La prigione del significato: quattro poesie di Molly Brodak

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Marta Olivi.

L’esordio poetico nel 2010, a trent’anni, e una seconda collezione nel 2020, l’anno della sua prematura scomparsa. Nel frattempo, chapbooks di poesia, insegnamento universitario, e tutta la vita raccontata nel memoir del 2016, Bandit, in cui Molly Brodak sceglie di raccontare il rapporto con il padre, un rapinatore di banche più volte arrestato. Ma è un escamotage per parlare di sé, per delineare in controluce un’identità che non sarebbe stata altrettanto osservabile direttamente. Un io narrante che fatica a narrarsi, un sé fortissimo ma liquido, mutevole, perché basato sull’assunto che un io obiettivo non esista. Specie per chi scrive.

Molly Brodak inizia il suo memoir con due pagine in cui racconta i fatti della vita di Joe Brodak: la dipendenza dal gioco, i debiti, le rapine, gli arresti. In due pagine, la realtà viene liquidata. Tutto quello che viene dopo, ci avverte, è narrazione: comprese le vite dipanatesi attorno a questa figura, e i traumi che hanno subìto a causa sua. Come Brodak ammette, la scelta del memoir, della nonfiction, punta a distaccarsi dalla facilità della fiction, dai suoi “rounded, finite arcs, tidy rise and fall, buttressing values, their little lessons, like solved equations”, ma allo stesso tempo non prova a perseguire un’esattezza fattuale che, semplicemente, non esiste. La soluzione, dunque, una realtà vera perché dichiaratamente soggettiva, è ciò che Brodak trova da adolescente nella forma poetica, quella che non abbandonerà mai più e che “it seemed to know a better way to the world – an approach more honest, more direct, sharper”.

Eppure, se sembra impossibile raccontare una vita in modo “onesto e diretto”, specie il dolore che la caratterizza, è proprio sul trauma che si incentra la ricerca letteraria di Brodak. Forse proprio in nome della sua capacità di influenzare la percezione di sé e degli altri. Nel 2010, nell’esordio A little middle of the night, Brodak parte dal trauma fisico di un corpo malato, descrivendo la sua esperienza di ricovero in ospedale a seguito di un’operazione al cervello. Poesie in cui la realtà si mescola alle visioni indotte dalla malattia e dai farmaci, in cui l’esperienza del coma traccia una linea netta tra la propria percezione e quella altrui, con la poesia come unico mezzo per cercare di comunicare tra prospettive inconciliabili.

Ma la risposta, o perlomeno un tentativo, arriverà solo in The Cipher, nel 2020, in cui si affronta compiutamente il trauma della fuga dall’Olocausto che hanno affrontato entrambi i suoi genitori, la madre dalla Russia e il padre dalla Polonia. Un trauma generazionale che diventa proprio; la perdita del nonno, morto a Dachau, che diventa la perdita della figura paterna; una coazione a ripetere che perpetua il trauma dell’assenza. Il dolore ci pone in un limbo tra passato inalienabile e futuro inconoscibile, descritto come “the awful future: half magnetic, half chiaroscuro”, che ci tira a sé pur nascondendosi da noi. Intrappolati tra il passato che il destino ci ha dato e ciò che con la nostra volontà decidiamo di farci, diventa impossibile stabilire veri nessi causali, capire chi siamo e cosa ci ha reso tali. Ed è di nuovo la poesia ad essere proposta come unico modo per arrivare alla realtà del proprio io. Se ogni scrittura è metafora di una realtà inconoscibile, “one x that did not equal x”, come viene detto nella poesia che apre The Cipher, allora la poesia è il mezzo che più di ogni altro sa seguire esattamente il processo non lineare che caratterizza la coscienza:

I listened to some invisible bird

rattling off the facts of consciousness.
He used that exact word,
cipher.

La poesia diventa così l’unico modo per affrontare una realtà che sembra una prigione, in cui l’unica reazione sensata è “Panic, because suddenly everything signifies”, ma in cui l’accesso al vero senso sembra sempre interdetto, sempre un passo più in là rispetto a noi.

In the cipher, where
we live, there is only personality.
What is outside of the cipher, where we’re headed?

Due scelte, di fronte a questa impossibilità conoscitiva. Perpetuare l’illusione del simbolo grazie al mezzo poetico. O abbandonare il gioco, dirigersi “outside the cipher”, fuori dalla prigione della propria personalità, verso quella morte che viene così spesso accennata in The CipherPosare la penna, scegliere la pace dell’assenza definitiva di ogni significato.


Da the cipher (2020)

Bells

Nothing special, a home,

a plot of empty space,

with a calendar on the wall. Each day ahead
is lake black. Bells, still.

God popped like a balloon
when I looked directly.

Songs just clank the fetters.
I remember ergo sum.

I never needed to dig graves.
Everyone, a terminal,

a terminal of photons,
irritating rackets,
generosity, gently extinguishing
fire,
which is nothing special.

All of them.
The people ran for the boats.

I stayed to ring the bell. I’ve forgotten
their faces but I remember their white aprons with eyelets,
leather hoods with spark burns, small shoes, the sound of them
all typing at once, their little worn dice, worn to beads.
Blue and pink charms, cassocks, gold chains they shared.
They dragged mom’s body and dad’s body as far as they could on the beach.
They scattered into a shoreless sea.
And you want to be happy.

Campane

Una casa, niente di speciale,

un terreno, uno spazio vuoto,

con un calendario sul muro. Ogni giorno a venire
è nero come un lago. Eppure, le campane.

Dio è scoppiato come un palloncino
non appena l’ho guardato.

Le canzoni scuotono le catene, nient’altro.
Mi ricordo ergo sum.

Non ho mai avuto bisogno di scavare tombe.
Ogni persona, un capolinea,

un capolinea di fotoni,
un baccano fastidioso,
generosità, un fuoco che si spegne
piano,
niente di speciale.

Tutti loro.
La gente corre verso le barche.

Io sono rimasta per suonare la campana. Ho dimenticato
le loro facce ma ricordo i loro grembiuli bianchi orlati di pizzo,
cappucci di pelle bruciacchiati, scarpe piccole, il suono
di tutti loro che scrivono a macchina contemporaneamente,
i loro piccoli dadi consumati, tanto da sembrare perline.
Ciondoli rosa e blu, abiti talari, catene d’oro condivise.
Hanno trascinato i corpi di mamma e di papà sulla spiaggia più lontano che potevano.
Sparsi in un mare senza riva.
E tu vorresti essere felice.

bee in jar

You cannot help knowing, said Tolstoy.
The world is a distance to go.
Remember, once you were good for nothing
and you didn’t know it.

Cedar branches live a little while on the fire.
Some young swallows
cover some sea then
turn back on their first migration.

Only matter can
be transformed.
Transformed into matter.
Things that are not matter
cannot be transformed.

The key is cut by the lock.
You will code then decode your mind.
You will save yourself.
You cannot help it.

l’ape nel barattolo

Non si può fare a meno di sapere, diceva Tolstoj.
Il mondo è una distanza da percorrere.
Ricordati, una volta eri un buono a nulla
e non lo sapevi.

I rami di cedro vivono ancora per un po’ mentre bruciano.
Alcune giovani rondini
percorrono un po’ di mare poi
tornano indietro durante la loro prima migrazione.

Solo la materia può
essere trasformata.
Trasformata in materia.
Le cose che non sono materia

non possono essere trasformate.

La chiave assume la forma del lucchetto.Programmerai e decifrerai la tua mente.
Ti salverai.
Non puoi farne a meno.

in the morning, before anything bad happens

The sky is open
all the way.

Workers upright on the line
like spokes.

I know there is a river somewhere,
lit, fragrant, golden mist, all that,

whose irrepressible birds
can’t believe their luck this morning
and every morning.

I let them riot
in my mind a few minutes more
before the news comes.

di mattina, prima che accada qualcosa di brutto

Il cielo è aperto
da parte a parte.

Operai dritti sulla linea
come raggi.

So che da qualche parte c’è un fiume,
illuminato, fragrante, nebbia dorata, tutto quanto,

con i suoi uccelli irrefrenabili
che stamattina non riescono a credere ai loro occhi
come ogni mattina.

Li lascio sfogarsi
nella mia mente qualche minuto ancora
prima che la notizia arrivi.

come and see

The far away
asphalt lot
covered over in fog
& lit raw gold by
one lamppost
against night.
The terminal
helplessness
of one creature
without its others.

I saw the owl’s wings
but no owl.
The slow-mo mushrooms.
I taught my hands to work
to keep them away
from each other. Rasp,
awl, the block plane, the spirit
level. The needle
one holds, which sharpens
which? Still, I was separate.
Still they
were where
the song came from.

The light from our closest star
is not starlight, it being
just one.
I saw Michigan, sunk home, from space
in a moment, and I hadn’t cried
until just then, in the dark
kitchen, no hands
to close over my face.

vieni a vedere

Il parcheggio d’asfalto
così lontano
ricoperto di nebbia
e illuminato d’oro crudo da
un lampione
contro la notte.
La fragilità
terminale
di una creatura
senza i suoi altri.

Ho visto le ali del gufo
ma nessun gufo.
I funghi al rallentatore.
Ho insegnato alle mie mani a lavorare
per tenerle staccate
l’una dall’altra. Lima,
punteruolo, pialla, la livella
in bolla. L’ago
che si tiene in mano, che affila
cosa? Eppure, ero separata.
Eppure era
da lì che
veniva la canzone.

La luce dalla stella più vicina a noinon è luce di stelle, perché è
soltanto una.
Ho visto il Michigan, sono sprofondata a casa, dallo spazio,
in un istante, e non avevo pianto
fino a quel momento, nella cucina
buia, senza mani
in cui nascondere il volto.

Molly Brodak, The Cipher (2020, Pleiades Press)

Sul silenzio – Intervista a Jon Fosse

Introduzione a cura di Margherita Podestà Heir. Intervista a cura di Fausto Paolo Filograna. Traduzione dall’inglese di Virginia Ciampi.

Su L’altro nome. Settologia (La nave di Teseo, 2021)

Copertina di Settologia di Jon Fosse

Settologia, L’altro nome. Non manca molto a Natale. Asle è un anziano pittore che vive su un fiordo imprecisato della Norvegia occidentale. Da quando sua moglie Ales è morta, conduce un’esistenza isolata e frugale. I pochi contatti che ha sono con il vicino Åsleik, che, unico erede di una misera fattoria, lo rifornisce di pesce, carne di agnello affumicata e legna, in cambio di un quadro da regalare ogni Natale alla sorella.

Asle, che è sempre stato fedele alla sua personale concezione dell’arte, ha un grande ammiratore nel gallerista Beyer, che tutti gli anni, durante il periodo dell’Avvento, allestisce a Bjørgvin una mostra con le sue opere.

Sempre a Bjørgvin, una città che per molti versi ricorda Bergen, Asle ha un amico. Ha il suo stesso nome, è anche lui pittore, ma ha il vizio di bere. Mentre sta rientrando a casa dopo una visita al gallerista, Asle ha la sensazione che l’amico si trovi in uno stato di declino mentale e fisico tale da decidere di ritornare in città per andare a trovarlo. La situazione è gravissima.

Nei vari squarci retrospettivi che si alternano nella mente del protagonista, vediamo Asle, ancora piccolo con la sorellina, e Asle da giovane, follemente innamorato di una ragazza. Momenti luminosi che però vengono contaminati da episodi molto bui – un bambino che annega cadendo dalla barca, un abitante del villaggio che è un pedofilo. Come se lo scrittore volesse rimarcare che la vita del protagonista avrebbe potuto assumere una piega diversa.

Proprio come Asle ricerca nei suoi quadri il contrasto tra luce e oscurità, così fa Jon Fosse. La sua narrazione procede senza sosta, non è ancorata a tempi e luoghi concreti. La scrittura è sobria, asciutta, ma al contempo impalpabile. Per creare questo effetto, il testo ha solo virgole, nessuno punto. Questa è stata per me la sfida maggiore. Riprodurre la musicalità, la fluidità che l’opera ha in norvegese. Per questo motivo, ho tradotto parlando e ripetendo il testo ad alta voce fino a quando, con grande umiltà, mi è sembrato di aver raggiunto la potenza espressiva di questi primi due volumi della Settologia.

Sta al lettore giudicare se ci sono riuscita.

M. P. H.


1. Perché hai scritto Settologia in prosa? E come sono state concepite le scene di Settologia?

Per moltissimi anni ho scritto principalmente per il teatro, fino ad ora ho scritto circa trenta opere teatrali, con più di mille spettacoli un po’ ovunque (ma la maggior parte in Europa). Ho anche viaggiato molto per vedere spettacoli. Poi, per varie ragioni, ho deciso di smettere di scrivere per il teatro e di ripartire da dove avevo iniziato, a scrivere il mio genere di prosa e poesia. Il mio primo libro pubblicato è stato, in ogni caso, il romanzo Red, Black, uscito nel 1983.

