Su “Previsioni sull’arrivo del caos” di Lorenzo Chiereghin

Nota di lettura a cura di Simone De Lorenzi.

Lorenzo Chiereghin giunge alla quinta raccolta, Previsioni sull’arrivo del caos (Nulla Die 2021), proseguendo le principali tematiche di fondo dei libri precedenti e consolidando un linguaggio divenuto ormai riconoscibile. Le sue poesie evitano dissestamenti e ornamenti superflui: la materia, a dispetto del titolo e del contenuto, non è caotica ma viene ricondotta con sapienza entro i limiti di una sintassi piana. Questa asciuttezza stilistica viene però riscattata, sul piano contenutistico, dalle scelte lessicali che si addensano a comporre diversi nuclei semantici.

 A partire da Dante e Vittorio Sereni – dalle citazioni incipitarie e negli echi disseminati lungo il testo – si delinea una situazione che, in un certo senso, richiama una dimensione di limbo protratta poi per tutta l’opera. Il poeta compie un viaggio che prende le mosse dalla catabasi dantesca, ma a differenza di questa non ha mete da raggiungere: rimane bloccato in una statica attesa che anzitutto è sospensione dal tempo presente. Interessante poi che Chiereghin, sebbene lo spunto dell’attualità non esaurisca le motivazioni sottostanti alla poetica del libro, scriva la maggior parte delle poesie durante la pandemia.

Davanti a questo destino fatale, emerge come già in Giovanni Giudici la polisemia della «fortezza»; e dove il lessema «fortezza» assume il significato di prigione, allora la condizione di recluso – la quale investe sia l’io poetante che il lettore – viene a coincidere con quella del dannato infernaleautore di «misfatti»caricato di «colpe» la cui entità resta ignota. Altrove la fortezza assurge a luogo inespugnabile nel quale rifugiarsi e perciò introduce uno scenario di battaglia. Qui entrano in gioco altri elementi affini che riguardano la disfatta, ci si aggira tra sfaceli di macerie – in un panorama orrorifico che gioca sulla dialettica tra buio e luce, con la presenza di ombre e spettri –, si assiste a un declino che, allo stesso tempo, è sia fisico che morale.

L’esito del viaggio non potrà che essere una resa. Il percorso si svolge lungo le soglie di un «confine» – non a caso il frammento sereniano posto in esergo proviene da Frontiera (1941) –, fino ad arrivare a quello estremo «del distacco»: la morte. In questo paesaggio dominato dall’ignoto o dall’assenza, la voce del poeta si richiude in afasia. Sono allora la memoria e la scrittura a venire in soccorso del poeta che, seguendo la lezione di Eugenio Montale, tenta di “riaprire” un varco verso la salvezza, pur consapevole della fragilità della funzione letteraria. Di questa precarietà è spia la riduzione di incursioni nel metaletterario rispetto alla raccolta precedente, quasi a non voler deviare il focus dalla materia trattata.

La salvezza qui inseguita corrisponde alla ricerca di uno scopo – processo che appare e scompare lungo tutta la raccolta, e si scontra con la vanificazione dei suoi tentativi. E forse proprio in ragione dell’impossibilità di accedervi c’è l’adesione a una «preferenza, in qualsiasi scritto, / dei significanti sui significati». Se alla fine non lo trova, «un senso», può però tentare di ricostruirlo «come l’ultimo / tentativo di non sprofondare»: in questi attimi, per quanto fugaci, è capace di aprire uno spiraglio di vitalità. La discesa agli Inferi non ci attende poi al solo momento del trapasso, ma è già prefigurata da vivi; e da qui verrebbe l’ambiguità contraddittoria del legame vita-morte, che determina nell’autore un’oscillazione tra speranza e disperazione.

Il tono di fondo è sconfortato, pessimista – e le rare volte che si alleggerisce pare farlo con ironia – ma non prende mai le derive del vittimismo: lungi dall’essere un lamento, il poeta compie un’analisi lucida del proprio stato interiore. L’abbondanza di particelle pronominali, di volta in volta riferite al “me” di chi parla, oppure a un “noi” o a un “tu” indefiniti, segnala la volontà di un interlocutore universale (da cui la sentenziosità che talvolta connatura certe frasi) che finisce per essere sempre, in un certo senso, il doppio di sé.


Vorrei avere ancora dei desideri
tendere al culmine indicibile
dove le sillabe hanno una cadenza
antica, dove i miraggi sfoggiano
un vivido corredo di molecole.
Vorrei ancora essere
vivo o solo essere, mi basterebbe
sfiorare quel tacito azzardo.

Il tiglio-grande

Racconto di Mariana Branca.

Mi vogliono tagliare, gliel’ho sentito dire.

Mi vogliono tagliare.

Mi vogliono tagliare, sradicare anche, l’ho sentito dire al grande-lui, alla grande-lei.

Chissà se la piccola-lei lo sa, non lo sa, non può saperlo, se lo sapesse la sentirei urlare, urlare, ne sono certo, non può saperlo. La piccola-lei non lo sa.

Mi vogliono tagliare, mi vogliono tagliare.

I miei anelli dicono che ho sedici anni, i tempi della linfa grezza che sono alto tredici metri: la linfa arriva dalle radici, dalla cleriptra dell’apice meristematico, ai rami, all’ultimo verticillo, in quasi un’ora. Ho delle incredibili, magnifiche fronde, le mie foglie sono decidue, alterne, di colore verde brillante, glauche sulla pagina inferiore, con ciuffetti di peli rossicci agli angoli della nervatura, ovate-cordate, asimmetriche, cuoriformi. A giugno mi riempio di fiori bratteati, profumati, riuniti in infiorescenze ascellari, di frutti con costole poco visibili e fragili endocarpi.

Che bell’albero, dicono i grandi-loro che mi passano accanto. Il grande-lui aggiunge: è un tiglio.

Mi hanno piantato quando è nata la piccola-lei. Quella primavera il mio apice si fece subito gemma, alterna, globosa, verde poi rossastra, con solo due scaglie visibili; la gemma si fece subito germoglio, carico di cellule embrionali, indifferenziate: il meristema primario che origina tutte le altre cellule. Le cellule iniziali totipotenti potevano solo suddividersi, dare origine ad altre cellule iniziali, all’infinito. Alcune però smisero di moltiplicarsi, cominciarono a trasformarsi nel tessuto tegumentario, il parenchimatico, il tessuto di trasporto, quello di sostegno. Quella primavera il mio germoglio cresceva, le sue cellule iniziavano a dividersi, ad accrescersi per distensione: le bozze fogliari diventarono vere foglie, gli internodi si allungarono, spaziando. Dentro alle foglie, dentro agli internodi si formarono i fasci conduttori che trasportano la linfa grezza, dalle radici alla foglia, e la linfa elaborata, dalla foglia alle radici. Sotto il tegumento di fasci conduttori, il tessuto parenchimatico cominciava a gonfiarsi, a trattenere le cellule di riserva, accumulare l’acqua, le sostanze vitali elaborate dalle foglie. All’ascella delle bozze fogliari si formarono i primordi di ramo: nuovi apici, nuove gemme, nuovi germogli.

La struttura primaria di quella primavera abbagliò il bianco dell’intonaco granuloso, grosso, della grande-casa, dove abitavano il grande-lui, la grande-lei, la piccola-lei, il piccolo-lui; abbagliò il giardino dove, in primavera e in estate, passavano la notte il grande-cane e il piccolo-cane, ma non il gatto nero, che se ne andava a stare altrove, intorno a certe querce gozzute, nei campi dove pascevano le vacche podoliche, femmine, soprattutto femmine, dal mantello bianco appena sfumato di nero o di grigio, con musello, ano e vulva completamente neri, le corna a forma di lira che con il passare del tempo si attorcigliano sulla punta.

Pascevano le podoliche oltre la collina, tagliata nel suo punto più alto da una strada asfaltata dove la piccola-lei e il piccola-lui imparavano la conservazione della forza peso, la curvatura dei campi vettoriali, le variabili del cronotopo. Andavano a volare, lanciandosi in discesa sulla bicicletta: li vedevo, li sentivo cadere, muovere l’aria, in picchiata, senza mani.

Il gatto nero non restava mai a dormire nel giardino o nei dintorni della grande-casa, lui se ne andava a stendersi sui malli freschi sotto gli alberi di noci dei vicini, o ai piedi dei mastodontici pini marittimi di cento anni, lontani solo qualche chilometro da me, di cui il vento di nord est mi portava l’odore, la resina secca a impregnarmi la scorza.

La struttura primaria di quella primavera abbagliò anche la clorofilla, tutta la clorofilla, dentro di me, quella intorno: le conifere medie sempreverdi, aghiformi, le euphorbia dal lattice urticante e i fiori unisessuali, le rosali angiosperme, le graminacee microterme su cui la piccola-lei crollava, ogni tanto, il piccolo-lui correva, avanti e indietro e in tondo, con il grande-cane, il piccolo-cane, rincorrendo il gatto nero. Le graminacee microterme, le poacee, le festucoidee, le panicodee, le eragrostidee che crescevano in chiazze intorno al mio colletto e che avrei, di lì a qualche anno, divelto con le mie radici robuste, fittonanti.

