo
mi trovo troppo piena di cose da dentro
ho già discusso di tutto con i mobili
intessuta e intrattenuta   diventai a poco a poco una storia
odissea   se vista da fuori
favole così fanno bene a finire


desapareceste-me em todas as direções
só te via no escuro
e de olhos fechados
o quarto tão negro
eu tão imóvel
que todas as manhãs acordava feita fotografia a preto-e-branco

mi dileguasti in tutte le direzioni
ti vedevo solo nel buio
e a occhi chiusi
la stanza tanto nera
io tanto immobile
che tutte le mattine mi svegliavo fatta fotografia in bianco e nero


de longe tornaste-te voyeur
em viagem    a vista é a melhor amiga de imaginação
chamo-te      distante   apequenas-te
de pé num navio       as mãos nas orelhas
não me ofereces a atenção das sereias
és enorme e erras
o teu mapa é o meu calendario
sozinha        pareço-me demasiado comigo
sonhei com o anonimato
a literatura oral agarrou-se a mim
com ambições de epopeia

da lontano diventasti voyeur
in viaggio     la vista è la migliore amica dell’imaginazione
ti chiamo      distante   rimpicciolisci
in piedi su una nave   le mani alle orecchie
non mi presti attenzione da sirena
sei enorme e erri
la tua mappa è il mio calendario
sola              rassomiglio troppo a me
ho sognato dell’anonimato
la letteratura orale si è aggrappata a me
con ambizioni di epopea


tornei-me substantivo
desejo adjetivos como quem escapa à noite de um palácio
olha     cansei-me de me elogiarem o olhar e os joelhos
olhar é coisa de velhos
e eu envelheço
sou o avesso de uma viagem
a minha vida foi o contrário de uma paisagem
conheço demasiado o meu corpo
e cansei-me de saudade
(as duas coisas)
a minha autobiografia é um quarto só para mim
tenho a aparência de filme mudo
aquele silêncio de legenda
sinto-o
fantasmas acariciam-me a testa
sem coragem para a pele do resto do corpo
sinto-o

diventai sostantivo
desidero aggettivi come chi scappa di notte da un palazzo
guarda   sono stanca degli elogi del mio sguardo, dei ginocchi
guardare è cosa da vecchi
e io invecchio
sono l’inverso di un viaggio
la mia vita è stata il contrario di un paesaggio
conosco troppo il mio corpo
e sono stanca di saudade
(entrambe le cose)
la mia autobiografia è una stanza tutta per me
il mio aspetto è di film muto
quel silenzio da sottotitolo
lo sento
fantasmi mi accarezzano la testa
senza coraggio per la pelle del resto del corpo
lo sento

Copertina di Penélope Está de Partida di José Gardeazabal
José Gardeazabal, Penélope Está de Partida, Relógio D’Água, 2022

“Et je n’avais aucun mot pour décrire la lumière”: alcune poesie di Milène Tournier

Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Raphael Louvet.

“J’écris comme
Hurlent les singes face à la montagne et la montagne
Leur rend leur cri”

“Scrivo come
le scimmie urlano davanti alla montagna e la montagna
restituisce loro il grido”

In questo modo e in quel giorno, nei suoi Poèmes en Dieu, Milène Tournier descrive il suo lavoro di scrittura. Dico ‘in quel giorno’, perché si tratta di una scrittura plastica, mutevole, che si gonfia di tutto ciò che, giorno per giorno, incontra sul suo cammino. 

Milène Tournier è nata nel 1988 a Nizza, dov’è cresciuta. Ha studiato teatro e discusso, nel 2017, una tesi intitolata Figures de l’impudeur: dire, écrire, jouer l’intime 1970-2016. Da allora, si dedica tra le altre cose alla scrittura poetica e teatrale. Ad oggi, è una delle voci più peculiari del panorama poetico francese, in ragione tanto della sua scrittura incarnata quanto della costanza con cui questa si manifesta. Ha pubblicato infatti tre raccolte in tre anni (L’autre jour, 2020; Je t’aime comme, 2021; Se coltiner grandir, 2022), tutte per l’editore Lurlure. Tournier è molto presente anche ‘fuori’, sui palchi e negli spazi dove la poesia si dice e si vive collettivamente. Il suo lavoro procede in varie direzioni. I testi che qui presentiamo tendono a volte verso la prosa autobiografica, evocando l’affetto familiare, l’età adulta, e l’ingresso nei trent’anni, altre volte si concentrano sull’erotismo, l’amore o l’esperienza della sua fine. 

Si tratta, soprattutto, di una poesia fatta per essere detta. Quotidianamente, Tournier scrive e pubblica su Youtube anche delle videopoesie, che trovano la loro materia grezza nelle lunghe passeggiate urbane e nei vagabondaggi; nelle immagini raccolte casualmente, con cui la voce si mette a dialogare (Ce que m’a soufflé la ville, 2023, éditions Castor Astral). Ne sale un canto caratterizzato da una leggera malinconia e radicato nella quotidianità, attento alla sua straordinaria banalità e al mormorio delle creature e delle cose che la popolano. Sono testi attraversati da istanti che non sarebbero stati percepiti né percepibili, se non passando attraverso quell’ascolto e quello sguardo attenti, tipici della vita poetica, cioè della vita ordinaria trasformata, se non addirittura orientata, dall’azione di vigilanza della poetessa.


Da L’autre jour (2021)

Poèmes de famille

On m’enterrera sous une autre époque que celle sur laquelle tout à l’heure je suis née. Mes mains ont cherché le visage de ma mère, le trou sur la vitre. Sur les tables à langer officielles ou de fortune, aire d’autoroute, lit d’invité, et pour que ne criât plus ma bouche qui criait, son nez a lu mon front de droite à gauche, de gauche à droite, comme une langue s’indécise. Trente ans durèrent trente ans. Mes bras prennent des bras dans leurs bras le soir, quand la lune prend le ciel. Il y a quelqu’un, précis comme un miracle, entre la lourde vitre du monde et le long trou du moi. Ma mort aura bientôt étalé et rapproché mes dizaines. Les mondes sont de très grands prématurés. J’attends ensemble la fin de la fin du monde.

Poesie di famiglia

Mi seppelliranno sotto un’epoca diversa da quella in cui poco fa sono nata. Le mie mani hanno cercato il viso di mia madre, il buco sulla finestra. Su fasciatoi ufficiali o di fortuna, aree di servizio, letti per gli ospiti, perché la mia bocca urlante non urlasse più, ha letto con il naso la mia fronte da destra a sinistra, da sinistra a destra, come una lingua s’indecide. Trent’anni durarono trent’anni. Le mie braccia prendono delle braccia tra le braccia la sera, quando la luna prende il cielo. C’è qualcuno, preciso come un miracolo, tra il pesante vetro del mondo e il lungo buco dell’io. La mia morte avrà presto disposto e avvicinato le mie decine. I mondi sono dei grandi prematuri. Aspetto insieme la fine della fine del mondo.

Poèmes urbains

On est loin à la fois de la mort et de la naissance
On survole en RER des cimetières
La nuit vient dans le ciel tout doucement
Pareille chaque soir
Les gamines couchent les Barbies par terre et parlent de château
Les nez coulent
Il faut trouver résolutions à tous les problèmes.

C’était la fin de journée dans le bus
Et je n’avais aucun mot pour décrire la lumière
Le précisement du ciel et les roues des nuages
Comme on suppose que le paradis existe
On suppose que le réel existe
Les nuages sur le début des montagnes
Les montagnes étaient pleines d’arbres
Et pas du tout vides comme je les aurais dessinées si on m’avait demandé
Dessine une montagne
Une lumière entre ciel et nuages et montagnes
Une lumière de Jurassique
Une lumière comme ce genre d’images-là
De cinéma et dinosaures
Le cou diplodocus de la lumière
Le ciel son squelette d’absolu.

C’était l’un de ces soleils de grande verrière de gare, en fin de journée l’été. Un soleil provincial. Avec son tout ciel un peu plus loin. Les peaux nues en bout de valises. C’était l’été encore et la petite France. D’aller et venir sud et nord comme on plie son coude – parce qu’on ne peut pas plier son cœur. C’était l’été long des trains. L’été bourdon des Flixbus qu’on pick up à l’aéroport, kiss and longtemps roule. Je voudrais Dieu faire une sortie d’été l’été, comme sortie de corps quand le ciel raccourci de chaque conscience consent enfin à grand ouvrir ses bras immenses.

Poemi urbani

Siamo lontani sia dalla morte che dalla nascita
Sorvoliamo cimiteri sulla RER
La notte arriva dolcemente nel cielo
Uguale ogni sera
Le bambine coricano le Barbie per terra e parlano di castelli
I nasi colano
Bisogna trovare soluzioni a tutti i problemi.

Era la fine della giornata sul bus
E non avevo parole per descrivere la luce
Il precisamente del cielo e le ruote delle nuvole
Come si suppone che il paradiso esista
Si suppone che il reale esista
Le nuvole all’inizio delle montagne
Le montagne erano piene di alberi
E niente affatto vuote come le avrei disegnate se mi avessero chiesto
Disegna una montagna
Una luce tra cielo e nuvole e montagne
Una luce giurassica
Una luce come quel tipo di immagini
Di cinema e dinosauri
Il collo diplodoco della luce
Il cielo suo scheletro di assoluto.

Era uno di quei soli da grande vetrata di stazione, d’estate a fine giornata. Un sole provinciale. Con il suo tutto cielo un po’ più in là. Pelli nude in punta di valigia. Ancora era l’estate e la piccola Francia. Andare e venire a sud a nord come si piega il gomito – perchè non si può piegare il cuore. Era l’estate lunga dei treni. L’estate calabrone dei Flixbus che si pick up all’aeroporto, kiss and vai a lungo. Vorrei Dio una fuga estiva nell’estate, come fuga dal corpo quando il cielo corto di ogni coscienza acconsente finalmente a spalancare le sue braccia immense.

da Là où dansent les éphémères. Anthologie collective (2022)

Éphémère et père

[…]

Souvent le père disait
Qu’il aimerait se réincarner
En chat de village, sauvage mais nourri,
– J’avais moi, déjà, du mal
À finir cette vie-là
Comme venir à bout de son assiette

Le père fourrait en douce un T-shirt dans les petites cages
du baby-foot
Pour que le but compte sans la balle avalée
Et j’avais, comme ça, des défaites infinies.

