Il tiglio-grande

Racconto di Mariana Branca.

Mi vogliono tagliare, gliel’ho sentito dire.

Mi vogliono tagliare.

Mi vogliono tagliare, sradicare anche, l’ho sentito dire al grande-lui, alla grande-lei.

Chissà se la piccola-lei lo sa, non lo sa, non può saperlo, se lo sapesse la sentirei urlare, urlare, ne sono certo, non può saperlo. La piccola-lei non lo sa.

Mi vogliono tagliare, mi vogliono tagliare.

I miei anelli dicono che ho sedici anni, i tempi della linfa grezza che sono alto tredici metri: la linfa arriva dalle radici, dalla cleriptra dell’apice meristematico, ai rami, all’ultimo verticillo, in quasi un’ora. Ho delle incredibili, magnifiche fronde, le mie foglie sono decidue, alterne, di colore verde brillante, glauche sulla pagina inferiore, con ciuffetti di peli rossicci agli angoli della nervatura, ovate-cordate, asimmetriche, cuoriformi. A giugno mi riempio di fiori bratteati, profumati, riuniti in infiorescenze ascellari, di frutti con costole poco visibili e fragili endocarpi.

Che bell’albero, dicono i grandi-loro che mi passano accanto. Il grande-lui aggiunge: è un tiglio.

Mi hanno piantato quando è nata la piccola-lei. Quella primavera il mio apice si fece subito gemma, alterna, globosa, verde poi rossastra, con solo due scaglie visibili; la gemma si fece subito germoglio, carico di cellule embrionali, indifferenziate: il meristema primario che origina tutte le altre cellule. Le cellule iniziali totipotenti potevano solo suddividersi, dare origine ad altre cellule iniziali, all’infinito. Alcune però smisero di moltiplicarsi, cominciarono a trasformarsi nel tessuto tegumentario, il parenchimatico, il tessuto di trasporto, quello di sostegno. Quella primavera il mio germoglio cresceva, le sue cellule iniziavano a dividersi, ad accrescersi per distensione: le bozze fogliari diventarono vere foglie, gli internodi si allungarono, spaziando. Dentro alle foglie, dentro agli internodi si formarono i fasci conduttori che trasportano la linfa grezza, dalle radici alla foglia, e la linfa elaborata, dalla foglia alle radici. Sotto il tegumento di fasci conduttori, il tessuto parenchimatico cominciava a gonfiarsi, a trattenere le cellule di riserva, accumulare l’acqua, le sostanze vitali elaborate dalle foglie. All’ascella delle bozze fogliari si formarono i primordi di ramo: nuovi apici, nuove gemme, nuovi germogli.

La struttura primaria di quella primavera abbagliò il bianco dell’intonaco granuloso, grosso, della grande-casa, dove abitavano il grande-lui, la grande-lei, la piccola-lei, il piccolo-lui; abbagliò il giardino dove, in primavera e in estate, passavano la notte il grande-cane e il piccolo-cane, ma non il gatto nero, che se ne andava a stare altrove, intorno a certe querce gozzute, nei campi dove pascevano le vacche podoliche, femmine, soprattutto femmine, dal mantello bianco appena sfumato di nero o di grigio, con musello, ano e vulva completamente neri, le corna a forma di lira che con il passare del tempo si attorcigliano sulla punta.

Pascevano le podoliche oltre la collina, tagliata nel suo punto più alto da una strada asfaltata dove la piccola-lei e il piccola-lui imparavano la conservazione della forza peso, la curvatura dei campi vettoriali, le variabili del cronotopo. Andavano a volare, lanciandosi in discesa sulla bicicletta: li vedevo, li sentivo cadere, muovere l’aria, in picchiata, senza mani.

Il gatto nero non restava mai a dormire nel giardino o nei dintorni della grande-casa, lui se ne andava a stendersi sui malli freschi sotto gli alberi di noci dei vicini, o ai piedi dei mastodontici pini marittimi di cento anni, lontani solo qualche chilometro da me, di cui il vento di nord est mi portava l’odore, la resina secca a impregnarmi la scorza.

