Pochi giorni fa è stata pubblicata in Italia Morfologia del romanzo, la tesi di dottorato di un giovane studioso statunitense che si chiama Holst Katsma. Il libro si inserisce nella meritoria opera di divulgazione che la casa editrice nottetempo svolge attraverso la collana extrema ratio; opera il cui scopo mi pare quello di avvicinare il grande pubblico ai temi più recenti della ricerca accademica di ambito letterario. Come gli altri titoli della collana, il libro di Katsma è caratterizzato dalla chiarezza che è propria degli studi che ruotano attorno a domande semplici, ma le cui risposte sono spesso sorprendenti. Cosa accadrebbe – si chiede Katsma – se si sostituisse al classico oggetto d’indagine della teoria della letteratura (ovvero la parola, la frase, il concetto) l’intero ambito della spazializzazione del pensiero romanzesco? Quale sarebbe l’esito di uno studio che partisse non dal microscopico nascosto tra le righe, ma dal macroscopico costituito dall’intero spazio della pagina?
Nel corso del XVIII secolo, infatti, il romanzo ha cambiato più volte aspetto. Nuove tecniche di raggruppamento del discorso, come ad esempio il paragrafo, la divisione in capitoli o l’uso delle virgolette per il discorso diretto, sono elementi che risultavano estremamente innovativi per il lettore dell’epoca e che oggi vengono spesso relegati all’ambito ornamentale a causa dell’abitudine. Ma proprio la cristallizzazione e la persistenza di queste forme ormai intuitive sono indizi che chiariscono molto della trasformazione repentina che deve essere avvenuta tra la metà del 1700 e l’inizio del 1800. L’oggetto di indagine del libro è quindi una morfologia in senso letterale delle forme esteriori e più visibili del romanzo.
Non bisogna inoltre dimenticare che la relativa giovinezza del romanzo tra i vari generi del campo letterario lo rendono un ottimo mezzo per comprendere alcune trasformazioni ancora in atto che rientrano nel più grande tentativo di espandere l’immaginazione verbale attraverso la scrittura. Se si prendono in esame due romanzi di tema similare, scritti a distanza di cento anni in una forbice di tempo che potrebbe essere 1750/1850, si può notare come le differenze esteriori e immediatamente riscontrabili sono anche quelle che determinano le altre strutture, cioè quelle interne al testo. All’andamento monologico del primo, si contrapporrebbe quello dialogico del secondo; al wall of text del primo, l’ordinata scansione in paragrafi del secondo.
Katsma utilizza come esempio alcune pagine tratte da David Copperfield (1850) di Charles Dickens, confrontandole con alcuni passi del Joe Thompson (1750) di Edward Kimber (uno scrittore oggi per lo più dimenticato, ma all’epoca di grande fama). Nel secolo che separa Dickens da Kimber sono stati elaborati modelli di pensiero che si basano su una concezione della spazialità e una psicologia della durata totalmente diverse. Il tempo del paragrafo è fondamentalmente il tempo dell’orologio da taschino e le possibilità che il paragrafo apre in termini di unità del pensiero sono quelle tipiche del borghese vittoriano.
Ma noi esseri umani del XXI secolo, a differenza di Dickens, sappiamo bene che il tempo e lo spazio sono sempre in relazione. Volendo, si potrebbe espandere il modello morfologico oltre il romanzo, incorporando anche altre forme. È possibile, ad esempio, che – come suggerisce Katsma – la nascita e lo sviluppo della poesia in prosa dipenda da una gelosa soggezione di fondo nei confronti del paragrafo nel romanzo? Basta ricordare che quello che viene riconosciuto come l’iniziatore della poesia in prosa, il francese Aloysius Bertrand, pubblica proprio negli anni ’40 del 1800 il Gaspard de la Nuit, un libro di poesie che si presentano graficamente come la somma di brevi paragrafi in prosa. Certo, questo articolo non è il luogo adatto per ampliare ulteriormente il discorso, ma c’è da dire che il sasso lanciato da Katsma smuove più acqua nello stagno di molti contributi sul fenomeno della poesia in prosa pubblicati negli ultimi anni; contributi che spesso si limitano a catalogare vari esempi di prosa poetica senza rispondere alla domanda esiziale del perché questa forma abbia avuto un revival proprio negli ultimi venti anni, e in che modalità il contenuto agisca sulla forma.
Questo punto è essenziale perché un’obiezione abbastanza ovvia al metodo di Katsma è quella secondo cui sarebbe proprio il contenuto a modellare lo spazio sulla pagina e non viceversa. Si tratta di una obiezione problematica e complessa che l’autore tratta solo superficialmente nel libro e che forse meriterebbe più attenzione (l’autore non liquida l’argomento con un atteggiamento dogmatico, ma si dice aperto alla discussione). Insomma, sarebbe utile intavolare un discorso sull’influenza che le forme che occupano il centro del campo letterario (come il romanzo) hanno sulle forme più periferiche (come la poesia di oggi); allo stesso modo sarebbe straordinario un contributo sull’evoluzione della pagina poetica dai manoscritti medievali, in cui i sonetti apparivano per lo più su due colonne da sette versi ciascuna, passando per il tempo ciclico della strofa in ottava rima, fino al tempo della prosa poetica (non sono a conoscenza di libri di questo tipo sulla poesia italiana).
Concludendo, il libro di Holst Katsma fornisce un punto di vista fresco su problemi linguistici tutt’altro che scontati, ricordandoci che siamo ancora lontani dal comprendere veramente quanto la spazialità riesca a modellare il nostro pensiero, anche all’interno di strutture letterarie complesse come il romanzo.