Quand le père prenait sa guitare, c’était, il disait :
« Pour m’entraîner pour ma prochaine vie
Quand je serai musicien »
Et que « les vies ne se font pas en une seule vie »,
Mais moi je ne voulais comme vie
Que celle de la pièce avec dedans mon père.

La mère a dit
Qu’on est tous
Traversés par des espérances très profondes
Même ceux qu’on imagine pas, ils sont traversés par des
espérances très profondes.
Et j’ai regardé ma mère,
Et c’était effectivement, sur ou en elle,
Plutôt une espérance que de l’espoir
Comme y’a parfois pas besoin du soleil pour qu’y ait la
lumière, tant il a déjà brillé, et la mer suffit à faire le soleil,
J’ai regardé ma mère avec son espérance
Et comme elle était claire.
Et ma mère aussi me regardait.
Et ça se voyait
Qu’elle espérait pour deux
Et que moi, il suffisait de vivre.

Chapeau sur la tête, la mère analysait :
« En même temps il me protège du soleil
Mais aussi il me donne chaud. »

Avec ces chaussures légères,
Quand je marche sur les pierres
On fait connaissance à chaque pas –
A dit la mère avec sa façon très à elle
De mystère clair.

Mon père m’a demandé
Tu te souviendras de nous vieux
Ou de nous jeunes ?
Mais moi j’avais même oublié
Qu’un jour il faudrait
Faire l’effort de m’en souvenir.

Comment tu décrirais un coquelicot ?
Alors, pour rire, mon petit frère a répondu sérieusement :
Rouge.
Et, peut-être un peu plus grave, mon grand frère a rajouté :
Ils sont fragiles.

Effimera e padre

[…]

Spesso il padre diceva
Che avrebbe voluto reincarnarsi
In un gatto di paese, selvaggio ma nutrito
– Io invece, facevo già fatica
A finire questa vita
Come a venire a patti con il proprio piatto

Il padre nascondeva una maglietta nelle piccole porte
del calcetto
Perchè il goal contasse, senza che venisse inghiottita la palla
E così, avevo delle sconfitte infinite

Quando il padre prendeva la sua chitarra, era, diceva:
«Per allenarmi alla mia prossima vita
Quando sarò musicista»
Perché «le vite non si fanno in una sola vita»,
Ma io non volevo altra vita
che quella dello spettacolo dove c’è mio padre.

La madre ha detto
Che siamo tutti
Attraversati da speranze molto profonde
Anche quelli che non immaginiamo, sono attraversati da
speranze molto profonde.
E ho guardato mia madre
E c’era in effetti, sopra o dentro di lei,
Più che una fede una speranza
Come a volte non c’è bisogno del sole perché ci sia la
luce, perché ha già brillato tanto, e basta il mare a fare il sole,
Ho guardato mia madre con la sua speranza
E quanto era chiara.
E mia madre anche mi guardava.
E si capiva
Che sperava per due
E io, bastava che vivessi.

Cappello in testa, la madre analizzava :
«Mi protegge dal sole, ma allo stesso tempo
Mi tiene anche caldo.»

Con queste scarpe leggere,
Quando cammino sulle pietre
Ci conosciamo ad ogni passo
Ha detto la madre, con quel modo tutto suo
Di chiaro mistero.

Mio padre mi ha chiesto
Ti ricorderai di noi da vecchi
O di noi da giovani ?
Ma io mi ero pure scordata
Che un giorno avrei dovuto
Fare lo sforzo di ricordarmene.

Come descriveresti un papavero ?
Allora, per scherzare, mio fratello più piccolo ha risposto seriamente:
Rosso.
E, forse con più gravità, mio fratello più grande ha aggiunto:
Sono fragili.

Da se coltiner, grandir (2022)

Premier amour

Je t’emmènerai vers un petit village
Plein de cloches à midi
Qui n’en finissent pas
Comme si c’était midi
Le seul véritable événement.

Prends-moi toute et vivante,
Comme dans ton Counter-Strike, ramasser chaude
encore
L’arme du mort.

Et je m’avancerai vers toi, mon incompréhensible
amour,
Comme sur la dalle immense s’avance
Pour la première fois
Le traducteur en face de son poète.

Regarde-moi comme aux vitres teintées il faut
Coller nez et passer son propre reflet pour
Accéder, derrière, au paysage…

Colle ton ventre à mon dos
Et que commence dans le lit
La nuit d’un fruit de mer.

Sédentarise-toi dans mes bras
Comme un matin les hommes découvrent le feu
Et le soir les hommes s’assoient autour du feu.

Ta main, le ciel,
C’est simple
De mourir.

Et je regarde ton sexe et il est doux comme une oreille
d’âne.
Et je respire avec ton sexe, assoiffée comme pardon une
vieille dame qui ne veut plus que de l’eau sans dent.
Et je tiens ton sexe comme dans la rue deux hommes se
voient et se serrent la main.
Et après je rêve de ton sexe comme je le regarde et respire
avec lui et le tiens.

La dame dans l’église a remercié le mort
Pour tout ce qu’il avait fait de ses mains,
« Merci
Pour tout ce que tu as fait de tes mains. »
C’était je crois
La plus belle phrase trouvée.
Que les morts sont ceux
Qui ont fini de faire des choses de leurs mains,
Et qu’on peut remercier.

Primo amore

Ti porterò in un piccolo villaggio
Pieno di campane a mezzogiorno
Che non la smettono mai
Come se fosse mezzogiorno
L’unico vero evento.

Prendimi intera e viva
Come nel tuo Counter-Strike, raccogliere calda
ancora
L’arma del morto.

E ti verrò incontro, mio incomprensibile
amore,
Come sulla lastra immensa va incontro
Per la prima volta
Al suo poeta il traduttore.

Guardami come ai vetri oscurati bisogna
Incollare naso e passare per il proprio riflesso
Per accedere, dietro, al paesaggio…

Incolla la tua pancia alla mia schiena
E che nel letto inizi
La notte di un frutto di mare.

Sedentarizzati nelle mie braccia
Come un mattino gli uomini scoprono il fuoco
E la sera gli uomini si siedono intorno al fuoco.

La tua mano, il cielo
È semplice
Morire.

E guardo il tuo sesso ed è dolce come un orecchio
d’asino.
E respiro con il tuo sesso, assetata come, scusa, una
vecchia signora che non vuole altro che acqua senza denti.
E stringo il tuo sesso come due uomini per strada
si vedono e si stringono la mano.
E dopo sogno il tuo sesso, come lo guardo e respiro
con lui e lo stringo.

La signora nella chiesa ha ringraziato il morto
Per tutto quello che aveva fatto con le sue mani,
«Grazie
Per tutto quello che hai fatto con le tue mani».
È stata credo
La più bella frase trovata.
Che i morti sono coloro
Che hanno finito di fare delle cose con le mani,
E che possiamo ringraziarli.

Un cristallo di neve, un gatto morto – Intervista a Mircea Cărtărescu

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Fausto Paolo Filograna. Traduzione dall’inglese di Chiara Ciarpelli. Foto di Juan Manuel Serrano Arce.

Pluricandidato al Premio Nobel, universalmente considerato uno dei più importanti scrittori contemporanei. Inoltre poeta, saggista rumeno, dotato di una poetica assimilabile all’opera di Joyce,  Kafka, Pavic e, soprattutto, Thomas Pynchon, Mircea Cărtărescu (Bucarest, 1956) è stato esponente di spicco della Blue Jeans Generation. Oggi è considerato il più importante autore romeno contemporaneo. In questa intervista l’autore racconta l’importanza dell’ultimo suo libro pubblicato in Italia: Melancolia.

Su Melancolia (La nave di Teseo, 2022)

1) L’infanzia appare spesso nei tuoi libri, penso soprattutto ai tuoi monumentali romanzi Abbacinante e Solenoide, ma non ne è mai stata protagonista. In questo libro è il tema principale. Ho trovato singolare che nel momento in cui parli di questo tema adotti la forma frammentaria del racconto. Ci puoi spiegare questo passaggio? 

Melancolia non è direttamente collegato a Orbitor (Abbacinante, N.d.T.) e Solenoid (Solenoide, N.d.T.), anzi, è un tentativo di sfuggire alle strutture molto complesse e intricate di quei grandi romanzi. È un libro neoromantico e surrealista, nel segno di Giorgio De Chirico e H. C. Andersen. I cinque racconti sono fiabe metafisiche, chiuse ermeticamente nel loro enigma. Melancolia” è il libro più puro finora. Lo amo per il suo stile, la stranezza e l’atmosfera di innocenza.

Ho scritto Melancolia quando avevo sessant’anni, come una sorta di richiamo e rielaborazione del mio primo libro di prosa, Nostalgia, scritto trent’anni prima. In entrambi l’infanzia e l’adolescenza sono il tema principale, entrambi sono scritti archetipici composti da cinque storie, la prima e l’ultima delle quali costituiscono un prologo e un epilogo dei libri veri e propri. I racconti non sono affatto brevi, alcuni sono piccoli romanzi, tra i migliori che abbia mai scritto: “REM” e “I gemelli” in Nostalgia, “Le pelli” in Melancolia. Sono uno scrittore della vita interiore, di quella notturna, e penso che viviamo circondati da enigmi. Quando siamo bambini, tutto ci appare strano, poetico e onirico. Ecco perché mi interessa tanto quell’età paradisiaca.

2) Che relazione c’è tra il tema dell’infanzia e la tua età attuale?

