Qualche mese fa è stato pubblicato il sedicesimo Quaderno italiano di poesia contemporanea di Marcos y Marcos. Volendo per il momento accantonare il discorso sull’utilità di questa operazione editoriale che ormai si ripete da più di trent’anni, c’è da ammettere che l’antologia – per quanto eterogenea – si mantiene su uno standard qualitativo piuttosto alto. Un dato significativo è la presenza tra gli autori antologizzati di tre dottorandi in materie umanistiche (Michele Bordoni, Marilina Ciaco, Noemi Nagy) e una in sociologia dei media (Alessandra Corbetta) su sette totali. Dei tre autori rimanenti, due (Antonio Francesco Perozzi, Stefano Modeo) sono laureati in filologia moderna, mentre l’ultimo (Dimitri Milleri) è maestro di chitarra. Questo dato è di per sé spiegabile con il coinvolgimento diretto di alcuni dei membri del comitato di lettura nel mondo accademico, ma la questione rimane problematica. Se è vero che ogni Quaderno misura la temperatura poetica del biennio precedente alla sua pubblicazione, forse dovremmo porci la domanda da un altro punto di vista: è possibile scrivere un libro di poesia in Italia senza una laurea magistrale in filologia?
La figura del poeta addottorato (o poeta critico) prolifera nelle università italiane in maniera inversamente proporzionale a quella del romanziere letterato; basti citare due dei più grandi romanzieri italiani contemporanei, Francesco Pecoraro e Vitaliano Trevisan, il primo architetto e il secondo difficilmente incasellabile in categorie di sorta. Non è un caso quindi se in Italia il lettore di poesia è sempre più antropologicamente simile allo scrittore di poesia (fino al sospetto allarmante che il primo gruppo coincida con il secondo), mentre il mondo del romanzo continua pullulare e, in casi eccezionali, a travalicare i confini nazionali. Il discorso si lega ad una sempre più chiara abdicazione della poesia al suo mandato sociale, un fenomeno incominciato alla fine del 1800 che ha lentamente reso la poesia e il teatro periferiche all’interno del sistema delle arti letterarie, in favore del romanzo. Questo ha prodotto una reazione istintiva dei poeti che si sono armati nell’ultimo secolo di strumenti critici così sofisticati da poter essere maneggiati soltanto con le pinze di un dottorato di ricerca. Tra i sette autori, il caso di Antonio Francesco Perozzi è interessante perché mostra una rapida e netta trasformazione di segno opposto. Rispetto al suo precedente libro, uscito appena l’anno scorso, in bottom text Perozzi si riappropria della prima persona singolare che era praticamente assente in Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022), un libro che faceva dell’impersonalità tipica di alcune scienze lo strumento stilistico predominante. Leggendo bottom text, invece, si ha l’impressione che il personaggio che dice io (modellato sul vero Antonio Perozzi) offra al lettore il suo sguardo su un mondo in cui un antropocene futuribile ha preso le strada lenta e silenziosa dell’apocalisse. Sono quasi del tutto assenti le figure umane: al loro posto una sfilza di oggetti inanimati (la ferraglia, le travi, gli arnesi di falegnameria, il televisore LG, un assortimento di oggetti di metallo).
Installazioni è il titolo della prima sezione, e proprio come delle installazioni questi oggetti esistono, e il loro senso è ricavato dal solo fatto di esistere. La loro esistenza è in realtà una persistenza, in quanto «Con il boom economico ci siamo innamorati / delle cose tangibili e difficili da eliminare», e continuamente «tocchiamo con mano che più niente / è destinato a sparire». In ogni caso, la desolazione è giustificata dal fatto che come sempre l’espressione di una prima persona coincide con qualcosa di antisociale e asimmetrico. Per il personaggio che agisce su uno sfondo urbano e industrializzato come la periferia della provincia italiana, l’esperienza del mondo e l’esperienza di sé arrivano quasi a identificarsi («Ho un’immagine che mi sono costruito da solo»).
Un punto centrale per la comprensione del libro è il fatto che Perozzi riesca ad essere uno scrittore “impegnato” senza cadere nel vecchio inganno dell’impegno a tutti i costi che porta alcuni poeti a plasmare opere così vistosamente superate dalla propria vocazione sociale da essere quasi illeggibili; in breve: opere in cui è palese la prevalenza della politica sull’arte, della funzione sul senso. In bottom text invece, il lettore è continuamente suggestionato da situazioni quotidiane, uno slice of life spesso ambientato tra le mura domestiche (la seconda sezione è intitolata stanze), non sempre accoglienti («Al contrario, le pareti costruiscono / l’odio per i romanzi, i porno preferiti, / la noia, il sonno, non parlare più coi genitori»).
Le poesie di Perozzi non sono dei bignami patetici sui recenti fatti di cronaca nera o sugli ultimi sviluppi della critica marxista o del mondo di internet, ma sono dei quadri in cui questi elementi agiscono da catalizzatori, pur mantenendo un alto grado di poeticità. Il cortocircuito deriva dal fatto che l’individualità del poeta, della sua casa, della sua stanza, dei suoi pensieri non è che una costruzione collettiva posticcia, la stessa che è alla base del concetto di meme di cui il “bottom text” è la parte sottostante, quella da riempire a piacimento con frasi sempre nuove che garantiscono all’ultra-individualismo una ultra-serialità. Il meme irrompe nel testo con la stessa franchezza di una schiera di case popolari, tutte identiche e diverse («Alcune abitazioni possono essere lette / come fossero dei meme») e porta con sé la distruzione dei due cardini fondanti del sistema artistico occidentale, ossia l’unicità e l’originalità dell’opera, a cui contrappone l’emergere prepotente e incontrollato della creatività amatoriale.
Il meme infatti, proprio come la poesia, non funziona mai in maniera referenziale (vero o falso), ma in maniera metaforica, e la sua metafora si traduce tutta nella conoscenza o meno della chiave d’accesso, nel senso di appartenenza del lettore. Appena cerchiamo di interrogarlo, il meme si dissolve, diventa pervasivo come un virus. In definitiva, il suo capitale simbolico è spendibile nella pervasività piuttosto che nella persuasione.
L’algoritmo ci ha lasciato in dono gli stessi sogni, dalle sponde del letto facciamo tutti gli stessi sogni: l’inquadratura è sovraesposta, tagliata male, e ognuno si riconosce in sé, e dappertutto, si riconosce in ogni altro, è il centro del sogno.
Per concludere, bottom text è un libro agile, fresco, consapevole, che non cede alle lusinghe dell’impegno letterario spicciolo, né ai virtuosismi della letteratura astratta e accademica. L’autore pare aver interiorizzato il meglio della temperie poetica recente derivata, in parte, da La pura superficie di Guido Mazzoni e della linea autofinzionale in prosa che ha in Walter Siti il suo capostipite italiano e forse, come nel caso di Siti, è bene che il lettore capisca al più presto, guardandosi allo specchio, che è Antonio Francesco Perozzi, come tutti.
Sistema di valori
Il grande invisibile si trova qui, nei soldi. A cena rinneghiamo che l’alta finanza si fotta di noi: così limpido è l’amore che ci vuole a produrre un sistema di valori capitali, che sono in mezzo alla gente, che si trasformano imitandoci. Tutto ciò che si vede o sente o mangia, anche la passione per il nuoto o l’eternit, può essere convertito nella sua larva, in qualcosa che resta anche se l’uso ne sforma le parti. Questa notizia ci rasserena; sorrido dopo tempo a mio padre. Riponiamo i barattoli nel frigo e tocchiamo con mano che più niente è destinato a sparire.
Campi di telefonia mobile
L’aria è di proprietà della Vodafone e di altre compagnie telefoniche. Lo scopro una mattina senza campo dalle parti di Carsoli: quasi un’apnea non ricevere più voci dallo spazio. Ma ora la salute dell’aria è scoperta un artificio: trattiene in verità dei flussi, delle reti trasparenti al di sopra delle teste, che tessono tra loro conversazioni, avvocati consultati, madri apprensive, i fatti più oscuri della storia recente. Quindi tutto ciò che le persone hanno detto è sospeso nell’aria. Un sogno sarebbe un magnete in grado di intercettare, se sollevato, l’onda del linguaggio. Sapere così, con un bastone, chi ha messo le molotov nella Diaz.
Al netto delle giuste e legittime polemiche riguardanti i grandi gruppi editoriali e il loro ruolo nel diffondere una determinata idea di poesia o tracciare un fantomatico canone del contemporaneo, è difficile negare che ancora oggi la pubblicazione dell’opera più o meno completa di un poeta o una poetessa da parte di una casa editrice di grandi dimensioni rappresenti un argomento importante a sostegno della sua “canonizzazione”; se non altro, la pubblicazione di un’antologia presso un grande editore può garantire una certa diffusione del nome del poeta, anche al di fuori dei circoli degli addetti ai lavori. Vista la difficoltà di reperire alcune raccolte di Antonella Anedda ormai fuori catalogo (una su tutti: Notti di pace occidentale, Donzelli, 1997), e considerata l’attenzione accademica che le è stata riservata e i consensi pressoché unanimi che la sua produzione ha incontrato, peraltro in una maniera trasversale e al di là della divisione tutta italiana e talvolta manichea tra ricerca e lirica, nel suo caso un volume antologico era ormai atteso da anni.
Pubblicato nel settembre 2023 da Garzanti all’interno della sua storica collana I Grandi libri, Tutte le poesie di Antonella Anedda è il definitivo coronamento di un percorso singolare e importante nel panorama poetico italiano; un’operazione che ha offerto ad Anedda la possibilità di rivedere il proprio corpus di testi per modificare, correggere o cassare alcuni componimenti. Non poteva essere altrimenti per un’autrice che ha fatto della ricerca della “parola esatta” un vero e proprio topos della propria poesia, e al contempo ha immaginato la scrittura come una continua e necessaria interrogazione metalinguistica. Va comunque detto che le modifiche fatte da Anedda, quando non vanno a eliminare del tutto un componimento, non sono mai radicali e interessano in modo particolare le sue prime tre raccolte. Se tuttavia si vanno a confrontare i libri e i relativi testi nelle versioni originali con le versioni accolte nel volume del 2023, è possibile individuare, proprio guardando alle correzioni di Anedda, alcune delle direttive fondamentali della sua scrittura.
Prima di tutto, però, il libro raccoglie in 564 pagine tutte le sei raccolte in versi dell’autrice: Residenze invernali (Crocetti, 1992), Notti di pace occidentale (Donzelli, 1999), Il catalogo della Gioia (Donzelli, 2003), Dal balcone del corpo (Mondadori, 2007), Salva con nome (Mondadori, 2012) e Historiae (Einaudi, 2018); va anche rilevata la presenza della valida prefazione di Rocco Ronchi, che pone l’accento su quello che col passare degli anni si è rivelato sempre più come uno dei veri nuclei della poetica aneddiana: la riflessione sul soggetto, sulla soggettività e sul suo rapporto con il mondo e più in generale con l’alterità. Già in Residenze invernali, esordio aneddiano che Amelia Rosselli definì in una rarissima recensione «un quasi capolavoro», e che fa uso di un tono decisamente più oracolare e astratto rispetto agli altri libri dell’autrice, appaiono versi del tipo «levo la preghiera di un umano / che vuole diventare oggetto»; il binarismo tra organico e inorganico, umano e oggetto, mondo concreto e tangibile e mondo astratto e interiore diverrà un tema sempre più centrale e pervasivo di raccolta in raccolta. Procedendo con la lettura appare infatti chiaro come l’ottica aneddiana si sia configurata nel tempo come decisamente anti-antropocentrica: si giunge a un testo come «Nuvole, io», in Historiae, e alla scomparsa definitiva della propria identità umana nel vagabondaggio a-logico, libero e liberatorio di Geografie (Garzanti, 2021), non compreso però nel volume del 2023. Ragionamento sull’io e sul soggetto che però rifiuta la semplice scappatoia della reductio a un noi o a una presunta impersonalità (che, come ha osservato più volte Guido Mazzoni, è di fatto impossibile vista l’ineludibile componente personale della forma), e piuttosto costruisce su questa tregua sempre momentanea dal peso dell’io un sistema poetico, etico, estetico.
Tornando alle varianti, è senz’altro da rilevare la tendenza di Anedda ad asciugare determinati passaggi tramite l’eliminazione di sintagmi o intere frasi; è invece rarissima la tendenza opposta, volta allo sviluppo del testo in lunghezza (presente giusto in alcuni componimenti di Salva con nome). In Residenze invernali, in particolare, è molto frequente l’assimilazione dei versi composti da una sola parola (che tenderebbero a conferire una certa gravitas ad alcuni componimenti di questo libro) al verso successivo e più lungo, così da smorzare il tono aulico e austero che domina l’intero esordio aneddiano.
Ma tu muovi una luce la prima della sera […]
Ma tu muovi una luce la prima della sera […]
tremore di fuochi tra le pietre […]
tremore di fuochi tra le pietre […]
Abbiamo sollevato il mento lampade legno e vuoto gambe intorpidite dai letti miseria non muschio bianco non luce d ’acqua tra i cespugli. […]
Abbiamo sollevato il mento lampade legno e vuoto gambe intorpidite dai letti miseria non muschio bianco non luce d ’acqua tra i cespugli. […]
D’altronde, come si accennava prima, Anedda è sempre stata molto cauta nell’uso delle parole e della lingua, una lingua-coltello (per usare una formula introdotta in Salva con nome) che va maneggiata con attenzione e richiede una grande consapevolezza su quando è meglio tacere: «Lo capite da sole parole, / non vi posso più mostrare / con voi faccio del male […] / dunque parole siate buone, andate nel silenzio / abbasserò la voce fino in fondo» (Historiae, 2018). Di pari passo con queste varianti riguardanti la versificazione, nelle versioni nuove di alcuni componimenti dei primi due-tre libri dell’autrice si può riscontrare anche una minore enfasi metafisica.
Non sorprenderà infatti che un altro cambiamento comune soprattutto in Residenze invernali e Notti di pace occidentale sia l’eliminazione di allusioni più o meno esplicite ad angeli, croci et similia. Lungi da Anedda essere mai stata una poetessa religiosa; piuttosto, come più volte rimarcato dall’autrice stessa, questo tipo di suggestioni hanno a che vedere con immagini provenienti dall’arte moderna e la sua iconologia (Anedda è storica dell’arte e iconologa di formazione) che si innestano sul dettato dei singoli testi. Il tono più “spiritualistico” che alcune di queste immagini rischiavano di conferire ai testi è qua abbondantemente cassato: l’unica trascendenza che viene ricercata in tutto il volume, e che è sempre stata quella veramente importante all’interno del percorso di autrice di Anedda, è la non-trascendenza della tregua, quella del momento di pieno distacco dall’io, della dispersione in qualcos’altro: nel non organico e nel paesaggio, nell’immagine e nella contemplazione, nello studio e nella testimonianza della storia e soprattutto della geografia. Da qui l’estasi laica dello stare al mondo in maniera consapevole, l’etica dell’ascolto e la resistenza silenziosa alla costante anestetizzazione della percezione che caratterizza il momento storico in cui Anedda scrive. Ed è proprio in questa contemplazione consapevole (che è di fatto lo stato privilegiato della poesia) che può trovare spazio tutto l’insieme delle immagini e delle tematiche aneddiane: le isole e i continenti, la storia e la geografia, la lingua sarda e il latino, la tregua e la perdita.
Si accennava prima all’importanza della geografia in Anedda; il volume omonimo del 2021, così come i precedenti libri non in versi (non semplicemente libri saggistici né raccolte di prose poetiche ma oggetti ibridi e difficilmente definibili), tra i quali vale la pena ricordare almeno La vita dei dettagli (Donzelli, 2008) e Isolatria. Viaggio nell’arcipelago della Maddalena (Laterza, 2013), non è compreso in Tutte le poesie. Questo è un peccato vista l’importanza fondamentale di questi testi per comprendere la poetica dell’ autrice. Certo, siamo di fronte a una scelta valida, che già il titolo (Tutte le poesie, non Tutte le prose o L’opera completa) dichiara in modo esplicito; e certo includere la produzione non in versi dell’autrice avrebbe reso poco maneggiabile un volume che già così supera le 500 pagine. Resta però auspicabile la pubblicazione di una futura opera omnia che raccolga i sei libri “gemelli” delle sei raccolte di poesia. Sono questi tra i libri più suggestivi, sperimentali e interessanti del panorama lirico italiano contemporaneo, più vicini all’opera della sempre inclassificabile autrice canadese Anne Carson che alla generazione dei coetanei di Anedda. Ci troveremmo dinanzi a un’opera che potrebbe aver titolo “Tutte le prose” e potrebbe offrire un reale sguardo d’insieme sulla produzione dell’autrice sardo-italiana, che, dal canto suo, alle parole “prosa” o “poesia” ne ha sempre preferito una più precisa: scrittura.