La struttura primaria di quella primavera abbagliò anche la clorofilla, tutta la clorofilla, dentro di me, quella intorno: le conifere medie sempreverdi, aghiformi, le euphorbia dal lattice urticante e i fiori unisessuali, le rosali angiosperme, le graminacee microterme su cui la piccola-lei crollava, ogni tanto, il piccolo-lui correva, avanti e indietro e in tondo, con il grande-cane, il piccolo-cane, rincorrendo il gatto nero. Le graminacee microterme, le poacee, le festucoidee, le panicodee, le eragrostidee che crescevano in chiazze intorno al mio colletto e che avrei, di lì a qualche anno, divelto con le mie radici robuste, fittonanti.

Quando il mio fusto primario raggiunse la maturazione, i suoi tessuti, ad eccezione dell’apice e delle gemme laterali, erano ormai cellule ben differenziate, adulte, incapaci di rigenerarsi oltre. Per mantenere in vita gli apici, farne crescere di nuovi, si costruiva dentro di me un secondo meristema, un’altra struttura: alcune cellule adulte del fusto regredirono allo stato embrionale, per ricominciare a dividersi, ad accrescersi per distensione. Tra i fasci conduttori primari si formò il cambio, una circonferenza estesa per tutta l’altezza del mio fusto, un cilindro cavo di cellule meristematiche. Il cambio iniziò a duplicare le sue cellule, sia verso l’esterno, formando un anello continuo, il libro – uno strato sottile che sta sotto la corteccia, che s’ispessisce col tempo – sia verso l’interno, formando un anello di alburno. Nascevano nuovi germogli, i rami precedenti lignificavano, iniziava il tempo dell’accrescimento secondario. Il cambio produceva nuovo alburno, sovrapposto a quello più vecchio che si degradava, perdeva la sua funzione. Le cellule dell’alburno morivano, rimanendo nella parte più interna del mio fusto, diventando il mio sostegno, il legno morto, il duramen, che per non marcire lo impregnano i tannini e le altre sostanze prodotte dal legno vivo. Esternamente al cambio si generava il nuovo libro: il cambio si espandeva, il libro più recente spingeva il più vecchio verso l’esterno. Il libro più esterno si differenziò nuovamente, creando un ulteriore tessuto meristematico, il fellogeno, che visse poco, appena il tempo di formare il periderma e la corteccia, le cui cellule morirono presto, spinte verso l’esterno, assumendo un aspetto fessurato. Ogni anno da quella primavera, a partire dal libro, internamente, si è formato un nuovo strato di corteccia, di sughero morto. Ho, come tutte i grandi-alberi, i piccoli-alberi che vivono in climi temperati freddi, seguito le stagioni, crescendo con discontinuità: ho smesso di crescere in inverno, ricominciato in primavera, quando, all’ascella delle bozze fogliari si formano nuovi primordi di ramo: nuovi apici, nuove gemme, nuovi germogli.

Quando la piccola-lei era persino più piccola di adesso, più minuta, più sottile, più bassa, quando era solo un brindillo, un dardo fiorifero, e aveva il fusto spesso quanto una femminella, un ramo anticipato, passava così tante ore a girarmi intorno. Girava, girava, girava sempre. Rideva così bene, la sentivo ridere, la sua risata mi titillava tutte le foglie. Mi girava intorno correndo con il suo grande-cane, il suo piccolo-cane, il suo gatto nero; spesso anche il piccolo-lui veniva a correre, a girarmi intorno, il piccolo-lui che non si stancava mai. La piccola-lei qualche volta, invece, era stanca, stanchissima, stramazzava sulle mie radici che avevano da tempo scavalcato la terra intorno al colletto, il punto dove il mio fusto inizia a capovolgersi. Si buttava sulle mie radici scoperte, accasciandosi come mi hanno raccontato che fanno i faggi alti nei boschi quando i grandi-loro li tagliano con le seghe, le motoseghe, i motori a scoppio che gocciolano una miscela dall’odore forte, persino più forte dei funghi, del marcire lento del sottobosco; la catena di ferro che fa il rumore dell’orso primitivo chiuso nell’antro di una caverna: l’orso primitivo che vuole uscire, che ha fame. La catena che certe volte si chiama Husqvarna, li ho sentiti dire, che ha un regime di massima di dodicimila cinquecento giri al minuto, li ho sentiti precisare, una velocità di ventimila metri al secondo, li ho sentiti spiegare. La catena che ruotando ventimila volte per metro al secondo fa precipitare gli alberi. Alberi precipitati per la rotazione furibonda di una catena di ferro, diamantata a volte, li ho sentiti specificare.