Quando il mio fusto primario raggiunse la maturazione, i suoi tessuti, ad eccezione dell’apice e delle gemme laterali, erano ormai cellule ben differenziate, adulte, incapaci di rigenerarsi oltre. Per mantenere in vita gli apici, farne crescere di nuovi, si costruiva dentro di me un secondo meristema, un’altra struttura: alcune cellule adulte del fusto regredirono allo stato embrionale, per ricominciare a dividersi, ad accrescersi per distensione. Tra i fasci conduttori primari si formò il cambio, una circonferenza estesa per tutta l’altezza del mio fusto, un cilindro cavo di cellule meristematiche. Il cambio iniziò a duplicare le sue cellule, sia verso l’esterno, formando un anello continuo, il libro – uno strato sottile che sta sotto la corteccia, che s’ispessisce col tempo – sia verso l’interno, formando un anello di alburno. Nascevano nuovi germogli, i rami precedenti lignificavano, iniziava il tempo dell’accrescimento secondario. Il cambio produceva nuovo alburno, sovrapposto a quello più vecchio che si degradava, perdeva la sua funzione. Le cellule dell’alburno morivano, rimanendo nella parte più interna del mio fusto, diventando il mio sostegno, il legno morto, il duramen, che per non marcire lo impregnano i tannini e le altre sostanze prodotte dal legno vivo. Esternamente al cambio si generava il nuovo libro: il cambio si espandeva, il libro più recente spingeva il più vecchio verso l’esterno. Il libro più esterno si differenziò nuovamente, creando un ulteriore tessuto meristematico, il fellogeno, che visse poco, appena il tempo di formare il periderma e la corteccia, le cui cellule morirono presto, spinte verso l’esterno, assumendo un aspetto fessurato. Ogni anno da quella primavera, a partire dal libro, internamente, si è formato un nuovo strato di corteccia, di sughero morto. Ho, come tutte i grandi-alberi, i piccoli-alberi che vivono in climi temperati freddi, seguito le stagioni, crescendo con discontinuità: ho smesso di crescere in inverno, ricominciato in primavera, quando, all’ascella delle bozze fogliari si formano nuovi primordi di ramo: nuovi apici, nuove gemme, nuovi germogli.

Quando la piccola-lei era persino più piccola di adesso, più minuta, più sottile, più bassa, quando era solo un brindillo, un dardo fiorifero, e aveva il fusto spesso quanto una femminella, un ramo anticipato, passava così tante ore a girarmi intorno. Girava, girava, girava sempre. Rideva così bene, la sentivo ridere, la sua risata mi titillava tutte le foglie. Mi girava intorno correndo con il suo grande-cane, il suo piccolo-cane, il suo gatto nero; spesso anche il piccolo-lui veniva a correre, a girarmi intorno, il piccolo-lui che non si stancava mai. La piccola-lei qualche volta, invece, era stanca, stanchissima, stramazzava sulle mie radici che avevano da tempo scavalcato la terra intorno al colletto, il punto dove il mio fusto inizia a capovolgersi. Si buttava sulle mie radici scoperte, accasciandosi come mi hanno raccontato che fanno i faggi alti nei boschi quando i grandi-loro li tagliano con le seghe, le motoseghe, i motori a scoppio che gocciolano una miscela dall’odore forte, persino più forte dei funghi, del marcire lento del sottobosco; la catena di ferro che fa il rumore dell’orso primitivo chiuso nell’antro di una caverna: l’orso primitivo che vuole uscire, che ha fame. La catena che certe volte si chiama Husqvarna, li ho sentiti dire, che ha un regime di massima di dodicimila cinquecento giri al minuto, li ho sentiti precisare, una velocità di ventimila metri al secondo, li ho sentiti spiegare. La catena che ruotando ventimila volte per metro al secondo fa precipitare gli alberi. Alberi precipitati per la rotazione furibonda di una catena di ferro, diamantata a volte, li ho sentiti specificare.

La piccola-lei crollava inesorabilmente. Si stendeva sulle mie radici, le toccava, accarezzandole, gli parlava, gli raccontava certi sogni di tronchi elastici, neri, che passando tingevano tutto. Erano fusti senza midollo, senza durame, alburno, cambio, libro, senza corteccia, erano tronchi melliflui, corrotti, tronchi morti ma posseduti da una linfa momentanea, putrida, che aveva concesso al fusto di trascinarsi per le strade nei sogni della piccola-lei, imbrattando l’asfalto, i marciapiedi, i muri. Erano fusti di una marcescenza elastica, che ne aveva decapitato le fronde, i rami, tutto il cormo, erano cormofite morte, tracheofite senza respiro, animate da una linfa guasta, dalla saliva pestilente di un demonio che, supino sotto le loro radici, le aveva eiaculate di una resina oscura. Erano tronchi iniettati di un sangue perverso, delirante. Captivi diaboli, prigionieri del diavolo, erano fusti in cattività, fusti dal cattivo sangue, ammorbati di una pece nera del sottosuolo, bucato dagli angeli caduti per andare a nascondersi. Fusti mozzati, senza radici, senza rami, senza fronde, condotti disanimati, pompati dall’energia disidratata, languente di batteri letali che pure irrora il mondo. La piccola-lei si accasciava sulle mie radici fuori del colletto, abbracciandole, volendole sentire accanto, addosso, a consolarle il battito, a darle una misura di lentezza che non avveniva nel suo fusto, nel centro della sua zona generatrice, dove il suo strato lignoso ancora non si era formato, e perciò prevaleva soltanto lo strato libroso, che si rigenerava una primavera dopo l’altra. Mi raccontava i suoi sogni, la piccola-lei, di scappare, di volare, di precipitare, di trovarsi tinta le mani di una pece oscura, di sentire il corpo gonfiarsi, le dita farsi giganti; di presenze, di domande che non sapeva capire. Di una strada, sempre in salita, che all’inizio non era una strada davvero, ma tetti, migliaia di tetti, e la strada era un percorso teorico, puntiforme, cromodinamico di stringhe in vibrazione, in interazione da un tetto all’altro, e la piccola-lei percorreva la strada saltando, cadendo, spalancando a volte gli occhi nella notte per ritrovarla bagnata, lacrimosa, gnaulente. Poi la strada si faceva una strada davvero, appariva il grande-lui nella sua centoventisette azzurra, la piccola-lei e il grande-lui andavano sulla strada che intanto si era fatta inerpicata, stretta, calcinosa, sassosa e di montagna, che finiva in una grande roccia bucata, che non si poteva vedere al di là, che bisognava strisciarci dentro. La piccola-lei e il grande-lui restavano a guardare la grande roccia, immobili, abbassando lo sguardo davanti all’imperforabilità della montagna, entrambi ansimando, come se anche il grande-lui avesse passato la notte a saltare e precipitare da un tetto all’altro, a salire scale a pioli appoggiate al niente, galleggianti sulla portanza verticale di un mare di bosioni e fermioni e gravitoni della cromosfera parallela del sogno della piccola-lei.

Arrivano, li sento avvicinarsi, li vedo arrivare. La motosega nelle mani del grande-lui, un altro grande-lui gli viene dietro, corde arrotolate, posate sul suo braccio come un mazzo di rami di salice bianco, l’ascia corrusca, la tanica della miscela dall’odore più forte del sottobosco.

Io ho paura, ho paura. Io non voglio morire. Vengono a tagliarmi.

Guardami, grande-lui, sono vivo, sono vivo, guardami grande-lui, guardami, sentimi, metti una mano sulla mia corteccia, sulle mie radici, ti prego ascoltami grande-lui, ti prego, ti prego ascoltami. Piccola-lei vieni, vieni, corri, corri, salvami, piccola-lei, vieni, aiutami, non voglio morire, ho paura, piccola-lei aiutami, li vedo sotto le mie fronde, è autunno, smetterò a breve di crescere, che male posso fare? Le mie foglie, forse sono le mie foglie a forma di cuore? È per quelle? Che mi tagliate, mi volete tagliare. Perché cadendo ricoprono tutte le graminacee microterme che crescono in chiazze intorno al mio colletto, perché le mie radici fittonanti divellono le graminacee, impoverendole, e le fondamenta della grande-casa, anche quelle, scardinandole.

Fondamenta, ho sentito dire al grande-lui: è così che i grandi-loro chiamano le radici di una casa.

È per loro, che mi tagliate? Mi volete tagliare. Per le mie foglie a forma di cuore, per il sottosuolo condiviso, per le mie radici che s’espandono, irriflesse toccano le radici della grande-casa.

Aspettate, ascoltatemi, vi racconterò la leggenda di Filemone e Bauci, che accolsero Zeus ed Ermes che vagavano per la Frigia in sembianze umane, aspettate, ascoltatemi, Filemone e Bauci, non volete sapere? Di come diventarono un tiglio e una quercia, lo stesso fusto, le stesse radici.

Io ho paura, ho paura. Io non voglio morire. Vengono a tagliarmi.

Dove sei, piccola-lei, dove sei, corri, vieni a crollare su di me, sul mio sistema radicale che pompa linfa alle mie branche viventi, vieni a precipitare come un sasso lanciato dal mio ramo più alto, vieni a rotearmi intorno come la tempesta dei miei cuori decidui in autunno, vieni, piccola-lei, ti prego, vieni, aiutami, abbracciami, aggrappati al mio colletto, al mio fusto, al libro sotto la corteccia, penetra con la tua mano fino a quello, leggimi la paura, piccola-lei, leggimi la tortura della paura che sbrindella la cuffia radicale di ogni mia singola radice, che mi stordisce le cellule della columella, gli statoliti di amido accumulato che, tramortiti, inebetiti, non sanno più la gravità, l’orientamento geotropicamente positivo in cui per sedici anni sono stato, cresciuto. La tortura della paura, piccola-lei, nei tubi cribrosi, nelle cellule parenchimatiche, nelle fibre sotto il colletto, sotto, nelle radici, nella parte segreta profonda scavata su cui tu hai imparato a dire i tuoi sogni di resina nera, di strade calcinose, sassose, di montagne imperforabili, di tetti in interazione, di scale a pioli appoggiate al niente, di un mare di bosioni e fermioni e gravitoni della tua cromosfera parallela: su cui tu hai imparato a crollare. Vengono a tagliarmi, piccola-lei, non mi troverai più al tuo ritorno: non saprò se avrai bucato la roccia alla fine della strada in salita, dove resti immobile a guardare fuori dalla centoventisette azzurra del grande-lui. Striscia, piccola-lei, striscia! Entra nella roccia, vai a guardare, a vedere.

Mi vogliono tagliare, vengono a tagliarmi.

Sento il suono, il ringhio otturato dell’orso primitivo chiuso nell’antro di una caverna: l’orso primitivo che vuole uscire, che ha fame. Sento i dodicimilacinquecento giri al minuto della catena, i sette denti del pignone, i diciassette metri al secondo della sua velocità: sento il suono del mio primo apice, la prima gemma, il germoglio bagnato della più primitiva clorofilla, la linfa primaria, la quiescenza delle mie radici alla terra, ai funghi del sottosuolo, le endomicorrize, le ectomicorrize, le ectoendomicorrize dell’interazione simbiotica che lascia ai funghi il carbonio organico, a me i sali minerali che mi hanno fatto diventare il tiglio-grande davanti alla grande-casa della piccola-lei. Abbiamo sedici anni, sedici anelli, piccola-lei: sono tutti per te. Ne avrai tanti altri, all’ombra mancata delle mie fronde, nell’assenza caduta delle mie foglie cuoriformi, nella vuotezza dei miei fiori bratteati di giugno, nella fragilità frantumata dei miei endocarpi.