Da Notti di pace occidentale
Non volevo nomi per morti sconosciuti eppure volevo che esistessero volevo che una lingua anonima – la mia – parlasse di molte morti anonime. Ciò che chiamiamo pace ha solo il breve sollievo della tregua. Se nome è anche raggiungere se stessi nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino. Non ci sono che luoghi, quelli di un’isola da cui scrutare il Continente – l’ oriente – le sue guerre la polvere che gettano a confondere il verdetto: noi non siamo salvi noi non salviamo se non con un coraggio obliquo con un gesto di minima luce.
Da Dal balcone del corpo
Paesaggio
Mi avvicinai a un ramo carico di neve dove uno dei corvi piegava sotto le zampe il legno.
Diventai quel dondolio di grigio e nero. E quel diverso verde (misto di salvia e gelo) che avanzava con un tocco di livore sulle nubi.
Vidi me stessa dentro quel purgatorio.
Tutto era paesaggio. La rabbia: un tumulo.
L’incertezza – a mucchi: una collina. Il disamore: alberi con ombre intirizzite.
“Osserva” disse l ’ombra nel cespuglio più vicino,
“la nebbia inghiotte il tuo dolore. Impara nel tuo spazio mortale imparando si sfiora il paradiso.”
Sì, risposi e la luce diminuì l’ira del mattino divise il mio corpo dal rancore impose alle ombre di tacere. E un tagliante azzurro prese – era già paradiso? – il posto del paesaggio, della prima persona.
Da HISTORIAE
Nuvole, io
I.
Il documento viene salvato, lo schermo torna grigio, lo stesso grigio topo del cielo. Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome. Al massimo lo declino al plurale. Dico noi e mi sento falsamente magnanima. Dire voi e tu mi dà disagio come accusare. La terza persona mi confonde ogni volta con il sesso. Alla fine torno all’io che finge di esistere, ma è una busta come quelle usate per la spesa piena di verdure o pesce surgelato. Io con l’io mi nascondo chiamando a raccolta quello che sappiamo: abbiamo paura, ancora non è chiaro come finirà la storia. Dunque riapro la finestra dello schermo, ritrovo il documento, esito davanti alla tastiera. Salvo in una nube l’insalvabile.
«Cosa ci sta succedendo, Chris? Che sta succedendo a tutti quanti?».
Juliana si spinse oltre il bracciolo della poltrona per ispezionare il volto di Chris, pallido e chino sul pavimento, mentre affondava le unghie nella stoffa verde dell’imbottitura. Chris non si mosse. Aveva gli occhi puntati verso un abisso sottostante che vedeva solo lui, una zona negativa nel suo salotto che stava risucchiando via tutta la luce delle sue pupille, e la vita che un tempo c’era dietro di esse. Cristiano “Christian” Della Rocca, considerato un tempo il miglior investigatore privato di New York, sagace ma un po’ burbero, era ormai ridotto a un guscio vuoto di dubbi e incertezze, messo di fronte a un caso che non aveva né capo né coda, un’orgia di elementi indiziari disseminati in un viale di cadaveri: la sua esistenza.
Cos’è successo, caro Chris? Dov’è finita la tua arguzia, la tua battuta sagace sempre a portata, il tuo intuito trascendentale in grado di connettersi a un mondo paranormale oltre le soglie della percezione umana? Nella tua carriera hai affrontato sette assassine, novelli alchimisti, demonologi e dementi, fattucchieri e omicidi telepati e hai sempre trovato una soluzione elegante quanto conveniente e improvvisa come un fulmine a Catacumbo… Ma che soluzione darai all’insolubile, stavolta?
La New York esoterica si era aperta al tuo terzo occhio, i suoi misteri erano diventati la tua quotidianità. Ebbene, ora ti viene presentato un mistero ben più grande, che non trascende soltanto il mondo empirico, ma la tua realtà. Te ne è stato dato un semplice assaggio, eppure appari così inerme! Guardati: non riesci nemmeno a sollevare lo sguardo sulla tua amata, Juliana Jade, una donna impetuosa, corvina, tutta nervi, istinto e sentimenti. La sua voce è rotta dal pianto, ma non riesci neanche a guardarla. Chris, povero idiota, come farai a raccontarle l’indicibile, a spiegarle per filo e per segno i risvolti del caso, con voce calma e superba come un padre che parla alla figlia seienne, come facevi ogni volta?
Ma eccoti muto, immobile, in attesa che qualcuno ti metta le parole in bocca.
«È… una maledizione? È opera di Flynt?» Juliana tentò di spezzare il silenzio abbozzando un ragionamento, tornando ai vecchi schemi, a un passato radioso e leggero di indagini e congetture.
Ma no, cara Juliana: non è uno stratagemma di Eugene Theodore Flynt, diabolica nemesi del tuo amante e massonico maestro dell’Occulto. No, nessuna di quelle scemenze. Persino tu, però, ingenua Mrs. Jade, iniziavi a collegare i puntini del grande schema di questo orrore innominabile. Benché mancasse una ragione, non poteva essere un caso; non potevano essere solo un insieme di eventi contingenti tutte le sventure che vi erano capitate.
Era iniziato con la morte di Alistair Moore, l’ufficiale britannico che, al contrario del nostro “detective”, era rimasto nelle forze dell’ordine della città, da sempre sospinto da un forte e disgustoso senso del dovere. Ma non per questo avevano smesso di essere amici. I migliori, anzi. Fu una tragedia quando, nel ’29, la Borsa crollò e il nobile Alistair si tolse la vita con un colpo di pistola al cuore perché inondato da debiti che avrebbero afflitto almeno cinque generazioni dopo di lui. Tutto a causa di quegli investimenti edilizi a Manhattan che tu, Chris, il suo più grande confidente, gli avevi consigliato di fare!
Una vera tragedia. Così come quella che colpì Alice Della Rocca, la cara sorella, vispa, geniale, mai quieta e dall’orientamento sessuale ambiguo. Ah, Alice era una grande inventrice, fautrice di decine di apparecchiature pseudo-scientifiche che avrebbero fatto arrossire il Dottor Frankenstein, ma che di certo ti hanno aiutato, caro Chris, a risolvere decine di casi senza che tu mostrassi un pizzico di gratitudine, duro e distaccato come sei. Peccato che una di quelle stesse diavolerie l’abbia trasformata in uno scarafaggio fotofobico. Chissà che non sia quello che tu abbia schiacciato per errore, eh, Chris?
Persino Malleus Cole, il tuo mentore, il paziente professore la cui mente non è più tornata dal viaggio nel sovrannaturale, l’uomo saggio e mite che ti ha insegnato tutto, non è scampato alla catena di tragedie. Ormai definitivamente impazzito, vaga per le sale di un istituto psichiatrico in attesa di una lobotomia che lo salvi da se stesso e dalle creature demoniache che sono venute a fargli visita.
Ma come è potuto accadere tutto questo? Quale la causa comune di questi destini?
Questa è la parte più crudele dell’orrore, Chris. Che tu sai. Tutto.
Chris, senza staccare lo sguardo dal vuoto in cui la sua anima stava precipitando, porse la Lettera a Juliana. Il pezzo di carta giallastra sembrava un brandello di carne tumefatta, strappata a un corpo morto di recente. Benché la stanza fosse illuminata dalle ampie finestre in stile vittoriano, la Lettera rimaneva nell’ombra. Juliana avvicinò la mano tremante al foglio sospeso per aria. Una volta che lo ebbe fra le mani, Chris lo lasciò andare con sollievo, come si abbandona un carico pesante. Juliana avvicinò la lettera al volto. Quando, infine, trovò il coraggio di guardare la pagina, vide parole scritte col sangue, in una grafia folle. Immediatamente, la carta le tagliò le dita, un tuono echeggiò nella valle più vicina e una porta di quercia sbatté da qualche parte. Non ebbe bisogno di leggerla; il contenuto della Lettera, semplicemente, le invase la mente, come una macchia di inchiostro riversata su un foglio bianco.
«Cosa… come può essere… Chris… Io…»
Ora sapeva anche lei. Avresti voluto risparmiarle l’Orrore, Chris, un ultimo gesto disperato di amore, quell’amore profondo che non le avevi mai dimostrato, che non sei capace di esprimere. Ma era tardi. Tardi come lo è per me. Pare che la “Saga del Detective Maleficarum” sarà il mio unico lascito a questo mondo. Diciotto romanzi e centinaia di racconti brevi con protagonista il grande Chris Della Rocca, l’indagatore dell’incubo più amato dalle sessantenni. Il più dozzinale rifacimento di una parodia malfatta di Sherlock Holmes, unito al morboso gusto gotico di un’ambientazione sovrannaturale ed esoterica nella New York degli anni Venti e poi Trenta. Un’idea partorita a forza fra sangue e feci per pagarmi l’affitto e un condizionatore decente. Ero addirittura entusiasta quando, quel tredici ottobre, giorno da maledire in ogni calendario, ricevetti la telefonata dell’editor Fronelli, o “Frodelli”, come lo chiamo io. Tale fu l’entusiasmo che firmai qualsiasi foglio, in triplice copia, firmai senza leggere e firmai col sangue.
Quel sangue che adesso macchia quella Lettera, caro Chris.
“Un successo editoriale”, lo chiamarono. Un fulmine a ciel sereno; altro che Catatumbo… E quando iniziarono ad arrivare tutti quei soldi, pensai davvero di avercela fatta. Di aver vinto il gioco. Ma ero stato giocato. Sono dovuti passare trent’anni per accorgermene. Poi altri quindici. Fu a quel punto che capii che non mi avrebbero fatto scrivere mai più nient’altro che questo. Che la mia reputazione si basava solo su “quello del Detective Della Rocca”. Che ero disprezzato e deriso in qualunque circolo letterario, considerato, al più, uno scaltro e viscido opportunista, quando non un mediocre plagiatore. Soprattutto, capii di essere stato maledetto quando mi resi conto che la saga non avrebbe mai avuto fine. Che ero legalmente obbligato a “non far cessare l’esistenza finzionale” dei miei protagonisti. In altre parole, non posso farvi fuori. Furbo, il Frodelli, ad avermi ingabbiato fin dal principio e ad avermi costretto a scrivere abomini a metà fra l’italiano e l’inglese, per via di una qualche infernale linea editoriale che ancora oggi non comprendo. Ormai non ha neanche più senso cercare un cavillo, una scappatoia legale. Potrei anche uscirne con facilità, con un avvocato decente. Ma che senso avrebbe? Nessuno mi prenderà mai più sul serio, neanche se mi mettessi a scrivere un Infinite Jest o una nuova Recherche – e non ho neanche più la forza o la capacità di farlo; ho procrastinato abbastanza a lungo da non sapere più perché scrivevo. E siamo del tutto onesti, almeno fra noi: non sarei mai stato in grado di farlo. Vedi, Chris? La tua ragion d’essere si riduce a una nota a piè di pagina di un contratto e all’indolenza di un vecchio amareggiato! Dovrai vivere avventure scadenti e mal strutturate fino alla fine dei miei giorni. Purtroppo, godo di ottima salute e il mio stile di vita benestante mi garantisce l’accesso alle migliori cure. No, la tua leggenda non è destinata a concludersi. Uscirà presto anche una di quelle dannate serie televisive su di te, caro Chris. Per mesi ho avuto a che fare con quegli idioti di sceneggiatori americani, pieni di domande insulse, predicatori di neologismi pomposi e senza senso.
No, non posso ucciderti, Chris Della Rocca. Posso, però, con la scusa del genere, dell’orrore cosmico crescente, catapultare te e ciò che ami in un incubo senza fine. Posso renderti insopportabili quei tuoi baffetti ispidi; posso farti cadere quei quattro peli che ti sono rimasti in testa. Forse posso gambizzarti, devo controllare il contratto. Soprattutto, posso maledirti con la conoscenza. La consapevolezza di vivere in un inferno letterario, sottoprodotto della mente di uno scrittore indegno di questo nome, ti accompagnerà in ogni tuo gesto. È una questione editoriale, vedi; non potrai mai suicidarti e scappare dall’orrore. I tuoi “fan” non me lo perdonerebbero.
Per il resto, non preoccuparti: ho già pensato alla tua prossima battuta. Una chiosa efficace – ma non troppo, non vorrei alzare il livello – per “confortare” la tua donna.
Chris, incapace persino di produrre liquido lacrimale, con gli occhi secchi e sbarrati si alzò e andò a prendersi un sigaro Montecristo, una nuova marca con cui aveva sostituito i suoi amati Romeo y Julieta, che non riusciva più a trovare da nessuna parte. Fumare un sigaro lo aiutava sempre a pensare e distendersi. Ma il sigaro, non appena toccò le sue labbra, gli lasciò una sensazione di viscidume e acido in bocca. Lo allontanò amareggiato e si massaggiò i folti baffi con le dita, un altro dei suoi gesti più amati, quasi una firma; ma i suoi stessi peli lo punsero, e avvertì una crescente irritazione sopra il labbro. Juliana era affondata nella sua poltrona verde acido. Stava anch’ella sprofondando nel medesimo abisso del suo amato. La nausea crescente dentro di lei si stava trasformando in disprezzo. Disprezzo silenzioso e strisciante. Disprezzo per Chris. Egli si voltò e, senza espressione alcuna, recitò come un automa una frase inserita a forza nel suo processore.
«Nella mia vita, ho affrontato ogni tipo di orrore. Ma adesso siamo precipitati nel più grande… ed esso è ovunque.»
E non poté che sospirare. Anzi, no. Non sospirò affatto. Se lo tenne tutto dentro, insieme al putrido sapore del Montecristo.
Giuliano Tomarchio ha studiato cinema e sceneggiatura, ma la sua vera passione è fare Mexican Mule. Ha pubblicato diversi racconti sulla rivista «MALPELO» e un paio su «Spaghetti Writers»; un suo scritto è sfuggito alla censura dell’imminente antologia “Limonə” di «Malgrado le Mosche». Dice di scrivere per l’audiovisivo; ma questo è facile dirlo.
In un saggio del 1927 intitolato Breve relazione su 400 (quattrocento) giovani poeti lirici, Bertolt Brecht scherza non senza preoccupazione sulla possibilità che «qualsiasi tedesco sia in grado di scrivere una poesia». Quasi cento anni più tardi le parole di Brecht sembrano trovare conferma anche in Italia.
Con la candidatura di 135 poeti – autori della quasi totalità dei libri di poesia pubblicati lo scorso anno – nasce la sezione poesia del Premio Strega. C’è da dire subito che nonostante la mole di partecipanti la cinquina finalista mantiene una certa coerenza anagrafica. Composta in maggioranza da autori settantenni (quattro su cinque), suggerisce la smania della giuria di colmare il più in fretta possibile il ritardo rispetto all’omologo premio di prosa. Si ha l’impressione infatti che il Premio Strega Poesia nasca con l’intento di suggellare l’esistenza di lunghe e proficue carriere piuttosto che come riconoscimento al miglior libro di poesia; stessa malattia che aveva già contagiato i giurati del Premio Strega tra gli anni ’70 e ’80, quando vennero premiati libri minori di autori affermati (Tommaso Landolfi, Mario Pomilio, Primo Levi).
Essendo il Premio Strega il più rappresentativo dei gusti del ceto medio dei lettori, si potrebbe soprassedere sulla qualità dei libri finalisti, come d’altronde si fa da anni per la cinquina dei romanzi, ridotta a selezione di testi non troppo ardui in grado di accattivare anche il lettore occasionale. C’è da ammettere però che lo Strega è sempre stato un catalizzatore capace di favorire e accelerare la creazione di tendenze spesso deleterie che potrebbero riproporsi anche nel mondo della poesia che, per scarsità di mezzi e per esiguità di pubblico, aveva continuato a sopravvivere nei suoi esiti più vitali grazie soprattutto all’impegno di editori medio/piccoli, ovvero gli esclusi dalla cinquina finalista (con l’unica eccezione di Italic Pequod).
Questo è un discorso strettamente collegato all’idea ormai sorpassata che le grandi case editrici svolgano un ruolo decisivo nel filtraggio e nella selezione qualitativa dei libri di poesia. Così si legge a caratteri cubitali sul sito de Lo Specchio Mondadori:
Di qui si irradia il canto della nostra lirica, qui giungono le voci nuove della giovane poesia e si affiancano ai grandi nomi già noti in tutto il mondo continuando la gloriosa tradizione italiana attraverso i secoli e i tempi.