Durante gli ultimi dieci anni ho, principalmente, scritto Trilogia e Settologia (e tradotto molto, soprattutto opere teatrali, e scritto versioni di tragedie greche, ad esempio).

Semplicemente ho deciso di smettere di scrivere per il teatro, di non viaggiare per vedere spettacoli, di scrivere principalmente prosa. Ho anche immaginato di scrivere una sorta di “prosa lenta”; con questa espressione intendevo scrivere in modo tale da darmi abbastanza tempo o spazio per sviluppare qualsiasi cosa volessi e, oltre a ciò, da lasciare che il processo prendesse quanto più tempo, o quante più parole, volessi. Scrivere numerose pagine soltanto su un momento, ad esempio. E, forse, l’intera Settologia è solo un momento?

Un’ opera teatrale, almeno nel modo in cui la scrivo io, non necessita di molta azione, ma ha bisogno di un’intensità molto forte, di un genere di intensità un po’ come quella dell’epifania in una buona poesia. Io, in qualche modo, volevo rifuggire l’intensità estenuante di un’opera teatrale e trasformarla in un altro tipo di intensità a cui il fluire della prosa potesse dar vita.

Quando inizio a scrivere non pianifico niente prima di sedermi e iniziare effettivamente. Non voglio sapere che cosa scriverò prima di scriverlo: perché scrivere se sai che cosa scriverai? Per me scrivere è un viaggio nell’ignoto . E per me la migliore metafora per la scrittura è l’ascolto. Ascolto qualcosa, ma non so cosa sia. Ad un certo momento ho la sensazione che il testo a cui sto lavorando, che sia un’opera teatrale o un romanzo, sia già stato scritto e in qualche modo esista fuori da me, non dentro me, e che semplicemente io debba metterlo su carta prima che scompaia. A volte lo scrivo senza cambiare niente, altre volte devo ricercarlo a lavoro già finito, omettendo, riscrivendo etc.

Quando ho iniziato Settologia non avevo nessun piano di scrivere un romanzo, ma dopo averlo completato avevo scritto circa 1500 pagine; era molto più lungo di qualsiasi cosa avessi mai scritto prima. Il romanzo era organizzato in sette parti. Quando stava per essere pubblicato sia gli editori, sia io, pensavamo fosse la cosa migliore pubblicarlo in tre volumi, e così è stato pubblicato in norvegese e in numerose altre lingue – o sta per esserlo. Ma dal momento che è un solo romanzo, era mio desiderio, alla fine, che fosse anche pubblicato in un solo libro, e da adesso è disponibile in un unico volume, in norvegese e in inglese.

Soltanto le parti I e II sono state pubblicate ad ora in Italia, ma le parti III, IV e V usciranno in un secondo volume, e la VI e la VII in una terza.

2. W. G. Sebald dice che l’unità metrica del suo libro è la pagina. Leggendo le parti I e II abbiamo osservato che sono prive di punti; qual è la tua unità metrica?

Scrivo anche poesia, incluse poesie in metrica (come i sonetti), ma la cosa più importante, anche per una poesia del genere, non è l’unità metrica, che la rende simile ad una marcia, ma il ritmo. Tutti sanno cos’è il ritmo, ma dire cos’è è quasi impossibile tanto quanto dire cos’è il tempo, anche se tutti sanno cos’è il tempo.

Il formato di una pagina ha, certamente, a che fare con il formato del font utilizzato; quindi, non capisco realmente cosa intende Sebald. Per me, sicuramente, non è la pagina. Forse posso dire che l’unità metrica, o, piuttosto, ritmica, della prosa è l’onda; le onde sono grandi o piccole, si muovono lentamente, o sono veloci. Ma più che paragonare la mia prosa alla poesia in metrica, in realtà io penso ci si avvicini di più paragonandola ad una composizione musicale.

3. Ci saranno dei punti nei volumi successivi?

No. Ho finito per scrivere l’intero romanzo in un unico flusso, senza usare alcun punto. Quindi, in un certo senso, l’intero romanzo è un unico periodo, o la cosa migliore è, forse, dire che è scritto in sette periodi, anche se nessuna delle sette parti finisce con un punto. Nonostante ciò, il romanzo nella sua totalità è un fluire unico.

Quando ho iniziato a scrivere non avevo pianificato di scriverlo così, ho solo sentito fosse la cosa giusta. È accaduto e basta. E l’arte accade, come ha scritto Heidegger.

4. Leggendo L’altro nome, mi sono ricordato che Sant’Agostino ha detto: “Il desiderio prega sempre anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre”. Intendo dire che le tue parole, anche se dovrebbero possedere un suono, sono più simili al silenzio che alle normali parole. Che ne pensi? E come ti sei sentito scrivendo questo libro?

Sono d’accordo su tutto! Io stesso molti anni fa ho detto che per me scrivere è pregare, che è il mio modo di pregare. Mi sono sentito stupido quando l’ho detto, ma poi ho letto da qualche parte che Kafka aveva detto proprio la stessa cosa riguardo alla sua scrittura.

Ogni grande opera d’arte dice molto, ma in maniera silenziosa. Si pensi, ad esempio, ai dipinti di Rothko. Per me la stessa cosa vale per la letteratura.

Su tutt’altro piano, sono sicuro che nel caso si possa sentire la voce di Dio, allora è in silenzio.

5. Qual è la relazione tra le tue opere e quelli che vengono chiamati i morti? In Mattino e sera dici che il cosiddetto mondo dei morti è un mondo senza parole.

Senza le parole nel modo in cui sono nel mondo dei vivi, senza dubbio. Forse, dall’altra parte tutto può essere compreso e non c’è nessun bisogno delle parole; normalmente fraintendiamo tanto quanto capiamo con le parole. Ma non so niente di cosa ci sia dall’altra parte, nessuno lo sa, naturalmente, quindi non sento la necessità di specularci su.

In Mattino e sera seguo l’uomo che sta per morire, o l’uomo morto, fino a quando le parole possono seguirlo, fino a quando egli, almeno nella finzione, è dentro questo mondo; quando fa ingresso dall’altra parte non ho parole da spendere a riguardo, dal momento che il suo amico morto lo sta informando, o lo sta istruendo.

6. In Italia, al momento, si può leggere solo L’altro nome, ovvero le parti I e II della tua Settologia. Che cosa ci dobbiamo aspettare dagli ultimi due arrivi?

Dovete aspettare e vedere. Ma, se volete, si può leggere l’intero romanzo in inglese, in realtà la stessa traduzione in tre edizioni diverse, una per il Regno Unito, una per gli Stati Uniti e una per l’Australia. Tutti e tre bellissimi libri.

7. Quali sono i tuoi scrittori o poeti viventi preferiti?

Non penso di averne. I miei preferiti sono tutti tra gli scrittori morti, come Kafka e Virginia Woolf. O come Georg Trakl. O come Chekov.

Recentemente, però, ho tradotto un romanzo dello scrittore australiano Gerhard Murnane (The Fields) ed ammiro la sua opera, al momento sto leggendo i suoi romanzi.

8. Cosa consiglieresti a un giovane scrittore?

Ascolta te stesso, la tua voce interiore, non cosa dicono o pensano le altre persone. Se ottieni ottime recensioni o feedback di qualsiasi tipo, non lasciare che ti influenzi e influenzi il tuo modo di scrivere, e lo stesso al contrario, se ricevi risposta negativa, non dargli spazio o potere di alcun tipo.

A cura di F. P. F. e V. C.


Jon Fosse è uno dei più importanti scrittori viventi. Forse non dei più conosciuti, ma questo è un altro discorso. Nato nel 1959 in Norvegia, vive nel Grotten, una residenza del 1823 datagli in affido dal re di Norvegia per i suoi meriti in campo letterario. Dal 1983 i suoi lavori sono apparsi in tutto il mondo, tradotti in oltre 40 lingue, le sue opere teatrali attualmente rappresentate più di 1000 volte, ha pubblicato romanzi, saggi, libri per bambini, poesie, sonetti. Gli abbiamo chiesto della prima parte di Settologia, uscita lo scorso anno per La nave di Teseo. Settologia è la sua prosa finora più imponente: 1500 pagine, divise in sette parti raggruppate in tre volumi, di cui finora in Italia è uscito solo il primo, tradotto in italiano da Margherita Podestà Heir col titolo L’altro nome.


Margherita Podestà Heir vive a Oslo dal 1994. Ha tradotto al momento oltre sessanta opere letterarie, in particolare dal norvegese, ma anche dallo svedese e dal danese. Tra gli scrittori contemporanei più importanti: Karl Ove Knausgård, Vigdis Hjort, Jon Fosse, Jostein Gaarder e Jonas Jonasson.

L’abbraccio del mondo: tre poesie di Abdellatif Laâbi

Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Raphael Louvet.

“Nato presumibilmente nel 1942 a Fes. Le viuzze e i cimiteri. L’eredità, un bel fiasco. O meglio, un imbastardimento. Il paese pietrificato, tanto vale specializzarsi nell’ibernazione dei licheni. Ma ci sono le ascelle fulve, i tatuaggi, l’ignoranza che fa esplodere parole muscolose”.

Così descrive se stesso il poeta e traduttore marocchino Abdellatif Laâbi, in occasione della pubblicazione del primo numero della rivista Souffles, nel 1966. Nel giro di qualche numero, questa rivista collettiva dove compaiono voci tra le più importanti del nuovo spazio letterario marocchino (Mohammed Khaïr-Eddine, Mostafa Nissaboury) fa saltare in aria i codici letterari e morali del Marocco conservatore di re Hassan II. Interrogandosi su questioni come l’uso del francese e lo statuto dello scrittore colonizzato, questi scrittori criticano l’immobilismo della cultura nazionale e le nuove narrazioni nazionaliste del giovane Marocco decolonizzato, che paralizzano l’espressione letteraria. La rivista presto si apre a posizioni terzomondiste, accogliendo intellettuali e scrittori. La reazione, però, non si fa attendere: nel 1971, Abdellatif Laabi viene torturato e incarcerato. Quando esce di prigione, otto anni più tardi, si esilia in Francia e si stabilisce a Créteil, nella banlieue parigina, dove attualmente vive con la moglie Jocelyne Laâbi.

La sua è una poesia profondamente impegnata nelle lotte per l’emancipazione, in modo particolare contro l’oppressione del regime marocchino, e viene concepita come una risposta risoluta al “regno della barbarie”. Laâbi vi affronta la questione dell’esilio, ma anche quella del difficile ritorno al paese natale, qui presente nelle poesie tradotte da Le Spleen de Casablanca. Nonostante questo peso, la ricerca poetica di Abdellatif Laâbi è un percorso di umanità e la sua scrittura è sempre carica di speranza. La lingua viene concepita come uno spazio di resistenza e di ospitalità – un luogo dove riprendere fiato -, dove l’esiliato crea una patria sognata, un “sole fraterno” e una libertà inalienabile.  