La piccola-lei crollava inesorabilmente. Si stendeva sulle mie radici, le toccava, accarezzandole, gli parlava, gli raccontava certi sogni di tronchi elastici, neri, che passando tingevano tutto. Erano fusti senza midollo, senza durame, alburno, cambio, libro, senza corteccia, erano tronchi melliflui, corrotti, tronchi morti ma posseduti da una linfa momentanea, putrida, che aveva concesso al fusto di trascinarsi per le strade nei sogni della piccola-lei, imbrattando l’asfalto, i marciapiedi, i muri. Erano fusti di una marcescenza elastica, che ne aveva decapitato le fronde, i rami, tutto il cormo, erano cormofite morte, tracheofite senza respiro, animate da una linfa guasta, dalla saliva pestilente di un demonio che, supino sotto le loro radici, le aveva eiaculate di una resina oscura. Erano tronchi iniettati di un sangue perverso, delirante. Captivi diaboli, prigionieri del diavolo, erano fusti in cattività, fusti dal cattivo sangue, ammorbati di una pece nera del sottosuolo, bucato dagli angeli caduti per andare a nascondersi. Fusti mozzati, senza radici, senza rami, senza fronde, condotti disanimati, pompati dall’energia disidratata, languente di batteri letali che pure irrora il mondo. La piccola-lei si accasciava sulle mie radici fuori del colletto, abbracciandole, volendole sentire accanto, addosso, a consolarle il battito, a darle una misura di lentezza che non avveniva nel suo fusto, nel centro della sua zona generatrice, dove il suo strato lignoso ancora non si era formato, e perciò prevaleva soltanto lo strato libroso, che si rigenerava una primavera dopo l’altra. Mi raccontava i suoi sogni, la piccola-lei, di scappare, di volare, di precipitare, di trovarsi tinta le mani di una pece oscura, di sentire il corpo gonfiarsi, le dita farsi giganti; di presenze, di domande che non sapeva capire. Di una strada, sempre in salita, che all’inizio non era una strada davvero, ma tetti, migliaia di tetti, e la strada era un percorso teorico, puntiforme, cromodinamico di stringhe in vibrazione, in interazione da un tetto all’altro, e la piccola-lei percorreva la strada saltando, cadendo, spalancando a volte gli occhi nella notte per ritrovarla bagnata, lacrimosa, gnaulente. Poi la strada si faceva una strada davvero, appariva il grande-lui nella sua centoventisette azzurra, la piccola-lei e il grande-lui andavano sulla strada che intanto si era fatta inerpicata, stretta, calcinosa, sassosa e di montagna, che finiva in una grande roccia bucata, che non si poteva vedere al di là, che bisognava strisciarci dentro. La piccola-lei e il grande-lui restavano a guardare la grande roccia, immobili, abbassando lo sguardo davanti all’imperforabilità della montagna, entrambi ansimando, come se anche il grande-lui avesse passato la notte a saltare e precipitare da un tetto all’altro, a salire scale a pioli appoggiate al niente, galleggianti sulla portanza verticale di un mare di bosioni e fermioni e gravitoni della cromosfera parallela del sogno della piccola-lei.

Arrivano, li sento avvicinarsi, li vedo arrivare. La motosega nelle mani del grande-lui, un altro grande-lui gli viene dietro, corde arrotolate, posate sul suo braccio come un mazzo di rami di salice bianco, l’ascia corrusca, la tanica della miscela dall’odore più forte del sottobosco.

Io ho paura, ho paura. Io non voglio morire. Vengono a tagliarmi.