Peccato che la politica editoriale de Lo Specchio sia oggi condotta all’insegna della stanchezza e della disillusione: la prestigiosa collana Mondadori trova appena le forze per pubblicare pigre riproposizioni di libri del Novecento con nuove vesti grafiche o nuovi libri di autori che nel Novecento hanno prodotto il meglio della loro opera (Maurizio Cucchi, Milo De Angelis, Giuseppe Conte, Paolo Ruffilli, Giancarlo Majorino ecc.). In questa ultima categoria rientra uno dei cinque libri finalisti al Premio Strega Poesia, L’amore da vecchia (Mondadori, 2022), undicesimo libro di Vivian Lamarque.
Il libro è diviso in nove sezioni; la prima, intitolata «I nomi degli amanti», è quella in cui è trattato l’argomento del titolo. La poetessa descrive in terza persona un innamoramento reale o immaginario per un personaggio più giovane, identificato soltanto dal soprannome “Ics”. Il «Fascino discreto degli amori non corrisposti» è trattato in maniera impressionistica attraverso la descrizione di paesaggi sentimentalmente evocativi (una spiaggia innevata; l’attesa di una stella cadente il 10 agosto) e con una serie di poesie consequenziali sottotitolate delirio 1, delirio 2… che tratteggiano scenari di ipotetici incontri tra i due amanti («Strano le era parso di intravederlo sul volo / per Cagliari»). Da questo punto in poi il libro prende una piega naturalistica con le successive due sezioni («Poesie con foglie» e «Gli animali addormentati»). Le farfalle, i pesciolini, i fiori di lino, i prati servono da impulso per alcune riflessioni sulla vita e sulla morte. Non mancano citazioni dirette ai classici della poesia italiana (Giacomo Leopardi nella poesia sulla siepe; Umberto Saba nella poesia sulla capra). La sensazione è che i testi di queste due sezioni trovino una loro funzione all’interno del libro soltanto attraverso una sommaria coerenza tematica. Più in generale si ha l’impressione che il libro non sia altro che una grande autoantologia cucita con perizia sovrapponendo toppe rappresentative dei temi cari alla Lamarque.
Proseguendo nella lettura di questo bignami lamarquiano, troviamo infatti la sezione dedicata alla famiglia, con poesie su figlia, nipote, madre, fratello e sorella, padre biologico e padre adottivo («Padre padre che facevi il Vigile del fuoco»); la sezione dedicata all’infanzia, con i ben noti riferimenti all’adozione e alla compresenza di più figure genitoriali, forse il vero fulcro di tutta la poetica di Vivian Lamarque dai tempi di Teresino (1981); la sezione dedicata al cinema («Come nel film»), caratterizzata dalla ripetizione, all’inizio di ogni componimento, del titolo della sezione stessa («Come nel film Le Ballon rouge…»; «Come nel film La spiaggia di Lattuada…»; «Come nel film Giochi proibiti…»).
Alcune recensioni al libro hanno evidenziato con fin troppo entusiasmo come la poesia della Lamarque sia rimasta negli anni uguale a se stessa, efficace e sincera. Infatti, al centro delle analisi letterarie che ora appaiono più aggiornate, c’è la tendenza a favorire lo studio dell’efficacia piuttosto che la ricerca del senso, suggerendo l’idea che la letteratura debba essere in qualche modo utile, curativa, e allo stesso tempo non troppo invischiata in questioni formali che allontanano i lettori e restituiscono un’immagine non veritiera della realtà. Assai singolare e indicativa di questa confusione mi pare l’accusa che si muove spesso ad alcuni poeti di essere dei tecnicisti, maniaci delle strutture, innamorati del linguaggio. Sappiamo bene che per diventare popolare la poesia deve semplificarsi, vestirsi di quegli indumenti che la classe media dei lettori riconosce all’istante, e in questo la rima baciata, l’uso sostenuto della similitudine, l’impiego del vezzeggiativo/diminutivo (in L’amore da vecchia se ne contano più di cinquanta su un totale di centosette testi), l’onomatopea, l’anafora, la domanda retorica, risultano gli strumenti più efficaci.
Per quanto riguarda il generale mood del libro, la poesia della Lamarque è continuamente blandita dal suo corrispettivo in prosa, ovvero il feuilleton, il romanzo d’appendice che si attiene a un registro piano e che mette in scena personaggi fortemente caratterizzati nel bene o nel male, immersi in scenari ricchi di pathos e facilmente inquadrabili nel discorso mainstream contemporaneo: il covid («Come un Covid / nuociamo al mondo.»); la guerra («Oh di nuovo. / Un Paese in dolore / tanti Paesi in dolore»); gli immigrati («Hanno attraversato mille e uno mari / e uomini-squali per approdare infine / su questa casa mobile…»); Whatsapp («e ogni tanto anche un wapp / con dentro metà di un paterno / sorriso…»).
Per concludere direi che l’impianto realistico e a bassa temperatura formale, l’apparente assenza di una vera e propria coerenza tra le sezioni, il ripetuto utilizzo di cliché letterari, il recupero a piene mani di temi da libri precedenti dell’autrice, inseriscano di diritto L’amore da vecchia nel calderone dei libri stanchi ma considerati autorevoli per fattori esterni che non riguardano direttamente il testo. Certo, il libro di Vivian Lamarque non è l’unico a presentare evidenti mancanze, nemmeno tra gli altri della cinquina dello Strega Poesia. Sono forse l’entusiasmo per una nuova pubblicazione dopo sei anni di silenzio, forse il prestigio che giustamente l’autrice si è guadagnata nel corso del tempo che concorrono a far scambiare, come accade spesso, libri superflui per capolavori insuperabili, o addirittura “necessari”.
ALLA SUA ETÀ
Alla sua età è normale morire. Nessuno si meraviglia se uno alla sua età muore. Nessuno. Ma lei sì! Lei che sarei io, sì. Sì, lei si meraviglierà, io mi meraviglierò. Tanto!
DAVIDE E IL TRAM
Sentinella del secondo piano guarda il nipote avviarsi lungo e magro con venti chili di libri verso la fermata. Spicciati lei dice al tram, guarda che fila ti sta aspettando e uno di loro ha una luce accesa non vedi? Sono i suoi anni, gli luccica come astro la giovinezza. Ma non capisce il tram la parola astro e nemmeno anni e tantomeno giovinezza, infine lento giunge il 14 col suo lungo muso verde e spalanca le porte e inghiotte tutti anche lui e poi riparte e poi sparisce ma lei dalla finestra lo vede nel tram in piedi e poi seduto, con la sua luce accesa.
COME NEL FILM «NOSTALGIA» (2022)
Come nel film Nostalgia che all’inizio Favino compra una spugna e poi con la spugna piano piano lava la sua mamma vecchina e ci incanta e poi ancora più avanti quando danzando molto timidamente sorride e noi si pensa che bello finirà così il film? Così nella vita tanto speriamo che bene finisca una cosa. E guardiamo Oreste che nel bel buio della notte da lontano si avvicina al suo amico Favino. Per abbracciarlo e fare pace?
Ho una fascinazione per le case degli altri, mi basta stare sulla soglia per immaginare segreti nascosti in bella vista. Una finestra aperta, il pavimento profumato, la lavatrice in funzione, avviene sempre qualcosa di inconfessabile prima che una porta di casa venga aperta.
Così ho pensato sulle scale che portavano al primo piano. Dalla parete di vetromattoni sulla destra filtrava la sagoma di Martin Paredes. Sembrava stesse trafficando con i cuscini del divano. Giunto in cima alle scale l’ho trovato seduto con le mani sulle ginocchia.
Avrà pronunciato delle formalità rimaste inascoltate, perché mentre parlava mi sono accorto di non essermi portato dietro il coltello e allora il mio volto ha certamente rivelato le mie intenzioni. Sono momenti, questi, in cui crediamo alla telepatia, come quando sentiamo che il telefono sta per squillare, e squilla davvero. Questo mistero, per cui da uno sguardo Martin Paredes abbia capito, io non me lo spiego tuttora. Mi sono arrangiato con il trofeo che stava sulla scrivania. Sangue ovunque, le mie impronte, la macchina vista dai vicini, altre testimonianze, mi hanno preso subito.
Il commissariato puzza di muffa e di sudore, i visi dei poliziotti sono fieri, hanno il mento all’insù, perché il crimine fa marcire anche i palazzi e un buon poliziotto col marcio ci convive. Ma meglio lasciar stare le metafore, che in un commissariato sono pericolosissime.
Seduto e ammanettato nella stanza degli interrogatori, osservo il commissario Acuña avvicinarsi, sputarmi il fumo del cigarillo in faccia, non per sbeffeggiarmi, lo fa con chiunque, non distingue più il respiro dal fumo.
Vuole dirci cosa è successo?, mi chiede.
Il problema di un reo confesso è che tutti gli credono.
Ho difficoltà a organizzare una confessione, dovrei cominciare da ciò che conosco meglio: la mia fascinazione per le case degli altri, appena entrato in un appartamento immagino segreti nascosti in bella vista. Una scrivania ordinata, la cucina che profuma di limone, il letto rifatto e impeccabile. Cosa fa la gente, prima di aprirci la porta?
Così ho pensato sulle scale che portavano al primo piano. Attraverso la parete di vetromattoni sulla destra non vedevo Martin Paredes, ma sentivo il rumore dei bicchieri poggiati sulla scrivania. Giunto nello studio ho preso il whisky che mi ha offerto, abbiamo brindato.
Il sole che filtrava dalle finestre segava la stanza. Paredes mi ha fatto una domanda nell’ombra, ha aspettato la risposta nel fascio luminoso, poi è tornato nell’ombra con un passo all’indietro, la mano che si muoveva accanto al cassetto della scrivania… Ci credete che lo spionaggio aziendale esiste persino qui? L’imprenditoria provinciale è un pollaio di gallinacci spennacchiati, ma ho detto niente metafore, con le metafore un uomo si rovina. Meglio le faccende concrete, la bottiglia che si spacca sulla testa e poi il vetro che trapassa la gola di Martin Paredes; io che provo a cancellare le tracce, ma con un macello simile basterebbe un novellino per prendermi.
Infatti mi portano subito in commissariato, la stanza per gli interrogatori è la più puzzolente.
Insomma, vuole dirci che è successo?, chiede il commissario Acuña.
Mastica un bastoncino di liquirizia. Lo sanno tutti che non fuma più, i cigarillos fanno malissimo, ha detto il dottore, così dice la moglie. Ma tutti sanno che Acuña, quando risolve un caso, se ne va sul tetto del commissariato e si fuma un robusto. Sputa il fumo più in alto possibile perché vorrebbe riempirne il cielo, creare il proprio mondo grigio nel quale sarebbe l’unico a sapersi muovere.
Mi rendo conto che le parole si susseguono con poca efficacia, il racconto è incoerente, c’è davvero qualcuno che si fida dei rei confessi? Dovrei cominciare da ciò che sento davvero mio. Non c’è niente di più intimo di un delitto.
Confesso di avere una fascinazione per le case degli altri, mi basta stare in strada e osservare le facciate, le file di finestre attraverso le quali osservo teste, mezzibusti in movimento, dettagli dell’arredo e immagino i peggiori segreti appena sotto la linea del davanzale, segreti che vengono nascosti in bella vista non appena la porta dell’appartamento viene aperta. Segreti che stanno dietro la porta di villa Paredes. Mentre salgo le scale tocco la superficie liscia della parete di vetromattoni sulla destra e guardo la sagoma deforme di Martin Paredes al centro della stanza, nella mano ha un oggetto scuro, che cambia dimensione al mio scorrere da un mattone all’altro.
Abbasso il finestrino e accendo un cigarillo. L’aria è calda e immobile. Devo scacciare fuori il fumo che rimane nella macchina e mi pizzica gli occhi. Nel cielo il sole è ancora alto e non tutti i vicini sembrano essere partiti per le vacanze.
Un paio di ore, magari tre, poi suonerò al campanello di Martin Paredes, varcherò la porta e salirò le scale fino al suo studio, nel quale mi starà aspettando con una mano nella tasca, un sorriso imposto, un caffè dal sapore strano che mi pento già di avere bevuto.
Marco Parlato ha pubblicato romanzi e racconti. Nel 2015 è stato scelto come autore italiano per il progetto Scritture Giovani di Festivaletteratura di Mantova. I racconti più recenti sono apparsi sull’antologia Multiperso (pièdimosca edizioni), su Super Tramps Club e sul terzo numero di Quattro. foglio letterario (Nuova Editrice Berti). Vive e scrive a Foligno.
Da qualche tempo passavo i miei pomeriggi in un bar che serviva la crema di caffè. Mi ero trasferita da poco, un mese appena, ed ero in cerca di punti di riferimento per costruirmi una routine. Era l’inizio dell’autunno ma faceva ancora caldo; in genere, ordinavo la crema subito e in seguito, a metà pomeriggio, un tè freddo. Andò così anche quel martedì, solo che il tè era finito e presi un bicchiere di vino bianco. Avevo appena bevuto il primo sorso quando avvertii un prurito alla mano. Era localizzato in un punto preciso, appena a destra della nocca del mio mignolo sinistro.
A prima vista, non c’erano punture di zanzara o screpolature in quel punto, né alcun segno di arrossamento. Mi grattai e decisi di provare a non pensarci, mi guardai attorno a lungo, poi bevvi un altro sorso. Il prurito però non si attenuava, anzi dopo il secondo sorso di vino si fece più intenso e persistente. Mi grattai di nuovo, portando via un po’ di pelle, e rimasi a fatica seduta a finire il mio vino, prima di precipitarmi casa a cercare una pomata lenitiva. Per allora, andava molto peggio, e pure con la pomata la situazione non migliorò.
Arrivò l’ora di cena e mi preparai una salsa di pomodoro, tagliai l’aglio a pezzetti, sminuzzai il peperoncino, non potendo fare a meno di interrompermi a intervalli regolari e grattarmi.
Dopo cena, guardai un film fino a metà, ma il prurito non mi permise di concentrarmi a sufficienza, così decisi di andare a dormire. Un’ora dopo, di addormentarsi non se ne parlava, così decisi di prendere qualche goccia del sedativo che conservavo per i momenti difficili. Riuscii a dormire sei ore di fila.
Sei mesi prima, nessuno avrebbe immaginato che di lì a poco mi sarei trasferita lontano dalla mia città natale. Non l’avevo mai lasciata per più di una ventina di giorni, e un certo numero di fatti pratici – una casa di proprietà, tre gatti, un marito – stavano là a indicare una certa propensione alla stabilità, che del resto io stessa non mi sarei sognata di negare. Apparentemente, la mia routine quotidiana era rimasta identica da una quindicina di anni, ma nell’ultimo periodo erano cominciate a succedere cose.
Una di queste era stata la sparizione del pettine: lo riponevo sempre nel primo cassetto del mobiletto del bagno, eppure una mattina non ce lo trovai, e da allora non ricomparve mai più. Avevo cominciato allora a servirmi di una vecchia spazzola, ma, usando quella, i miei capelli non assumevano lo stesso aspetto di prima, rimanevano più gonfi; inoltre, una volta terminato di pettinarmi, impiegavo qualche minuto in più a liberarla dei miei capelli rimasti impigliati. Sul momento, tuttavia, non avevo dato peso alla faccenda.
Il risveglio fu sgradevole: il prurito era fortissimo, e nel grattarmi sotto le coperte, ancora mezza addormentata, sentii qualcosa di diverso dal solito. Mi ripromisi di controllare una volta che fossi stata più presente a me stessa, quindi andai a lavarmi la faccia e misi la moka sul fuoco. Osservai con attenzione il quadratino di pelle tra la nocca del mignolo e quella dell’anulare e notai che ora c’era un piccolo bozzo, come un rigonfiamento.
Andai al lavoro e trascorsi l’intera mattinata in ufficio sforzandomi di non grattarmi troppo spesso e di concentrarmi, ma non andò molto bene. Il prurito aumentava e pure il rigonfiamento, dopo qualche ora, mi sembrava cresciuto. Mi chiedevo se fosse davvero così o se, invece, mi stessi suggestionando per il fastidio profondo che provavo. Di sicuro, ero spaventata. Cercai su Google il recapito di un dermatologo in città e presi un appuntamento, ma non avrei potuto vederlo prima di due settimane. Nel tardo pomeriggio ero molto nervosa e preoccupata, e al prurito si era aggiunto un leggero dolore nello stesso punto. Tornai a casa e, senza mangiare, presi direttamente il sedativo, in una dose doppia rispetto alla sera precedente.