Dopo le prime poesie sulla rivista Souffles, Abdellatif Laâbi ha pubblicato numerose raccolte, tra le quali vale la pena citare Sous le bâillon le poème (1981), scritta in prigione, L’Étreinte du monde (1993), Le Spleen de Casablanca (1996)  e Les fruits du corps (2003), un’esplorazione del desiderio e della sessualità. Si è speso molto anche nel ruolo di “mediatore” di poeti siriani e palestinesi, pubblicando per Les Éditions de Minuit due magnifiche traduzioni del grande poeta palestinese Mahmoud Darwich, Rien qu’une autre année (1983) et Plus rares sont les roses (1989). Più recentemente, ha pubblicato per la casa editrice Points una Anthologie de la poésie palestinienne d’aujourd’hui (2022), che ha il merito di far conoscere al pubblico francese le voci di una nuova generazione di poeti e poete.


da L’Étreinte du monde (1993)

En vain j’émigre

J’émigre en vain
Dans chaque ville je bois le même café
et me résigne au visage fermé du serveur
Les rires de mes voisins de table
taraudent la musique du soir
Une femme passe pour la dernière fois
En vain j’émigre
et m’assure de mon éloignement
Dans chaque ciel je retrouve un croissant de lune
et le silence têtu des étoiles
Je parle en dormant
un mélange de langues
et de cris d’animaux
La chambre où je me réveille
est celle où je suis né
J’émigre en vain
Le secret des oiseaux m’échappe
comme celui de cet aimant
qui affole à chaque étape
ma valise

Emigro invano

Emigro invano
In ogni città bevo lo stesso caffè
e mi rassegno al volto chiuso del cameriere
Le risate dei miei vicini di tavolo
inseguono la musica della sera
Una donna passa per l’ultima volta
Invano emigro
e mi assicuro di essere lontano
In ogni cielo ritrovo una falce di luna
e il silenzio testardo delle stelle
Parlo nel sonno
una miscela di lingue
e grida di animali
La stanza in cui mi sveglio
è quella dove sono nato
Emigro invano
Il segreto degli uccelli mi sfugge
come quello di questa calamita
che incalza ad ogni tappa
la mia valigia

La langue de ma mère

Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans
Elle s’est laissée mourir de faim
On raconte qu’elle enlevait chaque matin
son foulard de tête
et frappait sept fois le sol
en maudissant le ciel et le Tyran
J’étais dans la caverne
là où le forçat lit dans les ombres
et peint sur les parois le bestiaire de l’avenir
Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans
Elle m’a laissé un service à café chinois
dont les tasses se cassent une à une
sans que je les regrette tant elles sont laides
Mais je n’en aime que plus le café
Aujourd’hui, quand je suis seul
j’emprunte la voix de ma mère
ou plutôt c’est elle qui parle dans ma bouche
avec ses jurons, ses grossièretés et ses imprécations
le chapelet introuvable de ses diminutifs
toute l’espèce menacée de ses mots
Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans
mais je suis le dernier homme
à parler encore sa langue

La lingua di mia madre

Non vedo mia madre da vent’anni
Si è lasciata morire di fame
Raccontano che si togliesse ogni mattina
il fazzoletto dalla testa
e colpisse sette volte a terra
maledicendo il cielo ed il Tiranno
Ero nella caverna
lì dove il galeotto legge nelle ombre
e dipinge sulle pareti il bestiario del futuro
Non vedo mia madre da vent’anni
Mi ha lasciato un servizio da caffè cinese
con le tazze che si rompono una a una
e sono così brutte che non le rimpiango
Ma il caffè, lo amo di più
Oggi, quando sono solo
prendo in prestito la voce di mia madre
o meglio, è lei che mi parla nella bocca
con le sue parolacce, le volgarità e le imprecazioni
l’introvabile rosario dei suoi diminutivi
tutta la specie minacciata delle sue parole
Non vedo mia madre da vent’anni
ma sono l’ultimo uomo
che parla ancora la sua lingua

da Le spleen de casablanca (1996)

Le spleen de Casablanca

Dans le bruit d’une ville sans âme
j’apprends le dur métier du retour
Dans ma poche crevée
je n’ai que ta main
pour réchauffer la mienne
tant l’été se confond avec l’hiver
Où s’en est allé, dis-moi
Le pays de notre jeunesse ?

*

Ô comme tous les pays se ressemblent
et se ressemblent les exils
Tes pas ne sont pas de ces pas
qui laissent des traces sur le sable
Tu passes sans passer

*

Visage après visage
meurent les ans
Je cherche dans les yeux une lueur
un bourgeon dans les paroles
Et j’ai peur, très peur
de perdre encore un vieil ami

*

Je me sentirai perdu
à tout âge

*

Je ne suis pas ce nomade
qui cherche le puits
que le sédentaire a creusé
Je bois peu d’eau
et marche
à l’écart de la caravane

*

Le siècle prend fin
dit-on
et cela me laisse indifférent
Quoique le suivant
ne me dise rien qui vaille

*

Dans la cité de ciment et de sel
ma grotte est de papier
J’ai une bonne provision de plumes
et de quoi faire du café
Mes idées n’ont pas d’ombre
pas plus d’odeur
Mon corps a disparu
Il n’y a plus que ma tête
dans cette grotte de papier

*

J’essaie de vivre
La tâche est ardue

Lo spleen di Casablanca

Nel rumore di una città senz’anima
imparo il difficile mestiere del ritorno
Nella tasca bucata
non ho che la tua mano
per riscaldare la mia
tanto l’estate si confonde con l’inverno
Dove se n’è andato, dimmi
Il paese della nostra gioventù ?

*

Oh come tutti i paesi si assomigliano
e si assomigliano gli esilii
I tuoi passi non sono quel tipo di passi
che lasciano tracce sulla sabbia
Passi senza passare

*

Viso dopo viso
Muoiono gli anni
Cerco negli occhi un barlume
un germoglio nelle parole
E ho paura, molta paura
di perdere ancora un vecchio amico

*

Mi sentirò perso
a qualsiasi età

*

Non sono quel nomade
in cerca del pozzo
che il sedentario ha scavato
Bevo poca acqua
e cammino
discosto dalla carovana

*

Il secolo sta per finire
dicono
e ciò mi lascia indifferente
Per quanto il prossimo
non mi dica nulla di buono

*

Nella città di cemento e di sale
la mia grotta è di carta
Ho una buona riserva di penne
e ciò che serve per fare il caffè
Le mie idee non hanno ombra
Nemmeno odore
Il mio corpo è scomparso
C’è solo la mia testa
in questa grotta di carta

*

Cerco di vivere
Il compito è arduo

“Noi siamo coloro che stiamo aspettando”: quattro poesie di June Jordan

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Lucrezia Bivona.

Nata a Harlem nel 1936 e cresciuta a Bedford-Stuyvesant, quartiere di Brooklyn, June Jordan è stata una voce essenziale della poesia americana del secondo Novecento. Autrice estremamente prolifica, si è cimentata nei generi più disparati, dalla poesia al romanzo, dal teatro alla letteratura per bambini, sempre portando avanti un impegno politico importante e resistente in tutti gli ambienti che si è trovata a frequentare, tra cui quello universitario e dell’istruzione. Ha sempre insegnato con la convinzione di educare al cambiamento sociale, lavorando a fianco di scrittrici dai simili intenti e presupposti come Adrienne Rich, Toni Cade Bambara e Audre Lorde, e credendo fermamente insieme a loro nel potere trasformativo della scrittura in versi

Cresciuta in una famiglia di origini giamaicane, il complesso rapporto con il padre e con le aspettative imposte dall’interno segna profondamente la sua vita e la sua scrittura. La sua è una poesia che trae dall’inglese colloquiale e vernacolare la propria forza comunicativa, per trattare argomenti come la famiglia, la sessualità, il corpo, l’autodeterminazione, l’oppressione razziale e politica. Il linguaggio di Jordan è lirico e personale, diretto e fortemente autobiografico. Una poesia scritta apertamente per le persone che la leggono.

Galleria di foto di June Jordan

da Some Changes (1971)

My sadness sits around me

My sadness sits around me
    not on haunches not in any
    placement near a move
and the tired roll-on
of a boredom without grief

If there were war
I would watch the hunting
I would chase the dogs
and blow the horn
because blood is commonplace

As I walk in peace  
    unencountered unmolested    
    unimpinging unbelieving unrevealing    
    undesired under every O
My sadness sits around me

Mi siede attorno la mia tristezza

Mi siede attorno la mia tristezza
    non sulle cosce non in nessuna
    posizione che implichi un movimento
e l’oscillare stanco
di una noia senza dolore

Se ci fosse una guerra
baderei alla caccia
inseguirei i cani
e suonerei il corno
perché il sangue è una cosa banale

Mentre cammino tranquilla
    senza incontri senza intralci
    senza lesioni senza credo senza epifanie
    indesiderata in qualsiasi Oh
Mi siede attorno la mia tristezza

da living room (1985)

Notes towards Home

My born on 99th Street uncle when he went to Canada
used to wash and polish the car long before coffee
every morning outside his room in the motel
“Because,” he said, “that way they thought I lived
around there; you ever hear of a perfectly clean car
traveling all the way from Brooklyn to Quebec?”

My mother left the barefoot roads of St. Mary’s
in Jamaica for the States where she wore
stockings even in a heat wave and repeatedly
advised me never to wear tacky underwear
“That way,” she said, “if you have an accident
when they take you to a hospital they’ll know you
come from a home.”

After singing God Bless America Kate Smith
bellowed the willies out of Bless This House O
Lord We Pray/Make It Safe By Night and Day
but my cousin meant Lord keep June
and her Boris Karloff imitations out of the hall
and my mother meant Lord keep my husband out
of my way and I remember I used to mean Lord
just pretty please get me out of here!

But everybody needs a home
so at least you have someplace to leave
which is where most other folks will say
you must be coming from

Appunti su casa mia

Mio zio nato sulla novantanovesima quando andava in Canada
lavava e lucidava la macchina molto prima di prendere il caffè
ogni mattina fuori dalla sua stanza del motel
“Perché”, diceva, “così pensavano che vivessi
in zona; hai mai sentito di una macchina perfettamente pulita
dopo un viaggio da Brooklyn fino al Quebec?”

Mia madre aveva lasciato le strade scalze di St. Mary
in Giamaica per gli Stati Uniti dove portava
le calze anche durante le ondate di calore di continuo
mi ricordava di non portare mai biancheria intima kitsch
“Così”, diceva, “se fai un incidente
quando ti portano all’ospedale sapranno
che hai una casa.”

Dopo aver cantato Dio benedica l’America Kate Smith
ci faceva venire i brividi con Benedici Questa Casa
Signore Preghiamo/Rendila Sicura di Notte e di Giorno
ma mia cugina intendeva Signore tieni June
e le sue imitazioni di Boris Karloff lontano da qui
e mia madre intendeva Signore tieni mio marito lontano
da me e io ricordo che intendevo Signore
soltanto ti prego per favore fammi andare lontano da qui!

Ma a tutti serve una casa
così almeno hai un posto da lasciare
e la maggior parte della gente dirà
che è il posto da dove vieni

da Haruko/Love Poems (1994)

Poem about Heartbreak That Go On and On

bad love last like a big
ugly lizard crawl around the house
forever
never die
and never change itself

into a butterfly

Poesia sui cuori spezzati che non si riparano mai

l’amore cattivo dura quanto una grossa
brutta lucertola che striscia sotto la casa
per sempre
senza mai morire
e senza mai trasformarsi

in una farfalla

da passion (1980)

Poem About My Rights

Even tonight and I need to take a walk and clear
my head about this poem about why I can’t
go out without changing my clothes my shoes
my body posture my gender identity my age
my status as a woman alone in the evening/
alone on the streets/alone not being the point/
the point being that I can’t do what I want
to do with my own body because I am the wrong
sex the wrong age the wrong skin and
suppose it was not here in the city but down on the beach/
or far into the woods and I wanted to go
there by myself thinking about God/or thinking
about children or thinking about the world/all of it
disclosed by the stars and the silence:
I could not go and I could not think and I could not
stay there
alone
as I need to be
alone because I can’t do what I want to do with my own
body and
who in the hell set things up
like this
and in France they say if the guy penetrates
but does not ejaculate then he did not rape me
and if after stabbing him if after screams if
after begging the bastard and if even after smashing
a hammer to his head if even after that if he
and his buddies fuck me after that
then I consented and there was
no rape because finally you understand finally
they fucked me over because I was wrong I was
wrong again to be me being me where I was/wrong
to be who I am
which is exactly like South Africa
penetrating into Namibia penetrating into
Angola and does that mean I mean how do you know if
Pretoria ejaculates what will the evidence look like the
proof of the monster jackboot ejaculation on Blackland
and if
after Namibia and if after Angola and if after Zimbabwe
and if after all of my kinsmen and women resist even to
self-immolation of the villages and if after that
we lose nevertheless what will the big boys say will they
claim my consent:
Do You Follow Me: We are the wrong people of
the wrong skin on the wrong continent and what
in the hell is everybody being reasonable about
and according to the Times this week
back in 1966 the C.I.A. decided that they had this problem
and the problem was a man named Nkrumah so they
killed him and before that it was Patrice Lumumba
and before that it was my father on the campus
of my Ivy League school and my father afraid
to walk into the cafeteria because he said he
was wrong the wrong age the wrong skin the wrong
gender identity and he was paying my tuition and
before that
it was my father saying I was wrong saying that
I should have been a boy because he wanted one/a
boy and that I should have been lighter skinned and
that I should have had straighter hair and that
I should not be so boy crazy but instead I should
just be one/a boy and before that
it was my mother pleading plastic surgery for
my nose and braces for my teeth and telling me
to let the books loose to let them loose in other
words
I am very familiar with the problems of the C.I.A.
and the problems of South Africa and the problems
of Exxon Corporation and the problems of white
America in general and the problems of the teachers
and the preachers and the F.B.I. and the social
workers and my particular Mom and Dad/I am very
familiar with the problems because the problems
turn out to be
me
I am the history of rape
I am the history of the rejection of who I am
I am the history of the terrorized incarceration of
myself
I am the history of battery assault and limitless
armies against whatever I want to do with my mind
and my body and my soul and
whether it’s about walking out at night
or whether it’s about the love that I feel or
whether it’s about the sanctity of my vagina or
the sanctity of my national boundaries
or the sanctity of my leaders or the sanctity
of each and every desire
that I know from my personal and idiosyncratic
and indisputably single and singular heart
I have been raped
be-
cause I have been wrong the wrong sex the wrong age
the wrong skin the wrong nose the wrong hair the
wrong need the wrong dream the wrong geographic
the wrong sartorial I
I have been the meaning of rape
I have been the problem everyone seeks to
eliminate by forced
penetration with or without the evidence of slime and/
but let this be unmistakable this poem
is not consent I do not consent
to my mother to my father to the teachers to
the F.B.I. to South Africa to Bedford-Stuy
to Park Avenue to American Airlines to the hardon
idlers on the corners to the sneaky creeps in
cars
I am not wrong: Wrong is not my name
My name is my own my own my own
and I can’t tell you who the hell set things up like this
but I can tell you that from now on my resistance
my simple and daily and nightly self-determination
may very well cost you your life

