1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera.
Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?
Tu devi prendere il potere è un esordio, dunque sono obbligato a rispondere a questa domanda a partire da un’unica esperienza di scrittura di un’opera compiuta. Oltre ad essere un esordio, è anche un libro la cui gestazione è stata molto lunga, sia a livello di scrittura, sia di vicenda editoriale. I testi che lo compongono, infatti, sono stati scritti fra il 2013 e il 2022, e la pubblicazione del libro, per ragioni di mero contesto, ha subito un ritardo di quasi due anni rispetto alla prima uscita ipotizzata: dalla primavera 2021 alla primavera 2023. Tutti fattori, questi, che hanno accentuato gli elementi dinamici (di costruzione e movimento) di un lavoro che si voleva il più possibile chiuso e compiuto.
Per quanto mi riguarda, tale bisogno di compiutezza – valido in ogni fase di costruzione dell’opera e di sua organizzazione (sia a livello sincronico, di macro-struttura, sia diacronico, di organizzazione del materiale nel tempo) – non rispondeva a un semplice bisogno organizzativo, di superficie, e non era neppure un elemento irrelato fra i tanti che vanno a comporre la totalità-libro: era l’immagine di una stessa necessità attiva su tutti i piani del discorso e della lingua: di singolo testo, di sezione, di macro-struttura, ma anche: di stile, di postura, di strutturazione del centro enunciativo etc.
Un libro compiuto per un soggetto (e una voce) che – preda della propria nevrosi di (auto-)controllo e vittima di un senso di impotenza estremo e continuamente alimentato – vuole farsi soggetto, voce (e mondo) compiuto. Un obiettivo come una risposta: “compiutezza” significa anche comprensione, stabilità, prova del nove.
Ma “compiutezza”, per questo soggetto, era anche un modo per fermare il (e dunque uscire dal) tempo: acquisire una visione d’insieme, una lettura unificante, un punto “di approdo e di partenza insieme”. La sospensione di chronos rendeva allora possibile l’invenzione del nuovo: per la voce che parla, per il soggetto che la enuncia, per il mondo in cui essa vive.
In questo libro, dunque, il tentativo è sempre stato quello di tenere assieme tutto, dal singolo verso alla macro-struttura del libro fino al processo editoriale che lo ha riguardato. Tutto doveva tenersi come forma di auto-responsabilizzazione massima e ipotesi di una comprensione definitiva: un soggetto che costruisce un mondo perché vuole affermare un valore di verità («assoluta nella sua relatività», si diceva un tempo).
Tale postura, ovviamente, portava con sé tutto un carico di rischi a volte schivati, a volte elusi, a volte no. La crisi di questa postura, la sua messa in dubbio, è ciò che, ad un certo punto, mi ha spinto a riconoscere la fine di questo lavoro (e dunque mettere un punto al libro) e l’inizio di un periodo nuovo. Senza crescita, dentro e fuori dal testo, dentro e fuori dall’io, non può esserci nuova opera, nuovo senso.
2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?
Ho sempre pensato che, anche quando si parla di lingua, di poesia e di letteratura, non si possa prescindere dalle condizioni materiali, storico-economiche, che ci e la determinano. Farlo significa sprofondare nel soggettivismo, fino a perdere di vista sia il ruolo del poeta nella società di oggi (meno importante), sia il condizionamento di quest’ultima sulla sua voce (più importante).
È proprio da questa consapevolezza, inoltre, che credo possa essere costruito un io forte; ossia una poesia che sappia mettere in campo il proprio io in tutta la sua parzialità e che di questa parzialità faccia uso per spiccare il volo verso una voce oggettivata, non tanto impersonale quanto condivisa. Anche qui torna il tema di un’assunzione di responsabilità: riconoscere, nello stesso momento, la parzialità e l’insostituibilità del proprio filtro percettivo, nella scrittura e in tutto il resto.
