© Les Créatives, Roxane Gray
Nel voler compiere un necessario passo avanti dal concetto di “femminile” a quello di “femminista” – sia in ambito letterario (quella “letteratura al femminile” che ancora infesta certi inserti del weekend) sia in quello critico (l’ormai superata ginocritica degli anni Ottanta) – ci troviamo di fronte a una distinzione sottile ma fondamentale. È proprio da qui che prende le mosse Scrivere femminista (Nero, 2024; traduzione di Laura Marzi) di Azélie Fayolle, un libro che ci invita a ragionare sulla letteratura femminista non in quanto espressione di autrici donne, ma in quanto spazio di elaborazione politica e critica, capace di sfuggire all’essenzialismo di genere e alla riduzione del corpo a unico luogo del politico.
Fayolle, accademica francese e divulgatrice, propone uno sguardo capace di tenere insieme la materialità dell’esperienza soggettiva e corporea con l’urgenza di superarla come destino. Lo chiama feminist gaze: uno strumento critico fluido, situato, non neutro e non riservato all’accademia, che legge i testi – letterari e non – interrogando forma, postura e potenziale, più che contenuti esplicitamente femministi. Un approccio che invita a praticare letture nuove, condivise, trasformative.
Nel libro, questa prospettiva si traduce in un coro di voci che inventa una lingua e uno stile capaci di far circolare lo sguardo femminista nella letteratura, ripensando anche i luoghi della produzione e della trasmissione del sapere: l’editoria, la scuola, gli spazi critici. Abbiamo avuto modo di discuterne direttamente con Fayolle in occasione della presentazione bolognese di Scrivere femminista, il 27 febbraio al Centro delle donne, in dialogo con Gloria Baldoni e Francesca Massarenti di Ghinea. L’intervista che segue ripercorre i nodi principali del suo lavoro: dallo sguardo alla materialità, dai luoghi della cultura alla tensione utopica verso ciò che ancora non esiste – ma che potremmo iniziare a immaginare.
Primo tema: IL “GAZE” DELLA CRITICA.
Ciao Azélie! Tu nel libro lavori molto con il concetto di una critica femminista, un “feminist gaze”, da indossare in moltissimi contesti diversi, per leggere libri e guardare film a prescindere dallo stile più o meno femminista dell’opera. Proprio per questo motivo, il “feminist gaze” può essere applicato a qualsiasi tipo di testo e di narrazione. Il concetto di gaze è stato anche molto discusso nella presentazione del libro e ci piacerebbe ora iniziare proprio da qui.
1) C’è una differenza tra il “feminist gaze” del critico (accademico o militante che sia) e del lettore più casuale? Tra la critica di professione e quella che, dici tu nel tuo saggio, si fa davanti a una birra conviviale dopo aver visto un film con le proprie amiche?
È una domanda davvero importante, che mi sono posta da quando ho pubblicato questo libro sul “feminist gaze”. Mi sono resa conto recentemente che, in effetti, il movimento che si trova sia nel pubblico che nell’accademia è lo stesso. Ho cercato di proporre una sovversione dello sguardo maschile e un’alternativa a uno sguardo femminile. Ora sto lavorando su una teorizzazione più scrupolosa dello “sguardo”. Non credo che ci sia una separazione netta tra il pubblico e l’accademia, né una diretta ascendenza di quest’ultima sull’altro, ma piuttosto una costruzione condivisa di conoscenze e concetti – con funzioni e status differenti, ovviamente. Alla fine, tutti possono prendersi una birra dopo il film…
2) Pur non volendoci addentrare nell’annosa questione della “morte dell’autore”, praticando il “feminist gaze” si può parlare di una specie di “inconscio femminista” à la Jameson? O sarebbe ciò che Sedgwick chiama paranoid reading?