L’età ha poco a che fare con la nostra vita interiore. Un artista, così come ogni persona creativa, è colui che è in grado di conservare il bambino dentro di sé fino alla vecchiaia. Cioè, una persona capace di non lasciarsi coinvolgere dal denaro, dal potere, dal prestigio, dalla politica e dalla cronaca, dal giudizio sugli altri e condurre la sua vita all’insegna della bellezza, della creatività, dei miracoli quotidiani. Infanzia e poesia sono la stessa cosa: una propensione per la delicatezza che si può trovare in una goccia di rugiada, in un’equazione, in un concetto filosofico, in una teoria scientifica, in Dio, in una graffetta, in un cristallo di neve o in un gatto morto. Viviamo tutti non solo in un sottomarino giallo, ma anche in un’enorme poesia: ogni bambino lo sa bene, ma gli adulti fanno del loro meglio per dimenticarlo e vivere nella noia, nell’avidità e nella turpitudine.

3) Il titolo di questo libro, Melancolia, rimanda a un contesto clinico e scientifico da cui hai sempre attinto. Ci vuoi raccontare perché hai usato un nome con una così lunga tradizione e soprattutto il nome di una malattia per un libro incentrato sull’infanzia?

Inizialmente, durante il Medioevo, la malinconia era effettivamente un concetto medico, tradotto come “la bile nera” (“Il sole nero della malanconia”, scrisse nei secoli Gérard de Nerval). Ci si riferiva a sentimenti di depressione, tristezza, impotenza e mancanza di motivazione di alcuni pazienti nelle primitive istituzioni di salute mentale. Ma dopo che Robert Burton scrisse la sua immensa opera, Anatomy of Melancholy, divenne un concetto culturale con un’enorme influenza sullo sviluppo del pensiero e delle arti europee (la letteratura romantica, ad esempio, non è concepibile senza questo concetto). Uno scrittore che aspira a essere fondamentale o universale non può ignorare i suoni più profondi dell’animo umano, i suoni gravi della solitudine, della tristezza e della depressione. Tutti questi definiscono l’eterna malinconia.

I bambini non conoscono la malinconia (sebbene ci siano studi clinici sulla depressione nei bambini e negli adolescenti), perché vivono fuori dal tempo che corrompe ogni cosa. Ma l’infanzia è ancora molto legata a questo tema, perché ogni persona adulta che talvolta ha il coraggio di immergersi nella propria vita interiore percepisce la propria infanzia come un’enorme perdita, una patria perduta senza possibilità di ritorno. I ricordi d’infanzia scorrono come lava liquida dentro di noi, ma sono sepolti in profondità sotto la crosta della pelle adulta, del cervello adulto, della vita adulta, caotica e priva di senso. Sono sempre terribilmente malinconico quando sfoglio le foto sul mio computer: gli anni passano e non c’è modo di tornare indietro, e le poche foto in bianco e nero, sbiadite, di quando ero bambino sono ora come lame che mi trafiggono il cuore.

4) Proust appare nei meandri consci e inconsci della mente delle persone che leggono le tue opere. Addirittura il bambino del racconto “Le volpi” si chiama Marcel. Che relazione hai con la sua opera? Chi è Marcel?

Marcel in realtà sono io, Mircea, non Proust. Molti critici hanno oscillato tra due poli cercando di descrivere il mio lavoro e il mio metodo: Proust e Kafka. Ma mentre Kafka ha avuto, e tuttora ha, un’enorme influenza sulla mia vita quotidiana e artistica, non posso dire lo stesso di Proust. Ovviamente ho letto il suo libro diverse volte, a volte con piacere, altre volte con noia, e ammetto che è stato un grande scrittore, ma non sento una particolare affinità con il suo mondo. Non tutti gli autori che utilizzano frasi complesse ed elaborate sono proustiani, così come non lo sono tutti quelli che trattano della “memoria involontaria”. Nella letteratura rumena moderna degli anni ’30 e ’40 c’era un gruppo di scrittori che ammirava molto Proust e per questo venivano chiamati “il gruppo proustiano”. Ma leggendo i loro libri si scopre con sorpresa che nessuno di loro ha davvero compreso la novità del suo metodo e che nessuno ha seguito le sue orme. Orbitor (Abbacinante, N.d.T.), la mia opera più importante finora, può dare l’impressione di un libro “proustiano” perché è molto voluminoso e contiene frasi molto lunghe, ma il suo scopo non è quello di recuperare ricordi perduti, bensì di costruire un intero mondo dalla mia sostanza cerebrale, come il ragno che tesse la sua tela dai filamenti brillanti.

5) In un’intervista su L’indiscreto, fatta da Vanni Santoni, racconti di scrivere le tue opere su grandi quaderni. Che differenza c’è tra il funzionamento della tua mente e ciò che scrivi su quella carta?

Ho sempre scritto a mano, mi piace molto. È più intimo, più umano e ti concede più tempo per pensare e immaginare. Scrivo a mano il mio diario ormai da 50 anni, quindi sono piuttosto abituato a scrivere con la penna stilografica. Mi piace che le mie pagine siano belle, quindi detesto cancellare le parole o strappare le pagine. I miei manoscritti sono puliti, sembrano copie di un originale inesistente. Orbitor (Abbacinante, N.d.T.), ad esempio, ha 1500 pagine, ma non c’è una pagina strappata, ci sono poche parole cancellate, anzi è stato pubblicato senza modifica alcuna. Tutti i miei libri, anche quelli più grandi, sono la prima stesura. Inoltre, non esiste un piano o una sinossi e non uso alcuna documentazione. È tutto nella mia mente: i miei libri sono in realtà mappe o ologrammi della mia mente. Per me, scrivere è come rimuovere una pellicola bianca dalle mie pagine per rivelare il testo già scritto.

È vero che solo alcuni dei miei libri, come Solenoid (Solenoide, N.d.T.), Orbitor (Abbacinante, N.d.T.) e il mio diario, sono scritti a mano. Altri, come Melancolia o Theodoros, il mio ultimo libro, sono scritti al computer. Questo perché dopo aver compiuto 60 anni ho perso la pazienza necessaria per scrivere a mano. Ma il resto – nessun editing, nessun piano, nessuna documentazione – è rimasto invariato. Forse perché sono uno dei pochissimi scrittori al mondo che ancora crede nell’ispirazione, nel senso più letterale del termine: la sensazione che qualcuno di molto più saggio e dotato di me mi detti effettivamente ciò che scrivo. Il vero scrittore non è mai solo, così come il fantino da solo non vince mai le corse: ha bisogno di un cavallo per farlo.

6) Qual è il tuo rapporto di scrittore con la Romania? 

“Nessuno è profeta nella propria patria”, dice il proverbio, ed è proprio così. Negli ultimi vent’anni mi sono ritrovato ad essere molto più apprezzato all’estero che nel mio paese e nella mia cultura. Tuttavia, vivo ancora in Romania nonostante le molte avversità e mi piace molto vivere tra i miei connazionali. C’è un sottile strato di persone ben istruite, che comprano ogni sorta di libro, partecipano a tutti gli eventi culturali, concerti, spettacoli teatrali e festival e sono veri cittadini del mondo. Tra loro ho dei buoni amici, che rendono la mia vita nel mio paese molto piacevole. Oltre a viaggiare molto all’estero, partecipo attivamente alla vita culturale e letteraria del mio paese, partecipo a molti eventi sul palcoscenico, a festival di poesia o narrativa, do letture delle mie opere in molte città. È bello risiedere nel proprio Paese, indipendentemente da quanto si viaggia e da quanto si è trattati male a casa propria. Senti di appartenere ad un posto, senti di essere tra le persone che ami.

7) Chi ti conosce tramite i social sa che hai una predilezione per un certo tipo di camicie, con un certo tipo di disegno. Lo stesso tipo di disegni si trova spesso, in varie forme – mentali, organiche, metafisiche – nei tuoi romanzi. Desideri avere quei disegni anche sul corpo, nella tua vita non letteraria di Mircea Cărtărescu?

Sono già impressi sul mio corpo, tatuati su ogni singolo centimetro della mia pelle. I miei simboli e disegni mentali avvolgono il mio corpo come una toga viola. Le persone che mi conoscono e mi amano li percepiscono come abiti reali, sottili, leggeri e pieni di colori cangianti.

8 Quali sono i tuoi autori viventi preferiti? Sembra che tra gli scrittori della tua generazione ci sia una certa preferenza per gli autori morti. Ci puoi dire cosa pensi di questo?

Gli autori morti sono solo quelli mediocri. Gli altri, a cominciare da Omero e Virgilio, sono ancora vivi dopo migliaia di anni. Non mi interessa se un autore è morto o vivo, cinese o etiope, donna o uomo, etero o gay. Discrimino solo tra autori che riesco a leggere e autori che non riesco a leggere.

Eppure, sono pieno di gioia al pensiero che sto ancora calpestando lo stesso suolo e respirando la stessa aria di alcuni degli déi del mio Pantheon interiore, come Mario Vargas Llosa, Thomas Pynchon, Paul Auster, Dacia Maraini, Bob Dylan o Salman Rushdie. Sono felice e grato di essere loro contemporaneo.


Melancolia è composto di Tre storie – incorniciate da due evocativi racconti brevi – che affrontano alcuni grandi temi come la paura del cambiamento, la solitudine, l’amore con l’immaginazione del ragazzo e lo stile del grande scrittore. I tre racconti riguardano altrettante fasi: l’infanzia, perché “è nell’infanzia che ha inizio la melancolia, quel sentimento che ci accompagna per tutta la vita, quella sensazione che nessuno ci tiene più per mano”, l’età della ragione e l’adolescenza. Quando la madre esce per fare la spesa, un bambino di cinque anni è convinto che non tornerà. Marcel, invece, ha otto anni e vive in simbiosi con l’adorata sorellina Isabel, in un mondo in cui gli adulti sembrano non essere altro che presenze fugaci. Ivan di anni ne ha quindici e si sente l’uomo più solo dell’universo. In un armadio conserva le pelli che, di anno in anno, crescendo, ha dovuto cambiare. Quando incontra Dora e se ne innamora inizia a chiedersi se anche le donne, come gli uomini, cambiano pelle.

