Introduzione e traduzione dal giapponese a cura di Edoardo Occhionero
Sintetizzare in poche righe l’operato poetico di Yoshihara Sachiko 𠮷原幸子 (1932-2002) sembra impresa ardua. In compagnia di poetesse del calibro di Ibaragi Noriko e Shiraishi Kazuko, è stata protagonista attiva nell’affermazione del joseishi (poesia femminile) all’interno del panorama poetico del Giappone del dopoguerra. Il suo debutto è coinciso con la pubblicazione di Yōnen rentō (“Litanie d’infanzia”, 1964), raccolta in cui è percepibile – come suggerisce il titolo – l’amarezza di una gioventù assoggettata dai bombardamenti aerei, e dalle fiamme del primo amore. È ricordata, insieme a Shinkawa Kazue, per aver dato vita alla rivista di poesia femminile Gendaishi La mer (Poesia contemporanea – La mer, 1983-1993).
Tramite l’utilizzo di «bilingual frames»[1] che trasmettono un tono giocoso e informale, i momenti di ironia si alternano a una postura piuttosto esistenzialistica. Yoshihara spesso si rivolge a un anata (tu), che non di rado può essere avvertito come sdoppiamento intimistico del soggetto, cosicché l’avvio del dialogo si riduce a hitorigoto (soliloquio) con la parte più profonda di sé.
Ma un’altra delle marche yoshihariane si realizza a livello grafico, nell’intenzione deliberata di servirsidel kyū-kana zukai (norma ortografica precedente il nuovo sistema di scrittura giapponese): se non sono presenti variazioni sul versante della pronuncia e del significato, il principale effetto si realizza sul piano visivo.[2] Inoltre, con lo scopo di implementare la portata semantica di un termine, un altro divertissement si compie nell’inserimento intenzionale di furigana (guida fonetica degli ideogrammi) – esempio fra tutti la celebre poesia «Mudai» 無題 (“Senza titolo/Nonsense”).
Dal punto di vista tematico, ricorrono inevitabilmente i riferimenti alla solitudine, alla separazione tra mondo esterno e interiorità, alla tensione vita-morte, amore-peccato – come cercano di esporre sommariamente le poesie qui presentate. La vita duole, e l’amore non sopravvive, cadaverico, è «l’ellisse di uno zero splendente», misura costante di un’assenza. In sintesi, per concludere con le parole del poeta e criticoŌoka Makoto, Yoshihara «canta sinceramente l’amore triste e insoddisfatto. E poiché rifiuta volontariamente il perseguimento di tale soddisfazione, essendo costantemente infelice, è in grande misura legata al dramma del mondo delle idee».[3]
[1] Leith Morton, “Translating Japanese Poetry: Reading as Practice”, The Journal of the Association of Teachers of Japanese, vol. 26, 2, American Association of Teachers of Japanese, Pittsburgh, 1992, pp.159-160.
[2] Carol Hayes; Kikuchi Rina, “Untitled Nonsense, She, and Contradictions by Yoshihara Sachiko” Transference, vol. 5, 1, Western Michigan University, 2017, p.59.
[3] Ōoka Makoto, “Yoshihara Sachiko no shi”, in Yoshihara Sachiko, Zoku yoshihara sachiko shishū.In Gendaishi bunko, 169.Tōkyō: Shichōsha, 2021, p.143.
Non c’è fontana che scintilli al sole nell’interstizio tra tetto grigio e tetto grigio è caduto un palloncino di gomma rossa o sono io a essere precipitata? Non c’è via di recuperarlo
Attraverso in sogno segrete strade sotterranee ed esco ripetendo allo sfinimento il nome della medicina per la persona che, smagrita, sta morendo
La medicina non arriva mai in tempo e anche se lo fosse servirebbe a poco la persona morirebbe, malconcia non c’è nessuna tomba per noi…
Per uscire sistemiamo il cappello ASSOCIAZIONE CAPPELLI TŌKYŌ per l’amore, un giuramento per la morte un mazzo di fiori
Quando si sente dire «si sbrighi, per favore» la brava gente inizia a correre e non appena si siede chiude gli occhi questo piccolo sonno stanco è tutto quello che possiamo avere forse
Ah, pure nei giorni di sole predisponiamo l’ombrello per uscire per l’amore, un’amara delusione per la morte, un margine bianco
Eppure nel kotatsu vuoto mi capita certo di toccare i piedi di qualcuno scavalco senza pensarci un fascio di luce sul pavimento
Uccidere l’amore per non morire è legittima difesa la pistola rivolta a te punta sul mio cuore per il calore del peccato e il freddo della punizione mi guasto, da lì farei meglio a rompermi il suono gocciolante del mondo si allontana e poi alla finestra di una lunga, lunghissima cella, forse una morte inquieta, una morte che brucia, vita che brucia sotto la pioggia, bagnati del proprio sudore, s’annidano i ragni oscurano, restringono l’ellisse di uno zero splendente
Introduzione e traduzione dall’arabo a cura di Enrica Fei
Si muove veloce il dolore (titolo originale: Sariʿan iataharrak al-ʿalam) è un poemetto di Ahmed Al ʿAjmii (1958, al Diraz, Bahrein), pubblicato nel 2016 dalla casa editrice omanita al-Ghasham. È un poemetto di 556 versi divisi in 146 brevi strofe di tre, quattro e cinque versi di cui proponiamo in questa traduzione alcuni estratti, corrispondenti ai primi 40 versi, una parte centrale e le ultime strofe. È un componimento dai toni cupi che racconta il dramma esistenziale di un uomo musulmano dinanzi alla guerra dello Stato Islamico dell’Iraq e Siria (ISIS), delle lotte intestine tra Sunniti e Sciiti, dell’autoritarismo dei paesi del Medio Oriente e del Golfo Persico.