Questa è un’altra domanda importante per cui non sono sicura che ci sia una risposta davvero chiara: il tutto si riduce alla convinzione che ci sia una sola verità in un testo, il che presuppone una lettura teologica della “scoperta”. Questo è ciò a cui Barthes mette fine con “la morte dell’autore” costringendoci ad accettare che non ci può essere certezza. Adotto una posizione formalista col fine di proporre uno strumento (“sguardo femminista”) e di cercare di migliorare questo strumento collettivo per interpretare i testi. Il formalismo è originariamente un movimento che rifiuta la dimensione politica dei testi. Per me, questa è una grave negligenza, se non un errore. Vedo questa scelta (includere la dimensione politica nella lettura dei testi, N.d.t) come una scommessa, che il pubblico in realtà sta chiedendo (vedo spesso richieste riguardo alla categorizzazione delle opere: le persone vogliono poterle interpretare senza fare riferimento solo alle analisi di ricezione). Questo è ciò che mi piacerebbe vedere: strumenti per aiutare le persone a interpretare e dibattere le opere!
Secondo tema: MATERIALITÀ – DELLA LETTERATURA, DEI CORPI E DELLE CONOSCENZE.
Al di là dell’approccio critico e teorico che guida il discorso che porti avanti nel libro, nel corso della lettura emerge con urgenza la necessità di fondare l’analisi su una solida base materiale, di stampo ontologico. Durante la presentazione ti sei anche definita “epistemocritica”, in movimento tra scienza e letteratura, dal momento che ti sei occupata, per esempio, del ruolo delle scienze naturali nell’opera di Ernest Renan.
3) Ti chiederei dunque, come entra il corpo nell’epistemologia? Cosa ne pensi dell’ontoepistemologia che sta entrando di recente negli studi femministi, sulla scorta di Karen Barad e molte altre, che parte anch’essa, come fai anche tu, dalla premessa dell’importanza dello sguardo che plasma ciò che è visto, in maniera simile alla tua idea di feminist gaze, che rifugge l’obiettività e cerca il pluriprospettivismo?
Devo confessare che non ho ancora esplorato le possibilità dell’onto-epistemologia – è ancora un lavoro in corso… Personalmente, sono piuttosto diffidente riguardo lo scrivere sul corpo, cosa che è molto creativa e importante, ma che corre il rischio di essenzializzare le identità sulla base dei corpi. Penso di condividere la reticenza di Beauvoir riguardo al corpo: è per questo che ho preso una direzione opposta, non partendo dal corpo (come potrebbe fare la fenomenologia), ma facendone un tema, una tappa, in un possibile percorso femminista (e includendo trasformazioni, felici o meno). In ogni caso, sono sempre più convinta, come dite voi, dell’importanza del pluralismo prospettico, che ci permette di muoverci verso una forte obiettività e forse, nella letteratura, anche verso una forte empatia. Ora sto facendo un passo ulteriore: non considero più (in francese) lo sguardo come incarnato, ma conservo la parola in inglese per disincarnarlo e aprire i limiti del concetto il più possibile.
4) Come possiamo incarnare questo feminist gaze non solo nella critica dei testi ma portandolo anche dalla parte della produzione e della messa in luce di voci marginalizzate? Come passare quindi dalla teoria alla prassi sia nel mondo dell’editoria che nella divulgazione (come fai tu con il tuo canale Youtube)? Come possono questi ruoli “satellitari” influenzare la produzione della letteratura?
Questa è una delle ragioni per cui ho scritto questo libro: nella speranza che possa contribuire a un rinnovamento generale della produzione. Certamente non voglio vincolare la creazione. Al contrario, penso che sia il momento di aprire nuove porte, di tracciare nuovi sentieri. Non credo che ci sia un metodo definito (come se la critica accademica fosse una serie di istruzioni!), ma piuttosto un grande ribollire, senza un luogo necessariamente definito. Non esistono la creazione da una parte e la critica dall’altra… questo è anche ciò che ora comprendo riguardo al concetto di “sguardo”: fin dall’inizio è stato un concetto ibrido e plasmato tanto dal pubblico quanto dall’accademia. Certo, è passato del tempo… ma meno di quanto si pensi, se si guarda a ciò che accade anche ai margini della produzione commerciale, nella fan fiction, nelle fanzine, nell’arte performativa… le possibilità sono numerose!