Mircea Cărtărescu  ha vinto molti premi, tra cui l’Internationaler Literaturpreis a Berlino (2012), lo Spycher in Svizzera (2013), il premio di Stato per la Letteratura europea conferito dalla Repubblica austriaca (2015), il premio Gregor von Rezzori  Città di Firenze (2016) e il Prix Formentor (2018). È stato inoltre più volte segnalato per il premio Nobel. In Italia Voland ha pubblicato i romanzi Travesti (2000), la monumentale trilogia di Abbacinante, consistente in L’ala sinistra (2007), Il corpo (2015) L’ala destra (2016); Perché amiamo le donne (2009) e Nostalgia (2012, vincitore del Premio Acerbi). Nel 2021 Il Saggiatore pubblica Solenoide, da molti considerato il suo capolavoro, mentre nel 2022 esce per La nave di Teseo Melancolia. Altrettanto importante, sebbene in Italia poco considerata, è la sua produzione in poesia, rappresentata in italiano da Il poema dell’acquaio, edito per Nottetempo nel 2015. La sua produzione finora tradotta in Italia è opera interamente del traduttore Bruno Mazzoni, professore ordinario dell’Università di Pisa.

“La costruzione di una città comune” – Intervista ad Agustín Fernández Mallo

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Federico Di Mauro.

Su Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus (Interno Poesia, 2023)

Copertina di Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus di Agustín Fernández Mallo

A giugno 2023 ho intervistato sul suo libro poetico d’esordio Agustín Fernández Mallo, uno dei più importanti scrittori contemporanei in lingua spagnola.

Yo regreso siempre a los pezones y al punto 7 del Tractatus è oggi disponibile allə lettorə italianə grazie ad Interno Poesia e al lavoro di ricerca della curatrice Lia Ogno, che ringrazio per avere reso possibile l’intervista e per il paziente lavoro di revisione.

Federico Di Mauro


D. Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus (Yo siempre regreso a los pezones y al punto 7 del Tractatus) è il suo libro d’esordio. Il libro, come ci informa Lia Ogno nella prefazione, risale al 2001 e viene pubblicato inizialmente a sue spese. Yo siempre regreso… mette in discussione molte delle convenzioni associate alla scrittura poetica, a partire dalla sua natura a metà strada tra narrativa, poesia e saggistica. Il libro è un canzoniere postmoderno composto da poesie in prosa, che si servono di una forma di versificazione molto particolare, costituita dall’interruzione della frase per via di incisi che si sovrappongono tra loro, creando una specie di movimento interno. Qual è stata l’accoglienza del libro in Spagna a quell’epoca? E come valuta questo libro a vent’anni di distanza?

R. Al tempo (2001) il libro ebbe un’eccellente ricezione, ma trattandosi di un’edizione indipendente la sua diffusione era limitata a piccoli circoli poetici spagnoli. Già allora i suoi lettori sostenevano che in quel libro vi fosse il germe di un nuovo modo di narrare e di far poesia rispetto a quelli noti. Solo anni dopo, quando fu ripubblicato da due case editrici importanti (Alfaguara e Seix Barral) fu possibile leggerlo in maniera più massiva, e la critica e il pubblico erano dello stesso parere. Da parte mia, posso solamente dire che io non scrivo ciò che voglio ma ciò che posso; io non potrei scrivere in un’altra forma, è la mia maniera di leggere e di scrivere il mondo, ed è chiaro che in quel libro di poesia erano già presenti molti dei punti chiave della mia letteratura successiva: la mescolanza di generi, l’unione senza pregiudizi estetici di alta e bassa cultura, un approccio a misticismi classici e contemporanei, la pubblicità di massa come materiale poetico, o l’inclusione delle scienze come metafora – non come argomento, non come trama. In breve, c’era già tutto ciò che ho poi continuato a fare in poesia, e che nei romanzi si è condensato in Nocilla dream e nella saggistica in Postpoesía (hacia un nuevo paradigma).

D. Se si trattasse di un romanzo, potremmo riassumerne così la trama del libro: dopo essere stato abbandonato dalla donna che amava, un uomo si rinchiude in una camera d’hotel di un’isola imprecisata, e osserva. L’uomo guarda con interesse e sospetto il mondo esterno, un paesaggio lunare alla De Chirico incomprensibile ed estraneo, osserva le fotografie in bianco e nero della donna, quasi una Milena kafkiana dai contorni di un’apparizione fantasmatica, oppure scruta dentro un’oscurità senza nome che si allarga sulla sua vita. Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus è un libro sulla solitudine, su quel che accade quando, esaurito l’eros, la vita diventa una perenne veglia, il legame amoroso un interminabile crepuscolo, l’amore una conversazione ininterrotta tra ombre. E tutto quel che resta da dire è quanto ammoniva Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (Wovon man nicht sprechen kann, darüber muß man schweigen). La mia domanda riguarda l’isola come immagine della solitudine. Com’è lo spazio, com’è il tempo di questo libro? Qual è il tempo dell’assenza e dell’abbandono?

R. È curioso che dica questo, perché nel mio ultimo romanzo, El libro de todos los amores, affronto il tema della rottura amorosa come “l’interminabile crepuscolo” a cui Lei fa riferimento. L’idea che avevo 23 anni fa, quando scrissi Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus, e quella che ho oggi è essenzialmente la stessa e ha a che vedere con la costruzione di una città comune, come sempre avviene tra due amanti, e mi riferisco a una città simbolica, visibile unicamente da loro due. E mi sembra in sé già una specie di miracolo che nel mondo esista una cosa che possano vedere solo due persone, e nessun altro. Vale a dire, le coppie edificano delle vere e proprie città fatte di materia e affetti, costumi e riti unici e irripetibili; un linguaggio proprio. La peculiarità di questa città creata da entrambi – e credo che in ciò risieda l’originalità poetica e antropologica della mia idea – è che essa non si distrugge se la coppia si spezza, ma passi semplicemente a uno stato di città abbandonata, delle rovine che da qualche parte dovranno necessariamente seguire il proprio corso, la propria vita, ma in solitudine. Non sappiamo esattamente in che modo continui a mutare questa città, né che forma assumerà, quel che è certo, però, è che, per sempre scollegata dal mondo conosciuto, è una destinazione sentimentale che nessuno potrà più visitare. Neanche coloro che l’hanno costruita – gli ex-amanti – potranno più ripercorrerne le strade. Così questa città diventa, letteralmente, un luogo utopico, l’unico luogo realmente utopico, perché la sua disconnessione dalla realtà è tale e, allo stesso tempo, così violenta è la sua presenza, che nemmeno la politica reale – che come sappiamo ambisce a utopie ma finisce sempre per creare distopie – ha il coraggio di misurarcisi. Ed è allora che con questa città abbandonata possiamo cominciare a fare poesia, a immaginarla, a trasformarla, mediante la parola scritta, in “qualcos’altro”. Questa è un’idea che ho successivamente ripreso nel romanzo Nocilla lab, anche se l’ho declinata in maniera differente. In definitiva: lo spazio e il tempo del libro Io ritorno sempre ai capezzoli e al punto 7 del Tractatus è una sorta di amalgama di tutto questo, il che trasforma lo spazio e il tempo in una materia duttile, flessibile e complessa.

D. In Italia oggi il suo nome è collegato a Trilogia della guerra, pubblicato l’anno scorso dalla promettente casa editrice milanese Utopia, e che ha riscosso un enorme successo di pubblico e di critica. In quel suo libro abbiamo trovato uno degli esiti più riusciti di ricerca sulla forma romanzesca contemporanea. Lei è un autore eclettico, un instancabile sperimentatore di forme. È ancora interessato a esplorare i territori limitrofi di poesia e narrazione?

R. Quel che ho chiaro è che tutto ciò che scrivo è poesia, anche quando assume il formato di romanzo o di saggio. E dico questo perché, indipendentemente da quello che scrivo, parto sempre da metafore e da idee che sono poetiche al cento per cento. Quindi, naturalmente, sono ancora interessato a esplorare quei mondi ibridi, mondi collegati da reti di concetti e metafore. Per esempio, il volume che ho appena pubblicato El libro de todos los amores, partecipa di questa mescolanza, così come il mio trattato Teoría general de la basura (che in qualche modo contiene e supera Postpoesía) o il mio ultimo saggio La forma de la multitud. In tutte queste opere ci sono alte dosi di “pensiero poetico”, sempre nel tentativo di andare oltre il già consolidato, di fare passi estetici. Per me, ogni nuovo libro è un salto nel vuoto fatto con metafore, la metafora è un sistema di ricerca e di creazione del mondo. Il mondo non è là fuori ad aspettarci, il mondo si crea attraverso il linguaggio.

D. All’inizio del libro lei fa riferimento a quella frase di María Zambrano, secondo cui «ogni bellezza tende alla sfericità». Quest’opera per vocazione discontinua, che combina sistematicamente gli opposti (poesia e prosa, eros e riflessione metalinguistica) aspira a una forma di perfezione, di compiutezza, di bellezza nel caos. Questo ha a che vedere con la sua visione dell’universo che le deriva dalla sua formazione di fisico?R. Non saprei. Quel che so è che questo libro, più che aspirare alla perfezione aspira a una sorta di Realismo Complesso, che è il tentativo di narrare e di fare poesia con la nostra contemporaneità (cioè essere realista), e di farlo nel modo in cui oggi leggiamo e comprendiamo il contemporaneo, che non è altro che il pensiero complesso (attenzione!, non complicato; complesso e complicato sono due concetti molto differenti, in molti casi persino opposti). Ed è questo che credo abbia a che fare con la fisica, il modo di assumere in modo naturale una struttura dinamica della realtà, che io chiamo Realismo Complesso (si veda Teoría general de la basura), in cui gli oggetti e i sentimenti sono trattati in modo attivo, creatori di una realtà attuale e aperta, connessi in rete con centinaia di altre realtà simultanee. Non si tratta di una modalità nostalgica o romantica.

Una “rivoluzione tranquilla” nelle lettere basche: tre poesie di Kirmen Uribe 

Introduzione e traduzioni a cura di Federico Carciaghi, vincitore della nostra seconda Call for Translators per la lingua spagnola.