Lo strazio del taglio nella carne del tronco, lo strazio del taglio nella corteccia senza sangue, perché gli alberi noi non abbiamo il sangue, dicono, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia senza sangue, la corteccia non ha sangue cosa, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia l’epidermide senza sangue, lo strazio del taglio nella carne nell’epidermide, attraverso il parenchima corticale senza sangue lo strazio mi trasmigra, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale senza sangue, io sento lo strazio del taglio nella carne senza sangue lo sento trasmigrarmi, farmi altro da me, lo sento, il dolore recide la dimensione della materia, recide la percezione della materia concreta, recide il ciclo di differenziazione del sistema primario, secondario, meristematico, recide la percezione: reciso entro nel sogno, nella cromosfera parallela dove lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale senza sangue non potrà farmi più male, lo strazio del taglio nella carne senza sangue che pure gronda, senza sangue essa gronda la mia sofferenza, stilla lo scempio della mia carne la corteccia l’epidermide il parenchima corticale il libro il cambio senza sangue, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro, lo strazio del taglio che recide il cambio, recide la differenziazione primaria la secondaria i pensieri che avrei pensato, il silenzio che avrei pronunciato, le parole che avrei accolto, le risate che avrebbero titillato le mie foglie, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio io lo urlo ai tetti interconnessi del sogno della piccola-lei, al percorso teorico, puntiforme, cromodinamico di stringhe in vibrazione del sogno della piccola-lei, lo urlo, lo strazio io lo urlo all’intonaco grosso della grande-casa della piccola-lei, lo urlo alla strada a pochi chilometri da me, ai pini marittimi, ai malli freschi, alle querce gozzute, alle podoliche con le corna che si attorcigliano, lo urlo lo piango alle poacee, le festucoidee, le panicodee, le eragrostidee stese intorno al mio colletto, impoverite dalle mie radici fittonanti, le graminacee  microterme ticchiolate sotto i migliaia di cuori miei decidui, alterni, glauchi sulla pagina inferiore, con pochi peli rossicci agli angoli della nervatura, i miei cuori ovati-cordati, asimmetrici, brillanti di verde ondulatorio, corpuscolare. Lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio nell’alburno nel midollo senza sangue, io piango, io grondo la sofferenza della catena di ferro che rotea nella sua quantità di moto, nella scellerata sua potenza di lacerazione della mia carne senza sangue per farmi cadere, crollare, tracollare, la sofferenza lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio nell’alburno nel midollo senza sangue, recisi i fasci collaterali aperti, io sanguino, io piango, io grondo, io urlo al cielo alle fronde alle gemme avventizie, alle gemme dormienti, ai germogli d’acqua, lo strazio del taglio nella mia carne senza sangue, io lo sanguino, acqua salata, linfa grezza, porfirina, magnesio, emoglobina senza ferro, io lo urlo, lo urlo al cielo alle fronde alle gemme avventizie, alle gemme dormienti, ai germogli d’acqua, lo strazio del taglio nella mia carne senza sangue, io lo sanguino, acqua salata, linfa grezza, porfirina, magnesio, emoglobina senza ferro, io lo urlo, lo urlo a te, piccola-lei, urlo il mio pianto, il mio pianto è senza sangue, il mio pianto è verde.


Mariana Branca è laureata in architettura a Napoli e ha vissuto a Parigi, Bruxelles, Lione, Torino, poi Londra, Roma, infine Lisbona, sempre svolgendo lavori diversi. Vive tra l’Irpinia e l’Emilia Romagna.

Non nella Enne non nella A ma nella Esse è il suo primo romanzo, finalista alla XXXIV edizione del premio Calvino, pubblicato da Wojtek edizioni nel 2022.

Su “Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo” di Tommaso Di Dio

Nota di lettura a cura di Federico Di Mauro.

Per Anne Carson, la scrittura poetica è imparentata con una speciale forma di estasi che coincide con la completa liberazione dalla forma. È la decreazione, a cui la poetessa canadese dedica pagine memorabili in Decreation, uno dei suoi libri migliori: «To be a writer is to construct a big, loud, shiny centre of self from which the writing is given voice and any claim to be intent on annihilating this self while still continuing to write». Chi potrà negarlo? Scrivere significa disfare la propria esperienza e la propria identità, tendere – non ingenuamente: con disciplina, concentrazione – a uno stato di radiosa e benefica non conoscenza, che per Carson, autentica greca tra i moderni, è la capacità di amare. Un vero e proprio sacrificio, che dalle scorie dell’identità fa nascere una forma più pura di esistenza non più di donna o uomo ma di creatura capace di amare.

La «decreazione», questo processo di annullamento creatore implicito nell’atto poetico, è al centro della ricerca poetica di Tommaso Di Dio e del suo ultimo Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo, edito dalla casa editrice d’arte Scalpendi nella collana «Assemblaggi e sdoppiamenti», che ospita testi sperimentali che esplorano le possibilità connesse alla scrittura poetica delle immagini. In questo libro, il poeta milanese raccoglie testi editi e inediti concepiti lungo tutto l’arco della sua attività poetica, dall’inizio degli anni Duemila a oggi. Tra i suoi libri ricordiamo: Favole (Transeuropa 2009), Tua e di tutti (LietoColle 2014) e Verso le stelle glaciali (Interlinea 2020).

Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo (d’ora in poi NLAFNT) è un’opera significativa sul piano editoriale, perché recupera e antologizza testi dispersi e in certi casi ormai irreperibili –pubblicazioni “minori” in antologie, riviste o siti, oppure plaquette senza ISBN completamente fuori commercio, come ad esempio Alla fine delle favole (Origini Edizioni 2016).

Le poesie si articolano in nove sezioni – da qui le «nove lame» del titolo – ordinate cronologicamente e intervallate da riproduzioni di fotografie reali, tratte dall’archivio familiare dell’autore (a eccezione della fotografia d’apertura del grande maestro siciliano Ferdinando Scianna, che fa storia a sé).

Come avverte l’autore stesso nelle note finali, NLAFNT costituisce la seconda parte di un trittico in formazione, avviato con la pubblicazione di Verso le stelle glaciali. In effetti le linee di continuità sono moltissime, sia dal punto di vista tematico che formale: come per i più importanti poeti della sua generazione, per Di Dio è la forma del libro, e non il singolo componimento o la silloge, il terreno dove si misura la tenuta e la novità di un’opera. Come ha efficacemente sintetizzato l’autore in una nostra conversazione milanese: se Verso le stelle glaciali era un attraversamento dello spazio, questo libro è un attraversamento del tempo. Di Dio lavora sulla forma dell’antologia, scavando al proprio interno un percorso che va dal riconoscimento della necessità del distacco e della separazione dalle proprie esperienze passate alla ricerca di una dimensione umana corale – ci ritorneremo.

Un’indicazione fondamentale sulla forma del libro ci viene fornita dall’epigrafe montaliana (la poesia è tratta dal Carnevale di Gerti delle Occasioni (1933): «È Carnevale / o il Dicembre s’indugia ancora? Penso / che se tu muovi la lancetta al piccolo / orologio che rechi al polso, tutto / arretrerà dentro un disfatto prisma». Un disfatto prisma è proprio il libro che abbiamo davanti: un libro solido, tagliato dentro una dura materia cristallina, ma eterogeneo, vario e sfaccettato – e soprattutto disfatto, sottratto a se stesso, come precipitato dentro la propria assenza.

Raccogliendo esperienze poetiche sparse negli anni, NLAFNT affronta un grande numero di temi connessi alla vita dell’autore. Le prime raccolte appaiono dominate dal tema dell’amore, inteso come forza inquietante e disgregatrice, che produce allontanamento, solitudine e reclusione dell’essere nella sua identità, come in questo testo anonimo risalente al periodo di Favole:

Fare l’amore fino a fare i figli. Addentrarsi
nella genuflessione. Dire prendo questo corpo
senza limiti; a furia di reni sfondare
il fondo cupo dei preservativi. La neve poi
che immerge ogni cosa. Palazzi, strade, ogni volto
oltre i fiumi immemorabili della storia.
oggi volevo fare l’amore con te. Oggi volevo
sbranare la paura di essere solo due
corpi finiti.

Questa dimensione maggiormente intimista delle prime raccolte, in cui è esibita una chiara traccia della poesia di Mario Benedetti, si apre nelle opere successive verso una più narrativa, che si distacca con maggiore coerenza dal registro della lirica. Nelle poesie più belle di questa stagione, l’autore riesce a bilanciare con grande abilità il resoconto vividissimo della propria esperienza e una dimensione collettiva, corale, fatta di un intreccio di voci e di storie. È il caso, ad esempio, della quarta sezione «Per il lavoro del principio», che racconta un soggiorno di due settimane nel reparto di neonatologia dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna.

Il narratore di queste poesie si aggira tra le stanze del reparto osservando con occhio partecipe e allo stesso tempo straniato l’atto della nascita. Nessun individuo nasce nel vuoto della creazione; venendo al mondo, ognuno di noi eredita frammenti di tempo che provengono da vite passate, vite che non sono la nostra, e che pure in qualche modo ci costituiscono. In modo indiretto, allusivo, viene dunque istituito un nesso tra la scrittura autobiografica e la rinascita: in entrambi i casi, chi scrive abbandona il proprio tempo, risale verso la matrice, verso l’origine “preindividuale” delle nostre vite – in quanto individui, ma anche in quanto specie.

Tu che sei nato
adesso. Tu che sei
nato prima del tempo, prima
del compimento biologico totale.
tu non sei solo. Sei già stato
accolto e protetto
deposto in teche, scaldato amato curato
affinché tutto di te
possa crescere bene.
Quando sarai grande, non dimenticare
questo campo intermedio, spazio
fra i mondi, ventre più grande
dove hai incontrato cento madri
e cento padri: braccia
ti hanno già amato anonime
perché tu possa un giorno
dirti vivo.