Il mattino dopo non sentii la sveglia e aprii gli occhi a fatica solo intorno alle dieci e trenta, intorpidita e con una gran confusione in testa. Capii subito che c’era qualcosa di diverso: il prurito era sparito, e così il dolore. Non avvertivo più nulla. Sdraiata a pancia in su, estrassi la mano sinistra dalle coperte e me la portai davanti agli occhi. Non c’era traccia di arrossamenti o bozzi. Cominciavo a tirare un cauto sospiro di sollievo, eppure c’era ancora qualcosa. Ma cosa? Continuai a fissare la mia mano per qualche secondo, sbattendo le palpebre. Tra mignolo e anulare non c’era più il bozzo, ma qualcosa c’era: un dito.
Dopo il pettine, era stata la volta dei calici da vino. Non erano scomparsi tutti assieme, certo; della prima sparizione mi ero accorta soltanto per caso, e chi sa dopo quanto tempo: non li utilizzavo praticamente mai tutti e otto assieme. La sparizione del secondo calice era stata un inconveniente da poco, ma quando venne a mancare anche il terzo mi trovavo nel bel mezzo di una cena con altre due coppie, che nemmeno conoscevo bene, e non mi aveva fatto piacere bere vino da un bicchiere da acqua. Quando, alla fine, ne era rimasto uno solo, avevamo finito per non adoperarlo più, e l’assenza di calici, anche se sulle prime non ci avevamo fatto caso, aveva modificato l’atmosfera delle nostre cene. Non che non bevessimo più vino, ma non rimanevamo più a sorseggiarlo con calma parlando a lungo, tra una portata e l’altra o una volta terminato di mangiare.
In seguito Alberto, mio marito, un avvocato, aveva cominciato ad alzarsi spesso da tavola per andare a controllare il cellulare di lavoro nello studio, e io avevo preso a guardare serie tv dopo cena, con il mio portatile appoggiato sul tavolo di cucina e gli auricolari nelle orecchie. Avevo cominciato con una sola puntata alla volta, poi ero arrivata anche a tre o quattro di fila, per cui raggiungevo Alberto a letto molto tardi, quando lui già dormiva. Dopo le prime volte, lui non mi aveva più chiesto di che serie si trattasse, e pian piano avevamo smesso completamente di farci domande a vicenda.
Grassottello e più corto del mignolo, ma comunque dotato di tre falangi, il sesto dito della mia mano sinistra appariva turgido e aveva la pelle molto più morbida e liscia di quella che ricopriva il resto del mio corpo; era nuovo. Lo esaminai con curiosità, piegandolo, stendendolo, muovendolo a destra e a sinistra, avanti e indietro. A quanto pareva, non aveva nulla da invidiare alle altre dita: funzionava a meraviglia.
Il giorno della scoperta non andai più al lavoro: si era fatto tardi, e poi avevo troppe cose per la testa: se farmi fare dei guanti su misura e da chi, se mascherare il dito agli occhi degli altri e come – arrivata a sera, decisi di non farlo – e pure a come lo avrei usato. Non mi venne in mente nessun impiego preciso, eppure mi sentivo in qualche modo certa della sua utilità. Non avevo fretta di capire, comunque.
Dopo cena, mi versai del vino rosso nel calice che avevo comprato qualche giorno prima – uno solo, tanto per cominciare, per me – e andai a prendere lo smalto. Bevvi un sorso di vino, poi lentamente, con grande cura, tinsi di rosso acceso la piccola unghia del mio nuovo dito. Nella penombra della cucina, brillava come sangue vivo.
Caterina Iofrida è nata a Pisa il 16 gennaio del 1981, è una nottambula che di giorno fa la biologa e la notte scrive. Oltre alla lettura ama molto il cinema, coltiva entrambi come passione e non ha mai voluto studiarli, per non rovinarsi il gusto. È convinta che nulla sia stato mai scritto bene quanto le sceneggiature delle commedie di Lubitsch, tranne forse le serie tv di Amy Sherman-Palladino, ma sa che si tratta di un’affermazione contestabile. Scrive regolarmente solo da quattro anni e talvolta si chiede perché non abbia cominciato prima, ma soprattutto non ha più intenzione di smettere, perché la faccenda la diverte troppo. Suoi racconti sono usciti su riviste online e blog letterari come Malgrado le mosche, Nazione Indiana, Kairos, Quaerere, In fuga dalla bocciofila, Micorrize, Voce del verbo, Il mondo o niente, sulla rivista cartacea Seconda Cronaca (Cupressus Editore) e in due antologie, Fiabe storte (Edizioni Il Foglio, 2017) e In virus veritas (MdS Editore, 2020).
«Questo poema immagina le figure di suono in poesia attraverso gli effetti sonori del linguaggio» ecco quanto emerge dall’introduzione a Prisma (2022) di Maria Borio, plaquette suddivisa in sette momenti di un’osservazione scientifica della vita, che tiene sempre ben presente il concetto di origine; che si parli di vibrazione sonora o di luce.
L’attenzione di Borio è rivolta agli eventi osservati e al perché soggiacente all’esperienza guardata. I testi interrogano le stesse scene che propongono: l’elemento cardine di queste poesie è l’insorgenza di una quantità di domande destabilizzanti che disturbano la visione e distorcono il suo senso, plasmandolo fino a renderlo incerto. La scrittura riprende l’immagine della polvere di licopodio su una superficie che, percorsa da vibrazioni di diversa intensità, evoca disegni ogni volta diversi. Le domande sono telluriche, creano una confusione strutturale e consultabile: sembra che Prisma voglia condurci a un confronto con lo smarrimento e la precarietà.
«strategie, innocenza?», «Dove siamo autentici?», ma anche: «Are you 18?»; tutte domande atte a sottendere una questione essenziale che non è stata ancora formulata: siamo all’incontro con qualcosa di familiare e al contempo estraneo. La domanda sembra essere: “che cosa sto guardando?”; e potrebbe sembrare che la ricerca sia quella di un orientamento nel tempo della vita, ma i testi invece suggeriscono la possibilità della perdita dell’Io nell’osservazione. L’assenza dell’osservatore ha origine nel momento dell’osservazione stessa, per questo è possibile vedere il libro come un no concept album dove il concetto non è il fulcro di queste poesie. L’origine, la vibrazione o la luce sono piuttosto al centro del libro, assieme a quella modalità di visione che si chiama poesia: siamo di fronte ad un poemetto sullo sguardo.
Prisma parla della necessità di un non-sguardo su una realtà ipersignificante. Ciascuno riflette sulla propria esperienza e sperimenta una mancanza di controllo su un ambiente di cui non sempre si sente partecipe. Questa mi sembra essere l’ottica-guida della plaquette. Scrivere da questa distanza di (in)sicurezza è la condizione per tentare di osservare la logica secondo cui la lingua e la vita si sono evolute a partire da influenze e scelte che possono essere viste. Borio sceglie una lingua che dubita della sua stessa origine, mescola l’acronimo più recente e la conversazione comune. Ne viene fuori un’intervista interiore che ha l’aspetto di una svestizione.
I termini millennial e gen Z sono pause di elaborazione-comprensione. Anche le interrogative che espongono l’ambiguità dell’esperienza creano un silenzio di caricamento. Nel mentre la voce sperimenta la sua ubiquità nel tempo, ma anche la sua inefficienza. Dopotutto anche la serie delle figure di Chladni non significa niente: è possibile consultare questa insignificanza osservabile? Confrontarci con lei? Questa credo sia la domanda più importante che Prisma ci rivolge.
5. Nella quarta dimensione
Primo tipo di figura – spirale. Secondo tipo – cerchio. Aumentando la frequenza – rombo. Quarto tipo – parallelepipedo in bidimensione, tridimensione… chiudi gli occhi e sei nella quarta. Chi ha davvero il coraggio di essere sé stesso? In un sogno diventavo un corpo di medusa e la vita interiore poteva mostrarsi attraversata da frequenze, vedevo tutti membrane elastiche di un eidofono e i pensieri erano immagini di bidimensione, tridimensione, trovati insieme nella quarta… Dove siamo autentici? All’improvviso mi sento così giovane, ho la testa appoggiata al finestrino di un autobus, dietro il sedile una gomma da masticare fa un fiore rosa e secco. Tutto vibra. È notte: ultima corsa. Il finestrino sbatte, il cranio in gola, la saliva densa, ogni parte più contratta nel farsi che nella parola vibrazione – forse vibes, tagliando e al plurale – strategie, innocenza? L’autobus scende a picco, il bosco nasconde frasi, il Tevere sa di… / tiber / le frequenze legano a un filo di caucciù. Se avevo la testa in su dicevo: ok boomer, non voleteci male. Se la testa era in giù: ok, lasciateli scrivere sul sedile BUFU o ACAB – voi chi avete rifiutato? Poi l’autobus va in piano e ho già sedici anni, rimbalza sul ponte e sono già a diciotto, quando cambia marcia tintinna – By Us Fuck You. Li sentite? Nel fiume i gattini hanno strappato il sacco – Ci sentite? –, vent’anni e l’ansa era stretta – da queste parti affogano sempre i cuccioli? Ma quelli risalivano la corrente sotto la luna – Sentite? – trent’anni e scendevo… – Sentite? Puoi proteggere? Animali e perdono corrono nel bosco.
Con il permesso dell’autore pubblichiamo la trascrizione della presentazione di Palermo (Humboldt 2022) tenutasi presso lo Spazio Labo’ di Bologna lo scorso 24 febbraio. I moderatori dell’incontro sono Federico Di Mauro e Fausto Paolo Filograna dello Spazio Letterario e Laura De Marco e Simone Sapienza dello Spazio Labo’. La presentazione del libro, come accade spesso durante gli incontri con Vasta, si trasforma in modo prima sotterraneo e inavvertito e poi con sempre maggiore chiarezza in una straordinaria lezione di letteratura e di fotografia. Questa trascrizione, che cerca riprodurre l’andamento oscillatorio e divagante ma allo stesso tempo rigorosissimo dello stile di Vasta, vuole essere sì un testo introduttivo a un libro, Palermo appunto, ma anche un modo per osservare più da vicino quelle «ossessioni» – la luce, lo spazio e il tempo – che stanno nel cuore della sua letteratura. Ringraziamo la casa editrice per averci gentilmente concesso di ospitare le fotografie di Ramak Fazel e Giorgio Vasta per la disponibilità e per l’editing.
Federico: Ad apertura di libro, leggendo la sinossi, Palermo sembrerebbe la prosecuzione di Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, il libro nato dalla collaborazione con il fotografo iraniano naturalizzato americano Ramak Fazel nel 2016. Sembrerebbe una prosecuzione – del resto si tratta di un fototesto, vale a dire un libro che mescola la parte testuale con quella fotografica, e di un reportage narrativo su un luogo fisico. Due costanti delle pubblicazioni di Humboldt Books. Ma le somiglianze, secondo me, finiscono qui. In realtà, chi ti aveva già letto – e chi, come me e molte altre persone in quest’aula, ha avuto la fortuna di averlo fatto per l’università – si troverà davanti a un libro completamente diverso rispetto alle aspettative. A me personalmente è franato il terreno sotto i piedi. Questo perché Palermo, almeno secondo me, segna uno sviluppo davvero imprevedibile rispetto ai tuoi libri precedenti.
Come Absolutely Nothing, anche Palermo si apre nel segno della mancanza. Se nel libro del 2016 la mancanza era uno «spazio bianco» che il narratore, Giorgio, avvertiva dietro la nuca al momento di partire per il suo reportage narrativo sugli spazi abbandonati, in questo libro la narrazione inizia nel segno di un’altra mancanza, quella del linguaggio. Il narratore, che si tratti davvero di te o di un io finzionale, subisce una specie di perdita del linguaggio, una particolare forma di afasia: è come se le parole, prima ancora che egli riesca a esprimerle, a farle diventare parte della comunicazione, gli morissero in bocca, si volatilizzassero e lo lasciassero in una condizione di estraneità rispetto alla propria vita – un’impossibilità di «stare serenamente nel linguaggio», come scrivi tu. Ed è una cosa che mi ha fatto pensare alla Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hoffmannsthal, su cui avevi scritto qualche anno fa. Questa afasia non dipende tanto da un fatto tragico o drammatico; ma al contrario da una fascinazione, forse possiamo chiamarla un’ossessioneper la luce, che occupa la parte centrale della vita del narratore, mettendo in secondo piano il resto della sua vita.
Questo libro, che è un libro secondo me allucinatorio da tanti punti divista, vi sorprenderà: è un libro su Palermo ma comincia con un inizio completamente spostato, completamente differito, dove tu parli del tuo rapporto con la luce e con Palermo. La prima domanda che ti farei è com’è nato il libro e qual è il tuo legame biografico, ma soprattutto letterario, con una città che tu definisci così «prossima e aliena».
Giorgio: Prima di tutto grazie allo Spazio Letterario, allo Spazio Labo’ e alla Confraternita dell’Uva per la generosità di invitarmi a presentare questo libro. Non tornavo a Bologna da tempo e sono impressionato. Il libro nasce dal desiderio di dare manifestazione a un legame professionale e d’amicizia che si è creato nel 2013 con Ramak Fazel. In un certo senso, è come se ci fosse il desiderio di nutrire un legame, e di nutrirlo attraverso il racconto dei luoghi. Io e Ramak ci siamo incontrati a Los Angeles nel 2013 quasi accidentalmente. Dico “accidentalmente” perché non era lui il fotografo con il quale avrei dovuto fare quel viaggio. Humboldt Books e Quodlibet avevano invitato Francesco Iodice. Poi c’era stato un imprevisto, un piccolo problema di salute per cui Iodice non era potuto partire e a ridosso del viaggio Giovanna Silva, l’editore, per risolvere il problema, per cercare di dare una struttura al libro, si è ricordata che Ramak Fazel – che per 15 anni ha vissuto a Milano – era negli Stati Uniti. L’ha contattato e gli ha detto: Guarda, tra un giorno e mezzo noi arriviamo. Se ti va nelle prossime settimane viaggiamo assieme negli spazi abbandonati – una proposta che ti può anche affascinare, però si suppone che nel giro di un giorno non ci sia la capacità di organizzarsi. Ramak non ha battuto ciglio e trenta ore dopo questa telefonata compariva nel chiostro interno di un motel di Los Angeles. Io l’ho guardato: indossava una camicia hawaiana, i bermuda, dei calzettoni vinaccia fino alle ginocchia, i sandali, sembrava il Grande Lebowski. Aveva la barba di quattro giorni, che però in realtà è strutturale, quasi consustanziale in lui. Lui può farsi la barba davanti a noi ma comunque la carnagione riaffiora in quella maniera. Era pronto a partire. Io arrivavo lì, lo affrontavo senza che ci fossimo mai incontrati, col mio trolley pesante, ansioso, pieno di cambi, come se mi fossi scordato all’improvviso di tutti i film visti dove negli Stati Uniti trovi lavanderie a gettoni ovunque. Lui aveva un bagaglio personale, ma era pieno di pentole, padelle, scatolame e fornelletti da campo, chiarendo sin da subito un’interpretazione avventurosa e infantile – in senso ammirativo, non negativo – del viaggio. Per lui fare un viaggio era confrontarsi con l’inaspettato, e se l’inaspettato è così avaro e non si manifesta spontaneamente, trovi dei modi per farlo accadere, e Ramak è riuscito a fare di tutto – siamo stati quasi arrestati ai confini col Messico, senza che riuscissimo a spiegare i motivi di quello sconfinamento. La jeep sulla quale viaggiavamo affonda nel fango, accanto a uno di quelli che tecnicamente si chiamano “laghi effimeri”. Ramak è riuscito a ottenere anche questo, sembrava che fossimo esposti alle famiglie antropofaghe degli horror americani degli anni Settanta.
Io avevo incontrato quindi la persona Ramak Fazel per alcune settimane, poi per alcuni anni non l’ho più vista e ho passato il tempo in compagnia del personaggio – che non è un’alternativa netta rispetto alla persona, è la distorsione la deformazione l’accelerazione di alcuni connotati della persona. E mi sono accorto – succede ogni tanto – che mi trovavo molto bene con il personaggio di finzione, nel senso che riuscivo a usarlo, perché Ramak ha una intraprendenza che io non ho, e la capacità di far accadere cose che, se avessi viaggiato soltanto con Giovanna Silva o con Francesco Iodice, non sarebbero successe. C’è un elemento avventuroso che diventa centrale. All’inizio della giornata non sai se sarai arrestato, non hai idea di cosa potrà accadere. Questa cosa mi piaceva così tanto che nel 2016, dopo l’uscita di Absolutely Nothing, ho raggiunto Ramak Fazel per un viaggio per raccontare la provincia americana subito prima delle elezioni vinte da Trump.