Kirmen Uribe (1970), originario di una famiglia di pescatori di Ondarroa, in Biscaglia, è una delle voci più promettenti della letteratura basca e iberica. Il suo volume d’esordio, la raccolta di poesie Bitartean heldu eskutik (Mientras tanto cógeme la mano – “Nel frattempo prendimi la mano”) ha rappresentato, nelle parole del critico Jon Kortazar, una “rivoluzione tranquilla” nelle lettere basche. Un linguaggio poetico semplice si unisce a un andamento narrativo che intreccia elementi autobiografici, memoria storica, realismo e intimismo. Nel 2002 il libro ha vinto il Premio Nazionale della Critica e, due anni dopo, è stato incluso nella prestigiosa collana di poesia della casa editrice Visor. Successivamente, il volume è stato tradotto in francese e in inglese, e in un secondo momento in catalano e russo. La traduzione in inglese, Meanwhile, Take my Hand (2007), a cura della poetessa americana Elizabeth Macklin, è risultata finalista negli Stati Uniti nella sezione Poetry in Translation del del PEN Award.

Attualmente, Kirmen Uribe risiede e insegna scrittura creativa negli Stati Uniti, a New York, dove la sua poesia è molto conosciuta e apprezzata. A tal riguardo, viene subito in mente l’immagine del poeta a New York usata da Lorca per definire lo scrittore basco. Tuttavia la poliedricità e il carattere ibrido dello stile di Uribe portano l’autore ad auto-definirsi a più riprese non soltanto come poeta, bensì come scrittore a tutto tondo: “Soy un escritor vasco en Nueva York”. Il passaggio alla narrativa inaugurato con la pubblicazione del romanzo Bilbao-New York-Bilbao ha figurato, infatti, la creazione e il mantenimento di una cifra stilistica che fa della contaminazione la sua caratteristica principale. Uribe si muove nello spazio bianco fra i generi, per cui la prosa diventa poesia e la poesia diventa prosa. Nella sua scrittura non vi è, tuttavia, ricerca di virtuosismo o di un forzato innalzamento del registro. L’autore basco si affida, al contrario, a un linguaggio semplice e chiaro che trasmette la realtà delle cose quotidiane. I Paesi Baschi sono molto presenti nella sua scrittura e nel suo immaginario, tuttavia Uribe crea ponti, raccoglie frammenti di vita e li cristallizza nella parola poetica, travalicando le frontiere linguistiche e territoriali. La poesia di Uribe è osservazione diretta, è creazione di istantanee che, una volta conservate nella nostra memoria, si verbalizzano in modo lineare ed eterno. Una poetica dello sguardo attento, che è sfociata infine nella seconda raccolta di poesie, 17 secondi (2020). Il titolo molto evocativo fa riferimento al tempo di osservazione medio che un visitatore trascorre davanti a un quadro, secondo quanto riferito all’autore da una guida del Metropolitan Museum di New York. Nasce da qui il desiderio di fissare sulla pagina la realtà, di rappresentare quel fiume vitale fatto di momenti in cui tutti possono riconoscersi. L’intimità del poeta assurge a un sentimento di universalità e comunione con il lettore. Così, la poesia diventa un mezzo per raccontare la vita che scorre, un fiume fatto di ricordi d’infanzia, eventi familiari e di sentimenti profondi che rendono vive le pagine dei libri e le fanno vibrare di emozione.


Da Mientras tanto cógeme la mano (Visor, 2004).

El cuco

Aquel año oyó el cuco a principios de abril.
Tal vez, porque estaba inquieto,
tal vez, por esa manía de ordenar el caos,
quiso adivinar en qué notas cantaba.

La tarde siguiente, allí estaba en el bosque,
con un diapasón, esperando.
Al rato, lo escuchó.
El diapasón no mentía:
Si-Sol eran las notas del cuco. 

El descubrimiento se supo en todas partes.
Todos querían probar si de verdad el cucocantaba en esas notas.
Pero, los resultados no coincidían.
Cada uno decía su verdad.
Algunos que eran Fa-Re, otros Mi-Do.No se ponían de acuerdo.

Mientras tanto, el cuco seguía cantando en el bosque.
Ni Si-Sol, ni Fa-Re, ni Mi-Do.
Como hace mil años
cantaba: Cucú, cucú

El río

En otro tiempo hubo un río aquí,
donde ahora hay bancos y losetas.
Hay más de una docena de ríos bajo la ciudad,
si hacemos caso a los más viejos.
Ahora es sólo una plaza en un barrio obrero.
Y tres chopos son la única señal
de que el río sigue ahí abajo.

En cada uno de nosotros hay un río oculto
a punto de desbordarse.
Si no son los miedos, es el arrepentimiento.
Si no son las dudas, la impotencia.
Un viento del oeste azota los chopos.
La gente avanza a duras penas.
Desde el cuarto piso una mujer mayor
está tirando ropa por la ventana:
tira una camisa negray una falda de cuadros
y un pañuelo de seda amarillo y unas medias
y aquellos zapatos que llevaba
el día de invierno que llegó del pueblo.
Unos zapatos de charol, blancos y negros.
En la nieve, sus pies parecían avefrías congeladas.

Los niños echan a correr tras la ropa.
Al final, ha sacado su vestido de boda,
se ha posado sobre un chopo, torpemente,
como si fuera un pájaro grande.Se oye un gran ruido. Se asustan los transeúntes.
El viento ha arrancado de cuajo uno de los chopos.
Las raíces del árbol parecen la mano de una mujer mayor,
que espera que cuanto antes otra mano la acaricie.

Il cuculo

Quell’anno udì il cuculo a inizio aprile.
Forse, perché era agitato,
forse, nella smania di ordinare il caos,
volle indovinare che note cantava.

La sera dopo, eccolo lì nel bosco,
con un diapason, ad aspettare.
Dopo poco, lo sentì.
Il diapason non mentiva:
le note del cuculo erano Si-Sol.

Ovunque seppero della scoperta.
Tutti volevano sapere se davvero il cuculo
Cantava con quelle note.
Ma i risultati non tornavano.
Ognuno aveva il suo parere.
Qualcuno Fa-Re, altri Mi-Do.
Non trovavano un accordo.

Nel frattempo, il cuculo continuava a cantare nel bosco.
Né Si-Sol, né Fa-Re, né Mi-Do.
Come mille anni fa
Cantava: Cucù, cucù.

Il fiume

Un tempo c’era un fiume qui,
dove ora ci sono panchine e mattonelle.
Ci sono più di dieci fiumi sotto la città,
se ascoltiamo i più anziani.
Ora è solo una piazza di un quartiere popolare.
E tre pioppi sono l’unico segno
Del fiume che scorre ancora lì sotto.

Dentro di noi c’è un fiume nascosto
Che sta per straripare.
Se non sono le paure, è il rimorso.
Se non sono i dubbi, l’impotenza.

Un vento dell’ovest sferza i pioppi.
La gente avanza a malapena.
Dal quarto piano una donna anziana
tira vestiti dalla finestra:
tira una camicia nera e una gonna a quadri
e un fazzoletto giallo di seta e delle calze
e quelle scarpe che portava
quel giorno d’inverno in cui arrivò dalla campagna.
Scarpe di vernice, bianche e nere.
Nella neve, i piedi sembravano pavoncelle congelate.

I bambini corrono dietro i vestiti.
Infine, si toglie l’abito nuziale,
si posa su un pioppo, goffamente,
come fosse un grande uccello.

Si sente un gran rumore. I passanti si agitano.
Il vento ha sradicato di colpo uno dei pioppi.
Le radici dell’albero sembrano la mano di una donna anziana,
che aspetta presto un’altra mano per accarezzarla.

Da 17 segundos (Visor, 2020)

Oculta

Under my window, a clean rasping sound
When the spade sinks into gravelly ground:
My father, digging. I look down

Seamus Heaney

Mi madre suele estar oculta siempre que voy a visitarla.
Suele estar en el garaje, o en el desván,
o dando un paseo por el monte con los perros.

Yo la llamo en voz alta
y, por un momento, me estremezco
esperando a oír su voz.

Mi madre no me deja entrar en casa de inmediato.
Me agarra del brazo y me lleva hacia el huerto.
Como siempre, me pregunta: «¿Qué ha cambiado?».

«Qué sé yo…», le contesto para ganar tiempo,
mientras al mismo tiempo miro y remiro,
por todas partes, qué será lo que está distinto.

Suele ser que ha podado las rosas,
o que ha pintado de blanco la caseta del perro.
Para ella, el trabajo de una semana;
para mí, un momento de atención.

Mi madre, nacida en los años del hambre, aquella niña
que, cuando llovía, se quedaba en casa sin ir a la escuela,
porque sin zapatos adecuados podía enfermar.

Por eso, toda la vida le han gustado los cambios
a aquella mujer que, de joven, quiso
transformar la sociedad de arriba abajo.

De aquella generación que, en los tiempos más oscuros
y a escondidas, conservó la lengua vasca.
Al fin, me deja entrar en casa,

y hace que se regrese a la infancia
mediante el sabor de sus platos, y porque
es la única que aplaca mis temores.

Al despedirnos me dice que la próxima vez
no me olvide de llevarle un libro, que no hay libros nuevos
en la estantería, y está cansada de releer los que hay.

Subo al coche y considero la pregunta de mi madre:
«¿Qué ha cambiado?», esos crueles cambios que,
como las arrugas, aparecen sin que nos demos cuenta.

Será que últimamente la veo más cansada,
será que también yo estoy cada vez más solo.
Yo no quiero que nada cambie.

Querría seguir siempre visitando a mi madre,
e intentar acertar su adivinanza,
tomados del brazo y caminando por la huerta.

Finestra

Sotto la mia finestra, un suono stridulo e preciso
Quando la vanga affonda nel campo ghiaioso:
Mio padre che scava. Guardo in basso

Seamus Heaney

Mia madre si nasconde ogni volta che vado a trovarla.
Di solito si trova in garage, o in soffitta,
o nel bosco a fare una passeggiata con i cani.

Io la chiamo a voce alta
E, per un attimo, fremo
sperando di sentire la sua voce.

Mia madre non mi fa entrare in casa subito.
Mi prende per un braccio e mi porta nell’orto.
Come sempre, mi chiede: “cos’è cambiato?”.