Un tale tentativo necessita però di tutta una serie di contrappesi e di appigli per poter essere credibili, contrappesi e appigli che sono in primo luogo elementi di stile, l’unica via che abbiamo per mettere un freno credibile all’io e alla sua boria. È qui che ci giunge in soccorso la lingua, la Tradizione, dunque la poesia. Ciò che è sufficiente, per ora, è avere bene in mente l’obiettivo: partire dall’io per superarlo.
Per quanto mi riguarda, mi piace pensare all’io (qui come realtà biografica) come mero fornitore di materiale. Tutto quello che si fa con questo materiale è finzione poetica, quale che sia l’apparente aderenza dello scritto con il materiale iniziale prelevato. Il problema, poi, è come l’io (io-volontà, io-destino) riemerge da e in questa finzione: cosa resta – e quanto di impersonale, oggettivo e potenzialmente condiviso resta – dalla dialettica fra i momenti di posizione e quelli di sottrazione dell’io. Una risposta che può dare solo il lettore (inteso come soggetto collettivo) nel tempo.
3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?
La mia formazione poetica è iniziata da bambino, prima delle elementari. Mia nonna, insegnante, oltre a leggermi e farmi leggere molta poesia, mi ha insegnato a scrivere (sembra assurdo ma è effettivamente così) attraverso piccoli esercizi di riscrittura di testi poetici più o meno conosciuti. Tale immersione forzata nella poesia, dopo un periodo di rigetto durato un bel po’ di anni, è riemersa attorno alla fine delle Scuole Superiori, quando ho ripreso in mano, con foga nuova, i poeti che avevo amato da bambino: i francesi (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud), gli spagnoli (Garcia Lorca, Machado, Jimenez, Alberti) e quello che – a quel tempo – era il mio trittico preferito della poesia italiana: Petrarca, Foscolo, Leopardi.
Successivamente ciò cha ha influenzato di più la mia scrittura è stato il trasferimento a Siena, dove ho avuto la fortuna di intercettare un ambiente culturale vivissimo, sia dentro sia fuori l’Università. È qui, per esempio, che ho incontrato alcune persone che hanno influenzato direttamente la mia crescita e la mia scrittura, consigliandomi libri da leggere, saggi da studiare, riviste da seguire, o più semplicemente coinvolgendomi in un percorso di elaborazione umana e intellettuale, di visione del mondo e del linguaggio, condivisa e collettiva. Penso subito, in questo senso, a Stefano Dal Bianco e a Guido Mazzoni, e con loro a Marco Villa, Simone Burratti, Alessandro Perrone e Andrea Lombardi, i redattori dell’allora “formavera”. È qui che ho iniziato a leggere cose nuove, italiane e straniere, e a modificare il mio modo di scrivere alla ricerca di una voce il più possibile autentica e il più possibile mia.
In questo senso sì, il rapporto con l’esterno – se così vogliamo chiamarlo – ha influenzato e continua ad influenzare moltissimo la mia scrittura, e per “esterno” potremmo intendere tutto quello che leggo (ovviamente con differenti intensità di condizionamento), ma anche tutto quello che vivo (e non solo strettamente legato alla poesia). Non credo, invece, che l’effetto sul pubblico influenzi il mio processo creativo, a meno che – per pubblico – non si intenda una cerchia ristretta di persone con cui ho sempre avuto la necessità di un reciproco confronto a partire dai propri testi. Infine sì, considero Tu devi prendere il potere la mia prima presa di parola come autore. Non darei, invece, lo stesso valore alle pubblicazioni sparse e spurie precedenti.
4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?
Sinceramente non credo che ci sia qualcosa da cambiare nelle “modalità” con cui si presenta un libro di poesia o si organizza una serata di letture. Credo che la differenza – e dunque la riuscita di un evento – risieda sempre in chi organizza quell’evento. Se a farlo è un soggetto serio (come collettività, nei suoi gradi di serietà, passione, capacità, impegno, credibilità), raramente si assiste ad eventi non necessari.