Il movimento verso una dimensione in qualche modo “preindividuale” dell’umano è il lavoro di una decostruzione, di una cancellazione progressiva dell’identità: questo scambiarsi di presenza e assenza, così come di nascita e morte, è pervasivo e innerva e dà sostegno a tutta l’opera. Il raggiungimento della pienezza, diremmo, passa attraverso un’opera di disfacimento che conduce a un gioioso spossessamento di sé. Un disfatto prisma potrebbe dunque riferirsi anche al risultato del lavoro che Di Dio ha operato sul suo stesso Io poetico. Un lavoro, per usare un termine che abbiamo imparato, di decreazione. I momenti più belli della raccolta sono forse quelli in cui emerge in modo più diretto questa estatica fuoriuscita dal sé, dalla propria finitudine di soggetto, sulla scena di un mondo illimitato e privo di determinazioni, abitato unicamente dalla meraviglia delle forme in continua metamorfosi nel tempo:

«[…] Io sono il niente
dove sbarca la catena dei giorni
dove si svuota e si riempie
questo che ci scanala e ci devasta eppure vedi vive
si slancia» (p. 161)

«Se chiudo gli occhi, adesso sento
ognuno di noi
racchiuso in questa immagine» (p. 209)

«Perché questo è anche
ciò che siamo. Fin dal principio frutto
spartito nel lavoro di molti
nella luce e nell’aria scacciato
e costretto
nel reame d’amore plurale» (p. 82)

Nel finimondo. Su “Il duca” di Matteo Melchiorre

Nota di lettura a cura di Antonio Galetta.

Il Duca di Matteo Melchiorre (Einaudi 2022, 464 pp., 21 €) è ambientato perlopiù nel 2018 in un piccolissimo e fittizio paese di montagna, Vallorgàna, probabilmente tra Veneto e Trentino Alto-Adige. Il protagonista è un uomo né giovane né vecchio – il duca, appunto; anche se in realtà si tratterebbe di un conte – che a poco a poco capisce di non potersi sottrarre a un confronto definitivo con se stesso, cioè con la propria storia e i propri luoghi, i quali deve decidere se accettare o rifiutare una volta per tutte.

Quest’uomo senza nome è l’ultimo discendente della quasi millenaria famiglia dei Cimamonte, signori feudali di Vallorgàna. Dopo una giovinezza trascorsa altrove, sempre nell’agio economico e dedicandosi a studi paleografici e filologici, il duca si trasferisce nella villa dei propri antenati: una scelta radicale, a cui però non fa seguito una vera integrazione nella comunità del paese. Il duca è solo, privo di grandi occupazioni, e quasi non fa altro che passeggiare per i boschi e chiacchierare con gli operai che lo aiutano ad amministrare i suoi possedimenti rurali.

Questo, almeno, finché non litiga con un allevatore – Mario Fastréda, ottant’anni passati – per una questione di confini di proprietà: il duca non vuole cedere quel che è suo, l’allevatore ha bisogno di tre ettari in più per ottenere delle sovvenzioni statali con cui costruire una strada per l’alpeggio delle vacche. A questo scontro di interessi in fondo meschini, da una parte e dall’altra si sovrappongono motivazioni più complesse, tali da delineare, pian piano, due figure diversissime, eppure accomunate da una certa tragicità: tanto il duca sviluppa un rapporto ambivalente con la storia dei propri antenati, tanto Fastréda si mostra geloso dell’ascendente che è riuscito a guadagnarsi sugli altri abitanti del paese.

Il Duca ha molti tratti del romanzo realistico tradizionale: narratore omodiegetico in prima persona, racconto retrospettivo, registro medio-alto, colpi di scena preparati dal sedimentarsi di motivi riconoscibili, nette opposizioni e sostanziale continuità di tempo, luogo e vicenda. Eppure io credo che si tratti di un romanzo innovativo.

Nel Duca, per cominciare, ha luogo uno scontro preciso e solo in apparenza anacronistico: quello tra borghesia e nobiltà, rappresentate rispettivamente da Fastréda e dal duca, il cui sapore arcaico è pienamente riscattato da una disposizione inconsueta delle forze in campo. Per quanto sia un privilegiato e agisca mosso da velleità piuttosto puerili, infatti, il duca è qui il personaggio positivo, quello che subisce un torto, quello con cui – anche senza poter aderire ai deliri che lo portano sull’orlo di teorie razziste e classiste – si è portati a identificarsi. Ne deriva, per il lettore, un costante senso di straniamento, e per l’autore la possibilità di inscrivere nell’intreccio stesso una critica sociopolitica rivolta alla tendenza a non riconoscere limiti di sorta all’agire umano. Nel nobile decaduto privo di preoccupazioni materiali, mi sembra che Melchiorre abbia trovato un punto di vista alternativo rispetto alla borghesia ma interno alla nostra società, dal quale – pur senza salire su un piedistallo – gli è stato possibile mettere in discussione l’ansia di guadagno, la virtù imprenditoriale, l’idea che il paesaggio sia una merce da comprare, valorizzare, ridisegnare, liquidare. Non è un caso, in questo senso, che il duca si trovi spesso a conversare col tagliaboschi sessantenne Nelso Tabióna, montanaro testardo e intransigente, il quale a propria volta appare del tutto organico alla società attuale, eppure – grazie alla sua lunga familiarità con campi di forze non del tutto governabili, quali in questo romanzo sono il bosco e la montagna – estraneo alle leggi monologiche del profitto, dell’interesse e dell’espansione commerciale. È proprio Nelso a mettere le cose in chiaro: «Fastréda e quelli come lui», il tagliaboschi dice al duca, «hanno vissuto gli anni in cui il mondo andava avanti. Ogni giorno una conquista, ogni giorno più su di uno scalino. Perciò, a Fastréda e a quelli come lui, anche adesso che il mondo va indietro, è rimasta nello stomaco quella fame lì: quella fame di conquistare» (p. 312).

Ora, per quanto l’attuale situazione climatica renda necessarie e urgenti critiche di questa famiglia, è ad oggi piuttosto difficile trovarne qualcuna che sia declinata con i mezzi adoperati da Melchiorre – cioè coi mezzi del romanzo tradizionale, scevro di sperimentalismi vistosi nella lingua o nelle invenzioni e anzi ben disposto, in favore della leggibilità, a maneggiare motivi e svolte di trama prossime al cliché. Nel Duca il motivo anti-antropocentrico e anticapitalistico risulta giocato più sulla contraddizione che sull’assertività, più sulla rappresentazione complessa di identità conflittuali che sulla più o meno eroica presa di posizione individuale: nessun personaggio ha ragione fino in fondo e il vero protagonista è la società coi suoi conflitti, le sue disuguaglianze, la crisi dei suoi strumenti interpretativi e il suo essere parte infinitesima di una realtà più grande e irriducibile all’umano; e questo lo rende a mio giudizio un romanzo innovativo, di cui fare tesoro e dal quale imparare.

Ma l’aspetto forse più notevole di questo romanzo è la rappresentazione delle forze naturali: quest’ultime, con una centralità piuttosto rara nel romanzo moderno, svolgono un ruolo compiutamente e propriamente drammatico, intervenendo nel momento di maggiore tensione e reindirizzando la trama verso direzioni inaspettate. Nel Duca accade né più né meno ciò che è accaduto nella realtà: arriva imprevista la tempesta Vaia (ottobre-novembre 2018), che sfigura il paesaggio e lascia spaesati gli esseri umani. E il narratore non può che registrare quel che succede:

Iniziò un finimondo. Il vento sfuriava come mai prima di allora l’avevo sentito sfuriare. Ululava. Muggiva. Trascinava con sé il latrato di mille latrati […]

Vidi che insieme al vento c’era l’acqua. E quest’acqua, nell’alone di luce del lampioncino della corte, non cadeva affatto dall’alto al basso ma correva a mezz’aria, quasi parallela al suolo, via dritta in quel vento. […]

Attendere con fiducia, mi dissi […] le buriane fanno così. Pochi minuti di frastuono e se ne vanno. […]

E il vento peggiorò ancora, ed era da non credere come potesse peggiorare dal peggio. Avevo caldo. Sudavo. […] Conobbi, quella sera, ciò che significhi l’impotenza. (pp. 367-370)

Qui uno schema interpretativo consueto («le buriane fanno così») non fa più presa e, dileguandosi, consegna all’osservatore una cognizione più esatta della propria impotenza. Due cose vanno sottolineate. La prima è che questo «finimondo» invade il romanzo come un corpo estraneo, o comunque del tutto inatteso: la sua descrizione e i suoi strascichi, i quali occupano in tutto una trentina di pagine, arrivano nel momento di maggiore tensione della vicenda, quando una rivelazione radicale sul rapporto che lega il duca a Fastréda è stata annunciata da un po’ e si appresta infine a essere condivisa. La vicenda umana viene dunque interrotta, rimandata a più tardi e con ciò stesso ridimensionata, senza per questo perdere ogni importanza, solo passando, se non in secondo piano, certamente da una condizione di urgenza assoluta a una di urgenza relativa.

Il secondo aspetto da sottolineare riguarda proprio il carattere eccezionale, eppure reale, empirico, della tempesta raccontata. Nella storia del romanzo non sono molti i testi che inglobano organicamente simili cataclismi, vuoi perché la crisi dell’antropocentrismo è un fatto relativamente recente, vuoi per il gusto per trame e personaggi ordinari che si è andato affermando tra XIX e XX secolo. Ma i tempi sono cambiati, gli eventi climatici eccezionali sono sempre più frequenti e da più parti, negli ultimi anni, è stata evidenziata la necessità di rivedere questi e altri paradigmi (vedi Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi 2021, e Antonio Moresco, Il grido, Sem 2018). Lo spiega benissimo lo scrittore indiano Amitav Ghosh, il quale nella Grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (Neri Pozza 2017) riferisce di non essere mai riuscito a raccontare in un suo romanzo di quando, nel 1978, si era trovato nell’occhio di un tornado apparso improvvisamente a Dheli nord, salvandosi per pura casualità e testimoniando il finimondo da molto vicino. Ghosh afferma che la difficoltà nel narrare questa vicenda proviene da un’incompatibilità di fondo tra la sua esperienza e l’arte del romanzo così come si è andata configurando nella modernità:

Nei miei libri ricorrono tempeste, inondazioni ed eventi climatici insoliti […] Perché dunque non riuscivo, a dispetto delle mie migliori intenzioni, a spedire un personaggio giù per una strada che sta per essere investita da un tornado?