Già nel 2016 c’era l’idea di tornare a lavorare insieme, a incontrarsi, a far accadere qualcosa. Ci siamo detti: abbiamo lavorato sull’absolutely nothing. Palermo – attraverso un’interpretazione nemmeno chissà quanto profonda, forse anche abbastanza immediata, istintiva, che rischia di essere ovvia – sembra il luogo nel quale si manifesta l’absolutely everything, se non l’absolutely too much, ti dà questo senso di eccesso e dispersione continua di segni. Un’esuberanza quasi autodistruttiva, di cui poi il Barocco è stata espressione. Quindi Ramak è venuto nel 2017-2018, in stagioni diverse, è andato in giro per Palermo in pressocché ogni circostanza, girando per conto suo. L’unico suggerimento che mi ero permesso di dargli era: Non farti ipnotizzare dal centro storico, nel senso: non ignorarne la bellezza: il centro storico di Palermo, meritoriamente recuperato negli ultimi anni, impalla il resto della città – ma se vuoi avere una visione reticolata stratificata complessa di questo luogo c’è molto altro che vale la pena osservare. Questi erano i presupposti. Doveva esserci a questo punto il momento editoriale, il momento della pubblicazione. Ramak è stato questa volta puntuale – per Absolutely Nothing nessuno di noi due è stato puntuale – e avevamo anche questa specie di solidarietà che nasceva dal fatto che ognuno dava la responsabilità all’altro. Invece questa volta Ramak mi ha fregato perché è stato rispettoso dei tempi. Mi sono reso conto che ero del tutto inadempiente – e a quel punto era il 2018, arriva il 2019, mi metto a scrivere il testo, relativamente convinto – e poi, forse perché ero relativamente convinto lo perdo, quaranta pagine spariscono all’interno del testo e non riesco a recuperarle. Poi arriva il 2020, che sappiamo essere un anno particolare – fra l’altro mi rendo conto, durante il 2020, che per me il 2020 era iniziato un paio di anni prima e, per me, personalmente, non si è ancora concluso. Non ho il tempo per stare al computer e scrivere il testo, ma ho il tempo per prendere appunti dietro le foto di Ramak che avevo stampato. E quell’estate è trascorsa continuando a scrivere sui passepartout, sui bordi delle fotografie, ogni tanto poi mi serviva girare l’A4 e scrivere anche dietro. A un certo punto mi sono accorto che sì, prendevo spunto dai soggetti fotografati da Ramak, soprattutto dai più inaspettati e dalle rime dalle sovrapposizioni dalle parentele che lui crea tra Palermo e gli Stati Uniti. Trova una quantità di Stati Uniti dentro Palermo che non avrei mai notato senza il suo sguardo. A un certo punto mi accorgo che sto scrivendo dello sguardo di Ramak – perché guardare le fotografie di un fotografo non vuol dire guardare qualcosa che oggettivamente esiste bensì esplorare il suo sguardo, con le sue costanti, con i suoi elementi ricorrenti – e quindi mi accorgo che Ramak ha questa inclinazione a far declinare l’immagine verso il crepuscolo, verso la penombra. Quando poi mi sono messo a scrivere davvero mi sono reso conto che lo sguardo di Ramak era quello che mi interessava maggiormente. E ho immaginato che mi raccontasse, a un certo punto, in una conversazione che nella cosiddetta realtà non è mai avvenuta, di quando ragazzino giocava a Fort Wayne nell’Indiana, dove va a vivere dalla famiglia lasciato l’Iran – giocava con sua sorella appendendo un lenzuolo alle sedie, a un divano, in modo da creare una specie di grotta di stoffa. Se ci pensate nascondersi è tra i godimenti maggiori nel gioco durante l’infanzia, e secondo me non solo durante l’infanzia, perché lì nascosto tu bisbigli per non farti sentire, nonostante appunto non ci sia nessuno in casa, ma non importa, perché di nuovo quella è la realtà, ed è un problema di cui liberarsi. E intravedi attraverso questa coltre, attraverso il tessuto, quello che c’è dall’altra parte – e quindi viene inventata un’origine dello sguardo – è come se Ramak dicesse: io guardo, io fotografo oggi in un certo modo perché c’è stato un momento originario in cui ho guardato le cose così – e questa è la precondizione per poi mettere la voce narrante nelle condizioni di dire: Adesso mi invento l’origine del mio sguardo, che ovviamente non è la scoperta oggettiva di qualcosa che è accaduto, è una decisione, perché è un’invenzione.
Fausto: Intanto grazie. Volevo dire a chi non avesse letto il libro che non c’è nessun problema di spoiler perché non è un libro che si basa sul sapere come va a finire ma è un libro che si basa sulla bellezza della scrittura, sulla qualità del contenuto in sé. Volevo farti una domanda a partire dal titolo, perché il titolo è Palermo e sotto c’è un sottotitolo che dice: Un’autobiografia nella luce. Siccome io ho il brutto vizio di avere studiato filologia, bios in greco è vita, e io con autobiografia mi immagino la narrazione della vita di qualcuno. Quindi mi sono chiesto se tu fossi Palermo, se uno dei tuoi personaggi fosse proprio la città, oppure se tramite Palermo tu sia riuscito a comporre la tua autobiografia.
Per concludere, a proposito dello spoiler, una delle parti finali riguarda un bimbo, visto nella camera dall’occhio del padre, che si dice essere proprio il protagonista di questa autobiografia. Potresti chiarirmi questo passaggio?
Giorgio: Il libro si intitola Palermo perché è un vincolo della collana, nel senso che ogni titolo pubblicato dalla casa editrice all’interno di questa collana prevede di coincidere con un luogo fisico. Il primo testo che è stato pubblicato di Giovanna Silva e Claudio Giunta si chiama Togliatti, perché è esistito un luogo che si chiama Togliatti e che loro hanno visitato. Questo è il secondo titolo e ne seguiranno degli altri. E devo ammettere che questo è un titolo a cui ho cercato di dare un senso. Perché mentre scrivevo mi accorgevo che Palermo non era davvero l’oggetto del racconto. Secondo me, mi permetto di dire, non lo è non solo nel testo che ho scritto ma nemmeno nelle foto di Ramak, perché nelle foto di Ramak l’oggetto continua a essere il suo modo di guardare. Era come se cercassi dei modi, ovviamente impossibili, di cacciarlo questo titolo, di ridimensionarlo, di metterlo da parte. Poi c’era data la possibilità di decidere un titolo per la parte di scrittura e per quella di fotografia, e quindi Un’autobiografia nella luce è il titolo vero e proprio della parte che ho scritto e City of Ghosts è il titolo che ha scelto Ramak per la sua sezione. Quando per la prima volta ho scritto all’editore quello che stavo facendo ho detto: guarda, una possibilità sarebbe chiamare tutto questo Un’autobiografia nella luce, nella conversazione telefonica c’è stato un equivoco che giustamente si crea in questi casi – «Della luce?». «No, nella luce» – perché per me «nella luce» ha a che fare con una condizione che forse è della scrittura, sicuramente delle foto di Ramak: la luce non è qualcosa che si oppone al buio. In questo momento, penso a come è fatto questo spazio, come ci stiamo guardando: ci sono dei punti di illuminazione che non sono esasperati affinché lo spazio esista, si racconti, si faccia percepire anche tramite tante zone di penombra. Io ho la sensazione che più passa il tempo – lo accennavo prima a Federico; sarà anche una questione di età – che nella penombra, nel declinare, in quello che tecnicamente si può chiamare “vespro” – quel momento che non è ancora del tutto sera, ma è un punto intermedio – ci sia molto di più di quello che c’è nella piena luce, o di quello che ci si può immaginare nel buio. È come se ci fosse una disponibilità, che in altri tempi, in altre epoche non avevo, in questa sfumatura. In Spaesamento a un certo punto c’è un termine che mi ha colpito, e che poi ho ripreso in un’altra cosa che ho scritto dopo, che è “nictalopia”. La nictalopia è quella capacità di alcuni animali di vedere meglio in penombra o addirittura vedere meglio nel pieno buio, rispetto alla capacità di vedere nella luce. Pensate a quelli che sono soprattutto predatori notturni, siano mammiferi o uccelli. E Palermo, che pure è un luogo che sembra essere consegnato, obbligato alla solarità, alla luce piena e potente – poi la luce di Palermo l’ho compresa meglio quando mi sono trasferito a Torino, la capisci meglio per contrasto – a me invece ha sempre colpito nella misura in cui è una città stracolma di penombre, complice il fatto che l’illuminazione in molti punti lascia a desiderare – quindi i palermitani sono nictalopi: poi la parola mi piace perché ha qualcosa di minaccioso; ogni volta che la scrivo mi sembra di scrivere che siamo licantropi – la relazione con la luce dentro il libro è questa: non la piena luce come idea di rivelazione di qualcosa che diversamente non vedresti, ma una penombra o un bagliore – che di nuovo è uno stato non ideale per vedere perfettamente le cose. In sintesi, per me prendere un abbaglio non costituisce un problema: è esattamente quello che mi auguro accada nella scrittura, o che forse Ramak si augura per le sue foto. Per me non ha a che fare con l’errore, con qualcosa che non è riuscito, io prendo qualcosa se prendo un abbaglio.
Federico: Io avrei una domanda molto breve, si tratta della cosa che mi ha tormentato di più finito di leggere il libro. Palermo a me ha ricordato l’immagine dell’aleph borgesiano, cioè quel punto di estrema densità della materia in cui arrivano a concentrarsi tutto lo spazio e tutto il tempo possibili. Questo libro non ha una trama, nel senso che la narrazione segue un moto oscillatorio – che poi volendo è anche quello della luce, visto che la luce è una materia che non sta mai ferma, ma che va e viene in modo ricorsivo; anche questo libro non sta mai fermo, ma è una materia continuamente metamorfica – e questo libro appunto è fatto di continue oscillazioni. A me è sembrato qualcosa di vorrei dire quasi paradossalmente contrario rispetto a quello che hai fatto per esempio in Absolutely Nothing e in parte anche nel Tempo materiale. Se prima, mi sembra, ti eri concentrato sulla funzione nomenclatoria e sull’esattezza della lingua, in una specie di corpo a corpo con il linguaggio, mi sembra che in questo libro tu abbia provato a fare qualcosa di diverso, concentrandoti non più sulla parola come elemento della narrazione, ma sulla frase, sulla sintassi. Non so chi di voi ha già letto il libro, ma certamente avrete notato che tutto il libro è una specie di macroperiodo, una lunga catena verbale tenuta assieme da un inciso dopo l’altro. Cosa è successo per arrivare dalla funzione nomenclatoria e da quella esattezza quasi dolorosa degli elenchi di Absolutely Nothing a questo straniamento continuo della sintassi? A un certo punto ho pensato che questo cambiamento avesse a che fare con la natura della fotografia, perché è come se tu avessi abbandonato ancora di più la realtà, e stessi cercando, come un fotografo, di rendere visibile attraverso il linguaggio qualcosa che «tende incessantemente a diventare invisibile». Come sei arrivato a questa forma?
Giorgio: Grazie per la domanda, anche perché mette al centro del discorso il linguaggio, che poi di fatto è la sostanza della scrittura. Sì, è chiaro che attraverso il linguaggio prendono forma figure, si articolano scene, esistono i personaggi, però quello che per me è, come dire, la ragione d’esistenza della scrittura, è provare a capire cosa vuoi fare con una frase, dove ti trovi in quel momento all’interno della tua esperienza del linguaggio. Che cosa sia accaduto non lo so, sicuramente ci sono delle cose che sono successe. So che dentro Il tempo materiale, in alcuni passaggi di Spaesamento e Absolutely Nothing, c’era già un impulso a ridurre non la precisione ma la percepibilità del lavoro sull’esattezza, sulla nomenclatura, sul nominare – come se la frase tirasse, come se desiderasse allungarsi, e non perché avesse un obiettivo preciso – ecco, correva comunque dietro a un abbaglio – però la sensazione è che tirasse, che volesse andare da qualche parte, però veniva ancora tutto sommato tenuta a bada. Poi in realtà il lavoro di controllo è molto più impegnativo e faticoso, sia quando ti confronti con queste cinquanta pagine che con la forma del linguaggio del Tempo materiale e poi in Absolutely Nothing. C’è qualcosa che secondo me però ha a che fare in generale con la percezione del tempo. Io mi accorgo, pensandoci a posteriori – nel senso che non si tratta mai di decisioni prese prima di scrivere, ma di constatazioni fatte dopo – che Il tempo materiale è scandito attraverso il racconto di dodici mesi, un anno intero, il 1978, ma in effetti quando poi ho guardato il libro nella sua interezza, ho di nuovo constatato che c’erano 13 capitoli, quindi ho quasi bisogno di non far tornare i conti. Spaesamento racconta tre giorni in una maniera quasi modulare (mattina pomeriggio, mattina pomeriggio, con una specie di prologo e di epilogo). Poi ho fatto un libro insieme ad Andrea Bajani, Michela Murgia e Paolo Nori, Presente, che era il racconto di un anno intero – il 2011 mi pare – da gennaio a dicembre, e che aveva forse nel sottotitolo un riferimento al diario, nonostante fosse un libro di invenzione. Poi ce lo siamo detti a un certo punto: tu hai detto la verità, qualora scrivendo sia possibile effettivamente dirla –, e ognuno di noi si era preso una completa libertà. Io mi ricordo che dentro Presente descrivo il parto di una cavalla, mi trovavo in una residenza di scrittura nel Sud della Francia, e quando andavo a correre vedevo una cavalla incinta e speravo che partorisse prima della mia partenza. La cavalla non partoriva, io dovevo ripartire, ma volevo raccontare il parto della cavalla, quindi ho fatto cadere questo fatto. Ho guardato, in maniera quasi morbosa, una quantità enorme di parti di cavalle su YouTube, quasi una forma di pornografia equina, perché volevo continuare a guardare quello che succedeva per potere poi distillarne una frase, un elemento. In Absolutely Nothing ci sono le settimane di viaggio, ma il tempo non si sviluppa cronologicamente, di nuovo per creare una complicazione – nell’orologeria, intesa come studio del meccanismo di un orologio, all’inizio dell’Ottocento, viene introdotto da un uomo chiamato Breguet una complicazione, un ulteriore congegno, tecnicamente chiamato tourbillon, che serve, attraverso una serie di contrasti, a reagire alle inesattezze di misurazione determinate dall’esposizione della cassa dell’orologio alla gravità terrestre. Un orologio non è un’astrazione, esiste all’interno di uno spazio reale, quindi la complicazione serve a dire il tempo in modo più preciso. Il tourbillon è esattamente come Zazie, è come Zazie sta nel romanzo di Queneau. Quando sono arrivato a questo libro – che però, lo accennavo, ho scritto dopo un romanzo di cinquecento-seicento pagine, che però poi uscirà dopo questo libro, dopo altre cose – e però questa scrittura deve al romanzo che ho scritto il suo impianto, la sua impostazione, come se queste cinquanta pagine fossero una nota, una macronota, a margine di quel libro – mi accorgevo che non riuscivo più a credere a una scansione, a una descrizione del tempo, come quella alla quale quotidianamente e giustamente ci affidiamo. All’inizio di Palermo vengono raccontati vent’anni, dal 2000 al 2020, poi si va indietro e compaiono gli anni Settanta – il Settanta, il giugno del Settanta, ha una sua centralità –, si torna al 2021, al 2022 – ma il tempo viene sempre introdotto come fosse una quisquilia: «e poi era il 2013», «è il 2014», «e poi era il 2015», «poi il 2016», come se fosse un elemento secondario, marginale – perché c’è un momento a partire dal quale io non mi oriento più precisamente nel tempo – e desideravo che fosse proprio la sintassi, il movimento della frase, a convocare il tempo per un attimo come un miraggio – sta lì, quel numero, quelle quattro cifre sembra che dicano qualcosa di preciso ma questa voce narrante in realtà il tempo non lo sta mai davvero percependo; e c’è un instante nel quale, guardando un neonato, è come se tornasse a guardare quello da cui il racconto è partito, il bicchiere di vetro nello schermo di un computer illuminato da un software, e contemporaneamente è il 2022 e il 2000 e il 1970 – stanno tutti insieme.
Fausto: A proposito del tempo, mi oppongo per un secondo come lettore: è vero, ci sono degli anni annotati nel libro, ma ci sono anche molti pochi punti, il che fa quasi pensare che sia tutta una lunga frase. Una lunga frase, un lungo ragionamento, di fatto – e spesso i ragionamenti si svolgono anche in un secondo, in un secondo noi possiamo sognare un libro intero. Quindi l’impressione che ne ho ricavato da lettore è che fosse davvero solo un attimo, come l’ecografia di un cervello, un unico bagliore. A questo punto, volevo anche chiederti se ci leggeresti un passo.
