1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera.
Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?
Devo dire che nel libro che ho scritto la riflessione sulla struttura interna ha avuto un peso minimo: fondamentalmente ho iniziato a pensarci dopo che due miei carissimi amici mi hanno fatto venire voglia di mettere insieme i testi per vedere quello che sarebbe successo, ma prima di quel momento non ho mai pensato a come sarebbe stata una mia eventuale raccolta. Questa cosa un po’ me la rivendico: sono contento che la struttura del mio libro non abbia seguito un progetto a monte, ma sia stata improvvisata partendo dal materiale che avevo raccolto negli anni. Questo modo di fare le cose ‘a cazzo di cane’ è stata per me una pratica preziosa, perché mi ha permesso di scoprire delle rispondenze, diciamo delle geometrie o delle ossessioni che non sapevo di avere. Ad esempio, la prima sezione della raccolta ha come tema centrale la morte, ma io non ero assolutamente consapevole di questa cosa, non pensavo di aver scritto tutte queste poesie sulla morte, perché francamente non pensavo (e in effetti continuo a non pensare) che la morte sia un tema rilevante per me. In un certo senso non ho deciso che la prima sezione fosse così, ho solo dovuto prenderne atto, e personalmente mi sento sempre al sicuro quando è qualcun altro a decidere per me, mi sembra di star andando nella direzione giusta solo quando non sono io a sceglierla. Oltre questo, ho un po’ assemblato del materiale a caso (appunti, trascrizioni di sogni, pagine di diario) che mi sembrava avesse delle risonanze con le poesie, e che fosse utile per aggiungere dei piani di lettura. Alla fine dei conti a me torna tutto, ma penso (e spero) che il risultato sia un libro storto, perché io mi sento una persona storta, e voglio che la struttura del mio libro mi rispecchi. Vorrei dire che considero questo un atto d’onestà, ma temo che ci sia qualcosa di più meschino dell’onestà, un’ansia di ritrovare sé stessi nelle cose che non è bella quanto l’onestà.
Da questo punto di vista i miei modelli sono libri che non concludono, ‘aperti’ e che stanno meravigliosamente in piedi anche se non capisci bene come fanno. In poesia penso soprattutto a Sereni o Anne Carson, in prosa a Bolaño e Faulkner. Non so se il mio approccio cambierà nel tempo, ma francamente spero (e credo) di no. Non riesco a non pensare che la costruzione del libro sia un momento secondario rispetto alla scrittura, per cui è importante non avere progetti troppo rigidi in modo che la scrittura resti il più possibile libera di andare dove vuole. Mi sembra giusto che la ‘raccolta’ si limiti a frugare con intelligenza nell’esistente (ovvero in quello che uno ha scritto), influenzandolo il meno possibile.
2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di una persona. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?
Se penso alla mia esperienza di scrittura ho un po’ di difficoltà a rispondere perché non riesco a pensare a «finzione» e «espressione» come due categorie in contrapposizione. Mi sembra piuttosto ovvio che l’espressione ha bisogno di una componente finzionale per prendere corpo, così come la finzione ha bisogno di una parte di espressione per avere forza e essere interessante. Senza il desiderio di esprimersi (cioè di proiettare fuori qualcosa di sé) non ha senso scrivere, senza finzione (cioè senza selezionare e plasmare un qualche materiale) sarebbe impossibile esprimere qualcosa di comprensibile non solo agli altri, ma anche a noi stessi. Se invece si parla di fedeltà autobiografica, io più o meno faccio così: spesso racconto cose che mi sono veramente accadute, ma altre volte invento dei fatti o delle vicende o anche delle sensazioni, ma quell’invenzione mi serve per dire una verità, o comunque per dire qualcosa che per me è importante, per cui anche in questo caso ‘fingere’ – inteso proprio nel senso di mentire, inventare di sana pianta – mi è servito per esprimermi. Secondo me se l’opposizione tra espressione e finzione è utile in qualche modo è semplicemente perché denota due diverse posizioni del soggetto nell’atto della scrittura. Nell’espressione infatti la persona (diciamo l’io) è più o meno passiva, c’è qualcuno che gli detta le cose da dire, i contenuti non vengono scelti né organizzati ma semplicemente si presentano e ‘urgono’ («I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando»). Nella finzione invece chi scrive è più cosciente, pianifica, ritaglia, compone, riflette sul senso di quello che sta facendo. Io penso che nella scrittura questi momenti siano entrambi importanti, e penso anche che gli autori e le autrici della mia generazione abbiano paura dell’inconscio, o meglio di ammettere a sé stessi che hanno un inconscio e che ci sono delle cose che non controllano, e quindi la ‘finzione’ sembra una dimensione più rassicurante, forse anche un po’ più adulta. Però secondo me è bello non essere padroni, lasciare spazio all’espressione, perdersi nelle fantasie, farsi attraversare dalle cose, e non per un qualche gusto regressivo, ma perché se uno vuole arrivare in fondo a certe questioni, sia personali che storiche, è proprio nelle fantasie, nelle zone oscure – nell’inconscio – che si scopre la merda, quella che ci inchioda al di là di ogni sforzo volontaristico di andarle contro, ma anche la gioia, una felicità che non conosce i limiti del principio di realtà.