Poesia sui miei diritti

Anche stanotte ho bisogno di fare una passeggiata per schiarirmi
le idee su questi versi sul perché non posso
uscire senza cambiare i vestiti le scarpe
la mia postura la mia identità di genere la mia età
il mio status in quanto donna sola di sera/
sola per strada/sola non è questo il punto/
il punto è che non posso fare ciò che voglio
fare con il mio stesso corpo perché sono del
sesso sbagliato dell’età sbagliata di pelle sbagliata e
metti che non fossi qui in città ma giù in spiaggia/
o nel folto della foresta e che volessi andarci
da sola mentre penso a Dio/o mentre penso
ai bambini o mentre penso al mondo/tutto questo
rivelato dalle stelle e dal silenzio:
non potrei andare e non potrei pensare e non potrei
stare lì
da sola
come avrei bisogno
da sola perché non posso fare quello che voglio con il mio
corpo e
chi cazzo ha deciso che doveva essere
così
e in Francia dicono che se l’uomo penetra
ma non eiacula allora non mi ha stuprata
e se dopo averlo colpito se dopo le grida se
dopo aver implorato il bastardo e se perfino dopo avergli spaccato
un martello in testa se anche dopo tutto questo se lui
e i suoi amici mi scopano dopo tutto questo
allora ero consenziente e non c’è stato
nessuno stupro perché alla fine capisci alla fine
mi hanno scopata perché avevo torto avevo
torto di nuovo a essere me essendo me lì dove avevo/torto
nell’essere chi sono
che è esattamente come il Sudafrica
che penetra in Namibia penetrando in
Angola e questo significa voglio dire come fai a dire se
Pretoria eiacula come lo dimostri qual è la
prova che il mostro totalitarista ha eiaculato sulla Blackland
e se
dopo la Namibia e se dopo l’Angola e se dopo lo Zimbabwe
e se dopo tutti i miei consanguinei e le donne resistono perfino
all’autosacrificio dei villaggi e se dopo questo
comunque perdiamo cosa diranno i bestioni rivendicheranno o no
il mio consenso
Mi Segui: Noi siamo il popolo sbagliato dalla
pelle sbagliata sul continente sbagliato e cosa cazzo
fanno i ragionevoli tutti quanti
e secondo il Times questa settimana
già nel 1966 la C.I.A. aveva deciso che avevano questo problema
e il problema era un uomo di nome Nkrumah e quindi
lo uccisero e prima di lui era Patrice Lumumba
e prima ancora era mio padre nel campus
della mia università dell’Ivy League e mio padre con la paura
di entrare nella caffetteria perché diceva di essere
sbagliato l’età sbagliata la pelle sbagliata l’identità
di genere sbagliata e mi pagava la retta e
prima di questo
era mio padre a dire che sbagliavo a dire che
sarei dovuta essere un maschio perché lui lo desiderava/un
maschio e che sarei dovuta essere di pelle più chiara e
che avrei dovuto avere capelli più lisci e che
non sarei dovuta andare dietro ai maschi ma piuttosto sarei
dovuta essere uno di loro/un maschio e prima di questo
era mia madre a suggerire la chirurgia plastica per
il mio naso e l’apparecchio per i miei denti e a dirmi
di lasciar perdere un po’ i libri di lasciarli perdere in altre
parole
conosco molto bene i problemi della C.I.A.
e i problemi del Sudafrica e i problemi
della Exxon Corporation e i problemi dell’America
bianca in generale e i problemi degli insegnanti
e dei sacerdoti e dell’F.B.I. e degli assistenti
sociali e dei miei specifici Mamma e Papà/conosco molto
bene i problemi perché i problemi
si rivelano essere
me
io sono la storia dello stupro
io sono la storia del rifiuto di chi sono
io sono la storia dell’incarcerazione terrorizzata di
me stessa
io sono la storia di percosse e violenza e eserciti
senza confini contro tutto ciò che voglio fare con la mia mente
e il mio corpo e la mia anima e
che sia passeggiare per la strada di notte
o l’amore che provo o
la santità della mia vagina o
la santità dei miei confini nazionali
o la santità dei miei leader o la santità
di ogni singolo desiderio
che viene dal mio intimo e idiosincratico
e indiscutibilmente unico e singolare cuore
sono stata stuprata
per-
ché ero sbagliata il sesso sbagliato l’età sbagliata
la pelle sbagliata il naso sbagliato i capelli sbagliati il
bisogno sbagliato il sogno sbagliato la geografia sbagliata
lo stile sbagliato io
io sono stata il significato dello stupro
io sono stata il problema che tutti cercano di
eliminare tramite penetrazione
forzata con o senza la prova dello sperma e/
ma che sia ben chiaro questa poesia
non è consenso io non acconsento
a mia madre a mio padre agli insegnanti al
F.B.I. al Sudafrica a Bedford-Stuy
a Park Avenue all’American Airlines ai fannulloni
arrapati agli angoli di strada ai pervertiti appostati nelle
loro macchine
Io non ho sbagliato: Sbagliata non è il mio nome
Il mio nome è mio soltanto mio mio
e non so dirti chi cazzo ha deciso che doveva essere così
ma posso dirti che d’ora in poi la mia resistenza
la mia semplice autodeterminazione ogni giorno e ogni notte
potrebbe benissimo costarti la vita

Copertina di Directed by Desire di June Jordan
Directed by Desire: The Collected Poems of June Jordan (Port Townsend, WA: Copper Canyon Press, 2005)

Lingue di fuoco e nuovi glossari: tre poesie di Seán Hewitt

Introduzione e traduzioni a cura di Andrea Bergantino, vincitore della prima Call for Translators per l’inglese.

Seán Hewitt, nato nel 1990, è critico letterario e insegna letteratura inglese e irlandese al Trinity College di Dublino. La sua prima raccolta integrale di poesie, Tongues of Fire, è stata pubblicata nel 2020 e ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Laurel Prize. La poesia di Seán Hewitt si sviluppa intorno a una costellazione di temi ricorrenti, diversi ma interconnessi attraverso i versi, tra cui il rapporto con le proprie origini, l’immersione nella natura, ricordi ed esperienze di vita quotidiana, nonché rielaborazioni di miti irlandesi, come quello dell’esilio di Suibhne. Oltre al rapporto con la natura e al dialogo con la propria storia personale, i versi di Hewitt contengono anche eco religiose e riferimenti alla sfera della sessualità, un tema, quest’ultimo, che si ritrova anche nel memoir All Down Darkness Wide, che esplora l’identità queer dello scrittore.

Delle tre poesie proposte di seguito in traduzione, accompagnate dall’originale, due sono tratte da Tongues of Fire, “Evening Poem” e “Oak Glossary”, mentre “Ancestry” è stata pubblicata su Poetry nel 2013. “Ancestry/Discendenza” e “Evening Poem/Poesia della sera” condividono la rievocazione di eventi e scene passati, che al tempo stesso è l’esplorazione di legami familiari, della propria storia personale. Partendo da stimoli quotidiani quali profumi e piccole azioni, questi componimenti evocano relazioni più profonde tra genitori e figli, vecchie e nuove generazioni. Tali connessioni non mancano in “Oak Glossary/Glossario delle querce”, dove l’albero si sostituisce all’uomo e al suo linguaggio, pur condividendo con lui vibrazioni e legami non sempre visibili in superficie. Questi versi di Seán Hewitt scavano per riportare alla luce rapporti e dinamiche naturali tramite allusioni poetiche: lasciano intendere, suonano familiari, ma non disvelano parole e verità ultime.


da poetry (2013)

Ancestry

The damp had got its grip years ago
but gone unnoticed. The heads of the joists feathered slowly in the cavity wall
and the room’s wet belly had begun to bow.

Once we’d ripped the boards up, it all came out: the smell, at first, then the crumbling wood gone to seed, all its muscles wasted.
You pottered back and to with tea, soda bread,

eighty years shaking on a plastic tray.
One by one we looked up, nodded, then slipped under the floor. We moved down there like fish in moonlight, or divers round an old ship.

Discendenza

L’umidità aveva stretto la sua presa anni prima, inosservata. Le estremità dei travetti
si erano sbriciolate nell’intercapedine
e il ventre bagnato della stanza si stava curvando.

Una volta rotti i pannelli, venne tutto fuori: l’odore, all’inizio, poi il legno vecchio ormai marcio, le fibre disfatte.
Tu andavi e venivi portando tè e pane,

ottant’anni che tremano su un vassoio di plastica.
Uno a uno abbiamo alzato lo sguardo e annuito, poi ci siamo infilati sotto il pavimento. Ci siamo mossi lì sotto come pesci
che nuotano intorno a una vecchia barca, alla luce della luna.

da tongues of fire (2020)

Evening Poem

What a world of apparitions: stifled warmth of the greenhouse, scent of tomatoes, my mother and I working closely

to shimmy the pots loose. Split sack of soil on the bench, glow
of a tealight in the jar,

and not a word between us. It is hard to tell where heaven starts, and where it ends:
me, a foot taller, standing

where her father stood,
and outside, look: the dove, like a paper lantern, is bobbing in the apple-blossom.

Poesia della sera

È un mondo di apparizioni:
il calore compresso della serra,
il profumo dei pomodori, mia madre e io che lavoriamo vicini

scuotendo i vasi.
Sacchi di terreno tagliati sulla panca, il bagliore
di una candela nel vetro,

e non una parola tra noi. È difficile dire dove il cielo comincia e dove finisce: me ne sto, solo più alto,

dove stava suo padre,
e fuori, guarda: una colomba,
come una lanterna di carta, dondola tra i fiori del melo.

Oak Glossary

In the language of the oak, sky is made by shivering the leaves to produce a hushing sound.
In winter, of course, sky is silent.

God is felt in the phloem and xylem as a deep echo of water – a low noise that must be observed by placing
an ear to the bark. For oaks, chanting

(which is akin to song) is produced via rhythms of air brought in and out of the branches in slow succession. On still days, song is not possible.

The familiar words, such as child, man, woman, are unknown, having fallen quiet from disuse. In oak, essential nouns include soil,

water and time – these are produced from their element. Water is a high and gentle noise of clearest quality which results from branches dripping.

For soil, or earth, a fastening of the roots can be felt as a low tension underfoot. Time, on the other hand, is more visual than aural, and is distinguished into

its linear and circular conceptions. As is well-known, circular time
in oak is communicated
most vividly at the site of a knot

or where the core has been exposed. The linear variety is felt only
on occasion. For this, sap is produced and is made to run from the body.

Glossario delle querce

Nella lingua delle querce, cielo
si fa scuotendo le foglie
per produrre un suono sommesso.
In inverno, naturalmente, cielo non si pronuncia.

Dio si sente in floema e xilema
come un’eco d’acqua profonda – un rumore basso da osservare poggiando
l’orecchio alla corteccia. Per le querce, cantare

(che è simile a canzone) si produce
tramite ritmi d’aria portata dentro e fuori dai rami in lenta successione.
Nei giorni di quiete, canzone non si può dire.

Le parole familiari come bambino, uomo, donna sono sconosciute, cadute in disuso. Per le querce
sostantivi essenziali includono suolo,

acqua e tempo – queste sono prodotte dai loro elementi. Acqua è un rumore alto e gentile di qualità chiarissima
che proviene dai rami grondanti.

Per suolo, o terra, si possono sentire
le radici allacciarsi, una tensione sotto i piedi. Tempo, invece, è più visivo
che uditivo, e si distingue nelle

sue concezioni lineari e circolari.
Com’è noto, il tempo circolare
tra le querce si comunica
nel più vivido dei modi nel punto di un nodo

o dove la parte centrale è esposta.
La varietà lineare si sente solo occasionalmente. Per questa si produce la linfa e la si fa scorrere dal corpo.