Terzo tema: IL CANONE, LA SCUOLA, L’ACCADEMIA.
A proposito di prassi, il canone, con il suo portato e il suo peso politico, ha un ruolo centrale all’interno di spazi, come la scuola o l’accademia, che dovrebbero invece lavorare sulla sua decostruzione. Ovviamente si tratta di realtà che hanno una storia fortemente compromessa con i sistemi di potere che hanno portato al consolidamento un canone maschile, e che quindi richiedono un lavoro enorme per arrivare a una decostruzione anche minima, sia a livello di programmi di insegnamento che di pratiche didattiche e di trasmissione della conoscenza.
5) Partendo anche dalla tua esperienza personale come ricercatrice, come pensi che si possa piegare il canone scolastico alla volontà del docente che adotta un gaze femminista? L’insegnante dovrebbe mediare in questo senso tra la decostruzione del pensiero ciseteropatriarcale e lo spazio, necessariamente complesso e talvolta distante da queste istanze, in cui avviene la decostruzione, ovvero la classe (universitaria o scolastica) e l’istituzione? E poi, come (se è legittimo) plasmare lo sguardo di chi apprende?
Sono molto preoccupata per la questione del canone e dei programmi, che in Francia sono fortemente centralizzati: i programmi per il baccalauréat una volta erano indicativi, ma ora prescrivono opere specifiche (come insegnante, puoi scegliere solo da un numero ristretto di opere, e gli studenti non scelgono nulla). I programmi universitari sono più decentralizzati, ma comunque validati dal Ministero. Gli esami di concorso per l’insegnamento si basano su programmi specifici, e le cose diventano sempre più ristrette con ogni riforma… Vorrei anche sottolineare che è difficile fare a meno di un canone letterario. E se non è stabilito dall’accademia, chi lo stabilirà? Il mercato? Il canone ci consente anche di condividere un patrimonio comune (questa una volta era la funzione delle epiche). Penso che dovremmo tenere a mente questa importanza memoriale collettiva quando riflettiamo sul canone e su cosa implicherebbe liberarsene.
Vuol dire che non possiamo fare nulla? La libertà pedagogica è attualmente sotto attacco in tutto il mondo (la Francia non fa eccezione), ma è ancora possibile analizzare (purché si rimanga nel quadro dei metodi della disciplina) e insegnare il pensiero critico. Come femminista (e semplicemente come critica letteraria), si può analizzare un testo che contiene uno sguardo maschile e violenza, sia che sia oscurato o estetizzato. Questo non significa necessariamente decostruire il canone: significa comprendere e combattere la dominazione.
6) La critica femminista è per forza situata, come dici anche tu nel primo capitolo del libro, dove affermi che hai costruito il tuo canone di letture femministe, includendo i nomi che abbelliscono la copertina dell’edizione italiana situandoti “sulle spalle delle giganti”. Ti sei fatta (e ti fai) influenzare da amiche, studenti o altro per costruirlo? La domanda si ricollega alla precedente perché si potrebbe riflettere anche su pratiche di costruzione del canone che rifuggano da un approccio più rigido e accademico, e di conseguenza su pratiche alternative di costruzione e consolidamento del sapere!
Sì! Ho trovato la maggior parte dei miei riferimenti femministi, sia letterari che critici o teorici, al di fuori degli ambienti accademici… da sola, esplorando blog e siti web, attraverso amici, ascoltando figure femministe, ma raramente a scuola o nelle aule universitarie… Adoro anche andare a caccia di libri nelle librerie. Certo, ora applico metodi accademici per trovare riferimenti in modo più sistematico, ma ci sono sempre cose che sfuggono (specialmente quando cerchi narrazioni invece di temi), e sono sempre molto felice di ricevere consigli di lettura da amici e familiari, o a volte da iscritti (ma rifiuto per lo più i press services, con cui non mi trovo molto a mio agio).
Quarto tema: PROSPETTIVE UTOPICHE E IMMAGINIFICHE.