3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?
Ho iniziato a scrivere alle medie, a seguito di un evento traumatico ma ambiguo – cioè un po’ bello un po’ brutto – che mi era successo, e scrivevo solo per buttare fuori l’angoscia che questa ambiguità aveva generato in me. A un certo punto ho iniziato a leggere i simbolisti e ho iniziato a scrivere poesie terribili che nella mia testa avevano a che fare con la ricerca di assoluto, ma in realtà avendole rilette da più grande mi sono reso conto che parlavano semplicemente d’amore, del mio desiderio di perdermi nell’amore. Poi mi ero scocciato di tutto quel sentimentalismo e allora sono passato a poesie narrative, quasi interamente ‘finzionali’, in cui cercavo di parlare il meno possibile di me e il più possibile del mondo. In questo momento direi che mi sento più vicino a quel ragazzino delle medie che scriveva per neutralizzare l’angoscia, anche se purtroppo senza quell’ingenuità e quella soddisfazione. Se questo percorso (che forse si intravede un po’ nella raccolta, almeno nella parte iniziale) ha un valore, penso sia semplicemente perché mi rendo conto di essere cresciuto nella scrittura quando sono andato contro me stesso, mi sono rotto di quello che stavo facendo e ho cercato di cambiare postura, stili, modi. In questi momenti di cambiamento inizialmente sono super entusiasta e scrivo cose imprecise, poi trovo la giusta misura, poi c’è una fase che oscilla tra la maturità e la senescenza, infine rischio di assumere delle pose, o comunque di camminare per una strada in discesa in cui tutto sembra facile e a portata di mano. Ecco, io mi rendo conto che la mia scrittura è più produttiva quando mi sento scomodo, non nel senso che i testi escono più belli – di questo francamente non ne ho idea, e forse in realtà anche no – ma nel senso che esce fuori più roba, riesco a spurgare meglio.
Sulle altre domande non ho molta idea: non sento di aver propriamente preso parola in quanto autore, mi sembra solo di aver pubblicato delle poesie che spero siano belle e facciano passare qualche ora piacevole ai miei quattro o cinque lettori. Non mi sento particolarmente influenzato dal fuori, se non un pochino per contrasto: mi sono fatto un’idea del senso comune diffuso nella ‘bolla’, di quali posizioni ‘teoriche’ sono più diffuse o comunque trovano facilmente consenso, e mi piace pensare che quello che scrivo mi faccia apparire un po’ antico, una ‘forza del passato’, uno che riesce a mediare tra la tradizione e il presente, ma tutto questo è un giochetto che si attiva adesso che rispondo a queste domande, mi invento un pubblico mentale un po’ caricaturale che può lasciarsi colpire dalle mie risposte. Penso che il pubblico reale sia molto più intelligente, distratto e indifferente di questa mia proiezione mentale, per cui so bene che questa farsa esiste solo nel teatro della mia fantasia.
4) Tutti non sopportano qualcosa di ciò che scrivono. Tu cosa odi della tua scrittura? Che rapporto hai con i tuoi automatismi?