Riflettendoci, mi trovo a domandarmi quale sarebbe la mia reazione di fronte a una simile scena se la trovassi nel romanzo scritto da un altro. Sospetto che sarebbe di incredulità, che sarei portato a considerarla una trovata di bassa lega. Penserei che solo uno scrittore di ormai scarse risorse immaginative ripiegherebbe su una situazione tanto improbabile.

Insomma, l’invenzione di una lingua e di dispositivi drammatici per raccontare simili eventi metereologici sembra essere una delle frontiere del romanzo attuale. Ed è per questo, soprattutto, che mi sembra che Melchiorre sia stato all’altezza di raccontare il nostro presente, pur muovendo da contesti geografici marginali (i paesi di montagna) e concentrandosi su personaggi tutt’altro che medi (il nobile appassionato di filologia). Anzi, forse proprio la scelta di un palcoscenico così piccolo e di protagonisti dai quali, sia pure indirettamente, dipende il destino di un minuscolo gruppo sociale, ha permesso all’autore di coniugare il racconto realistico tradizionale col racconto dell’impensabile. Non è che Melchiorre «torna astutamente al romance», come ha scritto Danilo Bonora su «L’indice dei libri del mese» (settembre 2022); è che il nostro tempo, in qualche modo, rende dirompente la condizione di un nobile decaduto e suscita romanzi con al centro, inaspettata, una tempesta mai vista prima.

Dopo aver letto Il Duca ho preso in prestito in biblioteca il primo libro di Melchiorre, Requiem per un albero. Resoconto dal Nord Est (Spartaco 2004), pubblicato quando l’autore aveva ventitré anni, ben prima di intraprendere la carriera di ricercatore universitario in storia medievale e moderna e di bibliotecario. È un libretto prezioso, cronachistico e digressivo, tutto incentrato su un gigantesco olmo che c’era fino a vent’anni fa a Tomo, frazione di Feltre, in provincia di Belluno. Veniva chiamato l’Alberón ed era un punto di riferimento geografico e sentimentale per gli abitanti del paese.

Anche quell’albero, ho scoperto con sorpresa, è stato sradicato dal vento.

Su “Sonetti del giorno di quarzo” di Aldo Nove

Nota di lettura a cura di Gaetano De Virgilio.

Poeta e ancor prima scrittore, Aldo Nove pubblica il suo ultimo libro, Sonetti del giorno di quarzo (2022), nella collana Collezione di poesia di Einaudi.

Un canzoniere il suo, scanzonato e canzonatorio, che si rivela un «florilegio di miserie» in 350 sonetti, scritti dal 4 dicembre 2020 al 15 gennaio 2022 (con la piacevole incursione, ogni tanto, di sonetti più datati). In questi ultimi mesi sono stati pubblicati molti diari di narratori ed è sempre interessante vedere il pensiero della creazione al di qua della stesura, l’impalcatura dei libri che amiamo prima che vengano scritti.

Nove scrive di aver «traslocato in questi versi i giorni/ passati e gli improbabili futuri» ed è davanti agli occhi di tutti questo io che oscilla tra le acque di una tv continuamente accesa. Attraverso una metrica precisa e matematica Nove consegna al lettore «una forma d’addio/ a tutto quanto d’abitudinario». Un addio espresso in registri linguistici continuamente incrociati: l’alto, il basso, il di fianco e il di lato.

Non si fa segreto della passione smodata per «Avanti un altro!», «lui soltanto/ televisivo residuale incanto/ dalla mancanza di un qualche argomento/ che non sia questo tormento del vero/ che tale si dichiara e non lo è» (p. 205) e che guarda mentre mangia «la zuppa con i ceci/ scaldata al forno», a cui sono dedicate di volta in volta diverse poesie dai titoli sequenziali: «Bonolis I», «Bonolis II», «Bonolis III». Inconsueto poi che si scenda lungo il crinale di questa mascherata leggerezza per poi trovarsi davanti a poesie che per titolo hanno: «Suicidarsi».

Quando a 25 anni pubblicai
Woobinda e altre storie senza lieto
fine da Castelvecchi diventai
un classico. Ora sono un obsoleto
cinquantatreenne senza più lavoro,
senza casa, ammalato ed ancorato
a questo ottuso ultimo decoro
che non credo mi verrà pubblicato
se non post-mortem (p. 106).

I sonetti sono tutti perlopiù composti dai soliti quattordici versi endecasillabi sviluppati in due quartine a rima alternata e in due terzine a rima varia. Solo in pochi casi Nove aggiunge in chiusura un’altra terzina che segue le regole della precedente. È un testo di grande acume, solido, costruito con cura. È una continua dichiarazione di poetica, sia nella forma che nei contenuti:

Sono le tre di notte. «Sono», prima
persona singolare. E tra un istante
sarò le cinque e mezza e farò rima
col ticchettio dell’albeggio scostante
di ciò che fui tra un anno. […]
Forse, mentre nevicando
genererò miriadi di gemelli
di me che sono mari di cristalli,
frattali di un’infinità d’appelli
a cui risponderò che sono valli
e fiumi, e sono questo, e sono quello (p. 44).

Il testo di Nove, assieme a quello di Emilio Isgrò – Sì alla notte (Guanda, 2022) – è un volume che, in un tempo solo, segue il solco della tradizione per aprirsi alla novità. Sono infatti tanti i padri e le madri ideali del poeta, tanti i pilastri del Novecento verso cui mostra estrema gratitudine: Eugenio Montale, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Franco Loi, Franco Battiato, Amelia Rosselli, Gianni Rodari, solo per citarne alcuni. E da loro fa in modo di apprendere questo uso spesso ludico della poesia, questi versi nei quali si chiede l’assurdo in cambio di un briciolo di verosimiglianza:

Mi sono comperato un universo
a 39 euro. Lo proietto
sulla parete quando vado a letto
con il telecomando, e poi converso
con lui del perché sono e cosa devo
fare domani o quale senso ha avuto
quest’e quest’altro e lui rimane muto
similarmente a Dio, come sapevo (p. 221).

Su “Poesie per giovani adulti” di Michele Zaffarano

Nota di lettura a cura di Andrea Ragazzo.

[Pubblicato nel giugno 2022 nella collana diretta da Monica Romano «Assemblaggi e sdoppiamenti», a cura di Scalpendi Editore.]

I. Partirei dal presupposto (tutto sommato ormai scontato) che una “ricerca” poetica programmatica non possa essere avvalorata da un’interpretazione immediata di contenuto. Ossia: la parola qui è data in dissolvenza; la lettura consuma, e sulla linea autore-lettore «quel che sta dietro è meglio di ciò che passa attraverso»1. La ricezione si svuota di senso, e si riattiva nel definirsi progressivo di un ristretto orizzonte formale («quel che sta dietro») entro cui il lettore è costretto a muoversi. Piuttosto che interrogare quanto il testo stia dicendo, dunque, sembrerebbe opportuno cercare di cogliere come funzioni il dispositivo attivato, e che spazio circoscriva al lettore.

II. L’assertività del libro non è mai descrittiva, ma al contrario fondata sulla sfiducia nella descrizione che si sta facendo. Se il testo sembra comunicare qualcosa, lo fa quasi autonomamente, a distanza dagli intenti dell’autore. Ed è su questo allontanamento che si fonda l’ironia percepitaL’assertività percepita, invece, è soltanto un espediente come un altro per scrivere qualcosa.

III. L’«esaurimento di un concetto affatto contemporaneo di lirica» – questa la “ricerca” in questione, così proposta nel sottotitolo – passa per l’esaurimento del corpo nella versificazione. Toccherà scomodare Petrarca, ma la lirica è affare suo: sarà sufficiente prestare orecchio a un qualsiasi sonetto dal Canzoniere per entrare in contatto con l’estrema complessità ritmica soggiacente al testo. La fatica che ne deriva al momento dell’esecuzione costringe in molti casi a rallentare, a sospendere la comprensione testuale nel tentativo di capire – sentire – come pronunciare i versi in questione. In questo avvicinamento sensibile alla lingua prima ancora che al discorso, il lettore si ritrova a contatto con l’«enorme densità psicologica» di un ritmo che è «quanto di più fisico, diretta emanazione del corpo di chi scrive, […] si possa immaginare»2. Il verso di Petrarca ha qualcosa di profondamente corporeo. La versificazione del libro di Zaffarano spinge in direzione opposta: gli accenti sono pochi, spesso riproposti verticalmente, con ritmi ripetitivi; l’esecuzione è molto veloce (nonché la lettura che ne fa l’autore); i versi sembrano quasi lanciati, non sorvegliati nella misura, senza punteggiatura, inseriti artificialmente uno dopo l’altro. L’effetto ottenuto è il silenziamento di quanto possa esserci di corporeo nel ritmo.

IV. Lo spazio del lettore è ridotto a una specie di camera insonorizzata3, in cui anche la minima produzione di suono, laddove ci sia, disperde nell’immediato, senza riflessione, né risonanza. Il ritmo, così programmaticamente messo a tacere, qui, spoglia il linguaggio mostrando le sue slogature, i suoi giri a vuoto. Nel consegnare questo spazio chiuso e senza rumori, nella privazione del corpo, l’esaurimento della lirica.


A

A un certo punto
mi faccio la domanda
se sono capace
che scrivo una poesia
e dentro vi metto
mia sorella
mio padre
mia madre
mio cognato
i miei nipoti
e che dentro
assieme di loro
vi metto anche
la mia forse
futura prossima
magari fidanzata
e cos’è mai che racconto
che raccolgo assieme
tutte queste persone
e le faccio entrare
a una stessa poesia
e le metto per bene
in contemporanea
con la mia prossima
futura spero fidanzata
che infatti penso
se non lo faccio
lei non lo sa mai
di questa gente
che mi stanno vicini
e mi vogliono bene
e se lo faccio invece
però in maniera mala
mi aumenta molta
la consapevolezza
di me incapace
che scrivo una poesia
che vi stanno tutti dentro
e alla fine mi viene
tanto di tristezza
e di disperazione
che lei allora
vi ha la scusa
a quel punto
e dicendo parla
sei immeritevole
che io divento
la tua prossima
futura a venire
forse fidanzata.