“Che ne so…”, rispondo per prender tempo,
e allo stesso tempo guardo e riguardo,
ovunque, cosa sarà ad essere cambiato.

Di solito ha potato le rose,
o ha dipinto di bianco la cuccia del cane.
Per lei, il lavoro di una settimana;
per me, un attimo di attenzione.

Mia madre, nata in anni di povertà, una bambina
Che, quando pioveva, restava a casa senza andare a scuola,
perché senza le scarpe adatte poteva ammalarsi.

Perciò, le sono sempre piaciuti i cambiamenti
A quella donna che, da giovane, volle
Trasformare la società da capo a piedi.

Di quella generazione che, negli anni più bui
E di nascosto, custodì la lingua basca.
Infine, mi fa entrare in casa,

e mi fa rivivere l’infanzia
grazie al sapore dei suoi piatti, e perché
è l’unica che placa i miei timori.

Salutandoci mi dice di non dimenticarmi
di portarle un libro la prossima volta, ché non ha libri nuovi
Nella libreria, ed è stanca di leggere sempre i soliti.

Salgo in macchina e penso alla domanda di mia madre:
“Cos’è cambiato?”, quei cambiamenti crudeli che,
come rughe, appaiono senza accorgercene.

Sarà che la vedo più stanca ultimamente,
sarà che anche io sono sempre più solo.
Non voglio che cambi niente.

Vorrei sempre andare a trovare mia madre,
e provare a scoprire il suo segreto,
mano nella mano mentre camminiamo per l’orto.

“Io sono selvaggia”: tre poesie di Maya Cousineau Mollen

Introduzione e traduzioni a cura di Anna Nardi, vincitrice della nostra seconda Call for Translators per la lingua francese.

Maya Cousineau Mollen è una poetessa innu fortemente legata tanto alla dimensione contemporanea quanto alle sue origini autoctone, ed è nell’intersezione di queste due sfere che conduce la propria ricerca poetica. Nata nel 1975 nella riserva di Mingan (Ekuanitshit in lingua innu), viene presto adottata da una famiglia quebecchese scelta dalla madre biologica. I genitori adottivi le consentono di mantenere il legame con le origini e con la sua famiglia innu, ma soprattutto la incoraggiano a perseguire la carriera da scrittrice: scrive le prime poesie all’età di quattordici anni. Molti dei suoi componimenti si possono leggere sui suoi social, ma sono stati anche raccolti in due sillogi, Bréviaire du matricule 082 (Éditions Hannenorak, 2019) e Enfants du lichen (Éditions Hannenorak, 2021).

Le tradizioni della cultura di origine della poetessa occupano una posizione di grande rilievo nella sua produzione, affiancate a una dimensione sociale più moderna (la questione ambientale, il femminismo e il colonialismo sono solo alcuni dei temi affrontati). Il tema messo maggiormente in risalto è, tuttavia, la ricerca della propria identità: allontanata dalle proprie origini innu, Maya perde il proprio nome e viene identificata come matricule 082. La cifra si riferisce alla pratica di assegnare un numero di identificazione ai cittadini autoctoni, assimilati così a prodotti dotati di un codice a barre. Cousineau Mollen, al pari di tanti altri nella stessa situazione, viene così privata della possibilità di conoscere sé stessa e di determinare la propria identità, che le viene invece attribuita dagli ex-colonizzatori.

Nei componimenti della prima raccolta viene esplorata la collera che scaturisce dalla rottura del legame con la terra natale, rappresentata non solo attraverso la messa a tema della questione identitaria, ma anche come un vero e proprio distacco fisico dal territorio delle proprie origini. Tuttavia, è proprio questo allontanamento forzato che consente all’autrice di capirne l’importanza. Fondamentale per maturare questa consapevolezza sarà il ritorno alla terra natia, un mondo sfruttato e bistrattato dall’uomo bianco, ma che cela in sé una grande forza distruttrice, la forza di un animale che è stato intrappolato per troppo tempo ed è finalmente riuscito a liberarsi e mostrarsi in tutto il suo splendore. Proprio come una belva liberata, Cousineau Mollen ha finalmente la possibilità di ammirarsi alla luce del sole, assumendo la sua vera identità, quella che le è stata rubata dai colonizzatori: “Io sono selvaggia, io sono donna”. Questo cambiamento non fa altro che accentuare l’ira dell’autrice, che ammonisce l’uomo bianco e colonialista che ha creduto di poterla possedere: lei è fredda e temibile come il Nord, e niente potrà proteggere chi l’ha intrappolata dal suo furore.


da Bréviaire du matricule 082 (Éditions Hannenorak, 2019)

MOI, AKUATISHKUEU*

À Joséphine Bacon

Immobile sur ma terre non cédée
Couverte d’un béton qui l’étouffe

Je laisse derrière moi les loques coloniales
Pour retrouver ma chair nue au soleil

Je m’apprivoise
Car jamais je ne me suis aimée
Je me découvre
Visage millénaire

Ma chevelure tant de fois entravée
Libre comme Atik* dans la toundra

Je suis sauvagesse, je suis femme
Je reprends mon droit d’exister

Garde tes lois réductrices
Tes images dont je suis objet

Symbole d’un peuple de survivants
Mes yeux ont mille vies


*AKUATISHKUEU: Elle est une femme d’apparence exceptionelle
*ATIK: Caribou

IO, AKUATISHKUEU*

A Joséphine Bacon

Immobile sulla mia terra non ceduta
Coperta di cemento che la soffoca

Mi lascio alle spalle i relitti coloniali
Per ritrovare la mia pelle nuda al sole

Mi addomestico
Perché non mi sono mai amata
Mi scopro
Viso millenario

La mia chioma tante volte imprigionata
Libera come Atik* nella tundra

Io sono selvaggia, io sono donna
Mi riprendo il mio diritto di esistere

Tieniti pure le tue leggi riduttrici
Le tue immagini di cui sono oggetto

Simbolo di un popolo di sopravvissuti
I miei occhi hanno mille vite


*AKUATISHKUEU: Donna dall’aspetto eccezionale
*ATIK: Caribù

MUESHTASHINAKUAN*

Tel le traître apache des guerres génocides
Affamé d’appât du gain
Serpent aux noirs viscères
Danse, ondoyant, envoûtant
Tu violes Gaïa
Tu la loues au prix d’une pute
Ses charmes, ses courbes d’éternité
Son parfum provocant de terre fraîche
Seront les dernières berceuses
Où tu endormiras le dernier enfant de l’humanité


*MUESHTASHINAKUAN: C’est triste à voir

MUESHTASHINAKUAN*

Come il traditore apache delle guerre genocide
Affamato dall’allettante guadagno
Serpente dalle nere viscere
Danza, ondeggiante, ammaliatore
Tu violi Gaia
Tu la affitti al prezzo di una puttana
I suoi incanti, le sue curve eterne
Il suo profumo provocante di terra fresca
Saranno le ultime culle
Dove addormenterai l’ultimo figlio dell’umanità


*MUESHTASHINAKUAN: è triste a vedersi

ISHKUESS* DU NORD

Sur le sentier glacé de ma hargne
Marchent mille femmes pâles

En moi brûle l’acidité des fluides
Point d’amour pour les filles des glaciers

Enfants des ours blancs, des froids lunaires
Héritières du Nord, déesses bafouées

Au parfum éthylique, piégées comme nymphes
Dans ces étreintes de violence que d’aucuns
appellent tendresse

Tu oses m’honorer de ton mépris
Me croire vendue pour une bière

M’envoûter par tes berceuses eugéniques
Posséder mon corps, m’avilir

Tellement plus que ton racisme
Serti de neige, mon peuple brille

Les vents nordiques ont ciselé mes traits
Je suis beauté et amante des aurores boréales

Crains ma colère, crains mes prières
Je suis le Nord et rien ne te sauvera


*ISHKUESS: Une fille ; une femme célibataire

ISHKUESS* DEL NORD

Sul sentiero ghiacciato del mio astio
Marciano mille donne pallide

In me brucia l’acidità dei fluidi
Punto d’amore per le fanciulle dei ghiacci

Figlie degli orsi bianchi, dei freddi lunari
Eredi del Nord, dee sbeffeggiate

Dal profumo etilico, intrappolate come ninfe
In quelle strette di violenza che qualcuno
chiama amore

Tu osi onorarmi col tuo disprezzo
Credermi venduta per una birra

Ammaliarmi con le tue cantilene eugenetiche
Possedere il mio corpo, avvilirmi

Molto più del tuo razzismo
Incastonato a neve, il mio popolo luccica

I venti nordici hanno scolpito i miei lineamenti
Sono bellezza e amante delle aurore boreali

Paventa la mia collera, paventa le mie preghiere
Io sono il Nord e niente potrà salvarti


*ISHKUESS: Una ragazza; una donna celibe

“Un vuoto speciale” – Intervista a Georgi Gospodinov

Intervista a cura di Fausto Paolo Filograna. Traduzione dal bulgaro di Daniela Di Sora.

“Un Proust venuto dall’Est.”
– 
Andrea Bajani

1) «Ho 44 anni, ma aggiungetevi l’età di mio nonno, nato nel 1913, aggiungete anche quella di mio padre, nato alla fine della Seconda guerra mondiale, di Giulietta davanti al cinema, di Gaustìn in fuga» è una frase di Fisica della malinconia, quanti anni pensi di avere nel 2023?

Mi sembra che davvero qualcosa nel meccanismo del tempo si sia rotto e che viviamo in un vuoto speciale, un’atemporalità dopo questi due anni di pandemia e soprattutto dopo un anno di guerra. Nel corso di simili prove il tempo scorre in maniera diversa, oppure non scorre affatto. È bloccato in un ciclo. Gira sempre nello stesso punto. L’orizzonte si restringe, il futuro sparisce e l’uomo comincia a contare i giorni invece degli anni. In questo senso mi sento privato del tempo. Gli anni ormai non sono più un’unità di misura.

2) Ci puoi parlare del brano di Cronorifugio a cui sei più affezionato emotivamente?