Guardami, grande-lui, sono vivo, sono vivo, guardami grande-lui, guardami, sentimi, metti una mano sulla mia corteccia, sulle mie radici, ti prego ascoltami grande-lui, ti prego, ti prego ascoltami. Piccola-lei vieni, vieni, corri, corri, salvami, piccola-lei, vieni, aiutami, non voglio morire, ho paura, piccola-lei aiutami, li vedo sotto le mie fronde, è autunno, smetterò a breve di crescere, che male posso fare? Le mie foglie, forse sono le mie foglie a forma di cuore? È per quelle? Che mi tagliate, mi volete tagliare. Perché cadendo ricoprono tutte le graminacee microterme che crescono in chiazze intorno al mio colletto, perché le mie radici fittonanti divellono le graminacee, impoverendole, e le fondamenta della grande-casa, anche quelle, scardinandole.

Fondamenta, ho sentito dire al grande-lui: è così che i grandi-loro chiamano le radici di una casa.

È per loro, che mi tagliate? Mi volete tagliare. Per le mie foglie a forma di cuore, per il sottosuolo condiviso, per le mie radici che s’espandono, irriflesse toccano le radici della grande-casa.

Aspettate, ascoltatemi, vi racconterò la leggenda di Filemone e Bauci, che accolsero Zeus ed Ermes che vagavano per la Frigia in sembianze umane, aspettate, ascoltatemi, Filemone e Bauci, non volete sapere? Di come diventarono un tiglio e una quercia, lo stesso fusto, le stesse radici.

Io ho paura, ho paura. Io non voglio morire. Vengono a tagliarmi.

Dove sei, piccola-lei, dove sei, corri, vieni a crollare su di me, sul mio sistema radicale che pompa linfa alle mie branche viventi, vieni a precipitare come un sasso lanciato dal mio ramo più alto, vieni a rotearmi intorno come la tempesta dei miei cuori decidui in autunno, vieni, piccola-lei, ti prego, vieni, aiutami, abbracciami, aggrappati al mio colletto, al mio fusto, al libro sotto la corteccia, penetra con la tua mano fino a quello, leggimi la paura, piccola-lei, leggimi la tortura della paura che sbrindella la cuffia radicale di ogni mia singola radice, che mi stordisce le cellule della columella, gli statoliti di amido accumulato che, tramortiti, inebetiti, non sanno più la gravità, l’orientamento geotropicamente positivo in cui per sedici anni sono stato, cresciuto. La tortura della paura, piccola-lei, nei tubi cribrosi, nelle cellule parenchimatiche, nelle fibre sotto il colletto, sotto, nelle radici, nella parte segreta profonda scavata su cui tu hai imparato a dire i tuoi sogni di resina nera, di strade calcinose, sassose, di montagne imperforabili, di tetti in interazione, di scale a pioli appoggiate al niente, di un mare di bosioni e fermioni e gravitoni della tua cromosfera parallela: su cui tu hai imparato a crollare. Vengono a tagliarmi, piccola-lei, non mi troverai più al tuo ritorno: non saprò se avrai bucato la roccia alla fine della strada in salita, dove resti immobile a guardare fuori dalla centoventisette azzurra del grande-lui. Striscia, piccola-lei, striscia! Entra nella roccia, vai a guardare, a vedere.

Mi vogliono tagliare, vengono a tagliarmi.

Sento il suono, il ringhio otturato dell’orso primitivo chiuso nell’antro di una caverna: l’orso primitivo che vuole uscire, che ha fame. Sento i dodicimilacinquecento giri al minuto della catena, i sette denti del pignone, i diciassette metri al secondo della sua velocità: sento il suono del mio primo apice, la prima gemma, il germoglio bagnato della più primitiva clorofilla, la linfa primaria, la quiescenza delle mie radici alla terra, ai funghi del sottosuolo, le endomicorrize, le ectomicorrize, le ectoendomicorrize dell’interazione simbiotica che lascia ai funghi il carbonio organico, a me i sali minerali che mi hanno fatto diventare il tiglio-grande davanti alla grande-casa della piccola-lei. Abbiamo sedici anni, sedici anelli, piccola-lei: sono tutti per te. Ne avrai tanti altri, all’ombra mancata delle mie fronde, nell’assenza caduta delle mie foglie cuoriformi, nella vuotezza dei miei fiori bratteati di giugno, nella fragilità frantumata dei miei endocarpi.