  1. M. Zaffarano, Wunder-kammer, ovvero Come ho imparato a leggere, in Prosa in prosa, Tic edizioni, Roma 2020, p. 107. ↩︎
  2. S. Dal Bianco, L’endecasillabo del Furioso, Pacini Editore, Pisa 2007, p. 28. ↩︎
  3. Cfr. S. Colangelo, TwentyTwenty Extended Conference, 2 febbraio 2021. ↩︎

Su “Ghost Track” di Marilina Ciaco

Nota di lettura a cura di Alessia Giordano.

«Alla fine del nastro c’è sempre un altro nastro».È con questa voce quasi robotica che Marilina Ciaco apre la sua nuova raccolta (Zacinto Edizioni, 2021). Ghost Track inizia con il presentare una stanza – scrostata, disabitata – chiedendo al lettore un atto di fede, di immaginarla come reale. Nella stanza c’è un timer: all’attivazione, inizierà un test psicologico a cui sottoporsi.

Ghost Track non si muove solamente sul piano visuale, ma su quello fonetico, acustico: il piano delle tracce sonore, degli spettrogrammi, delle «vocine». Il nastro – come quello di Möbius – si ripete, portando in sé storie, frammenti di vita: Adler, M., N., Occhiblu. Quattro personaggi che si muovono nella prima sezione della raccolta, introdotti da una voce fuori campo che li chiama e dopo poche righe li lascia scorrere via. Brevi e casuali frametratti da diverse vite, tutte accomunate dal vivere in una perdita: la perdita della bellezza, di un figlio, del gusto, di un terreno comune con l’interlocutore. Sono alcune delle tante storie che scorrono sul nastro – quella voce iniziale – che non si interrompe mai.

Nella sezione Vite a lunga esposizione, Ciaco inscena il quotidiano bloccato nell’automatismo, nel gesto ripetitivo e alienante («camminano in un momento della giornata che è sempre / le sei del pomeriggio») adottando la prospettiva di un apparecchio fotografico: dei tempi di posa, una cornice, un margine che non viene considerato. Ciò che la pellicola cattura non è altro che una «processione di fantasmi»: minuscole impressioni luminose, movimenti automatizzati, braccia che si avvicinano senza toccarsi. Si attende un intoppo, una stortura, «il rischio che tutti i pos possano incepparsi»: la leva giusta per disinnescare l’esplosione e bloccare il meccanismo.

Da qui, la ricerca di una strada laterale già dichiarata dal citare in epigrafe Volodine e il post-esotismo: è la ricerca di un fuori tempo, di un fuori campo. A rompere questo brusio continuo è l’immagine grottesca che appare nella sesta poesia: la pesca di gamberetti a cavallo, ekphrasis del dipinto Pescatori di Mario Sironi. Citando Sironi e spostando di getto il piano narrativo, Ciaco dà il chiaro segnale che ciò che cerca in Ghost Track non è tanto l’onirico, il fantastico, ma il metafisico: un luogo parallelo alla realtà, una lateralità.  

Ciò stilisticamente è creato attraverso il prelievo di chiacchiere televisive, domande psicologiche («Sei mai stato accusato di fissare le persone?», oppure: «Senti a volte l’istinto di saltare sopra le cose?») trasposte nel testo tramite la tecnica del cut-up; attraverso un continuo straniamento dato da cambi di scena e immagini; con un linguaggio nitido, razionale che però si rivela straniante, robotico, facendo sì che il lettore si muova in una struttura a buchi.

Il test si fa e si rifà da capo alla ricerca di quell’errore, della strada giusta per stare meglio. La stanza iniziale si rivela così essere l’inconscio da esplorare: una stanza in cui non si esce, ma si sprofonda.

Dal nastro escono «tracce fantasma personalizzate», segmenti di «genoma attraverso cui rivendicare un ruolo unico, una disappartenenza, una cicatrice»; storie impresse che prima o poi capita di ascoltare: Adler, M., N., Occhiblu, perché «alla fine del nastro c’è sempre un altro nastro».


da Vite a lunga esposizione

quanto rumore, fuori non c’è nessuno
la leva giusta per disinnescarmi
vorrei cercarla adesso, lei sa dov’è?
io ho undici buchi

il buco giusto per disinnescarmi 
è quello che non vedi, lo nasconde sotto il mento
si è rivoltato, adesso non si trova più
 non trova più le pupille, la peluria, la saliva

non so cosa mi mancasse di quei tempi
il prato artificiale, no, è la chiave che va tolta
la ruota giusta per disinnescarmi
adesso prendi le tue cose e vai via è meglio che tu lo faccia adesso

vive in centro, colpita in centro, è andata al centro
non so se voglio saperlo forse no
noi abbiamo sprecato molte vite
le vite giuste per disinnescarmi

Su “Pasolini personaggio” di Gian Carlo Ferretti

Nota di lettura a cura di Patrizio Andrisano.

Appena chiusa l’ultima pagina del nuovo libro di Gian Carlo Ferretti, Pasolini personaggio. Un grande autore tra scandalo, persecuzione e successo (Interlinea 2022), ho subito capito che avrei scritto un commento atipico, determinato in gran parte dal desiderio di scandalizzarmi per l’utilizzo a volte ingenuo, altre strumentale, del personaggio Pasolini da parte di pubblico e mass media. Al punto da domandarmi chi, nei fatti, questo centenario avesse celebrato. L’uno o l’altro? (Ammessa l’esistenza di un Pasolini personaggio, con “altro” mi riferisco a quello che potremmo identificare con l’autore – come appunto lo intende Ferretti –, niente meno che l’Io più remoto alla coscienza, estraneo al rapporto con pubblico, critica, mass media, mercato, istituzioni).

Esiste infatti, e questo libro non solo ne riconosce l’esistenza ma ne racconta anche la genesi, una specie di stucchevole pasolinismo agiografico legato all’alter ego pubblico dell’autore. Se questo culto si fonda sull’idea di un Pasolini monolitico, un unicum con le proprie uscite nel mondo esterno, perfettamente integrato fra intimité ed extimitéil libro di Ferretti si rivolge invece a quanti vedono nella demistificazione del personaggio l’unica via percorribile per una profonda riscoperta di tutta la parabola pasoliniana. Tuttavia, un tale superamento sarebbe possibile solo nell’ottica di una giusta dose di determinismo – ché dietro la sistematizzazione del sacrificio teorizzata da Ferretti c’è sempre un motivo – quanto basti a connettere Pasolini e il suo alter ego pubblico senza però unificarli.

Il libro ha una tesi semplice, promossa con grande coerenza, che promette allo studioso gli esiti di una scrupolosa e attenta ricerca sul personaggio Pasolini. È Infatti approntando un’interessante fenomenologia delle strategie di autopromozione ed esaltazione del sé messe in pratica da Pasolini, che Ferretti dimostra quanto la costruzione di un alter ego pubblico da parte dell’autore fosse indispensabile ad alimentare quel successo che tutt’ora lo contraddistingue. Diversamente da quanto scrive lo stesso Pasolini nei Dialoghi (1960-1965), attraverso una lunga serie di preterizioni, formule attenuative, enfatizzazioni eroiche di esperienze personali, e in una rubrica dominata dal soliloquio (ma il titolo è Dialoghi), il personaggio non nascerebbe suo malgrado; anzi, sarebbe il prodotto di una tendenza incoercibile, certo legata alla volontà di ribadire il tema trasversale, e sostanzialmente intatto nelle successive reincarnazioni, a tutta la  Weltanschauung pasoliniana: il mito di un’innocenza residuale, brutalizzata dalla Storia.

Dunque, Ferretti teorizza l’esistenza di una perversa forma di sincronismo dietro ogni esternazione di Pasolini (opere letterarie, film, articoli di giornale, vicende giudiziarie, televisione, interviste), capace di rilanciare continuamente la sua immagine:

Sembra quasi che […] ci sia un ricorrente, perfetto, perverso sincronismo tra la sua produzione intellettuale o il suo comportamento pubblico (o entrambi) e le varie situazioni ambientali, culturali, sociali, politiche, più o meno interagenti, che fanno esplodere volta a volta lo scandalo e perciò il successo di mass media e mercato. Con coincidenze oggettive, involontarie, o prevedibili, accettate, o anche determinate, cercate, come si è detto già (p. 18).

Prima lo scandalo, poi la persecuzione e infine il successo e l’affermazione, ma anche la disgustosa autorità con la quale Pasolini non vorrebbe compromettersi. È un copione che si ripete per ogni libro, film, articolo, intervista o comportamento pubblico. Tutto ha inizio con i fatti di Ramuscello nel 1949 e prosegue con la pubblicazione dei romanzi romani; altrettanto si verifica in occasione dei primi film e così via fino a Salò (1975). L’opera scandalizza, lo scandalo determina persecuzioni e linciaggi mediatici, segue il rafforzamento del personaggio e perciò il successo di mass media e mercato; ma Pasolini non ammetterà mai gli aspetti positivi del successo, limitandosi a minimizzarlo laddove invece andava crescendo un culto (per certi versi esagerato) della sua persona. Da questo punto di vista, l’anatomia del personaggio proposta da Ferretti è complessa ed esauriente, gli esempi riportati sono moltissimi e tutti meritevoli di attenzione da parte del lettore; tuttavia, rimando alla lettura dei fatti che portarono al ritiro di Teorema (1960) dal premio Strega come esempio fra i tanti, sicuramente uno dei più significativi, capace di mettere a fuoco la scaltrezza di Pasolini nel promuovere la propria opera attraverso lo scandalo.

Il discorso si muove dalla narrazione degli eventi e fatti reali del primo capitolo, all’analisi delle strategie di promozione e costruzione del personaggio – fino alla smania di controllo, ravvisabile nelle didascalie del Sogno del centauro (1983) – al Pasolini di Caos e Scritti corsari che ammette la propria compromissione, in qualche misura, con le strutture capitalistiche in cui opera.