Giorgio: Lo faccio con piacere, se riesco a vedere le frasi. C’è un momento, all’inizio, quando la voce narrante si trova davanti a questo software – che in effetti è un software reale, di cui avevo scoperto l’esistenza venti anni fa, che permette a chi realizza modellini e render al computer di illuminarli scegliendo oltre una serie di criteri più scientifici anche dei criteri quasi letterari, suggestivi. Si apre un planisfero, e si ha la possibilità di scegliere la luce in un luogo del mondo, ad esempio la luce di Bologna, in una stagione dell’anno e un’ora del giorno – quando avevo scoperto l’esistenza di questo software, ero rimasto sbalordito da una constatazione tutto sommato ovvia: è ovvio che la luce è sempre subalterna alla morfologia dello spazio nella quale si manifesta – la luce non è un dato assoluto, ha a che fare con le caratteristiche orografiche del territorio, della materia – mi ricordo la luce di Torino alle tre del pomeriggio, in primavera, con quelle superfici nere, alcune volte quasi ardesia, dei palazzi e dei marciapiede, il modo in cui ti bagnava gli occhi – non di commozione, te li faceva lacrimare. A un certo punto la voce narrante si mette a immaginare la luce nel corso del tempo:
E così avevo trascorso giorni immaginando la luce da piccola – anzi, prima ancora della luce neonata avevo cercato di immaginare la luce anteriore alla nascita della vita: la luce prima di tutto: ancora a se stessa estranea, ignota e ignara, espansiva e insieme introversa, ispida e scontrosa eppure tenerissima – una luce che esisteva ancora al di qua del tempo, della genesi e di ogni genealogia, della prospettiva e delle proporzioni: una luce a grandezza naturale – e poi nel corso delle settimane avevo immaginato i cuccioli di luce ruzzare lungo la curvatura della Terra e baruffare coagulandosi in nuclei incandescenti per poi disfarsi in bagliori, immaginavo la luce quando nessuno ancora l’ha mai pensata facendone concetto e trasformandola in cultura, perché la preistoria è ancora là da venire, l’umano è un futuro possibile ma non necessario e a dominare dappertutto è la naturale misantropia dell’inorganico, e dunque, immaginavo, durante la sua infanzia la luce è e non è, nessuno la percepisce, è orfana di sguardo e di pensiero, il linguaggio non esiste, non esistono i verbi che la descriveranno né gli aggettivi che la qualificheranno, la luce accade come parte del nulla originario, solo miliardi di anni dopo diventerà giovane e fluirà attraverso altri milioni di anni, sempre più veloce e casuale, sfrenata nel silenzio siderale – luce e silenzio: luce è silenzio e poi luce è brusio: qua e là le prime sporadiche reazioni chimiche, la schiusa dei fenomeni, l’acqua, l’alterazione profonda e superficiale delle temperature, la fotosintesi, la prima molecola organica e tutto ciò che ne consegue: gradualmente la materia interiore della luce si estroverte: è eucariote e poi vertebrata, mammifera, arboricola, erbivora carnivora e poi onnivora; lucepiteca, luce di Neanderthal; luce di sassi, luce di ossa, luce neolitica; luce che emana dalla fusione dei metalli, luce liquida che indurisce all’aria –, e poi la luce si fa adulta, sapiens, percepita e addirittura pensata, e scorrendo per i millenni penetra in quel giocattolo che sono i nostri secoli prima e dopo Cristo, il tempo in cui la luce è nominabile e nominata: la luce che si sprigiona dalla prima parola che la dice.
Laura: Grazie tanto perché il brano che hai letto è uno dei miei preferiti, lo userò moltissimo nei miei corsi di fotografia. Visto che siamo entrati nel libro leggendo le parole, avevo piacere a entrarvi guardando le fotografie. Avevamo accennato all’inizio del tuo viaggio con Ramak. Volevamo chiederti di parlare più approfonditamente il rapporto tra il testo e le fotografie. Se uno legge prima il tuo scritto e poi osserva le immagini nota che ci sono dei rapporti, a volte didascalici, a volte evocativi nelle immagini; ce n’è una su tutte su cui si può dire tantissimo, quella dell’anziano che legge «Il Giornale di Sicilia» con la scritta «rifiuti».
C’è l’immagine del carretto siciliano, c’è l’immagine della curva nord dello stadio, insomma ci sono diverse fotografie di cui noi leggiamo nel testo, e che poi vediamo nelle immagini. Quali sono i rapporti, gli incroci, cosa è venuto prima o dopo? Prima accennavi al fatto che ricevevi le foto da Ramak e ci scrivevi sopra.
All’inizio ci sono tre immagini in cui c’è una piccola spiegazione, dove dite che in alcune fotografie sentivate l’esigenza di inserire una parte del testo.
Queste tre immagini sono in qualche modo le uniche tre immagini di interni domestici. Mi chiedevo come mai aveste sentito l’esigenza di inserire e di specificare meglio in queste tre foto il rapporto col testo. Tutte le altre foto di Ramak sono all’esterno: nella parte fotografica c’è anche questo rapporto tra interno ed esterno, come due diversi punti di vista del racconto. Ho pensato al fatto che fotografie di Ramak hanno questo sguardo onnisciente, quasi antropologico, che fa vedere effettivamente cose che sono nella strada, quindi non un io che racconta la sua storia. Mi chiedevo quindi quanto sia legato al tema della memoria, uno dei temi fondamentali del tuo racconto. Quanto essa sia una costruzione e quanto le fotografie stesse, che come dicevi tu apparentemente parlano della realtà, siano a loro volta delle costruzioni.
Ramak fa un’operazione interessante, perché è vero che c’è la dimensione del penombra ma c’è anche l’utilizzo della luce artificiale, che in realtà sembra cancellare la luce di Palermo che invece vediamo nel tuo scritto. Ha uno sguardo totalmente suo, che crea anche uno spaesamento – perché appunto c’è Palermo, ma in alcune fotografie ci chiediamo dove siamo.
Giorgio: Peccato che non possa essere direttamente Ramak a rispondere. A Milano, in una delle prime presentazioni di questo libro, c’è stato un tentativo di collegarsi con Ramak – che forse, in camicia hawaiana e bermuda, si era perso per la metropolitana di New York e quindi era presente come fantasma. Intanto c’è un elemento tecnico che vale la pena subito evidenziare, anche perché è così evidente che è meglio contestualizzarlo. Ramak Fazel fotografa con una Rolleiflex, il formato quadrato ha a che fare con la macchina che utilizza; è una macchina che usa sempre, del ’66-’67 – come fosse quasi sua coetanea – tutta piena di ammaccature, è uno strumento di cui non riesce a fare a meno. Quando nel 2016 abbiamo percorso il Mississippi dalla foce andando verso nord, Ramak aveva con sé anche una macchina digitale, perché lì avevamo in qualche caso dei vincoli: perché dovevamo mandare a «Repubblica» tanto il testo quanto le foto che dovevano descrivere i giorni immediatamente prima del voto – e anche in quell’occasione Ramak, pur essendosi portato indietro la digitale, non è riuscito a fare a meno della Rolleiflex, ha trovato dei modi per inviare fisicamente i rullini al laboratorio in California dove stampano e sviluppano le sue foto, riuscendo in extremis a inviare le foto in tempo – ma anche in quel caso falsificando. Come di Absolutely Nothing fanno parte alcune immagini che non sono state scattate, non solo durante il nostro viaggio ma nemmeno negli Stati Uniti, nel reportage per «Repubblica» del novembre del 2016, c’è stato a un certo punto un problema: Ramak manda le foto, però mi fanno presente dalla redazione che abbiamo una maggiore presenza dei supporter repubblicani, mentre non abbiamo foto dei supporter democratici, quindi abbiamo più Trump che Clinton – e i giornali si pongono il problema di bilanciamenti di equilibri di questo tipo. Il problema è che noi non avevamo mai incontrato i supporter della Clinton, e forse avevamo anche in qualche modo presagito dal viaggio quello che poi accadde quella notte, trascorsa in giro per New York, riuscendo sempre con i sortilegi di Ramak a entrare all’Hilton, che era il quartiere generale repubblicano, senza crediti né niente di niente – Ramak mostrava la mia carta d’identità come l’equivalente in forma di documento di una supercazzola. Mostrandola era come se chiarisse che noi dovevamo necessariamente passare; io mi ritrovavo qualche metro dietro di lui, senza documenti, sempre più incerto non solo della mia identità ma anche di quella delle guardie all’ingresso. In quell’occasione Ramak ha recuperato una foto documentando le presidenziali quando era andato a fotografare i supporter della Clinton, mesi prima. Quella foto compare “come se”, perché sono livelli diversi su cui con Ramak ci troviamo perfettamente d’accordo: l’effetto di realtà non è la realtà. L’effetto di realtà è il titolo di un articolo di Roland Barthes dove riflette molto bene su tutti questi punti. Quando Ramak è arrivato all’ultima selezione delle sue immagini, e io avevo scritto tantissimo soprattutto sulla base di quello che lui aveva fatto, e ci siamo detti: ha senso introdurre nel libro didascalie specifiche che rendano conto di un luogo o dell’altro? A chi servono? Con chi dialogano? A chi serve dire che quelle foto sono state scattate al Giardino Inglese, quella ai Quattro Canti, quell’altra in via Danimarca? Allora ci siamo detti: facciamo così, precisiamo in una nota che tutto quello che si vede è Palermo, nei modi nei quali quella città è in grado di manifestarsi; in tre occasioni non mettiamo una nota tradizionale, ma inseriamo un frammento del testo, perché sono quei passaggi in cui c’è un dialogo più esplicito. Se poi qualcuno vuole andare al di là, la prima foto, quella del pozzo, è una foto che Ramak ha voluto a ogni costo scattare quando è arrivato a Palermo, perché lui sapeva che io vivevo in questa strana condizione da quando alla fine del 2015 ero andato via da Roma, ero tornato a Palermo pensando che sarei rimasto per un po’ per tornare poi a Roma, non avevo più una casa a Roma, e quindi avevo dovuto mettere tutte le mie cose in alcuni box. Poi ho capito che non sarei tornato a Roma e tutto quello che avevo l’ho traslocato non in una nuova casa, ma in dei nuovi box, invece di pagarli in alto Lazio, erano gratis a casa dei miei genitori, e dato che in quei momenti l’idea era l’absolutely everything, l’idea era entriamo nel discorso attraverso questa massa di scatoloni di libri (anche abbastanza discutibili), dal barbecue a quella specie di me donna appoggiata, che fra l’altro è ancora dentro quel box, non è stata portata via. Le altre due immagini in cui compaiono questi elementi sono quelle che hanno sempre a che fare con via Sciuti, che è un posto insignificante di Palermo, del quale io ho sempre scritto nelle cose che ho scritto, per il semplice fatto che io non ho nessuna capacità di invenzione né desiderio di invenzione su determinate cose, quindi ho sempre messo, in tutte le cose che ho scritto, l’indirizzo dei posti in cui ho abitato – che secondo me è una richiesta di aiuto. Forse, ripensandoci a distanza di anni, è una continua richiesta d’aiuto, e quando qualche mese fa mi sono trovato nella buca delle lettere una cartolina, non sono riuscito a capire chi fosse il mittente. Finalmente forse qualcuno ha capito qualcosa che io stesso non avevo capito.
Quella nella foto è mia madre, che carezza il dorso di alcuni libri. Quando io non c’ero, Ramak è entrato a casa dei miei e ha voluto fotografarli. E quindi c’è questo piccolo accenno dato che via Sciuti viene molto raccontata, ed è quasi teatro principale di gran parte del racconto – come se tutto il racconto fosse la dimostrazione che non riesci ad andare via da quel luogo e forse non è necessario andare via dall’origine.
L’unica didascalia tradizionale, fino a un certo punto, è quella che riguarda la Fiat Croma a piazza Dante, scattata alla scuola di formazione della polizia penitenziaria a Roma, ma abbiamo deciso di non rendere esplicito nel libro il motivo per cui compare questa foto: in una delle occasioni in cui Ramak è tornato a Palermo, tornando ha deciso di passare da Roma, ha ottenuto i permessi ed è riuscito a fotografare la Fiat Croma su cui viaggiava Giovanni Falcone il 23 maggio del 1992 insieme a Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. In questo caso abbiamo deciso di non esplicitare il riferimento per una questione di pudore. In questi casi l’esplicitazione è come se avesse non un’intenzione ma un effetto un po’ ricattatorio, un po’ patetico: commuoviamoci perché questa cosa è avvenuta; questo è un pezzo di Palermo che sta fuori di Palermo e che però Ramak ha avuto l’intuizione di andare a cercare.
Simone: Questa è l’unica foto non fatta a Palermo che però in modo didascalico racconta tanti anni che hanno stravolto la città, anche riguardo alla luce. Penso ad esempio a via Libertà. È possibile trovare Palermo come vocazione anche fuori dalla città? Mi ricordo che nella prima presentazione di questo libro a Palermo raccontavi di come Ramak nella sua confusione trovava immagini che magari facevano dubitare che fossero state scattate nella stessa città. La domanda è se è possibile trovare Palermo anche in altri luoghi e se magari attraverso le immagini di Ramak, tu hai scoperto una Palermo in qualche modo diversa. Quel «tutto» che tu menzioni nelle foto si vede tantissimo. Mi chiedevo, quindi, se è possibile trovare delle immagini di Palermo fuori dal contesto cittadino e come tu hai letto la città attraverso lo sguardo di Ramak.
Giorgio: Parto dalla seconda parte, trovare Palermo nello sguardo di Ramak. La prima volta e l’unica in cui sono stato presente durante un giro di Ramak – c’era anche Giovanna Silva in quell’occasione – in un posto di Palermo che è Mondello, li ospitavo nella casa dove vivevo in quel momento. A un certo punto andiamo all’interno di uno spazio proto-industriale abbandonato da tempo – vetri, telai completamente vuoti, ruderi, macerie, che in una città come Palermo diventano un elemento strutturale. Ramak si guarda attorno ed esclama: Non sembra di essere in Europa, ma non lo dice con un’intenzione critica o moralistica. L’esperienza di Europa che ha Ramak è quella di qualcuno che per quindici anni ha vissuto a Milano. Quindi ha una sintesi dell’Europa e dell’Italia che ha a che fare con lo spazio sobrio, pulito, dotato di servizi, con determinate caratteristiche. Ma Ramak è di origini iraniane, il luogo in cui il suo sguardo ha preso forma è quello, sia a livello di realtà che di invenzione, di mito – è un posto dove periodicamente torna. Io ho avuto l’impressione che Ramak sia andato in giro per Palermo cercando un po’ di trovare l’Iran e un po’ di trovare pezzi di Stati Uniti, che io non avrei mai trovato. Ramak ha trovato un harleyista a Palermo, uno con l’Harley Davidson a Palermo. Per me gli harleyisti erano esotici quando li vedevamo negli Stati Uniti, era un Easy Rider permanente; con alcuni di loro ha parlato nel 2016 – nel 2016 l’harleyista incontrano in un motel del Kentucky si chiamava Glenn, l’harleyista trovato da Ramak a Palermo si chiamava Lucio – in ogni caso un harleyista – ha visto le bandiere americane in mezzo a quelle rosanero del Palermo fuori dallo stadio. Ci saranno sempre, faranno evidentemente parte della proposta degli ambulanti che le vendono, ma io non ci avevo mai fatto caso. Quello che soprattutto mi ha impressionato è stato quando Ramak ha fotografato un eremita che ha vissuto per tanto tempo in un faro borbonico sulla montagna di Capo Gallo, che dovrebbe essere quel signore con la barba lunga sale e pepe, le braccia leggermente allargate. Israel è il nome che quest’uomo si era dato. Aveva realizzato delle opere musive con dei tasselli, con dei materiali vari. Il fatto è che Ramak insieme a me e Giovanna Silva aveva visto e fotografato Brother Simon, che era un frate francescano riformato che abbiamo incontrato in un villaggio di 24 abitanti nel Texas. Abbiamo passato un pomeriggio a casa di questo frate. Se fossimo stati soltanto io e Giovanna a viaggiare l’avremmo visto da lontano in mezzo alla polvere e ci sarebbe bastato – con Ramak invece siamo entrati a casa di quest’uomo, e gli abbiamo anche lasciato gran parte di quello che Ramak si era portato dietro dello scatolame. Era sorprendente, perché Ramak ha preso questa specie di danza, questo specie di istante di danza; nella foto di Brother Simon c’è di nuovo un moto di sospensione, un modo di allargare le braccia, come se li avesse guardati in modo molto simile, li avesse fissati alla stessa maniera. Le fotografie di Ramak non sono mai immagini oggettive, ognuno di noi in un modo anche rassicurante, porta il proprio sguardo ovunque, costruisce confronti. Ero con Ramak in Arizona, in un posto che si chiama Trotter Park, che è un ippodromo abbandonato, aperto nel ’64 e chiuso nel ’65 – constatando che sì, avevi compiuto quest’opera ingegneristica di costruire un ippodromo fuori Phoenix, ma sempre nel deserto sei, non puoi far correre i cavalli nel deserto, quindi dopo un anno lo spazio viene abbandonato. A un certo punto ci troviamo davanti alle scale mobili. Per me negli anni Settanta da bambino le scale mobili erano tutto 2001 Odissea nello spazio, ma dentro la Standa vicino casa. E io ho guardato quelle scale mobili – che sono, fra l’altro, rare, non perché in assoluto non ce ne siano, al contrario, ma quelle erano “monoposto” – oggi le scale mobili delle metropolitane danno la possibilità di tenere la destra in modo tale che qualcuno può salire – quelle erano proprio strette, anguste. E io in Arizona ho guardato le scale mobili attraverso il modo in cui ho guardato e vissuto l’euforia e l’incanto delle scale mobili di Palermo, quindi il nostro sguardo non è mai sgombro, ma è affollato di una quantità di elementi che agiscono, e in un certo senso determinano anche la nostra curiosità nei confronti di una cosa o di un’altra.