Copertina di Tongues of Fire di Seán Hewitt

Su “Autoritratto con sciame d’api” di Jan Wagner

Nota di lettura a cura di Beatrice Magoga.

Dopo la pubblicazione integrale di Variazioni sul barile dell’acqua piovana (Regentonnenvariationen, 2014), Jan Wagner torna in Italia con Autoritratto con sciame d’api, un’antologia interamente dedicata alla sua opera, dall’esordio di Prove di trivellazione in cielo (Probebohrung im Himmel, 2001) alla più recente Il live butterfly show (Die live butterfly show, 2018). Il progetto Bompiani, curato da Federico Italiano, prende le mosse dall’edizione originale tedesca del 2016, aggiungendovi una serie di più o meno rilevanti modifiche, comunque concordate da autore e curatore assieme.

Se anche un’antologia offre, per sua costituzione, una lettura “frustrata” dalla mancanza dei testi esclusi, quello che in un certo senso si guadagna è una comprensione agile ed estesa dei movimentidelle posture e delle attitudini del poeta. Nel caso di Jan Wagner, il profilo autoriale è almeno doppio. Si seguono, da un lato, gli spostamenti di un poeta-viaggiatore o poeta-turista che gravita attorno a oggetti noti, a piante e animali esotici o locali («bustina di té, carpe, pomodori, agurkai, tucano»), che retrocede al passato per dare voce a eventi e personaggi della storia («il passero di Guericke, saint-just, colombo»), e che si muove di luogo in luogo per annotare «il muto linguaggio delle cose» (p. 69), «la scrittura / dell’alga» (p. 71) (ricordando «las vegas, ecloga di eberhardzell, australia»). Dall’altro, il gusto è decisamente quello di un cultore dell’arte culinaria.

Con buona disinvoltura, Jan Wagner si cimenta nel ricercare una sempre nuova “farcitura” per le forme ormai canonizzate della tradizione (ci si imbatte facilmente in sonetti, sestine, haiku, terzine in rima dantesca), prendendo come punto di partenza l’occasione di poesia offertagli dal ricordo, dal vissuto personale e collettivo, da un dettaglio qualsiasi del circostante. Il risultato per ogni singola lirica sarà allora qualcosa di non molto diverso dalle «diciotto sfogliate ripiene» (catena di componimenti dedicati a diciotto tipi di sfoglia) che ci vengono servite come prova di «immaginazione e giudizio» (p. 129) del cuoco virtuoso.

Alla varietà degli argomenti, alla grande cura formale e musicale del testo, si accompagna un tono carezzevole, elegante, a tratti ironico, che governa con estrema grazia metafore e associazioni di pensiero, senza mai azzardare attacchi sarcastici né compiacersi di minuziose e indelicate descrizioni dell’orrido, anche quando il soggetto ritratto è la carcassa di un animale («geco») o la bottega di un macellaio («macellaio»).

Il lirismo di Wagner, con una coerenza tale da essersi mantenuto pressoché invariato negli anni, si presta, quindi, a una lettura indubbiamente piacevole e “gustosa” per quella vena barocca che lo contraddistingue, e insieme invita, come suggerisce Italiano, «ad aguzzare la vista, a sentire di più» (p. 335). Eppure, per alcuni – e il dibattito animatosi in Germania lo fa intuire – potrebbe non essere sufficiente.

La glorificazione del dettaglio, l’impressione di rifuggire l’attualità per ritirarsi nel privato e nella perfezione della forma hanno esposto Wagner alle critiche di chi vede nella sua poesia il ritorno a un “escapismo Biedermeier” accomodante, decorativo, che abbellisce la realtà e si rifiuta di opporre resistenza al già dato e al già scritto. La questione è tutta politica: c’è da generare un urto (intenzionale e forse addirittura violento) tra lingua, mondo e pensiero, o da dare voce a un sentimento più mite e rischiosamente “reazionario” dei luoghi e del tempo? È pure possibile che la poesia se ne infischi dell’uno e dell’altro, e chieda solo di esistere.


da achtzehn pasteten (diciotto sfogliate ripiene)
18
(quittenpastete)

wenn sie der oktober ins astwerk hängte,
ausgebeulte lampions, war es zeit: wir
pflückten quitten, wuchteten körbeweise     
       gelb in die küche

unters wasser. apfel und birne reiften
ihrem namen zu, einer schlichten süße –
anders als die quitte an ihrem baum im
       hintersten winkel

meines alphabets, im latein des gartens,
hart und fremd in ihrem arom. wir schnitten,
viertelten, entkernten das fleisch (vier große
       hände, zwei kleine),

schemenhaft im dampf des entsafters, gaben
zucker, hitze, mühe zu etwas, das sich
roh dem mund versagte. wer konnte, wollte
       quitten begreifen,

ihr gelee, in bauchigen gläsern für die
dunklen tage in den regalen aufge-
reiht, in einem keller von tagen, wo sie
       leuchteten, leuchten

18
(torta di mele cotogne)

quando l’ottobre le appese tra i rami,
protendenti lampioni, fu tempo: noi a raccogliere
mele cotogne, che a ceste montavano
       in cucina, gialle,

sotto l’acqua. mele e pere maturavano,
onorando i loro nomi, verso una dolcezza
semplice – al contrario della cotogna sull’albero
       nel più remoto angolo

del mio alfabeto, nel latino del giardino,
dura e strana nel suo aroma. tagliammo,
squartammo, snocciolammo la carne (quattro mani
       grandi e due piccole),

indistinti nel vapore della centrifuga, demmo
zucchero, calore, olio di gomito per qualcosa che
crudo in bocca falliva. chi poteva, voleva comprendere
       le mele cotogne,

la loro gelatina, in bulbosi vasetti di vetro
allineati sugli scaffali per i giorni bui,
in uno scantinato di giorni, dove loro
       splendevano, splendono.

Nessun paesaggio si riflette: due poesie di Arai Takako

Introduzione e traduzioni dal giapponese a cura di Edoardo Occhionero.

È il marzo 2011 quando, a pochi giorni di distanza dal terribile terremoto che ha scosso la terra del Tōhoku, si verifica il meltdown del terzo reattore della centrale Daiichi di Fukushima. Di fronte alla catastrofe non ha tardato nemmeno la risposta della poesia (perché, in fondo, la letteratura nasce anche in simili circostanze: basti pensare alla testimonianza in versi sulla bomba atomica da parte di Kurihara Sadako, o a quella di Ishimure Michiko sul disastro chimico di Minamata del 1956).  

In simili tentativi di documentazione della realtà, rientra anche Letti e telai (2013) di Arai Takako che, protesa con uno sguardo sconcertato sui resti di una terra devastata, si domanda che cosa valga la pena recuperare, talvolta trasformando il sarcasmo in una caustica critica verso coloro che detengono le responsabilità dell’incidente. Così la scarpa spaiata di katahō no kutsu diventa metonimia di migliaia di cadaveri trascinati a riva dalla corrente, e in Galapagos il paesaggio spettrale e tossico della centrale nucleare si contrappone all’eden terrestre rappresentato dall’arcipelago equadoregno del titolo.

Poche voci all’interno del panorama della poesia giapponese si distinguono per la loro esplicita posizione di impegno civile e di anticonformismo. Tra queste c’è quella di Arai che presenta un Giappone diverso da quello dei ciliegi in fiore o delle rane che saltano nei vecchi stagni. È un Giappone che si preoccupa più dello “tsunami di recessione” che della salvaguardia dei propri cittadini, è il Giappone del kaso (esodo dalla campagna) e dello shōshi (calo della natalità).

Lo smascheramento della nazione idilliaca avviene attraverso un uso plastico e a volte sperimentale della lingua giapponese. Itō Hiromi al riguardo scrive: “[…] non conosco nessun’altra donna che ha avuto così successo nel trovare una lingua indigena [土着的なことば], affilandola con precisione chirurgica, e usandola per parlare con una voce così vivida”. Arai infatti torce il verso fino al massimo livello di espressività (si vedano, per esempio, l’associazione “nerume/Uniqlume” e le numerose rime in –bō). È poi consuetudine imbattersi in frammenti dialogici, in inflessioni dialettali e in tecnicismi del linguaggio settoriale, con l’intenzione di amplificare il raggio di azione della poesia. Un altro strumento di riverberazione – impareggiabile – è l’adozione e la coniazione di omofoni/omografi (come la coppia 中性子 e 中精子 (chūseishi) in cui il primo designerebbe sia il neutrone sia la persona intersex mentre il secondo rappresenterebbe un hapax, in quanto è attestata unicamente la forma 精子, “spermatozoo”).


Arai Takako (新井高子,1966 –), originaria della prefettura di Gunma (più precisamente della città di Kiryū, famosa per la produzione di stoffe), attualmente abita a Yokohama ed è professoressa associata dell’Università di Saitama dove insegna lingua giapponese agli studenti internazionali. Tra le sue opere si menzionano Haō bekki (“Vita separata del sovrano”, 1997),  Tamashii dansu (“La danza dell’anima”, 2007) – per cui è stata insignita del Premio Oguma Hideo –, e Betto to shokki (“Letti e telai”, 2013). Nelle sue raccolte poetiche non mancano i riferimenti autobiografici all’infanzia trascorsa nella fabbrica di tessuti del padre, e in particolare alla condizione di vita e al lavoro delle donne. Per anni, dall’inizio delle politiche di modernizzazione post-bellica, l’occupazione nell’attività tessile è stata di esclusivo dominio femminile, fino all’esternalizzazione in paesi in via di sviluppo avvenuta verso la fine del secolo scorso. I versi di Arai ripercorrono quindi il declino del paesaggio industriale, si affacciano sulle numerose mani che hanno continuato a compiere i gesti consueti anche dopo la chiusura della fabbrica. Perché questa ha forgiato le loro vite.


Da Letti e telai (2013)

片方の靴

紅いひなげしが咲いていました
浜辺に、
片方だけ、皮靴が打ち上げられておりました
縛ったままの靴ひもでした
.
花びらのあさつゆを
ひなげしが 身をしならして垂らしたら
息づきます、かすかに、
精いっぱい振りこぼしたら
あけようとする、
目ぶたを
泥靴が、
.
古井戸のように深い目に、
おそらく
景色は映っていない
記憶さえ
ぐっしょり濡れて、
ひなげしは さすってみるほかありません
葉を伸ばし
胸のような靴の甲を、
 ––––– 砕くことはできないよ、波も 
    流せない
    すりへった踵と
    皺が、
    たぐり寄せるのです、
   はぐれたひとの眼ざしを
 浜辺まで、
ひなげしが覗きこめば
いっそう透きとおり、
井戸の底に
小魚の背びれのような、火が、
.
  ––––– 消せないさ
     存在のおくの、正直なほそい光は
     海もまた、
     巨きな瞳だから、
.
    あのとき
   うるんで疾走しながら、
  怒濤しながら
 どんな光を放ったか
沖へ、
飲まれていく、もう片方は
.
   ––––– かこうとする、ひと輪の
      蒼い火を、
      見たでしょうか
      いわしの群れの目が、
.
また揺れてるね
いいえ、
.
風だよ
裸のひなげしが立っていました
花びらを、
井戸に降らして
.
へその緒なのです
靴ひもの
その先は、
つかもうとする瞳の底まで
.
這って、

La scarpa spaiata

Il papavero rosso è in fiore,
Sulla riva,
Spaiata, solo una scarpa di pelle trascinata dalle onde,
I lacci ancora annodati
.
Mentre il papavero si flette sgrondando
La rugiada dai petali,
La scarpa imbrattata
Tira un sospiro, leggero
Mentre il fiore si scrolla,
La scarpa apre
Le palpebre
.
In occhi profondi come un vecchio pozzo
Forse
Nessun paesaggio si riflette
Perfino la memoria
È bagnata fradicia,
Al papavero non resta allungate le foglie,
Che accarezzare
Il dorso della scarpa, ora simile a un torace
.
––––– Non puoi rompermi! Neppure le onde
Riescono a trasportarmi
Col mio tacco logoro
E le grinze,
Riavvolgono lo sguardo
Del bambino che l’ha persa di vista
Fino alla riva,
Se il papavero sbirciasse
Nel letto del pozzo
Vedrebbe un fuoco ancora più trasparente
Come la pinna dorsale di un minuscolo pesce
.
––––– Il mare non può spegnere la luce
Integra e sottile, dal fondo della mia esistenza
Perché il mare
È un enorme pupilla
.
Quale luce deve aver emesso
In quel momento
Velata di lacrime, mentre procedeva
Verso il largo,
E infuriava la burrasca,
Inghiottita, già spaiata
.
––––– L’anello di fiamma verde
Disegnato attorno ai miei occhi
L’avrà visto
Il banco di sardine?
.
Ondeggia ancora il papavero
No
È il vento
Nudo, sta in piedi
Facendo cadere i petali
Nel pozzo
.
La punta del laccio
È un cordone ombelicale
A cui il bambino prova ad aggrapparsi
Fino al fondo delle pupille
.
Striscia giù