Della mia scrittura penso di non odiare niente, però odio certe regole minime di variatio che mi impediscono di ripetere all’infinito parole che mi piacciono un sacco e che già uso tantissimo e che per decoro devo tenere sotto controllo. Penso agli aggettivi determinativi, a ‘luce’, ‘gioia’, ‘dolore’, ‘tutti’, ‘tutto’, ‘come’, ‘assolato’, ‘disperazione’, ‘sempre’; e poi anche le coordinate (‘e…e…e…’), le relative e gli infiniti. Se ripetere in continuazione le stesse parole non fosse vietato, i miei testi credo che sarebbero simili alle icone ortodosse: quasi identiche una all’altra, con un sacco di oro come sfondo, e delle figure stereotipate e un po’ brutte in primo piano. Purtroppo il mio retroterra è cattolico e questo piacere non posso concedermelo.
Altre cose automatiche per fortuna le posso fare perché non violano nessuna regola, anzi penso siano stilisticamente interessanti, tipo questa cosa che mi viene di cambiare continuamente pronome (io, tu, noi) anche se sto parlando sempre di me. È una cosa che è uscita a caso, ma mi sembra importante per movimentare il discorso e far slittare sottilmente il punto di vista sul personaggio (cioè l’io), assumendo posizioni differenti nei suoi confronti. Poi come dicevo non mi piace quando assumo delle pose e ripeto degli impianti, delle situazioni, delle cadenze, però per fortuna sono una persona abbastanza insofferente e quindi di questo tipo di automatismi mi stufo abbastanza in fretta perché mi annoio da solo.
5) Nel programma radiofonico Le interviste impossibili, andato in onda tra il 1974-1975, alcune voci della cultura italiana contemporanea immaginavano di intervistare dei personaggi storici (Ponzio Pilato, Uomo di Neanderthal, Jack lo Squartatore etc…) inscenando un botta e risposta. Se avessi la possibilità di intervistare un personaggio famoso della storia, chi sceglieresti? Scrivi le tre domande che gli vorresti fare.
Ci ho pensato un po’, ma personaggi famosi non mi viene in mente nessuno con cui mi interesserebbe particolarmente parlare, credo perché se sono famosi vuol dire che hanno lasciato delle testimonianze, o comunque qualcuno si è impegnato a raccontare le loro storie, e quindi in qualche maniera posso già avere un dialogo con loro. Sarei invece molto curioso di trovarmi a Uruk nel IV millennio avanti Cristo. Per quello che ne sanno gli archeologi, a Uruk c’erano questi grandi templi che in quel periodo hanno cominciato a funzionare come delle banche, immagazzinavano enormi quantità di grano che i contadini erano costretti a versare, e per organizzare tutti i loro affari hanno inventato le prime forme di contabilità, hanno cominciato a emettere cambiali, e soprattutto hanno introdotto per la prima volta l’idea di moneta, non tanto come oggetto fisico circolante, quanto come unità astratta per misurare il valore, cioè più o meno come il metro serve a misurare le distanze. Questo passaggio storico in cui le persone hanno cominciato a riporre fiducia nel fatto che un’unità di misura scelta praticamente a caso, per registrare il grano che entrava e usciva da un magazzino, fosse in grado di determinare se un uomo o una donna potessero essere vivi o morti, liberi o schiavi – questa roba qui mi interessa molto. Vorrei sapere che gli è saltato in mente, cosa li faceva sentire in diritto (o in dovere) di fare quello che facevano, grazie a quali poteri e quali discorsi questa idea è entrata nelle menti delle persone, sembrando ragionevole e vantaggiosa, o forse non sembrandolo mai, ma imponendosi semplicemente prima con la forza e poi con l’abitudine. Oltre a chiedere però mi piacerebbe vederli vivere, osservarli mentre entravano in questa nuova forma di patto, capire come questa cosa ha stravolto i rapporti tra umani. Insomma, più che degli individui mi piacerebbe interrogare la specie per comprendere meglio come abbiamo fatto a rovinarci così, cercando nel passato i segni che le cose possono essere diverse da come sono.