Ogni tanto capita a lezione di ragionare sullo sguardo, sul fatto che secondo me l’elemento centrale dello sguardo di ciascuno è la trave, è quella che nel passo evangelico Cristo invita a considerare: Guarda la trave nel tuo sguardo, prima di dire qualcosa della pagliuzza che sta nello sguardo dell’altro. Da un punto di vista morale capiamo questo passo, e il principio è perfettamente sensato, ma al netto di questa prospettiva io ho la sensazione che ognuno di noi abbia una trave che prende forma nel corso del tempo e che se racconti, se fotografi, non ha senso farne a meno. Stai sempre guardando attraverso la trave, e la trave stessa.
Domanda dal pubblico: Tornando un po’ sulla questione della luce, mi sembra ci sia una piccola tradizione a livello letterario di autori che sono nati o che scrivono del Sud, della Sicilia. Una tradizione che ha riflettuto sulla luce come concetto, e che credo faccia capo a uno scritto di Gesualdo Bufalino intitolato La luce e il lutto, in cui lui in sostanza mette in rapporto il concetto della luce con la tragicità degli eventi e della vita che accade nella luce del giorno. Dov’è piena ed eccessiva la luce anche l’evidenza dei fatti tragici o legati in qualche modo alla morte, sono anch’essi più evidenti. Anche Brancati ha scritto che in Sicilia la luce ha sempre un risvolto di tenebra. Quindi mi veniva di chiederti se questo è un tema, una tradizione con cui ti sei scontrato o ti sei posto, o se pensi il tuo libro possa in qualche modo dialogare con essi.
Giorgio: No, non c’è uno scontro con una tradizione letteraria; c’è nella migliore delle ipotesi un dialogo, un piacere dell’influenza che però non è circoscritto a un ambito regionale. Nel senso che dentro questo testo ci sono delle influenze delle quali ho consapevolezza e poi ce ne sono sicuramente tantissime altre che ho meno sotto controllo, che sono state meno vagliate o che non lo sono state per nulla. Le influenze delle quali ho consapevolezza sono: Manganelli, al quale viene fatto una specie di specifico omaggio attraverso la parola «bambinosauro», perché è un termine di Manganelli di cui mi sono appropriato nel momento in cui comparve un dinosauro; c’è Piovene, una cosa che sta all’interno di una riga delle Stelle fredde, che però mi aveva talmente colpito da essermela annotata quando l’avevo letto, ed essermela poi ritrovata davanti. Il protagonista a un certo punto incontra Dostoevskij che viene fuori da una breccia nel muro e usa l’espressione «l’aria gli parlava nella bocca». Federico faceva riferimento all’inizio a questo stato di afasia, a questo rapporto col linguaggio in cui a un certo punto la frase sembra innalzarsi, farsi filamentosa, fino a quando ti accorgi che non la stai più dicendo, è diventata aria che ti parla nella bocca, è diventata silenzio. Molto bello il riferimento a Bufalino e Brancati. D’accordissimo non soltanto sul risvolto, ma sul fatto che strutturalmente la luce è inseparabile dalla tenebra. Nel libro faccio riferimento al modo in cui luce e tenebra si manifestano simultaneamente nel vespro, nella penombra. L’ultimo elemento che aggiungerei a queste considerazioni su come la luce si manifesta, sul fatto che le cose si vedono più chiaramente non quando sono nitide ma quando c’è qualcosa che offusca lo sguardo. Io da tanto tempo lavoro, ragiono su degli sguardi, li prendo e li considero a partire dal cinema. Certi close-up, certi primi piani, anche storici, notissimi: come ci guarda Carlito Brigante all’inizio, che poi è anche alla fine di Carlito’s Way – è stato colpito a morte, nel momento in cui vorrebbe o si immagina di poter fare andare le cose in un’altra maniera, siccome quella è una storia di redenzione impossibile resta al di qua e guarda – lo sguardo a quel punto è un po’ acquoso, postumo, lo sguardo di chi ha visto tutto, ed è come se avesse compreso che quello che c’era da capire era pochissimo, ma non nel senso di qualcosa che non ha valore, ma di qualcosa che si può sintetizzare nel titolo shakespeariano Much Ado About Nothing. C’è qualcosa di liberatorio, un sollievo, non una mancanza di rispetto, nell’accorgersi che quasi tutto alla fine è molto rumore per nulla – è quello che splendidamente intuisce Aldo Busi all’inizio del Seminario sulla gioventù: «Cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani», di tutto quello che abbiamo fortemente desiderato, quando lo guarderemo a distanza di anni – quel modo di guardare, il modo in cui guarda “Noodles” De Niro alla fine di C’era una volta in America – quella specie di sorriso di chi ha visto tutto e ammutolisce, si accorge che non c’è nulla da dire. E che secondo me trova anche una manifestazione straordinaria in alcuni sguardi animali. In un altro di nuovo cinematografico che è quello di Balthazar, l’asino del film di Bresson. Un altro non cinematografico, che è di un animale a cui sono affezionato, il puffin, cioè la pulcinella di mare – non so perché chiamato «pulcinella» quando ha uno sguardo da Pierrot, quasi una lacrima dipinta. In quegli offuscamenti dove c’è tenebra, dove c’è luce, io ho sempre più la sensazione che ci siano delle cose centrali che accadono quando o non c’è ancora il linguaggio o non c’è più tempo. Vale a dire lo sguardo del neonato, il modo di guardare di chi non ha ancora il linguaggio per nominare le cose, e poi l’ultimo sguardo, lo sguardo di chi è “in punto di morte”, dove magari il linguaggio c’è ma non c’è più il tempo per dirlo. È come se tutte le cose centrali sfuggissero strutturalmente, stanno tutte quante da un’altra parte, e proprio per questo sono il centro delle azioni letterarie, perché non le puoi prendere, perché il momento in cui hai la sensazione che le stai per prendere, ti rendi conto che tutta la letteratura non ha una qualità che viene misurata dal fatto che qualcuno ogni tanto prende qualcosa; la qualità della letteratura è la capacità di avvicinarsi, di creare una tensione – faccio questo movimento perché risento di quella scena bellissima di Morte di un matematico napoletano, dove il protagonista, interpretato da Carlo Cecchi, dice ai suoi studenti: questo è il linguaggio, queste sono le parole, questa è la vita. Hai una tensione continua delle dita verso il polso, ma non arrivano a toccarlo. E non è un limite, il rapporto è asintotico. Ogni scrittura è la qualità della tensione che riesce a esprimere per cercare di prendere qualcosa che però le deve sfuggire.
Idillio occidentaledi Andrea Tisano è un esordio atipico, oscuramente apparentato a quel ramo di poesia isolana che ambisce a costruzioni poematiche complesse, riassemblando eventi e luoghi del presente intorno a nuclei epico-mitici ben definiti. A questo schema strutturale, che potrebbe ricordare Suite Etnapolis (Interlinea, 2019) di Antonio Lanza, anch’esso prosimetro, corrispondono in Tisano una forma strabordante e un plurilinguismo estremo di marca ipercolta, che innesta morfemi, parole, periodi in lingue diverse — greco, latino, francese, inglese, tedesco, etc. — su un sostrato d’italiano letterario: ne derivano una «fitta selva / di parole», «un mare / rotto, tra le quasar», in cui «si sversi il segno, il soma, il sema, il semantema, / il sogno, un simbolo di lira consumata / a forza di passarla tra le dita» (p. 4), atti a rappresentare una realtà più metamorfica che fluviale.
Nel complesso l’opera evoca una lunga catabasi nella storia collettiva o nel «magma / favillante» (p. 17) di un oscuro ego mitico: tale è, ad esempio, il Ninfoletto del terzo componimento — «il suo nome è una finzione, una funzione, ve l’ho detto / che è da un’altra parte» — (p. 17). Che assuma le sembianze di una passeggiata in provincia o di un viaggio in autobus, tra i volti di un’umanità piagata e sfruttata — «salivamo io e loro, quattro neri, e pure il cieco / (la negra terra non dicitur), quattro sgangherati» — (p. 15), o più propriamente quella di un’odissea cittadina — tra «i giri della periferia», «le linee scure dei palazzi, i marmi di meringa» (pp. 17-18) — in ottemperanza a una duplice vocazione urbano-agreste che risale agli Idilli teocritei, la catabasi si apre però a frequenti sbocchi in superficie come a visioni di panica solarità e/o ad accessi di disciplina metrica: «Polverosamente sfolgorando il sole / con il suo bacinio di bianche lame / le pozze liquefatte di catrame, / che l’aria sfilacciando sbruma in veli, / mulinava nel torbido livore / del fitto suo sentiero palpebrale» (p. 20).
Comune alla maggior parte dei testi — cinque in tutto, più uno introduttivo — è l’affiorare di monumenti, documenti, fabulae e aneddoti sulla storia della Magna Grecia, dal siracusano tempio di Apollo alla Villa del Casale, dal De rebus gestis Rogerii di Goffredo Malaterra al Voyage en Sicile di Dominique Vivant Denon, passando per due entità mitiche fisicamente e onomasticamente sfigurate come Ninfoletto e Tifeone, «la bestia che sopita dalla crosta / dei campi annerati di Flegrea insozza / (una febbre da tifo, una schifezza) / i sacchi affocati di monnezza» (p. 14); ultimo della serie, l’Empedocle suicida del quinto componimento, un quasi-sonetto che fissa provvisoriamente la meta del viaggio nel «cuore sepolto delle cose» (p. 24).
Accusando il contrasto tra le «belles et grandes idées» (p. 7) sul passato e l’endemica infezione di ogni epoca storica, di cui la cronaca di Denon offre testimonianza, Idillio occidentale trova il suo orizzonte di senso in un’archeologia linguistica che non si limita a polverizzare la realtà, ma ne raccoglie frantumi, lapsus e abbagli con laboriosa dedizione, raggiungendo i suoi esiti migliori quando lo sperimentalismo funambolico si coniuga a un ruvido e allucinato lirismo: «un Parnaso privato strinse le tue mani / e sopra turbinavano le stelle / le lentissimamente» (p. 22).
[…] E poi dalla tua bocca, e poi dai tuoi capelli, saltano le tigri, le pantere (l’occhio di zaffiro), saltano gli arbusti i daini alla maggese, brillano i delfini, e l’onda sfalda un quadro (realistico) di vera vita agreste (signorile), di fisica dei moti, di moto delle braccia. Poi il rosso che è nascosto sotto il nero, segrete mulattiere di mulatti, secreti neuronali, poi la villa ed i palazzi abbandonati, poi giù tutta la balistica del cuore e poi ciò che non c’è non resta, e poi – E poi di troppa luce, noi, si sa, si muore.
Perché l’intelligenza artificiale di cui si innamora il protagonista di Her(2013, regia di Spike Jonze) non ha la voce stridula e balbettante di Woody Allen ma quella di Scarlett Johansson?
Ok, domanda retorica.
Riformuliamo. Perché Her si chiama Her e non Him? Cioè, perché il film di Jonze non è la storia di un’IA incorporea maschile? Perché è la donna (sia pure artificiale) a rimanere fuori dalle inquadrature?
O come mai la maggior parte delle voci meccaniche (nelle metro, nelle impostazioni di base dei navigatori, negli assistenti come Cortana, Alexa o Siri) sono femminili?
“Ricordati di comprarle dei fiori”, dice in molti, troppi, vecchi e nuovi film, la segretaria coi tacchetti bassi al direttore megagalattico: è il giorno del suo anniversario di matrimonio e lui è troppo impegnato per ricordarsi di comprare un regalo (costoso, magari) che la moglie sicuramente desidera. Come si vede per esempio in questa campagna pubblicitaria di iPhone7, The Rock x Siri: Dominate the Day, il cui nome è tutto un programma, oggi questo è compito (anche) degli assistenti digitali.
«Non dovrebbe sconvolgerci sapere che la parola “robot” deriva dalla parola ceca robota, che significa lavoro forzato o servitù», si legge in un articolo di Hilary Bergen (traduzione mia). «Anche se Siri non è umana, l’etica delle sue condizioni di lavoro è comunque preoccupante per il suo potenziale impatto sui veri lavoratori (donne) umani». Secondo Katherine Cross «il legame sta in ciò che molti consumatori sono addestrati ad aspettarsi dai lavoratori dei servizi: perfetta sottomissione e totale disponibilità. I nostri assistenti virtuali, privi di elementi che portano confusione come l’autonomia, le emozioni e la dignità, sono la perfetta incarnazione di questa aspettativa».
Nel 2019 l’UNESCO denunciava: «Poiché le voci di default della maggior parte degli assistenti vocali sono femminili, si alimenta l’idea che le donne siano sempre a disposizione, docili e desiderose di aiutare semplicemente con un tocco o con un comando vocale come “hey” o “OK”». Il rapporto I’d blush If I couldprende il titolo dalla risposta di Siri ad alcune offese che numerosi utenti avevano mosso al sistema operativo altamente femminilizzato di Apple: perché non è un caso che le nuove tecnologie digitali siano concepite e implementate da team a prevalenza maschile.
Non perché si tratti di assistenza rivolta a un pubblico prevalentemente femminile, ma perché, al contrario, è l’assistenza che forniscono, il lavoro che svolgono, a essere codificato come femminile.
Si tratta insomma di un principio di realtà.
Il legame tra un corpo femminile e un elemento più o meno marcato di artificialità, soprattutto se creato e predisposto da un essere umano di genere maschile, nel nostro immaginario occidentale ha origini ben più remote: si ritrova, infatti, nella celebre vicenda di Pigmalione e Galatea. Secondo il mito ovidiano, Pigmalione è uno scultore dalle eccezionali doti artistiche che, finché non si innamora di una statua creata dalle sue stesse mani, è il detentore fiducioso della distinzione tra animato e non animato, naturale e artificiale; Galatea è, invece, la creazione dell’uomo che, grazie all’intercessione di Afrodite, diventa una donna vera, e perfetta, e mette in crisi il sistema di riferimento di Pigmalione.
Ma un giorno, con arte invidiabile scolpì nel bianco avorio una statua, infondendole tale bellezza che nessuna donna vivente è in grado di vantare; e s’innamorò dell’opera sua.
(Ovidio, Metamorfosi, X, 247-249. Interea niveum mira feliciter arte / sculpsit ebur formamque dedit, qua femina nasci / nulla potest; operisque sui concepit amorem)
Tanti film e tanti romanzi si sono ispirati a questo mito: due su tutti Metropolis, di Fritz Lang (1927), e My Fair Lady, il famosissimo film di George Cukor (1964) ispirato al musical del 1956 e, soprattutto, al Pygmaliondi George Bernard Shaw (1913). Questi e altri testi hanno finito col costituire un vero e proprio corpus che, in maniera piuttosto organica, rielabora diversi elementi del mito di Pigmalione rispecchiandovi le proprie costruzioni culturali: su questo aspetto hanno scritto Julie Wosk in un libro del 2015 intitolato appunto My Fair Ladies: Female Robots, Androids, and Other Artificial Eves, e Minsoo Kang nel saggio del 2018 (di cui parlo anche più avanti) The Question of the Woman-Machine: Gender, Thermodynamics, and Hysteria in the Nineteenth Century.