ガラパゴス

茶飲みばなしだろ!、景気って
お伽ばなしだよ!、株相場は
やらかしてよ、
  もっと、揶揄化してよ
うんざりだね
黒づくし、ユニクロづくしは

台なしだよ!、エロスが
出しっぱなしだろ!、タナトスを
いかしてよ、
  もっと、異化してよ
ケータイの 引っきりなし、
マイクロソフトの 人でなしに

   ––––– 着さしてもらえて なかったんじゃアありませんか?
      国民服しか、
      震災のずっと前から
      わたしたち、
      不況という 津波 ばっかし恐怖して、

防護服です、
ソレは
打たれ強いのです、
高波に
6メートルまで 耐えられます
いいえ、
水着 と言っちまおうか
冷たいグローバル
グロテスクなグローバリズムの 胎内で
溺れそう
リーマンに、
サラリーマン
欲しがりません
申しません
もう しません、やりません
女子も、男子も、中性子
生殖しない ユニセックス
   ほら、
  分裂する、
 中精子は、
なかなか融合しないんです、って

放りっぱなしだろ!、核分裂も
野ざらしだぞ!、原発ドームの 胎内も
燃料棒が、安全帽が、卵細胞が、けちん坊が、どろぼうが、
冷房が、暖房が、
赤ンぼうが、仏(ほとけ)ンぼうが、大海原に浮かぼうが、叫らぼうが、
原子炉建屋がぶっ飛ぼうが、
堤防が、陰謀が、官房が、
 アンビリーバボーが、
 インクレディボーが、
東電が、
  ユニクロ着込んで
 防御する、
津波

  コンドームで
 発電する、
半減期
で いいのか?

わたしたち

Galapagos

Un discorso da bar, l’andamento del mercato!
Delle favolette, le quotazioni in borsa!
Avanti, fallo!
                       Deridili ancora di più!
Ne ho abbastanza
Di tutto questo nerume, di tutto questo Uniqlume

Rovinato! Eros
Trascurato! Thanatos
Resuscitali!
                    Scomponili ancora di più!
Questi cellulari incessanti
Questo Microsoft disumano

––––– Ciò che ci avete fatto indossare     non erano forse
            Le nostre divise nazionali?
          Prima del terremoto
            Noi
            Terrorizzati solo dallo     tsunami     di recessione

Questa
È la nostra tuta protettiva
La nostra resistenza
Ai cavalloni
Alti 6 metri     sopportiamo
No
Non è più   un costume da bagno?!
Sembra annegare
Il freddo globale
Nel grembo   del grottesco globalismo
Alla Lehman Brothers
I salarymen
Non vogliono nulla
Non dicono nulla
Non fanno nulla, non fanno più nulla
Ragazze, ragazzi, non-binary
Nessuna procreazione         unisex
                    Ecco
          La divisione
    Dicono che non si fonderanno
Gli spermio-neutroni

Sono stati abbandonati a loro stessi! Anche la cariocinesi
Lasciata esposta! Pure il ventre del reattore,
La barra combustibile (nenryōbō), gli elmetti antinfortunio (anzenbō),
                       [gli ovociti (ransaibō), gli spilorci (kechinbō), i furfanti (dorobō),
gl’impianti di condizionamento (reibō), i termosifoni (danbō),
Gl’infanti (akanbō), i defunti (hotokenbō),  
                       [che affiorano sul grande oceano (ukabō), lì lì per gridare (orabō),
L’edificio di contenimento divelto (buttobō),
I frangiflutti (teibō), i complotti (inbō), il segretariato (kanbō),
Unbelivabō
Incredibō
La TEPCO
             Indossa il suo Uniqlo
        A baluardo
Dello tsunami
         Nel dome
Si produce energia elettrica

Nei nostri condom
C’è mezza vita
È abbastanza?

Noi

Come le cicale: tre poesie di Phoebe Giannisi

Introduzione e traduzioni acura di Valeria Cassino, vincitrice della prima Call for Translators per il greco moderno.

“Sono una chimera, un essere ibrido tra animale e macchina, una poeta, un’architetta. La mia poetica si esprime inevitabilmente con i mezzi a mia disposizione, senza censurarne la molteplicità”. Nata ad Atene nel 1964, Phoebe Giannisi è poeta e architetta, ha un dottorato in Lettere Classiche e insegna presso l’Università della Tessaglia. Fondatrice e co-editrice della rivista “Mavro Mouseio” negli anni ’80, attualmente è membro della redazione di “FRMK”, rivista biennale di poesia, critica letteraria e arti visive, punto di riferimento nel panorama poetico greco contemporaneo, di cui Giannisi è una voce di spicco.

La sua ricerca si concentra sui confini tra poesia e performance, identità e metamorfosi, tempo e memoria, e indaga i legami della poesia con il corpo, la voce e lo spazio. Giannisi si inserisce nella tendenza tipica della poesia greca contemporanea definita come diakallitechnikotita, ovvero “trasversalità fra le arti”: il suo lavoro è frutto di un dialogo continuo fra espressioni artistiche diverse, parte da modelli archetipici per declinarli in nuove forme ed espanderli attraverso la sperimentazione transmediale. La lingua di Giannisi è disadorna, minimalista; tratteggia immagini apparentemente disarticolate fra loro, ma architettate con cura artigianale, che esplorano con icastica immediatezza la relazione del linguaggio con lo spazio urbano e naturale.

Dal 1995, anno del suo esordio con Achinoi (“Ricci di mare”), ha pubblicato otto raccolte poetiche, alcune delle quali sono state tradotte anche in inglese e in tedesco. Giannisi è stata inoltre inclusa nelle antologie di poeti greci contemporanei Futures. Poetry of the Greek Crisis (2015), a cura di Theodoros Chiotis, e Austerity Measures. The New Greek Poetry (2016), a cura di Karen Van Dyck.

Le poesie presentate in questo contributo appartengono alle raccolte Omirika (Kedros, 2009) e Rapsodia (Gutenberg, 2016). Omirika intreccia la mitologia classica con l’esperienza moderna; personaggi, episodi e luoghi dell’Odissea sono i diversi tasselli della narrazione, che crea in questa raccolta un io polifonico attraverso cui parlare di temi come l’amore, lo straniero, la maternità, il viaggio, la memoria, la nostalgia. Ispirandosi inoltre alla tradizione orale dell’epica, Giannisi modella la propria poetica sperimentando con il ritmo, il suono, la ripetizione. Rapsodia è un’opera composita che racchiude più di cento poesie ed è il culmine di un progetto che comprende manoscritti poetici, performance, video, mostre e installazioni multimediali, fra cui spicca Tettix (“cicala” in greco antico), che si ispira all’associazione della figura del poeta con quella dell’insetto attraverso l’antica mitologia greca, la filosofia e la poesia.


Da Oμηρικά (2009)

Προοίμιο

μία πέτρα στον βυθό άσπρη
σειρές από γαλάζια χαλίκια το μούτρο
πάνω τους μες στο νερό
η αναπήδηση της βάρκας στα κύματα
πάνω στα κύματα ταχύτητα του αέρα η ώθηση
πετάμε
ένα μοναχικός γλάρος στην ξέρα
συνέλευση γλάρων οι γλάροι κρώζουν ασταμάτητα
κατά περιόδους
σιωπούν
όπως τα τζιτζίκια
ο ασταμάτητος βόμβος τους απότομα παύει την ώρα
της μεγαλύτερης αιθρίας της ζέστης του μεσημεριού
με το αυτοκίνητο ο βόμβος των τζιτζικιών πιο συχνός
πιο συνεχής
πιο γρήγορος
τα ξέχασες όλα
δεν μπορείς να θυμηθείς
το πώς
αρχίζεις να ξεχνάς το τι
Ας ήτανε το πώς μια επανάληψη του τι
η λήθη των στιγμών για σένα φάρμακο
ενάντια
στου αμετάκλητου την λύπη
με καλυμμένο το κεφάλι σε τόπο αχαρτογράφητο
ακούς του εαυτού σου τον τραγουδιστή
λέξεις του Κανενός
δαήμονος ανδρός περιπλανήσεις
αέρα θάλασσα λάθη ανεπίστρεπτα δώρα
να αριθμεί
ξέρεις καλά ότι η σειρά των τι είναι εαυτός
αλλά άραγε να έμαθες πως η σειρά των πώς
είναι ο άνεμος;

Proemio

una pietra sul fondo bianca
serie di sassolini azzurri la faccia
su di loro dentro l’acqua
il sobbalzare della barca fra le onde
velocità sulle onde la spinta del vento
voliamo
un gabbiano solitario sulla secca
adunanza di gabbiani i gabbiani gracchiano senza sosta
di tanto in tanto
tacciono
come le cicale
il ronzio senza sosta interrompe brusco il tempo
di maggior chiariore del caldo di mezzogiorno
con la macchina il ronzio delle cicale più costante
più continuo
più veloce
hai dimenticato tutto
non riesci a ricordare
il come
inizi a dimenticare il cosa
Se solo il come fosse una ripetizione del cosa
l’oblio degli attimi per te medicina
contro
la tristezza dell’irrevocabile
con il capo coperto in un luogo senza mappa
ascolti il cantore di te stesso
mentre conta
parole di Nessuno
il vagare di un uomo navigato
aria mare errori irreversibili doni
sai bene che la serie dei cosa è il sé
ma hai forse imparato che la serie dei come
è il vento?

Da Ραψωδία (2016), sezione “Τέττιξ”

Γενέθλια

Φαγουρίζουνε τα φτερά όταν βγαίνουν;
όταν από την έξοδο της κοιλιάς
έβγαλες πρώτα το κεφάλι
και σπρώχνοντας από τον πόνο
πετάχτηκες έξω στο φως
για να φωνάξεις
ήταν τα μάτια σου ανοιχτά;
άκουσες τα λόγια αυτών
που σε κρατούσαν βοηθώντας
όλο το σώμα συστραμμένο
μαζεμένο τα πόδια λυγισμένα
και η μέρα ζεστή;
μία γυναίκα γεννούσε
στου αυτοκινήτου της το πάτωμα–
κάθε μεγάλωμα άραγε
πονάει σαν το πρώτο;
δεν μεγαλώνει κανείς
με τον ίδιο ρυθμό αδιόρατα;
ή μήπως μετά από περιόδους στάσης
αίφνης η κίνηση σε κατακτά
κι αυξάνεσαι και ανυπόφορα αλλάζεις;
πετάς από πάνω σου
σαν το λουλούδι τα πέταλα
μέσα στη δρόσο που ρουφάς
κάτι παλιό και ξανά;
κατοικημένος
από της νύχτας τις αγωνίες
ανοίγεις τα πρωινά σου μάτια
ανάποδα να κοιτάξεις τον κόσμο;
έχεις μαζέψει τ’ άστρα τα κρατάς
στα χέρια τα σκορπάς
στο χώμα την άμμο
έχεις ψηλώσει πια
το δέντρο εσύ
στη μικρή σου σκιά μάς χωράς
πιο ελαφρούς τώρα πιο ελαφρούς

Compleanno

Prudono le ali quando spuntano?
quando dall’uscita del ventre
hai tirato fuori prima la testa
e spingendo dal dolore
sei saltato fuori alla luce
per urlare
avevi gli occhi aperti?
hai sentito le parole di quelli
che ti tenevano aiutando
il corpo tutto attorcigliato
raggomitolato le gambe piegate
e la giornata calda?
una donna stava partorendo
sul tappetino della sua macchina –
forse ogni crescita
fa male come la prima?
non si cresce
con lo stesso ritmo impercettibilmente?
o forse dopo periodi di stasi
all’improvviso il movimento ti possiede
e cresci e cambi insopportabilmente?
ti scrolli di dosso qualcosa di vecchio
come un fiore i petali
nella rugiada che succhi
ancora e ancora?
abitato
dalle ansie della notte
apri gli occhi mattutini
per guardare il mondo sottosopra?
hai raccolto le stelle le tieni
in mano le spargi
sulla terra sulla sabbia
ormai sei diventato alto
l’albero tu
nella tua piccola ombra ci contieni
più leggeri ora più leggeri

Sezione “Τ-ώρα”

Η παρούσα στιγμή

Ι

Ο άνεμος ο φέρων τις φωνές
δροσίζοντας σαλεύει το μανίκι
κουνάει του φουστανιού την άκρη
ενώ στην άσφαλτο
μπροστά στις ρόδες
χορεύει το σπουργίτι με την πεταλούδα