Lì dentro ci sono parecchie storie personali, anche se invece il romanzo sembra più universale e politico. Sento molto vicino a me uno dei capitoli più brevi, verso la fine del romanzo, si chiama “Sindrome della non appartenenza”. Penso di sentirmi esattamente così in questo periodo: non appartenente.

3) Mi sembra che il giornalismo stia diventando la forma di scrittura prediletta di questi anni, specialmente nel continente europeo. Anche i racconti del tuo personaggio Gaustin sembrano essere influenzati da questo tipo di scrittura. Cosa ne pensi?

Non sono d’accordo. Il romanzo europeo si è sempre distinto per l’amore nei confronti della riflessione, per aver affrontato temi importanti come il tempo, la memoria, la morte. Non è un caso che si parli di romanzi-saggi e abbiamo esempi come La montagna incantata di Thomas Mann o Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Questo è tutto tranne che giornalismo. Credo che la tradizione continui ancora oggi. E questi due autori sono stati molto importanti per me mentre scrivevo Cronorifugio.

4) Lo storico Reinhart Koselleck ipotizzava che in questo tempo storico fosse impossibile parlare del passato senza gettarvi una inconsapevole tensione verso il futuro. Cosa pensi del futuro in base alle catastrofi passate di cui parli?

A me (e a Gaustin) il catastrofico presente ci obbliga inevitabilmente a correre verso il passato, per nasconderci nel suoi rifugi. Anche se questa è una posizione privilegiata. Se il presente è davvero catastrofico, ci si preoccupa della propria sopravvivenza in quel momento. E l’idea del passato e del futuro arriva un po’ più tardi.

5) La trasformazione è uno dei temi più importanti di Cronorifugio. In cosa desideri trasformarti, come scrittore o come persona?

Per me è molto difficile separare lo scrittore dalla persona. Come pure mi è difficile separare me stesso da Gaustin. Ma se parliamo di trasformazioni, allora nel mio romanzo uno passa costantemente nell’altro. E non sai mai chi sta creando chi: se è lo scrittore che crea il personaggio o al contrario è il personaggio che crea il proprio autore.

6) C’è qualcosa di cui vorresti scrivere e che non sei ancora riuscito a trovare il modo di scrivere?

Ci sono talmente tante cose che ancora non ho trovato modo di scrivere. E non sto parlando di temi e trame, non è questo che mi interessa. Parlo di voci. La cosa più difficile è trovare una voce, la voce giusta per iniziare a sviluppare il filo della storia.

7) Cosa intendono secondo te i critici quando definiscono la tua letteratura “sperimentale”?

Mi sorprendo sempre. Probabilmente intendono il modo labirintico e non lineare in cui racconto le mie storie. Ma questo è l’unico modo possibile e naturale in cui di solito le persone pensano e raccontano. Ogni volto provo a scrivere un romanzo lineare che vada dal punto A al punto B, ma alla fine viene sempre fuori un labirinto.

8) Chi sono gli scrittori viventi che ammiri?

Tutti gli scrittori che amiamo e ammiriamo sono vivi. Per me gli scrittori vivi e amati sono Borges e Brodskij, Omero e Seneca, amo molto leggere la poesia: Eliot, Kavafis, Quasimodo.

9) Cosa consiglieresti a un giovane scrittor* nel 2023?

Di mantenere la propria sensibilità nei confronti di tutto quello che lo circonda. Viviamo in un mondo che sanguina di continuo, e per questo l’empatia è una delle qualità più importanti per ognuno di noi. Non puoi diventare scrittore senza sperimentare i dolori del mondo. La buona letteratura dà continuamente significato e umanità a un mondo altrimenti insensato.


Georgi Gospodinov è nato a Jambol nel 1968, è poeta, prosatore e studioso di letteratura, considerato lo scrittore più talentuoso della Bulgaria. Con Romanzo naturale (Voland 2007), accolto come una vera rivelazione, ha immediatamente incontrato il favore di critica e pubblico ottenendo il primo premio del concorso Razvitie per il romanzo bulgaro contemporaneo. Finora è stato tradotto in diciannove lingue. La casa editrice Voland ne ha pubblicato le raccolte di racconti …e altre storie (2008), E tutto divenne luna (2018), Tutti i nostri corpi (2020) e i romanzi Fisica della malinconia (2013), e Cronorifugio (2021), Premio Strega Europeo 2021, finalista del The International Booker Prize 2023, tradotto, con la maggior parte delle pubblicazioni italiane, da Giuseppe Dell’Agata.

“Avere un corpo implica un’enorme responsabilità”: tre poesie di Sirka Elspaß

Introduzione e traduzioni a cura di Sofia Pagliarella, vincitrice della nostra seconda Call for Translators per la lingua tedesca.

“Quando sono nata ho avuto paura / della mia stessa voce”: inizia con la nascita il viaggio poetico di Sirka Elspaß, per scontrarsi da subito con la consapevolezza che “nessuno viene al mondo / e sa come si fa”. Vulnerabile e senza istruzioni per l’uso, l’autrice si pone in ascolto del proprio corpo che diventa terreno di crisi e di guerra, di amore, dolore, desiderio, solitudine, guarigione – un luogo da abitare a cui solo la scrittura può dare voce. La ricerca dell’identità per Elspaß parte dalla premessa che “quando donne e persone trans o non binarie scrivono, si tratta sempre di politica” e passa attraverso una lingua spezzata dall’appello a una madre, invocata come entità primordiale con cui tentare una connessione.

Sirka Elspaß, nata nel 1995 a Oberhausen, ha studiato scrittura creativa e giornalismo a Hildesheim e oratoria all’Università delle Arti Applicate a Vienna. È stata premiata al “Treffen junger Autor:innen” a Berlino nel 2010 e 2012, come anche al “postpoetry. NRW” a Hildesheim nel 2013. Ha pubblicato con diversi giornali e antologie, tra cui STILL e Lyrik von Jetzt 3. È poi stata nominata tra i finalisti all’Österreichische Buchpreis 2022 per il miglior debutto.

Nella sua raccolta poetica ich föhne mir meine wimpern (Suhrkamp, 2022), Elspaß suggella l’incontro tra pop e poesia, affiancando alla pubblicazione della silloge anche la creazione di una playlist su Spotify contenente tutti i brani musicali che l’hanno influenzata durante la stesura, brani di cui nelle poesie si ritrovano “[…] sovrapposizioni più o meno evidenti – nel titolo, nel tema, nello stato d’animo”. Con leggerezza e coraggio, non privi, a volte, di un sorprendente umorismo, l’autrice condensa il suo grido in immagini cristalline, tanto cangianti quanto appuntite, e strazianti proprio perché dotate della serena consapevolezza che “nessuno è al di sopra delle cose/ ci siamo tutti dentro”.


da ich föhne mir meine wimpern (Suhrkamp, 2022)

nicht ist so traurig wie der mond wenn er abnimmtim
schwindenden schein des kerzenlichtsschreibst
du folgenden satz
einen körper zu haben bedeutet enorme verantwortung
und niemand kommt auf die welt
und weiß wie es geht

aberan
der sichel hat jemand einen aushang gemacht
menschen werden gesucht
katzen werden vermisst
wenn der apfel die umarmung ist
bin ich der wurm der ihn zerfrisst

niente è triste come la luna quando tramonta
al chiarore fioco della candela
scrivi la frase seguente
avere un corpo implica un’enorme responsabilità
e nessuno viene al mondo
e sa come si fa

ma
qualcuno ha appeso un cartello alla falce
esseri umani cercasi
gatti scomparsi
se la mela è l’abbraccio
io sono il verme che le procura il marcio

6
vielleicht haben wir bereits eine grenze
überschritten als wir uns entschieden keine zu
überschreiten
ich kann uns nicht behalten
es ist zeit zu gehen
den abschied wie eine ausfahrt
nehmen aber dass ich alleine
nicht ausreiche
diese angst bleibt
mutter
komm
es wird dunkel
hol mich
heim
dann stößt mir der alte zahn durchs fleisch
mutter
rufe ich
mutter
ich
werde

6
forse un confine lo abbiamo già
superato anche se avevamo deciso di non
superarlo
non riesco più a tenerci
è tempo di andare
prendere l’addio come
un’uscita però io da sola
non basto
questa paura rimane
madre
vieni
qui diventa buio
portami
a casa
poi il dente vecchio mi trafigge la carne
madre
chiamo
madre
io
sarò

Schlafen Sie bei offenem fenster
decken Sie sich gut zu
vergessen Sie das blumengießen für
einen moment und die verletzungen
nur mut ich hege
keinen groll
Sie müssen nicht heiter sein
aber nehmen Sie jedes crescendo mit
seien Sie sanfter zu sich als Sie es sind und
lesen Sie den nächsten satz mehrmals

niemand steht über den dingen
wir stehen alle mittendrin

che dorma con le finestre aperte
e si copra bene
che dimentichi di annaffiare i fiori per
un momento e le ferite
poi solo coraggio io non
nutro rancore
e lei, non provi serenità
ma accolga ogni crescendo
che sia più buono con sé stesso di quanto non sia e
legga la prossima frase più volte

nessuno è al di sopra delle cose
ci siamo tutti dentro

Sole di mezzanotte: Alejandra Pizarnik e la sua sete sacra.

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Roberta Truscia.

Estratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960)

Ne Il ponte sognato, primo volume dei suoi diari, Alejandra Pizarnik nomina la parola “equilibrio” solamente tre volte: il 7 luglio 1955,quando immagina facetamente gli elementi di un’opera tra i cui personaggi inserisce anche un vaso “senza base che mantiene l’equilibrio grazie a un ventilatore”; il 27 luglio dello stesso anno, quando Alejandra si domanda se non sarà l’equilibrio psichico della sua collega d’Università la causa della repulsione che prova nei suoi confronti. Infine il 3 gennaio 1959, quando, per la prima volta, associa la parola equilibrio a sé stessa, ma non come qualcosa che le appartenga e disprezzi, come nel caso della sua collega, bensì come il nuovo oggetto del suo desiderio. “C’è, tuttavia, un desiderio di equilibrio. Un desiderio di fare qualcosa con la mia solitudine.” Dalle prime due date all’ultima sono passati quattro anni e Alejandra è ora una ragazza di 22 anni che ha pubblicato tre raccolte poetiche, ha aspirato (e aspira) a scrivere un romanzo, ha abbandonato la carriera universitaria, ha intrapreso e sospeso la terapia psicoanalitica e l’anno successivo si trasferirà a Parigi, dove potrà finalmente “diventare quello che già è”: la più grande poetessa argentina del suo tempo. Tuttavia, la strada verso l’affermazione non è battuta, è piuttosto un sentiero che si snoda lungo la sua angoscia esistenziale, il desiderio ardente di scrivere, la solitudine sofferta, la notte. Lungo la sua strada non c’è spazio per la parola “equilibrio”, perché Pizarnik ha familiarità con le notti polari alla ricerca del sole di mezzanotte. Ricorre, invece, la parola “ponte”: Alejandra si strugge infatti per quel ponte invalicabile tra il desiderio e la parola, e l’immagine rimanda al suo essere sempre al confine tra la veglia e il delirio. In questo caso, non appare molto chiaro verso quale direzione lei scelga di attraversare il ponte, perché il delirio è solitudine e profondo malessere, mentre la veglia rappresenta la loro fine. La veglia significa conformarsi a una vita priva di poesia; il delirio, invece, ne è la base. Il ponte rappresenta anche la ricerca stessa della parola che incarna la poesia, l’infinito oltre ogni limite. Perché, se Alejandra conosce precocemente la sensazione di sradicamento dal mondo, precoce è anche la certezza che l’unico mondo degno di essere vissuto sia la Poesia, non mera sostituzione di quello esistente, ma una realtà a sé stante.

Non è l’equilibrio tra le parti quello che interessa Alejandra, ma l’attraversamento, un appagamento completo della sua “sete sacra”. Essa non è sacra solo perché nella sacralità della poesia ricerca il suo appagamento, ma perché rappresenta la fonte della sua vita, ciò che la scuote o la lascia immobile, perfino quando manca di un oggetto concreto.

I diari includono punte altissime di voli spirituali, passi caratterizzati da un’immaginaria e ingegnosa lucidità, le aspirazioni degne di ammirazione e le degradanti, rappresentando la trascrizione di quella sete sacra della quale percepiamo i due effetti complementari: il mysterium tremendum et fascinans. E noi lettori, dopo aver letto Il ponte sognato, avremo un po’ della stessa sete.


I testi qui pubblicati sono tratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960), pubblicato nel 2022 dalla casa editrice La Noce d’Oro.

23 de septiembre 1954

Un nuevo día llegó
pleno de sol y de sombras
un nuevo día llegó
a enquistarse en mi hondo caudal señero
el nuevo día es torneado
e insulso
día sin soplo ni dicha
es un sábado verde molido
en la nada
es un sábado deshecho en la vertiente del vacío.

23 settembre 1954

Un nuovo giorno è giunto
pieno di sole e d’ombre
un nuovo giorno è giunto
per arginare il mio profondo flusso solitario
il nuovo giorno è tornito
e insulso
giorno senza soffio né gioia
è un sabato verde tritato
nel nulla
è un sabato sciolto nel versante del vuoto.

5 de julio 1955

Heredé de mis antepasados las ansias de huir. Dicen que mi sangre es europea. Yo siento que cada glóbulo procede de un punto distinto. De cada nación, de cada provincia, de cada isla, golfo, accidente, archipiélago, oasis. De cada trozo de tierra o de mar han usurpado algo y así me formaron, condenándome a la eterna búsqueda de un lugar de origen. Con las manos tendidas y el pájaro herido balbuceante y sangriento. Con los labios expresamente dibujados para exhalar quejas. Con la frente estrujada por todas las dudas. Con el rostro anhelante y el pelo rodante. Con mi acoplado sin freno. Con la malicia instintiva de la prohibición. Con el hálito negro a fuer de tanto llanto. Heredé el paso vacilante con el objeto de no estatizarme nunca con firmeza en lugar alguno. ¡En todo y en nada! ¡En nada y en todo!

5 luglio 1955

Ho ereditato dai miei antenati l’ansia di fuggire. Dicono che il mio sangue sia europeo. Io sento che ogni globulo proviene da un punto diverso. Da ogni nazione, da ogni provincia, da ogni isola, golfo, collisione, arcipelago, oasi. Da ogni pezzo di terra o di mare hanno usurpato qualcosa e così mi hanno formato, condannandomi all’eterna ricerca di un luogo d’origine. Con le mani tese e l’uccello ferito balbuziente e sanguinante. Con le labbra espressamente disegnate per esalare lamenti. Con la fronte strizzata a causa di tutti i dubbi. Con il volto anelante e i capelli che rotolano. Con il mio rimorchio senza freno. Con la malizia istintiva della proibizione. Con l’alito nero a forza di tanto pianto. Ho ereditato il passo esitante così da non stabilirmi mai in nessun posto. In tutto e in niente! In niente e in tutto!

1 de agosto 1955

Luz de la mañana embebida en los ruidos cotidianos. Los ojos vueltos del sueño perciben asustados aún la Realidad que los sacude. Siento mi despertar como una adhesión de una hoja a «su» árbol, como mi volver a pegarme a la rama que me agitará arbitrariamente. Silencio de hoja matutina sin voz para sollozar la infamia de su inepcia. Silencio de tensión erguida en la sien del árbol. La hoja se agrieta al desmenuzar los días. El sueño lejano resuelve su espera en un rincón inhallable. Mis ojos que se agrandan confiados en el reconocimiento de los objetos cotidianos.

Despierto cansada y fría. La toma de posesión de una «libertad» exterior tan duramente lograda es triste. Pienso en mi vida condensada en un eterno intento de escudriñar mi yo. Libros y más libros. Hay momentos en que desaparece la esencia del libro, quedando solamente su ridículo cuerpecillo. Me veo entonces acariciando nebulosas hojas de papel y me pregunto si valen lo que una mirada humana. Me retuerzo en el interrogante axiológico. Pero ¡no necesito respuesta! Continúo leyendo; paulatinamente, desaparece el físico del libro. Me convierto en el receptáculo de su alma. (¡Oh, amo los libros!) Cada minuto que transita señala mi elevación.

1 agosto 1955

Luce mattutina impregnata nei rumori quotidiani. Gli occhi, gonfi dal sonno, temono ancora la Realtà che li scuote. Percepisco il mio risveglio come l’adesione di una foglia al “proprio” albero, come se stessi di nuovo aderendo al ramo che mi agiterà arbitrariamente. Silenzio di foglia mattutina a cui manca la voce per piangere l’infamia della propria inerzia. Silenzio di tensione eretta sulla tempia dell’albero. La foglia si incrina sminuzzando i giorni. Il sogno lontano risolve la sua attesa in un angolo introvabile. I miei occhi si ingrandiscono fiduciosi quando riconoscono gli oggetti quotidiani.

Mi sveglio stanca e fredda. Prendere possesso di una “libertà” esteriore, così duramente conquistata, è triste. Penso alla mia vita condensata in un eterno tentativo di esaminare il mio io. Libri e ancora libri. Ci sono momenti in cui l’essenza del libro scompare e rimane solo il suo ridicolo corpicino. Ecco che, a quel punto, accarezzo confusi fogli di carta e mi chiedo se valgono quanto uno sguardo umano. Mi contorco nel quesito assiologico. Ma non ho bisogno di risposte! Continuo a leggere; l’oggetto sparisce gradualmente. Mi trasformo nel contenitore della sua anima (Oh, amo i libri!) Ogni minuto che passa segna la mia elevazione.

Febrero 1956

VERANO

tanto miedo Alejandra
tanto miedo
la nada te espera
la nada
¿por qué temer?
¿por qué?

por más imaginación que tenga
no puedo esbozar la muerte
no puedo pensarme muerta
¿he de tener esperanzas?
¿he de ser eterna?
¿qué es entonces este vacío que me recorre?
¿qué es entonces la nada que camina por mi ser?
Sólo sé que no puedo más

siento envidia del lector aún no nacido
que leerá mis poemas
yo ya no estaré

Febbraio 1956

ESTATE

tanta paura Alejandra
tanta paura
il nulla ti attende
il nulla
perché temere?
perché?

pur avendo immaginazione
non riesco ad abbozzare la morte
non riesco a pensarmi morta
devo avere speranza?
devo essere eterna?
cos’è allora questo vuoto che mi percorre?
cos’è allora il niente che cammina nel mio essere?
So solo che non ne posso più

sento invidia del lettore non ancora nato
che leggerà le mie poesie
e io non ci sarò

14 de noviembre 1957

Un loco desflora a una flor. La flor da a luz una muchacha y luego muere. La muchacha queda herida por una carencia innombrable que aumenta hasta la locura cuando se enamora del león más inteligente de la selva. (El león es una especie de Sr. Nadie disfrazado de Todo… o viceversa.)

Vagidos, llanto. Y un estar siempre al borde de, pero nunca en el centro.

Anhelos de lo anhelado, de lo jamás anhelado.
Hermana estrella: soy Alejandra. Buenas noches.

Un pájaro sale a buscar la inocencia y vuelve muerto debajo de sus alas. Campanas en los bolsillos de la noche.

14 novembre 1957

Un pazzo deflora un fiore. Il fiore dà alla luce una ragazza e poi muore. La ragazza rimane ferita da una mancanza innominabile che aumenta fino alla follia quando si innamora del leone più intelligente della selva. (Il leone è una specie di sig. Nessuno mascherato da Tutto… o viceversa).

Vagiti, pianti. E un essere sempre sull’orlo di, mai al centro.

Desideri di ciò che è desiderato, di ciò che mai fu desiderato. Stella sorella: sono Alejandra. Buonanotte.

Un uccello esce a cercare l’innocenza e torna morto sotto le sue ali. Campane nelle tasche della notte.

Copertina de Il ponte sognato di Alejandra Pizarnik
Alejandra Pizarnik, Il ponte sognato, Diari Vol. 1 (1954-1960), traduzione Roberta Truscia (2022, La Noce d’Oro)