Fondamentale all’interno del libro è l’idea del potenziale immaginifico della scrittura femminista e delle sue potenzialità creative. La tematica della fiction e della “letteratura di genere” è strettamente connessa all’idea che il fantastico possa diventare portatore di diversità e alterità.
7) Nel libro si parla di come la fiction, il fantastico, l’horror e il grottesco siano quindi strumenti capaci di dare alla scrittura femminile e femminista lo spazio in cui immaginare possibilità di senso inedite e al di là dei limiti epistemologici del ciseteropatriarcato. Questo tipo di scrittura, caratterizzato da una spinta utopica che può prendere forme diverse, è identificabile come una reazione al contesto più ampio in cui si muovono e scrivono le autrici prese in esame nel libro o ha invece una sua specificità, una sua creatività innata?
Non so se sia possibile distinguere un utopismo reazionario da un utopismo innato… in ogni caso, non è possibile pensare all’emancipazione al di fuori dell’oppressione quando siamo immersi in essa (perà l’antropologia e la storia ci permettono di conoscere altre società, non necessariamente senza oppressione, ma le cui combinazioni sono almeno diverse, o meno oppressive). Anche nell’utopismo, sono diffidente nei confronti di ciò che viene costituito come un’essenza… In questi giorni, comincio a interrogarmi sul modo in cui i pensieri teorici e di fantascienza si mescolano, a volte in modo molto sottile. La domanda, in definitiva, è come pensare e creare al di fuori degli schemi, come inventare. Forse la risposta è collettiva, e forse richiederà tempo: non possiamo pensare al mondo di domani per farlo esistere, ma possiamo facilitare il suo arrivo.
8) A proposito di questo tema, qual è invece il rapporto dei testi di non-fiction e della testimonianza con le prospettive utopiche di cui si parlava? Come si può arrivare a costruire un’utopia a partire dal potenziale trasformativo del personale, del privato e della testimonianza di oppressione e una violenza totalizzanti?
Nel libro, intendo il testimone femminista come una trasgressione della teoria delle sfere separate, che isola (artificialmente, ma fermamente) il pubblico dal privato. Testimoniando la loro sofferenza, e in particolare la violenza sessuale che subiscono, le donne commettono una trasgressione che viene percepita come indecente (e che spesso è commentata come tale, per lamentarsene, per difendersi: questi commenti mostrano che questa trasgressione non è data per scontata e costituiscono una messa in scena di questa trasgressione). In sé, si potrebbe pensare che in queste testimonianze non ci sia altro che realtà fattuale, il cui carattere autobiografico è spesso assunto come ovvio. Ora credo che l’utopia possa trovarsi ovunque, anche prima che le persone comincino a parlare: è stata l’utopia a guidare la fede delle prime femministe francesi, le sansimoniane, quando hanno cominciato a parlare del loro dolore; lo hanno fatto perché pensavano che sarebbero state ascoltate e che avrebbero potuto correggere il mondo. Questo non porta necessariamente a una vita migliore, o a un mondo senza violenza, ma a un movimento verso quel mondo.
Domandina finale: Per concludere, su cosa stai lavorando al momento? Hai altri libri in cantiere o dei progetti legati al tuo canale youtube (https://www.youtube.com/@ungraindelettres)?
Per il momento, continuo con il canale, con un video a settimana e interviste di tanto in tanto: è un bel po’ di fatica, ma serve come supporto, come bozza per il resto del mio lavoro. Sto finendo di scrivere un seguito a questo primo libro. Voglio riprendere il concetto di sguardo in generale e proporre, più che una tipologia chiusa, dei criteri per identificare le oppressioni (con lo sguardo maschile) e le emancipazioni nelle opere. Ho appena saputo che sono stata ammessa al CNRS in Francia: quindi, la mia ricerca proseguirà nelle migliori condizioni possibili! Spero di riuscire ad ampliare la mia comprensione delle pensatrici femministe, in particolare dell’Ottocento, e di continuare a esplorare come possiamo scrivere e pensare ad altri mondi…