1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera.
Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?
Devo confessare che ogni mio libro ha avuto un processo di costruzione diverso. Per quanto riguarda il mio ultimo libro, Bestiario, ho deciso a priori di utilizzare una doppia quartina a rima incatenata: l’idea alla base è quella di sperimentare il più possibile all’interno di una forma fissa. La decisione di scrivere sugli animali è avvenuta in ambito laboratoriale: da vent’anni ormai tutti i miei testi sono presentati a uno sparuto gruppo di amici-lettori competenti che arricchiscono il processo compositivo con interpretazioni e consigli. Mi riesce difficile parlare di maestri di costruzione, credo che sia l’opera stessa a dettare modalità ed esigenze espressive, credo si debba principalmente desumere le necessità dell’opera dall’opera stessa. Come dicevo, ho sperimentato diversi approcci compositivi e diversi metri: in Palinsesti giocavo con la metrica e personaggi televisivi in disarmo, Will era un canzoniere di sonetti elisabettiani, Firenze Mare era composto da poemetti fra l’elegiaco e il confessionale. Adesso sto ultimando quella che io chiamo la mia trilogia metrica, iniziata con Litania nervosa e proseguita con Bestiario. Attualmente sto lavorando alla stesura del terzo pannello. Sono pronto a scommettere che, una volta terminata, mi imbatterò in altre forme e altri contenuti ma ora non riesco a prevederli. Se dovessi dare un consiglio sulla costruzione interna di un’opera suggerirei di stare con l’idea principale il più possibile, estraendo da una visione anche vaga dell’insieme quanti più dettagli possibili, usando molto la fantasia per coprire i vuoti, senza aver paura di arrivare all’insignificanza: sono rischi che vanno corsi.
2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?
Leggere un libro di poesie come un diario intimo è pericoloso: si rischia di sovrapporre la persona dell’autore all’io monologante, scambiare un pronome per un individuo. C’è gente che se ne innamora. Siamo consapevoli della dose di fiction necessaria a costruire un io convincente sulla pagina, persino i maestri del confessional americano (Plath, Sexton, Lowell) stabilivano una distanza fra l’io poetante e l’io anagrafico. Tuttavia non credo che la finzione o l’invenzione siano attributi necessari allo scrivere in versi: la poesia non inventa, scopre. Scopre territori a volte inesplorati, scopre fenomeni umani complessi, scopre la stessa lingua di cui si compone. Nella mia scrittura l’uso dell’io è riservato alle prosopopee. L’invenzione potrebbe essere una rampa di lancio ma non è mai un punto di arrivo.
3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?
Ho esordito con un paio di plaquette fra loro molto diverse, avevano una certa grazia ma erano comunque derivative, troppo influenzate da scritture forti che all’epoca esercitavano su di me un innegabile fascino. La mia voce ha cominciato ad avere una sua fisionomia più definita con Sesto Sebastian – Trittico per scampata peste, un poemetto ideato per essere letto ad alta voce (quindi scrittura-per-pubblico). Fu il mio coming out poetico col quale prendevo un poco le distanze da quanto c’era stato prima e stabilivo alcune costanti della mia scrittura come l’utilizzo della metrica, l’ironia mordace, il prevedere un ascolto. Come ho detto prima, tutti i miei testi da vent’anni a questa parte sono ascoltati e discussi da un gruppo laboratoriale che ormai conosce stili e stilemi delle altrui scritture. Se un testo non ha mordente, lo si individua e sopprime in poco tempo. Alle volte un testo può miracolosamente resuscitare grazie all’aiuto e ai suggerimenti del gruppo. Per quanto riguarda un pubblico più vasto – stiamo parlando del famoso pubblico della poesia, vale a dire i poeti stessi – mi interessa sempre ciò che hanno da dire qualora si siano dati la pena di leggere. Sono sempre pronto ad ascoltare. Come sono sempre pronto a seguire poi una strada che porta altrove.
4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?
Mi ispirerei a una performance di Marina Abramović: legherei il poeta alla sedia e permetterei al pubblico di interagire con lui tramite una serie di oggetti a disposizione che possono dare piacere o dolore: una piuma, un martello, una rosa, del cotone, un coltello, del miele, una pistola… Se il poeta sopravvive alle pulsioni del pubblico allora potrà leggere qualche poesia.