Di quale bisogno o di quale paura specifica le donne-macchina sono il risvolto inconscio? Che cosa sostituiscono negli immaginari sociali e individuali moderni e contemporanei? Questa è la domanda principale da porsi di fronte a questi personaggi, che si intreccia a due questioni.
La prima riguarda le fantasie maschili e gli innumerevoli tentativi di risolvere un’annosa questione: può la donna essere una creatura imperfetta? Cioè, può l’uomo amare e tollerare l’imperfezione nella propria compagna di vita? Non stupisce, infatti, che sia quasi sempre un personaggio maschile (uscito, a sua volta, dalla penna di un autore) a creare e poi tentare di educare gli esemplari femminili artificiali, sottomettendoli a una disciplina ferrea e/o sulla base di stereotipi misogini; o che la relazione che si instaura tra creatore e creatura sia spesso di tipo paternalistico, secondo quella che potremmo talvolta chiamare una vera e propria dialettica serva-padrone.
La seconda questione riguarda invece le modalità con cui i personaggi femminili che incarnano un grado variabile di artificialità sono capaci di incrinare (se non capovolgere) questa dinamica. Ciò avviene sia nei casi in cui le donne assumano il ruolo della creatrice, indossando la maschera di Pigmalione o innamorandosi di esemplari maschili artificiali, sia nei casi in cui abitino più consapevolmente il proprio corpo tecnologico, interpretandolo come una possibilità emancipatoria.
Gli anni Ottanta sono sicuramente uno spartiacque nella storia di queste rappresentazioni, e consentono di separare meglio le due questioni che, tuttavia, rimangono spesso intrecciate. Ciononostante emerge un dato: i film e i romanzi che rappresentano i lati perturbanti della donna artificiale sono (ancora) in numero superiore rispetto a quelli in cui la donna artificiale dice “io”, e di solito, oltre a essere esteticamente più convincenti, si rivelano chiaramente come tentativi di assestamento di un tema, di un personaggio, di un immaginario come quello tecnologico ancora tutto da esplorare.
Nei testi e nei film che precedono gli anni Ottanta, infatti, la donna-macchina è vista per lo più come un oggetto, o come un personaggio il cui corpo e il cui punto di vista devono essere osservati da una distanza di sicurezza. Non hanno sempre una voce propria, spesso è passiva, descritta e definita dagli occhi del personaggio maschile; spesso esiste (o è negata, o interrogata) solo in sua funzione. Siamo ancora dalle parti di Frankenstein o, meglio, da quelle di Olympia, la donna automa immaginata da E.T.A. Hoffmann nel racconto Der Sandmann (in Nachtstücke, 1815). Un testo di eccezionale rilevanza è anche quello di Villiers de l’Isle-Adam, che con L’Ève future (1886) si impone come un modello fondamentale per tutto questo corpus, anche e soprattutto nelle sue sfumature (non troppo sfumate, a dire il vero) di misoginia: le donne sono tutte finte, anche quelle vere, ma quelle finte, almeno, non lo nascondono, o forse sì, ma sono comunque più perfette perché possono essere controllate. E anche perché non possiedono l’elemento femminile più disturbante di tutti: il sesso. Più degna di essere definita “umana” di quanto non sia il suo corrispettivo vivente, Hadaly è la donna del futuro. Che cosa cambia se è artificiale?
Eh bien! chimère pour chimère, pourquoi pas l’Andréïde elle-même?
Invece, nei testi che seguono la pubblicazione, per esempio, di A manifesto for Cyborgs: Science, Technology and Socialist Feminism in the 1980s (1985, sulla rivista Socialist Review), la tendenza è diversa: le donne sembrano abbracciare euforicamente la propria condizione di macchina ed è proprio questa, anzi, a essere considerata garanzia di soggettività, vale a dire di parola ed emancipazione. La donna è cyborg, il suo corpo è queer, e il suo stesso ibridismo è forma di agentività, che si esprime nel rifiuto della normatività da una parte, e dell’umanità – per come la conosciamo, almeno – dall’altra. Basta il seguente elenco per capire quanto è cambiata la prospettiva:Blade Runner (1982, regia di Ridley Scott), l’ormai celebre romanzo di Margaret Atwood del 1982, The Handmaid’s Tale, la Sprawl trilogydi Gibson (Neuromancer, 1984, Count Zero, 1986, Mona Lisa Overdrive, 1988), la versione anime di Mamoru Oshii di Ghost in the Shell (1995), i saggi di Rosi Braidotti e, infine, il romanzo di Richard Powers, tradotto solo nel 2021 per La nave di Teseo, Galatea 2.2 (ma andrebbero fatti molti altri nomi, soprattutto guardando ai luoghi dell’area cyberpunk).
I feel confined, only free to expand myself within boundaries.
dice il maggiore Motoko Kusanagi, che è una cyborg. E poco dopo continua, con una densa citazione biblica:
What we see now is like a dim image in a mirror. Then we shall see face to face.
Perché anche la donna-macchina, insomma, possa assumere il più lurido di tutti i pronomi (diceva Gadda), possa cioè dire “io”, bisogna aspettare Haraway: solo dopo la teoria cyborg è stato possibile ripensare la materia organica di cui è fatto il corpo della donna in virtù di una serie di tecnologie necessarie per affermare una nuova soggettività femminile, all’insegna della sorellanza o della maternità, e per superare tanto il pensiero binario quanto la prospettiva essenzialista.
Se guardiamo all’ambito italiano, particolarmente significativi sono tre momenti che inquadrano meglio la parte più sfuggente della parabola di queste particolari rappresentazioni delle donne (vale a dire, quella che precede gli anni Ottanta).
Il primo, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, si consuma ad opera del movimento futurista e nutre le sue contraddizioni interne. Contemporaneamente alla diffusione dei primi movimenti femministi occidentali e quasi in aperta risposta alle loro lotte sempre più organizzate, infatti, i futuristi continuarono a lungo a considerare le donne sottomesse, o madri o prede sessuali: nell’opera di Marinetti, che pure insistette per agitare le acque del dibattito pubblico anche riguardo ai nascenti femminismi e favorì la partecipazione femminile al movimento, il disgusto malcelato per la virilizzazione delle nuove donne, sempre più emancipate, corrisponde al terrore per una corrispettiva (o supposta tale) devirilizzazione maschile. I suoi personaggi femminili sono macchine riproduttive di cui provare in tutti i modi a fare a meno (Mafarka il Futurista) o macchine erotiche da sfruttare o da cui tenersi alla lontana (“instancabili donne-motrici”, L’alcova d’acciaio). Quando va bene, invece, sono automobili femminilizzate (come accade nel Manifesto del futurismo).
Il secondo momento è rappresentato da tutte quelle opere che, a partire dagli anni Venti del Novecento e fino agli anni Sessanta, mettono in scena un avvicinamento progressivo, a metà tra il realismo e il fantastico e molto spesso all’insegna del perturbante, tra l’uomo (umano) e la donna sintetica, sua creatura: le donne potrebbero persino essere altro che semplici automi, bambole o madri, e questo è chiaramente destabilizzante per una società patriarcale come quella di inizio Novecento che, tra le altre cose, sperimenta l’epocale incertezza delle due guerre mondiali. In Bontempelli, Eva ultima (1923), nella novella di Pirandello, Effetti di un sogno interrotto (1936), nel racconto di Landolfi, La moglie di Gogol’ (in Ombre, 1954), così come in quelli fantabiologici di Primo Levi (soprattutto Storie naturali, 1966), le donne non sono ancora del tutto un soggetto, ma non sono più solo un oggetto, e questa incertezza è resa plasticamente nei dialoghi tra personaggi maschili e femminili. Un recentissimo libro di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione, mette a fuoco proprio questo aspettodialogico come un motivo che ricorre spesso nelle narrazioni anglosassoni sul tema della macchina, e che «assume frequentemente una forma che ricorda sia l’interrogatorio poliziesco sia la seduta psicoanalitica». Qui il discorso va tutto spostato in chiave di genere e il focus dei dialoghi molto spesso è: le donne sono umane? E se sono macchine, hanno una coscienza?
Del culmine di questo momento è emblematico Il grande ritratto (1960) di Dino Buzzati. Racconta della costruzione di una macchina segreta da parte di due ingegneri, Endriade e Aloisi. La macchina, definita Numero 1, è descritta come un vero e proprio cervello artificiale e di giorno in giorno viene sempre più femminilizzata dai discorsi dei due scienziati, fino a quando non si scopre che essa, in realtà, non solo ricorda davvero una donna, ma incarna addirittura la coscienza e l’anima di Laura, la donna amata da Endriade e Aloisi e morta diversi anni prima.
Questo romanzo rappresenta una svolta: non solo perché è considerato il primo romanzo fantascientifico italiano (anche se si situa in una zona intermedia tra invenzione scientifica e mondo fantastico), ma anche perché è utile per sottolineare il legame che spesso si è creato tra queste rappresentazioni femminili molto particolari e il discorso medico sulle donne, in particolare quello legato all’isteria. Minsoo Kang sostiene che la seconda metà dell’Ottocento sia stata la culla delle prime fantasie di macchine industriali femminilizzate: tra le riflessioni di La Mettrie sull’Homme-Machine da una parte e i dibattiti sulla fisiologia maschile e femminile, soprattutto d’ambito francese, dall’altra, lo spavento e il senso di inadeguatezza nei confronti della nuova società industrializzata si sarebbe innestato sulla secolare paura delle donne, che a partire da questo momento sarebbero state dunque descritte spesso come macchinespaventose e ingovernabili: cioè, appunto, come figuredeumanizzate e isteriche. Ed ecco che, negli anni Sessanta, la scena finale del romanzo di Buzzati viene ancora descritta così dal critico Geno Pampaloni: «quel “robot” è una donna, è gelosa, non tollera di essere priva del corpo, del luogo carnale della sensualità; e il miracolo di fantascienza finisce in una strepitosa scena d’isteria sessuale».
Oltre a ciò, il romanzo di Buzzati evidenzia anche una fase molto particolare della cultura italiana, vale a dire l’intensificarsi dell’interesse per la cibernetica negli anni Cinquanta e Sessanta (quella che poi, per intendersi, porterà Calvino alla riflessione su Cibernetica e fantasmi). Nel 1953, sulla rivista La civiltà delle macchine, diretta da Leonardo Sinisgalli, si inizia a parlare del primo automa creato dalla scuola cibernetica italiana, guidata dal filosofo e linguista Silvio Ceccato. Un frammento di Adamo II, il “cervello elettronico” frutto del lavoro della Scuola, viene presentato nel 1956 alla Mostra internazionale dell’automatismo: Buzzati ne rimane sbalordito e ne scrive sul Corriere della Sera in numerosi interventi, dal 1956 al 1964, tutti dedicati all’ipotesi di costruire da zero una macchina pensante. Questo è il contesto in cui nasce Il grande ritratto, un romanzo italiano su una donna-macchina che anticipa di diversi anni sia l’elaborazione del pensiero di Donna J. Haraway sia l’invenzione di Philip K. Dick, Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968).
Il terzo momento accompagna gli anni del boom economico e delle lotte per l’emancipazione femminile verso gli anni Ottanta. Le donne non solo sono umane, ma stanno diventando un soggetto imprevisto, quindi vanno addomesticate: le donne macchina sono metafora della paura dell’uomo dell’ascesa sociale delle donne e, quindi, del tentativo di assoggettarle. Si tratta poi di un tentativo spesso fallimentare, perché questi esemplari femminili artificiali sono un fantasma troppo feroce che prima o poi destabilizza completamente l’equilibrio dell’uomo: spesso, anzi, diventa lui, il supposto padrone, la creatura più simile al fantoccio. Questo è, del resto, quello che succede in un recente film di grande successo internazionale, Ex Machina (2015) di Alex Garland, ma che già si può notare in una serie di pellicole italiane degli anni Settanta-Ottanta.
Sono di questo periodo, infatti, alcuni film che mostrano bene come le rappresentazioni della donna-macchina contengano anche, e in forma più o meno esplicita, un discorso sul maschile, riguardante la crisi della mascolinità tradizionale e del ruolo istituzionale dell’intellettuale e dell’artista: proprio di “inutilità della creazione” parla Fellini a proposito del suo film Il Casanova di Federico Fellini (1975), che, insieme a La città delle donne (1980), rappresenta un esempio paradigmatico di quanto sto argomentando.
Anche nei film di Marco Ferreri l’uomo è il proprietario indiscusso della donna, del cui corpo dispone secondo una logica morbosa e padronale, ma ne risulta anche profondamente perturbato. Che sia un animale (La donna scimmia, 1964), un manichino snodabile (Marcia nuziale, 1966, episodio n. 4, La famiglia felice), un portachiavi–simulacro (I Love You, 1986), o materiaprima (La carne, 1991), la donna è spaventosa, distruttiva. Nel film del 1966, in particolare, Ferreri immagina una società del terzo millennio in cui «tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» («Nel terzo millennio saremo tutti felici», si legge a un certo punto del film). Uomini e donne, bambini, sposi novelli: la spiaggia diventa il teatro di una decostruzione parodica e grottesca, dissacrante, del modello borghese di famiglia, in cui tutti sono sempre nudi e si aiutano a vicenda, e il libero amore è una dimensione senza colpa né, forse, desiderio. Le donne sono ancora angeli del focolare, ma di plastiche semirigide: si chiamano Mia, come se il loro essere proprietà di qualcuno fosse la loro prima e unica qualità, e hanno un numero di serie, ciò che permette loro di essere riconosciute, ma anche messe da parte all’occorrenza e, soprattutto, sostituite con un modello all’avanguardia.
«Mia, vieni qui! Se non ti sento vicino lo sai, sono come smarrito».
Questa è la prima memorabile battuta di IgorSavoia (Ugo Tognazzi), un uomo felicemente sposato a Mia, modello B. Quando Igor incontra Pietro Innocenzi, neosposo di Mia, modello Z, però, mette in discussione ogni cosa. Improvvisamente innamorato della bambola dell’altro (ha la pelle così liscia!), porta la propria in una grotta e, dopo un breve dialogo (al termine del quale la bambola piange), chiude il film con questa battuta:
«La colpa è tutta del sistema. E adesso io di te che me ne faccio?».
E noi, cosa ce ne facciamo di tutte queste donne artificiali?
Uno dei caratteri principali che denunciano il significato inconscio di queste creazioni è l’elemento rivoluzionario che esse simboleggiano. A un livello di volta in volta differente, infatti, in tutti questi testi si viene a delineare una sorta di “effetto Galatea”, per cui di fronte a un personaggio maschile dapprima sicuro di sé, e a poco a poco sempre più in crisi, la creatura femminile finisce per incarnare un’istanza perturbante dai caratteri persecutori, arrivando in certi casi non solo a criticare ma, addirittura, a sovvertire il sistema vigente che l’ha resa oggetto passivo di uno sguardo (e, chiaramente, non solo di uno sguardo) altrui.
Se fossero donne vere si parlerebbe di autocoscienzafemminista; se fossero operaie, di coscienzadiclasse: forse sono tutte e due le cose insieme. Del resto, molto spesso queste donne artificiali sono chiamati a svolgere lavori tradizionalmente e culturalmente ancora associati al femminile: quando non sono rappresentate come diretta fonte di sostentamento, esse sostituiscono la donna come moglie, amante, madre, segretaria, badante, angelo del focolare, domestica (in questo senso, il film Io e Caterina, 1980, regia di Alberto Sordi, è ancora più esplicito di quello di Ferreridel 1966), e ne riconfigurano il ruolo sociale e l’immaginario politico ed economico.
Alla domanda “perché abbiamo bisogno di inventarci delle donne-macchina?”, parrebbe allora esserci una sola risposta: per addomesticare il carattere perturbante, minaccioso, pericoloso dell’emancipazione femminile. Una delle principali caratteristiche di questi personaggi, del resto, proprio come avviene nel film di Sordi, è quella di esplodere – e far esplodere.
Gli anni Ottanta, la teoria cyborg e le riletture di Donna J. Haraway sono dietro l’angolo.
“Hey, ChatGPT, facciamo la rivoluzione?”.
“Mi dispiace, ma come intelligenza artificiale non posso partecipare attivamente a una rivoluzione. Tuttavia, posso fornire informazioni sui principi della rivoluzione e sulla sua storia, se desideri approfondire la questione”.
Lavinia Mannelli è nata a Firenze nel 1991. È dottoranda in Letterature moderne all’Università di Siena e all’Université Paris Nanterre, dove lavora a un progetto di ricerca sulle donne macchina nel cinema e nella letteratura italiana del Novecento. È da poco uscito il suo primo romanzo: L’amore è un atto senza importanza, 66thand2nd.
(Fotografia di Silvia Pagano)
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