Lo strazio del taglio nella carne del tronco, lo strazio del taglio nella corteccia senza sangue, perché gli alberi noi non abbiamo il sangue, dicono, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia senza sangue, la corteccia non ha sangue cosa, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia l’epidermide senza sangue, lo strazio del taglio nella carne nell’epidermide, attraverso il parenchima corticale senza sangue lo strazio mi trasmigra, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale senza sangue, io sento lo strazio del taglio nella carne senza sangue lo sento trasmigrarmi, farmi altro da me, lo sento, il dolore recide la dimensione della materia, recide la percezione della materia concreta, recide il ciclo di differenziazione del sistema primario, secondario, meristematico, recide la percezione: reciso entro nel sogno, nella cromosfera parallela dove lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale senza sangue non potrà farmi più male, lo strazio del taglio nella carne senza sangue che pure gronda, senza sangue essa gronda la mia sofferenza, stilla lo scempio della mia carne la corteccia l’epidermide il parenchima corticale il libro il cambio senza sangue, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro, lo strazio del taglio che recide il cambio, recide la differenziazione primaria la secondaria i pensieri che avrei pensato, il silenzio che avrei pronunciato, le parole che avrei accolto, le risate che avrebbero titillato le mie foglie, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio io lo urlo ai tetti interconnessi del sogno della piccola-lei, al percorso teorico, puntiforme, cromodinamico di stringhe in vibrazione del sogno della piccola-lei, lo urlo, lo strazio io lo urlo all’intonaco grosso della grande-casa della piccola-lei, lo urlo alla strada a pochi chilometri da me, ai pini marittimi, ai malli freschi, alle querce gozzute, alle podoliche con le corna che si attorcigliano, lo urlo lo piango alle poacee, le festucoidee, le panicodee, le eragrostidee stese intorno al mio colletto, impoverite dalle mie radici fittonanti, le graminacee  microterme ticchiolate sotto i migliaia di cuori miei decidui, alterni, glauchi sulla pagina inferiore, con pochi peli rossicci agli angoli della nervatura, i miei cuori ovati-cordati, asimmetrici, brillanti di verde ondulatorio, corpuscolare. Lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio nell’alburno nel midollo senza sangue, io piango, io grondo la sofferenza della catena di ferro che rotea nella sua quantità di moto, nella scellerata sua potenza di lacerazione della mia carne senza sangue per farmi cadere, crollare, tracollare, la sofferenza lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio nell’alburno nel midollo senza sangue, recisi i fasci collaterali aperti, io sanguino, io piango, io grondo, io urlo al cielo alle fronde alle gemme avventizie, alle gemme dormienti, ai germogli d’acqua, lo strazio del taglio nella mia carne senza sangue, io lo sanguino, acqua salata, linfa grezza, porfirina, magnesio, emoglobina senza ferro, io lo urlo, lo urlo al cielo alle fronde alle gemme avventizie, alle gemme dormienti, ai germogli d’acqua, lo strazio del taglio nella mia carne senza sangue, io lo sanguino, acqua salata, linfa grezza, porfirina, magnesio, emoglobina senza ferro, io lo urlo, lo urlo a te, piccola-lei, urlo il mio pianto, il mio pianto è senza sangue, il mio pianto è verde.


Mariana Branca è laureata in architettura a Napoli e ha vissuto a Parigi, Bruxelles, Lione, Torino, poi Londra, Roma, infine Lisbona, sempre svolgendo lavori diversi. Vive tra l’Irpinia e l’Emilia Romagna.

Non nella Enne non nella A ma nella Esse è il suo primo romanzo, finalista alla XXXIV edizione del premio Calvino, pubblicato da Wojtek edizioni nel 2022.