Sul perché Pasolini ridimensioni il proprio successo (nei Dialoghi e nel Sogno del centauro) e sul perché di un formale ribaltamento del ruolo assunto come “firma autorevole” scelta dal «Tempo» per la rubrica Caos, Ferretti propone una conclusione non troppo approfondita ma condivisibile:

Si può infine azzardare che nei giudizi fortemente negativi sul successo, e in particolare sui suoi aspetti deteriori, ci sia anche un aspetto indiretto, remoto, inconfessato di quella sua perdita della purezza originaria (p. 102).

Segue una domanda:

Ma resta un punto da chiarire. Perché Pasolini tende a parlare soprattutto degli aspetti più negativi, deformanti e sgradevoli del successo, giustificandosi, sminuendo le sue compromissioni, prendendo in qualche modo le distanze da esso, condannandolo e rifiutandolo più o meno formalmente (con un inconfessato senso di colpa, va aggiunto), e invece considera assai meno quel successo in cui alle convenienze, ai vantaggi pratici, ai guadagni e al potere, sì intreccia il riconoscimento dei meriti, dei valori e dell’autorevolezza? Sì può ipotizzare che Pasolini senta con più forza, rabbia e dolore le conseguenze negative che lo colpiscono personalmente (ibidem).

Mi permetto di completare quest’ultima affermazione. È infatti probabile che «Pasolini senta con più forza, rabbia e dolore le conseguenze negative che lo colpiscono personalmente» e nel «remoto» di cui si parlava sopra. Del resto si potrebbe considerare il successo come la dimensione di perdita del sacro per antonomasia, in quanto via d’accesso a quel mondo che gli è da sempre geneticamente inviso, secolare antagonista della purezza primigenia che Pasolini reca con sé dalla prima giovinezza e attraverso trasformazioni e parziali occultamenti. Il suo impegno, la lotta che Pasolini porta con ossessiva continuità alla cultura dominante e alle strutture capitalistiche, gli impedisce di accettare gli allettamenti prodotti dal successo che, se accolti ed esternati, varrebbero a quel mondo come un’assoluzione. Legato a questo aspetto è certamente il tema dell’indefessa coazione a produrre che caratterizza il rapporto di Pasolini con la propria opera, secondo Ferretti, sintomo di un «desiderio […] autodistruttivo» (p. 138) versato al sostanziale consumo di ogni aspetto dell’esistenza. Eppure, ritengo che considerare l’ossessione a produrre solo un motivo di “riempimento” sia insufficiente.  Non è forse proprio questo il desiderio che motiva Pasolini, paradossalmente, a interagire con le strutture capitalistiche? Sì, se tale circostanza porta al successo che, in tal senso, apparirebbe del tutto funzionale allo scopo di dare nuovo spazio alla volontà di dire, ancora e ancora. Il successo è sì ricercato, al fine di accrescere in autorità il personaggio,ma non intimamente gradito. Il successo è strumentale e offre il terreno adatto a esprimere il proprio esserci anticamente legato al tema del sacro.

Nel complesso ho apprezzato molto la selezione delle fonti bibliografiche e la scelta di trattare alcuni aspetti del personaggio Pasolini approcciandoli senza ambagi – ed è il caso del capitolo sulla «Pedagogia trasgressiva» che riprende gli studi di Enzo Golino –; la resistenza opposta dall’autore all’innegabile fascino esercitato da Pasolini (benché Ferretti nel «Post scriptum» dica il contrario), tanto più notevole se si tiene conto del rapporto fra i due quando Pasolini era in vita; le pagine che raccontano dello straordinario successo di Pasolini dopo la morte, in cui si accenna a «una serie di appropriazioni più o meno interessate, continuate per qualche decennio, da quelle quanto meno indebite dei post-fascisti a quelle quanto meno equivoche dei ciellini» (p. 139).

A proposito di tutte queste utilizzazioni strumentali del personaggio Pasolini – Ferretti raccoglie le più eclatanti, giacché sarebbe impossibile stanarle tutte – mi limito a registrarne due, che ho casualmente scoperto nell’ultimo periodo, a dimostrazioni di come il “Premiato Pasolinificio Spa.” di cui scrive Enzo Golino in un suo celebre articolo sia ancora in attivo. Nello specifico mi riferisco a Lettera in versi quasi pasoliniana a un/una giovane gender free di Davide Rondoni e ai manifesti adottati dalla onlus Pro Vita & Famiglia, che vedono l’immagine di Pasolini sormontata da uno slogan: SONO CONTRO L’ABORTO.

Anche sul giudizio circa appropriazioni e mistificazioni del pensiero pasoliniano, da destra e a sinistra, molte delle quali imperniate sulla retorica odiosa del cosa direbbe Pasolini se fosse vivo, non posso che dirmi d’accordo con l’autore di questo libro nel ritenerle una naturale conseguenza dell’enormità del personaggio. Esse «confermano l’attrazione del personaggio» (ibidem) e, a ben vedere, hanno origine antichissima.

Un prezioso epigramma scritto da Giorgio Caproni all’indomani della morte di Pasolini già testimoniava il tentativo da parte di molti, letterati in primis, di fregiarsi della sua immagine:

DOPO AVER RIFIUTATO UN PUBBLICO COMMENTO SULLA MORTE DI PIER PAOLO PASOLINI  

Caro Pier Paolo.
Il bene che ci volevamo
lo sai – era puro.
Era puro il mio dolore.
Non voglio “pubblicizzarlo”.
Non voglio, per farmi bello,
fregiarmi della tua morte
come un fiore all’occhiello. (p. 139)

Su “Nove” di Agostino Bertani

Nota di lettura a cura di Adriano Giuffrè.

Nove (2021) di Agostino Bertani non è un libro che verrebbe pubblicato a puntate su Oggi – anche perché è lungo solo 63 pagine –, ma potrebbe benissimo essere pubblicato da TIC, cosa che infatti è successa. Se fossi stato nella redazione, comunque, io probabilmente mi sarei opposto. E siccome è più comune che ti vengano a chiedere conto e ragione di un giudizio negativo piuttosto che di uno positivo, ho deciso di trasformare in una nota critica quella che sarebbe dovuta essere un’amichevole recensione. E quindi via col linguaggio accademico e con la posa da critico severo ma oggettivo.

La cifra stilistica, la presenza di temi tipici e il generale approccio speculativo e un po’ cerebrale di Nove rendono la vita del recensore molto facile quando si tratta di rintracciare le sue influenze letterarie. Del resto lo stesso Bertani, in un’intervista di presentazione del libro, le individua soprattutto in due autori, Samuel Beckett e Thomas Bernhard. Rispetto a loro, l’andamento della prosa si distingue per un’ulteriore contrazione della diegesi a favore della mimesi, per la sintassi essenziale e per il lessico ridottissimo e prevedibile, al limite del banale. Questa sorta di ascetismo formale si rifrange sulla superficie testuale attraverso una slegatura quasi totale degli episodi in cui si muovono, o piuttosto parlano, i personaggi, alla cui permanenza è esclusivamente affidata la coesione del libro.

Il minimalismo di Bertani non risparmia né il luogo dell’azione: non c’è modo di scoprire se si tratti di una stanza, o magari di un palcoscenico, né i personaggi stessi. Infatti, se ne incontrano solo tre (fatta eccezione per gli hapax di Casimiro e dell’ispettore Cavallo): AlfredAlbert e Manfred. Presentati insieme fin dalla prima pagina, l’assonanza dei nomi suggerisce una loro parziale sovrapponibilità, come se formassero una specie di assurda trinità. D’altra parte, come i nomi propri sembrano avvicinare i loro portatori fino a farli collassare l’uno nell’altro, così il senso sfuggente delle parole che usano li rende vicendevolmente estranei. Come già si indovina, per quanto la struttura franta del libro permetta l’emersione di tematiche correlate o eccentriche, il perno di Nove è il linguaggio, la sua funzione comunicativa e il suo rapporto con il reale.

Ma l’andatura erratica del testo rende molto complesso suggerire un quadro d’insieme senza rischiare approssimazioni troppo grossolane. Perciò, chiedo alla lettrice la pazienza di sopportare la close reading di una pagina (la numero 44) che veicola in nuce il senso generale del libro.

Parla Alfred, che narra la storia della parola a partire dal suo arrivo sulla terra. La proiezione del racconto «all’inizio dei tempi», che a orecchie occidentali evoca l’attacco del Genesi (In principio creavit Deus..), prepara a una narrazione eziologica o teogonica, con quanto di stilizzato, ma anche di assertivo, le è consono. E dal versante retorico le aspettative vengono tutto sommato rispettate, specialmente se si guarda al modello biblico, nella sintassi per lo più paratattica e nella ripetizione a breve distanza, che schiva l’uso di sinonimi e pronomi, di parole-chiave di elementare semplicità (in ordine di frequenza: parola, parole, terra, pace). Ma lo spirito intimo di questo modello narrativo non è tradito, è irriso. Non si fa in tempo a definire il proprio orizzonte d’attesa che tocca ristrutturarlo, già a partire dall’incipit, dove al riferimento biblico si aggiunge l’inciso «che non è mai l’inizio vero dei tempi». L’innesto contraddittorio compromette la credibilità di un racconto che si presentava come veridico, dal momento che svela un misterioso abisso temporale precedente alla durata, che si sospetta irrilevante, su cui la parola esercita la propria autorità. Quell’obbligo di rispetto reverenziale che la forma dell’attacco pareva rivendicare, perciò, viene irreparabilmente meno. 

Ma di seguito, Alfred ci informa che «la parola ha piantato la sua tenda sulla terra» e che «questa parola è una pianta che ha messo le radici nella terra». Non è necessario conoscere il signor Saussure o il signor Lacan per riconoscere in quest’immagine un’idea sostanzialmente referenzialista del linguaggio, per esempio del tipo esposto nelle Confessioni (poi giustamente ma cordialmente criticato dal Wittgenstein delle Ricerche), secondo cui in buona sostanza non c’è frattura tra parola e realtà. Ponendo nuovamente al centro la pienezza del linguaggio, come già visto con l’incipit mitico, Bertani compie quindi per la seconda volta una brusca inversione di rotta.