ΙΙ

Ανοίγω το στόμα να μιλήσω
αλλ’ αυτό σφίγγει τα δόντια
κοχύλι εσύ
λέξη κρυμμένη
στο βυθό θαμμένη
μαλάκιο
ακίνητο στην άμμο
με τις κεραίες
προς τα μένα να σαλεύουν

ΙΙΙ

Γιατί η στιγμή είναι ασύλληπτη
καθόλου παρούσα
το «παρόν»
«αυτό που είναι εδώ»
χώρος αντί για χρόνο
η γλώσσα την έλλειψη μιλά

ΙV

Γιατί διαφεύγει του νοήματος η γλώσσα
τα λόγια μου
η σκυτάλη
ένα χαλίκι
δανεισμένα
αόριστα θυμίζουν μίαν άλλη παρουσία
πριν από εμένα
να ανοίγει δρόμο
κι ο δρόμος όταν ξαναπατηθεί
είναι δικός μου
και δεν είναι
κι ο δρόμος όταν ξαναπατηθεί
έγινε λάκκος
για να πέσω

V

Γιατί το χέρι που γράφει
τα λόγια
μιλά μία φωνή
μοιράζει νέμει
το πιο δικό σου φέροντας
κι ας είναι δανεισμένο
μοιράζει
τον χρόνο σε κομμάτια
μοιράζει προεκτείνει
πέρα από όλους εμάς
καλὰ καὶ ὕψι βιβὰς
τα πόδια ψηλά με ρυθμό
μουσική
προς τον άλλο
ανοίγεται
προς τον ουρανό
καθαρή αγάπη
μέσα στην έλλειψη
απολλώνειος χορός

πάνω στην προκυμαία το φεγγάρι
αρνείται με τη σειρά του να βγει

L’attimo presente

I

Il vento foriero di voci
rinfrescando muove la manica
agita il lembo dell’abito
mentre sull’asfalto
davanti alle ruote
il passero balla con la farfalla

II

Apro la bocca per parlare
ma quella stringe i denti
conchiglia tu
parola nascosta
sul fondale sepolta
mollusco
immobile sulla sabbia
con le antenne
che si muovono verso di me

III

Perché l’attimo è inafferrabile
affatto presente
il “presente”
“ciò che è qui”
spazio anziché tempo
la lingua dice l’assenza

IV

Perché la lingua del senso rifugge
le mie parole
il testimone
un sassolino
prestate
indefinite ricordano un’altra presenza
prima di me
che spiana la strada
e la strada quando si calpesta ancora
è mia
e non lo è
e la strada quando si calpesta ancora
è diventata una fossa
dove cadrò

V

Perché la mano che scrive
le parole
dice una voce
divide distribuisce
portando ciò che è tuo
anche se è in prestito
divide
il tempo in frammenti
divide estende
oltre tutti noi
a passi rapidi e eleganti
le gambe in alto a ritmo
musica
verso l’altro
si apre
verso il cielo
amore puro
dentro l’assenza
danza apollinea

sopra il molo la luna
quando è il suo turno si rifiuta di spuntare

L’identità sconfinata di Rose Ausländer

Introduzione e traduzioni dal tedesco a cura di Claudia Cerulo, Barbara Nicoletti e Marta Olivi. Illustrazioni di Veronika Salandin.

“Zingara ebrea di lingua tedesca”, così si definisce Rose Ausländer (Černivci, 11 maggio 1901 – Düsseldorf, 3 gennaio 1988) nel suo autoritratto poetico, Selbstporträt. La poetessa rivendica qui un’identità ibrida e vagabonda, segnata dalle costanti peregrinazioni che nel corso della vita l’hanno spinta oltre i confini della nativa Bukovina – allora provincia dell’Impero austro-ungarico – agli Stati Uniti, per poi ritornare in Europa, tra Bucarest, Venezia e Parigi. Ausländer (“straniera”, come segnalato dalla scelta del cognome assunto nel 1923 e mai abbandonato) è stata un’intellettuale cosmopolita, la cui ricca produzione poetica è, per stessa ammissione dell’autrice, difficile da categorizzare: “Meine bevorzugten Themen? Alles – das Eine und das Einzelne. Kosmisches, Zeitkritik, Landschaften, Sachen, Menschen, Stimmungen, Sprache – alles kann Motiv sein” (I miei temi preferiti? Tutto, l’uno e il singolare. Il cosmico, la critica attuale, i paesaggi, le cose, gli uomini, le voci, la lingua – tutto può essere un motivo).

Nonostante la ricchezza nella produzione e nei temi affrontati, una serie di motivi ritornano in maniera mutevole ma costante: il viaggio, l’esilio, l’identità ebrea, l’antisemitismo, ma soprattutto la fiducia nel potere del linguaggio, l’espressione poetica come strategia per sopravvivere, la creazione artistica come autodeterminazione. Un linguaggio apparentemente semplice, incastonato in una versificazione breve e incisiva, ma che cela un simbolismo densissimo, che va dai riferimenti biblici (il roveto ardente, il vino dell’Eucaristia), fino a quelli legati alla travagliata storia mitteleuropea, come la Notte dei cristalli e l’indelebile trauma delle camere a gas.

Nella scelta delle poesie che presentiamo in traduzione, si è cercato di ripercorrere il motivo cardine della poetica di Ausländer: l’esperienza di viaggio che definisce l’identità priva di confini dell’autrice, dai paesaggi accoglienti del sud dell’Europa, fino alla drammatica esperienza dell’esilio per sfuggire alle atrocità della Shoah, per chiudere infine con un inno alla libertà e all’autodeterminazione: “vergiss deine Grenzen”. “Dimentica i tuoi confini”, ci dice Ausländer: quegli stessi confini che l’autrice ha attraversato senza sosta per tutta la vita, e che diventano marca di identità proprio nel momento in cui svaniscono e diventano linee fantasmatiche, configurando un Io poetico che si presenta, letteralmente, sconfinato.

Rose Auslander

Da Gedichte (S. Fischer Verlag, 2012)

Im Süden

Mit den Zugvögeln
Nach Süden ziehn

Wo die Sonne
Uns liebt

Wo Palmen
Ihre Fächer öffnen

Wo die Flüsse
Silber sind

Wo wir aufgenommen werden
Freundschaftlich

A sud

Con gli uccelli migratori
migrare verso sud

Dove il sole
ci ama

Dove le palme
aprono i loro ventagli

Dove i fiumi
sono d’argento

Dove ci accolgono
da amici

Verwundert

Wenn der Tisch nach Brot duftet
Erdbeeren der Wein Kristall

Denk an den Raum aus Rauch
Rauch ohne Gestalt

Noch nicht abgestreift
Das Ghettokleid

Sitzen wir um den duftenden Tisch
Verwundert
Daß wir hier sitzen

Stupiti

Quando la tavola profuma di pane
Fragole vino cristalli

Pensa alla camera del fumo
Fumo senza forma

Non ancora sfilato
il vestito del ghetto

Stiamo seduti alla tavola che profuma
Stupiti
di essere seduti qui

Unendlich

Vergiß
Deine Grenzen

Wandre aus

Das Niemandsland
Unendlich
Nimmt dich auf

Sconfinata

Dimentica
i tuoi confini

Emigra

La terra di nessuno
sconfinata
ti accoglie

Selbstporträt

Jüdische Zigeunerin
Deutschsprachig
Unter schwarzgelber Fahne
Erzogen

Grenzen schoben mich
Zu Lateinern Slaven
Amerikanern Germanen

Europa
In deinem Schoß
Träume ich
Meine nächste Geburt

Autoritratto

Zingara ebrea
di lingua tedesca
cresciuta
sotto la bandiera gialla e nera

I confini mi hanno spinta
verso latini slavi
americani germani

Europa
nel tuo grembo
io sogno
la mia prossima nascita

Bruder im Exil

Bruder im Exil
In Zeitungen gekleidet
Gehst du der Sonne aus dem Weg
Dein Koffer steht vor der Tür
Von Raben bewacht

Der Baum bittet um Einlaß
In dein Vertrauen
Aber du reitest ins Regenreich
Wo der Dornbusch erlosch
Kein Vogel ein Nest baut

Sonntag irlandgrün
Im Nebel hängt eine Kirsche
Blühende Fenster winken
Du wendest dich ab
Wanderst von Land zu Land
Um die blaue Lampe zu finden
Obwohl du weißt
Daß der Athlet sie zertreten hat und die
Scherben zerstreut liegen in Europa

Trägst den Abend zum Strand
Sterne halten den Himmel im Gleichgewicht
Daß er nicht stürze auf dich wie Amerika
Das Wasser brüderlich fremd
Schwemmt weg die Trümmer deines Traums
Das Wasser dein
Bruder im Exil

Fratello in esilio

Fratello in esilio
vestito di giornali
te ne stai lontano dal sole
La tua valigia sta davanti alla porta
sorvegliata dai corvi

L’albero chiede di entrare
nella tua fiducia
Ma tu cavalchi nel regno della pioggia
dove il roveto ardente si è spento
e nessun uccello ci fa il nido

Domenica verde irlandese
Nella nebbia sta appesa una ciliegia
Finestre in fiore ti salutano
Ti volti e ti allontani
Vaghi di terra in terra
per trovare la lanterna blu
Anche se sai
che l’atleta l’ha distrutta e che i
frantumi sono andati sparsi in Europa

Porti la sera in spiaggia
Le stelle tengono il cielo in equilibrio
cosicché non ti cada addosso come l’America
L’acqua fraternamente estranea
lava via i detriti del tuo sogno
L’acqua tuo
fratello in esilio

Cinque poesie di Renée Vivien

Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Chiara Gagliano.

[Disclaimer: Con questa prima uscita sulla poeta francese Renée Vivien, l’Almanacco Internazionale inaugura “Mortә che parlano”, una nuova rubrica dedicata alla riscoperta di scritture poetiche sommerse, verso il recupero di voci straniere del passato doppiamente dimenticate, dalla traduzione italiana e dal canone].


Pauline Mary Tarn nasce a Londra nel 1877 e rinasce Renée Vivien (of the Lake) in rue Bois de Boulogne a Parigi, dove morirà nel 1909, dopo aver ricercato più volte “l’istante eterno” tra i fiori di laudano e l’anoressia nervosa.

Poeta, romanziera e traduttrice, è nota come Saffo 1900 o Musa delle Violette, non soltanto per l’opera di traduzione e riscrittura della poetessa di Mitilene, ma soprattutto per la geminazione del canto femminile, lesbico e androgino, riecheggiato in funzione sovversiva. Fonda infatti l’Académie des Femmes e abbandona la sua lingua di origine per il francese, operando una rivoluzione anche stilistica: abolisce l’alternanza con la rima maschile e gioca con gli accordi sessuati. La rima femminile e il Sonnet féminin sanciscono l’esistenza di una dimensione socio-poetica altra rispetto agli stilemi del Simbolismo e del Parnassianesimo.

Prima poetessa francofona a cantare l’amore per una donna, favorendo il recupero della tradizione saffica, gioca con modelli e pseudonimi maschili per creare un senso di ambiguità volontaria e sprezzante; il titolo del romanzo autobiografico Donna m’apparve (1904) esemplifica la verve distruttiva e costruttiva dell’autrice, decisa a poetare l’erotismo lesbico. Cimentandosi con generi e metri interdetti alle femmes de lettres, si confronta con Petrarca, Dante, Shakespeare, Baudelaire e le Sacre Scritture (Genesi profana, 1902). L’elemento botanico e quello acquatico, ricorrenti nelle numerose raccolte di Renée a partire dall’esordio Études et preludes (1901), costituiscono i tratti fondamentali dell’immaginario poetico perverso fin de siècle, funereo e dalle fascinazioni bohémien. Figura avanguardista, Vivien afferma la necessità di definirsi e ridefinirsi come autrice lesbica alle soglie dell’Idéal simbolista, scrivendo dentro e contro la tradizione, diventando a sua volta una figura mitica del panorama letterario francofono, come testimoniano le violette ancora sparse sulla sua tomba al Cimitero di Passy.


Da Évocations (1903)

Twilight

Ô mes rêves, voici l’heure équivoque et tendre
Du crépuscule, éclos tel une fleur de cendre.

Les clartés de la nuit, les ténèbres du jour
Ont la complexité de ton étrange amour.

Sous le charme pervers de la lumière double,
Le regard de mon âme interroge et se trouble.

Je contemple, tandis que l’Énigme me fuit,
Les ténèbres du jour, les clartés de la nuit.

L’ambigu de ton corps s’alambique et s’affine
Dans son ardeur stérile et sa grâce androgyne.