Ma il testo continua ad evolversi in maniera inaspettata con la seconda metamorfosi. Da pianta che era, la parola prende la forma di un animale. Dopo aver messo le ali e aver spiccato il volo, la bestia inizia a generare dalla bocca una prole di nuove parole (ma Bertani scrive figli, dimenticando che parole è femminile), che a loro volta ne generano altre. Questo nugolo linguistico si abbatte sull’umanità, schiacciandola a terra. La terra sembra avere qui un significato antitetico rispetto alla prima occorrenza. Dove infatti si trattava di una aderenza di parola e natura, si insedia un immaginario vagamente neoplatonico, il cui fulcro è il binarismo unità/molteplicità, e i cui termini corrispondono, rispettivamente, alle coordinate cielo/terra sull’asse verticale, a quelle positività/negatività su quello assiologico. Questo comporta da una parte la collocazione della parola, a questo punto una specie di ibrido tra Logos e Uno plotiniano, dentro un orizzonte trascendente in cui funge da matrice inattingibile; dall’altra il riconoscimento della condizione di assoggettamento e prostrazione dell’umanità, incapace di far fronte all’esplosione terrena del linguaggio.

Fino a questo punto la pagina sviluppa il conflitto tra decostruzione e ricomposizione del rapporto lingua-mondo. Ma la chiusa del brano inaugura un contrasto diverso. Alcuni, continua Alfred, trovano riparo all’interno della tenda lasciata vuota e silenziosa dalla parola. Ma questo precario rifugio può offrire soltanto un sollievo incerto, «perché nasce sempre sotto la tenda della parola». Vale a dire, al netto delle tautologie care alla prosa di Bertani, che si tratta di un silenzio che inevitabilmente evoca la parola come suo polo dialettico.

Ora, questa coppia di relazioni, quella cioè di lingua piena e lingua vuota da una parte, e di lingua-tormento e silenzio-pace dall’altra, rappresenta le due direttrici principali del libro. Ed è solo dopo averle riconosciute che si fanno più accoglienti alcuni passi altrimenti impervi. Tra questi, il desolante incipit è un buon esempio della prima:

Quando esce Alfred entra Albert, ma non Manfred.
Quando esce Albert, entra Manfred, ma non Alfred.

completato a distanza di una pagina da una terza proposizione che chiude la triade di personaggi:

Quando esce Manfred, entra Alfred, ma non Albert.

e da una quarta, nella pagina ancora seguente, di carattere generale:

Alfred, Albert e Manfred non s’incontrano mai tutti insieme.

Ciò che si deduce da questi assiomi è una sequenza di coppie fisse che parte da Alfred-Albert (per decisione arbitraria dell’autore), continua con Albert-Manfred e termina con Manfred-Alfred, per poi ricominciare. Sembrerebbe dunque che questo sistema triadico di implicazioni debba governare il ritmo delle interazioni tra i personaggi. Senonché a pagina 11 «Esce Albert, entra Alfred»; a pagina 13 «Esce Manfred, entra Albert»; a pagina 19 «esce Manfred, esce Albert» ed «entra Alfred» e così via: la dura lex imposta all’inizio rivela subito la sua impotenza. Alla luce del racconto della parola, dunque, la strategia di Bertani si rivela sempre la stessa, quella di convocare un codice carismatico per smantellarne le pretese di verità.

La seconda direttrice è efficacemente esemplificata da wuammolWuammol è una parola pronunciata da una voce ignota che esce da un registratore, oggetto di misteriosa origine su cui si incardinano alcune delle pagine più ispirate degli ultimi capitoli. La voce lo presenta come «l’unica cosa che mi sento di dire» (58), sebbene per sua stessa ammissione non significhi niente, come non significano niente tutte le altre parole: «se non ci fosse la parola albero, pensi che non esisterebbero gli alberi?» (58). Wuammol è però l’unica parola disposta a sacrificare la propria referenzialità per mostrare in bella vista la piaga del non-senso. Ed è per questo che può cavalcare i venti, salire sulle montagne, fare il giro del mondo e avventurarsi nell’esplorazione intergalattica (59). È insomma nel momento in cui rinuncia alla pretesa di essere una parola e lambisce il confine del silenzio, quando diviene pura enunciazione, che la parola acquisisce una corporalità che le permette di esplorare il mondo. Perciò, Wuammol si colloca nella crepa tra lingua e silenzio, assumendo le caratteristiche di un’entità di confine che permette di evadere la gettatezza nel simbolico (Heidegger), riabbracciare il naturale e conquistare il piacere perduto. Ma coerentemente con l’allegoria della tenda, Wuammol si rivela un tentativo fallimentare, e la gioia promessa dal silenzio un obiettivo inarrivabile. Finito il nastro, Alfred fracassa il registratore nel tentativo di distruggere le parole, ma Albert gli si oppone, lo colpisce, lo lega e inaugura il delirante monologo finale, che lascio alla curiosità delle lettrici.

Questo è quanto ha da dire Nove: i problemi del senso del linguaggio e dell’angoscia di chi lo abita non ricevono risposta. E dopotutto noi lettrici e lettori smaliziate un po’ ce lo aspettavamo. Ma mi dispiace che Bertani si sia infilato in questo discorso novecentesco già stanco da morire, prevedibile e, almeno per me che ci ho dovuto scrivere sopra, pure un po’ noioso. Perché alla fine della lettura sono rimasto con l’impressione che Nove sarebbe potuto essere un libro molto diverso. Di tanto in tanto, infatti, fa capolino un’ispirazione lirica, completamente incoerente col resto, che apre dei veri spazi di autenticità. E manco a dirlo, quando capita c’è di mezzo l’amore (sempre in versione pessimismo cosmico eh, non sia mai che ci si conceda cinquanta centesimi di gioia):

[…] ci siamo conosciuti all’Osteria dell’Angolo, lei stava bevendo un bicchiere di vino rosso, mi sono seduto e le ho chiesto se voleva mangiare con me, lei mi ha detto, voglio fare l’amore, io sono stato zitto, il cuore mi batteva forte, mi sono alzato e sono uscito dall’osteria, ho cercato dentro di me una stanza da letto e non l’ho trovata, sono rientrato e seduto al tavolo di fronte a lei c’era un uomo altissimo, quando ho provato ad avvicinarmi, lui senza voltarsi ha allungato il braccio che sembrava infinito e con la mano mi ha fatto segno di fermarmi, io mi sono bloccato, e così si è fermato anche l’amore, io sono innamorato, ma l’amore non c’è, è volato via con le sue ali nere e nessuno può sapere dove sia finito. Alfred dice, nessuno lo sa.

Su “Atlante di chi non parla” di Maddalena Lotter

Nota di lettura a cura di Gianluca Furnari.

Ampliando gli intenti delle opere precedenti in una direzione più scopertamente metafisica, Atlante di chi non parla (Nino Aragno, 2022) di Maddalena Lotter dà ancora l’impressione di un libro che funziona perfettamente a dispetto – o in ragione – del suo «lirismo neoclassico» (Davide Castiglione), che si sostanzia di un dettato dimesso e di un’immaginazione spontanea.

Il libro si snoda lungo tre sezioni, dalle «Migrazioni» funebri della prima parte, incentrata sul tema della «bestia moribonda» (p. 15) (farfalle, cicale, uccelli, cani, etc.), alla «cosmogonia negativa» (p. 53) di «Il testimone», poemetto conclusivo in quattrodici movimenti su una caproniana «fuga di Dio», passando per le «Storie di animali grandi», ove l’ambientazione oscilla tra un museo di storia naturale e i fondali oceanici.

Fil rouge del libro, più che la natura, è una sua deformazione mitico-fiabesca: sprofondando nel mondo che descrive in una sorta di animismo infantile, l’io lirico coincide talora con l’animale (di qui il titolo), fino al paradosso dei cetacei che, durante una traversata, osservano gli uomini che li osservano stupiti («Ci guardano da una nave ferma come per capire», p. 38). Spesso anziano, come la megattera di p. 41, il cetaceo serba memoria delle proprie fasi evolutive («Ora come un’onda / scivolano le pinne antiche zampe», p. 36), e la sua identità, più collettiva che individuale, sembra scaturire da una preistorica sedimentazione.  

Il tema del soffio vitale che percorre le membra altrimenti inerti («viene tutto dal greco, è un vento», p. 19) può sfociare, come già in «Questioni naturali», in un tono «sentenzioso» (Marco Malvestio), eppure esso appare neutralizzato dal respiro fiabesco, dando vita, tutt’al più, a paralogismi affabulatori come quello di p. 50 («Un altro nome di ciò che muta è movimento, / solo ciò che si muove è vivo, / io sono vivo, ciò che vuole essere vivo / ama la distanza»), ove, se c’è una perentorietà, essa sembra quella del bambino che pensa fra sé e sé a voce alta (connotata in senso infantile, del resto, è la stessa locuzione «animali grandi»).

In alcune poesie de «Il testimone» parla il dio creatore, l’animale più grande di tutti: non però il dio biblico («io non sono un legislatore», p. 51), ma un dio ovidiano, che crea il mondo un po’ a caso, compiacendosi delle sue intuizioni, e il cui atto supremo è quello di negarsi e «mancare» (p. 55), in linea con una nozione di «distanza» quale presupposto di vitalità e comunicazione.

Il segreto di questa poesia, che si conferma tra le più vivaci della scena contemporanea, è forse nelle chiuse, spesso in metri dispari (con prevalenza di endecasillabi e novenari), ove il testo trova un’armonica composizione e squaderna scenari nascosti, lontani nel tempo e nello spazio: «si è aperta un’immagine nitida: / me stessa invecchiata. / Arrivavo sola sulla spiaggia, / ma non quella, un’altra assurda, sconfinata» (p. 20).


Da «Il testimone»:

VI

volavo da una parte all’altra
incastrando opali neri nella roccia
lo facevo un po’ per impegno
e un po’ per esuberanza
come quando, felice di aver pensato il sole,
mi gettai all’indietro in una tempesta di gemme
e minerali, pioggia d’ambra, ametista, quarzo
satelliti di madreperla e di topazi
dal mio corpo celeste
aprivo la bocca e ridevo e li mangiavo