Les clartés de la nuit, les ténèbres du jour
Ont la complexité de ton étrange amour.

Twilight

O miei sogni, ecco l’ora equivoca e tenera
Del crepuscolo, schiuso come fiore di cenere.

Le luci della notte, le tenebre del giorno
Hanno la complessità del mio strano amore.

Sotto l’invito perverso di una doppia fiamma,
Lo sguardo dell’anima scruta e si offusca.

Io contemplo, mentre l’Enigma mi sfugge,
Le tenebre del giorno, le luci della notte…

L’ambiguo tuo corpo si lambicca e si affina
Nel suo ardore sterile e la grazia androgina.

Le luci della notte, le tenebre del giorno
Hanno la complessità del mio strano amore.

Da Les Venus des Aveugles (1904)

Donna m’apparve

“Sopra candido vel cinta d’oliva
Donna m’apparve, sotto verde manto,
Vestita di color di fiamma viva”.
Dante, Purgatorio, XXX

Lève nonchalamment tes paupières d’onyx,
Verte apparition qui fus ma Béatrix.

Vois les pontificats étendre, sur l’opprobre
Des noces, leur chasuble aux violets d’octobre.

Les cieux clament les De Profundis irrités
Et les Dies irae sur les Nativités.

Les seins qu’ont ravagés les maternités lourdes
Ont la difformité des outres et des gourdes.

Voici, parmi l’effroi des clameurs d’olifants,
Des faces et des yeux simiesques d’enfants,

Et le repas du soir sous l’ombre des charmilles
Réunit le troupeau stupide des familles.

Une rébellion d’archanges triompha
Pourtant, lorsque frémit le paktis de Psappha.

Vois ! l’ambiguïté des ténèbres évoque
Le sourire pervers d’un Saint Jean équivoque.

Donna m’apparve

“Sopra candido vel cinta d’oliva
Donna m’apparve, sotto verde manto,
Vestita di color di fiamma viva”.
Dante, Purgatorio, XXX

Leva svogliate le tue palpebre d’onice,
Verde apparizione che fosti mia Beatrice.

Ecco i pontificati spargere, sul giogo delle nozze,
Il loro manto di violette d’ottobre.

I cieli invocano gli irritati De Profundis
E i Dies Irae sulle Natività.

I seni devastati da pesanti maternità
Hanno le difformità delle otri e delle zucche.

Ecco, tra lo spavento dei clamori degli olifanti,
I volti e gli occhi di scimmieschi infanti,

E il pasto serale all’ombra dei carpini
Riunisce lo stupido branco delle famiglie.

Una rivolta di arcangeli trionfò
Ancora, quando fremette il paktis di Psappha.

Vedi! L’ambiguità di tenebre evoca
Il sorriso perverso di un San Giacomo equivoco.

Litanie de la Haine

La Haine nous unit, plus forte que l’Amour.
Nous haïssons le rire et le rythme du jour,
Le regard du printemps au néfaste retour.

Nous haïssons la face agressive des mâles.
Nos cœurs ont recueilli les regrets et les râles
Des Femmes aux fronts lourds, des Femmes aux fronts pâles.

Nous haïssons le rut qui souille le désir.
Nous jetons l’anathème à l’immonde soupir
D’où naîtront les douleurs des êtres à venir.

Nous haïssons la Foule et les Lois et le Monde.
Comme une voix de fauve à la rumeur profonde,
Notre rébellion se répercute et gronde.

Amantes sans amant, épouses sans époux,
Le souffle ténébreux de Lilith est en nous,
Et le baiser d’Éblis nous fut terrible et doux.

Plus belle que l’Amour, la Haine est ma maîtresse,
Et je convoite en toi la cruelle prêtresse
Dont mes lividités aiguiseront l’ivresse.

Mêlant l’or des genêts à la nuit des iris,
Nous renierons les pleurs mystiques de jadis
Et l’expiation des cierges et des lys.

Je ne frapperai plus aux somnolentes portes.
Les odeurs monteront vers moi, sombres et fortes,
Avec le souvenir diaphane des Mortes.

Litania dell’Odio

L’Odio ci unisce, più forte di Amore.
Odiamo il riso e il ritmo del giorno,
Lo sguardo della primavera dal nefasto ritorno.

Odiamo il volto aggressivo dei maschi.
I nostri cuori hanno raccolto i rimorsi e i rantoli
di donne con le fronti pesanti, di donne con le pallide fronti.

Odiamo l’accoppiamento che insudicia il desiderio.
Noi gettiamo l’anatema sull’immondo gemito
Da cui nasceranno i dolori di esseri venturi.

Noi odiamo la Folla e le Leggi e il Mondo.
Come voce di belva dalla voce profonda,
La nostra rivolta riverbera e gronda.

Amanti senza amante, mogli senza marito,
Il soffio tenebroso di Lilith è in noi.
E il bacio di Ibis ci fu terribile e dolce.

Più bella di Amore, l’Odio è la mia amante
e in te bramo la crudele sacerdotessa
Di cui le mie lividezze acuiranno l’ebbrezza.

Mescolando l’oro delle ginestre alla notte degli iris,
Rinnegheremo i pianti mistici di un tempo
E l’espiazione delle candele e dei gigli.

Non busserò più alle porte addormentate.
Gli odori mi raggiungeranno, scuri e forti,
con il ricordo diafano dei morti.

Da À l’heure des mains jointes (1906)

Ainsi je parlerai…

Ô si le Seigneur penchait son front sur mon trépas,
Je lui dirais : « Ô Christ, je ne te connais pas.

« Seigneur, ta stricte loi ne fut jamais la mienne,
Et je vécus ainsi qu’une simple païenne.

« Vois l’ingénuité de mon cœur pauvre et nu.
Je ne te connais point. Je ne t’ai point connu.

« J’ai passé comme l’eau, j’ai fui comme le sable.
Si j’ai péché, jamais je ne fus responsable.

« Le monde était autour de moi, tel un jardin.
Je buvais l’aube claire et le soir cristallin.

« Le soleil me ceignait de ses plus vives flammes,
Et l’amour m’inclina vers la beauté des femmes.

« Voici, le large ciel s’étalait comme un dais.
Une vierge parut sur mon seuil. J’attendais.

« La nuit tomba… Puis le matin nous a surprises
Maussadement, de ses maussades lueurs grises.

« Et dans mes bras qui la pressaient elle a dormi
Ainsi que dort l’amante aux bras de son ami.

« Depuis lors j’ai vécu dans le trouble du rêve,
Cherchant l’éternité dans la minute brève.

« Je ne vis point combien ces yeux clairs restaient froids,
Et j’aimai cette femme, au mépris de tes lois.

« Comme je ne cherchais que l’amour, obsédée
Par un regard, les gens de bien m’ont lapidée.

« Moi, je n’écoutai plus que la voix que j’aimais,
Ayant compris que nul ne comprendrait jamais.

« Pourtant, la nuit approche, et mon nom périssable
S’efface, tel un mot qu’on écrit sur le sable.

« L’ardeur des lendemains sait aussi décevoir :
Nul ne murmurera mes strophes, vers le soir.

« Vois, maintenant, Seigneur, juge-moi. Car nous sommes
Face à face, devant le silence des hommes.

« Autant que doux, l’amour me fut jadis amer,
Et je n’ai mérité ni le ciel ni l’enfer.

« Je n’ai point recueilli les cantiques des anges,
Pour avoir entendu jadis des chants étranges,

« Les chants de ce Lesbos dont les chants se sont tus.
Je n’ai point célébré comme il sied tes vertus.

« Mais je ne tentai point de révolte farouche :
Le baiser fut le seul blasphème de ma bouche.

« Laisse-moi, me hâtant vers le soir bienvenu,
Rejoindre celles-là qui ne t’ont point connu !

« Psappha, les doigts errants sur la lyre endormie,
S’étonnerait de la beauté de mon amie,

« Et la vierge de mon désir, pareille aux lys,
Lui semblerai plus belle et plus blanche qu’Atthis.

« Nous, le chœur, retenant notre commune haleine,
Écouterions la voix qu’entendit Mytilène,

« Et nous préparerions les fleurs et le flambeau,
Nous qui l’avons aimée en un siècle moins beau.

« Celle-là sut verser, parmi l’or et les soies
Des couches molles, le nectar rempli de joies.

« Elle nous chanterait, dans son langage clair,
Ce verger lesbien qui s’ouvre sur la mer,

« Ce doux verger plein de cigales, d’où s’échappe,
Vibrant comme une voix, le parfum de la grappe.

« Nos robes ondoieraient parmi les blancs péplos
D’Atthis et de Timas, d’Éranna de Télos,

« Et toutes celles-là dont le nom seul enchante
S’assembleraient autour de l’Aède qui chante !

« Voici, me sentant près de l’heure du trépas,
J’ose ainsi te parler, Toi qu’on ne connaît pas.

« Pardonne-moi, qui fus une simple païenne !
Laisse-moi retourner vers la splendeur ancienne

« Et, puisqu’enfin l’instant éternel est venu,
Rejoindre celles-là qui ne t’ont point connu».

Così io parlerò…

Oh, se il Signore piegasse la sua fronte sulla mia morte,
Gli direi: «O Cristo, io non ti conosco.

«Signore, la tua legge severa non fu mai la mia,
E vissi così come una semplice pagana.

«Guarda l’ingenuità del mio povero e nudo cuore.
Io non ti conosco. Non ti ho conosciuto.

«Sono passata come l’acqua, sono fuggita come la sabbia.
Se ho peccato, mai ne fui colpevole.

«Il mondo era intorno a me come un giardino.
Ho bevuto l’alba chiara e la sera cristallina.

«Il sole mi ha avvolta con le sue fiamme più brillanti,
E l’amore mi ha portata alla bellezza delle donne.

«Ecco, l’ampio cielo disteso come un baldacchino.
Una vergine è apparsa sulla mia porta di casa. Ho aspettato.

«Scese la notte… Poi il mattino ci ha sorprese
Arcignamente, con il suo imbronciato bagliore grigio.

«E tra le mie braccia che la stringevano dormiva
Come un’amante dorme tra le braccia del suo amico.

«Da allora ho vissuto nel tumulto del sogno,
Cercando l’eternità nel breve minuto.

«Non ho visto come sono rimasti freddi quegli occhi chiari,
E ho amato questa donna, in spregio alle tue leggi.

«Siccome non ho cercato che amore, ossessionata
Da uno sguardo, la brava gente mi ha lapidata.

«Io, io non ho ascoltato che la voce che amavo,
Avendo capito che nessuno avrebbe mai capito.

«Ma la notte si avvicina, e il mio nome peribile
Svanisce, come una parola scritta sulla sabbia.

«L’ardore del domani sa anche deludere:
Nessuno sussurrerà le mie strofe, verso sera.

«Vedi ora, Signore, giudicami. Perché noi siamo
Faccia a faccia, davanti al silenzio degli uomini.

«Per quanto dolce fosse l’amore per me, una volta era amaro,
E non ho meritato né paradiso né inferno.

«Non ho raccolto i canti degli angeli,
Perché ho sentito strani canti di un tempo,

«I canti di quella Lesbo i cui cori si sono taciuti.
Non ho celebrato le tue virtù come si conviene.

«Ma non ho tentato una rivolta feroce:
Il bacio fu l’unica bestemmia della mia bocca.

«Lasciatemi, affrettandomi alla serata benvenuta,
Raggiungere quelle che non ti hanno conosciuto!

«Psappha, le dita vaganti sulla lira addormentata,
Si meraviglierebbe della bellezza della mia amante,

«E la vergine del mio desiderio, come i gigli,
Le sembrerebbe più bella e più pallida di Attis.

«Noi, il coro, trattenendo il respiro insieme,
Ascolteremmo la voce che ha sentito Mitilene,

«E prepareremmo i fiori e le torce,
Noi che l’abbiamo amata in un’epoca meno bella.

«Quella sapeva versare, tra oro e sete
Di strati morbidi, il nettare pieno di gioie.

«Cantava per noi, nella sua chiara lingua,
Quel frutteto lesbico che si apre sul mare,

«Quel dolce frutteto pieno di cicale, da cui fugge,
Vibrante come una voce, il profumo della grappa.

«Le nostre vesti ondulavano tra i pepli bianchi
Di Attis e Timas, di Eranna e Telo,

«E tutte quelle cui il solo nome incanta
Si riunirebbero intorno all’Aedo che canta!

«Qui, sentendomi vicina all’ora della morte,
Oso parlarti così, Te che non ho conosciuto.

«Perdonami, che ero una semplice pagana!
Lasciami tornare all’antico splendore

«E, com’è giunto il momento eterno,
Per unirmi a quelle che non Ti hanno conosciuto”.