L’opera si inserisce nella poetica araba contemporanea per l’irruzione dell’io, il prevalere dell’immagine – che in questo caso sono rappresentazioni del dolore vivide, fisiche, intrise di sangue ed elementi horror –, e il discostarsi dalla tradizione di impegno sociale per dare spazio all’impatto che la realtà ha sull’individuo, più che il ruolo che quest’ultimo può giocare nella società.
Al ʿAjmii, come uomo musulmano, esplora l’impatto doloroso che il tempo in cui si trova a vivere ha su di lui, un impatto che viene descritto come fisico, violento e, soprattutto, trasformante. Il nucleo tematico del poemetto – il tema della metamorfosi, del perturbante, del mostruoso che è dentro di noi e che viene risvegliato dall’inferno del reale – rende possibile definire Si muove veloce il dolore come la storia di un viaggio di (tras)formazione.
Per raccontare la fragilità del suo secolo, infatti, il poeta si fa amico degli esseri del fango e della notte e attraversa le valli del terrore, dentro e fuori di sé. Il cammino da lui intrapreso si traduce in una disintegrazione fisica durante la quale incontra fantasmi che lo scherniscono, entità malvagie e superiori che lo perseguitano, compagni che sembrano aiutarlo ma che si rivelano, anch’essi, corrotti. Per tutto il viaggio, il poeta si interroga sul libro sacro, il Corano, cercandoinvano una risposta al perché delle lotte fratricide. Nel finale, si rivolge direttamente al Cielo, chiedendogli se esiste e rimproverandogli di non aver agito in nessun modo per fermare il male.
Ahmed Al Ajmii
Ahmed Al ʿAjmii ha iniziato i suoi studi in Letteratura Araba nel 1976 presso la Kuwait University. Come segretario della National Union of Bahrain Students, ha scritto poesie di resistenza e lotta studentesca ma, a causa della sua attività politica, è stato espulso dall’università e dal Kuwait. Ha ripreso gli studi presso la Beirut University dove si è laureato in Lingua e Letteratura Araba. Dal 1987 ad oggi ha pubblicato 18 raccolte di poesie, due saggi – uno sulla cultura democratica, e uno sulla poetica araba contemporanea – e un romanzo sulla vita di un detenuto politico (tratto da una storia vera ma in forma di fiction letteraria). Dal 1980 al 2011 è stato membro della “Famiglia di Letterati e Scrittori”, una delle principali istituzioni letterarie e culturali del paese dal 1969, anno della sua fondazione. A seguito della posizione politica assunta dalla Famiglia in occasione delle proteste del 2011 (nel quadro della cosiddetta Primavera Araba che ha riguardato anche il Bahrein), ha dato però le sue dimissioni.
Al ʿAjmii ha infatti preso parte attivamente alle proteste scendendo in piazza contro la famiglia sunnita regnante, gli Al Khalifa, e la loro feroce repressione della comunità sciita, di cui Al Ajmii fa parte, che in Bahrein costituisce, in realtà, la maggioranza della popolazione. Vive a Manama, la capitale, dove continua la sua attività poetica e organizza eventi culturali.
Il Bahrein: tensioni solo apparentemente religiose
Nelle interviste rilasciate in patria, il poeta Ahmed Al ʿAjmii ha indicato nell’ecatombe causata dall’ISIS le ragioni profonde dello smarrimento di cui narra il poema Si muove veloce il dolore il dolore, per un uomo musulmano, di assistere impotente alle stragi causate in nome della sua religione. La sua solitudine, inoltre, indica il non riuscire ad identificarsi con alcun gruppo musulmano attualmente attivo in Medio Oriente. Sono chiari, anche, i riferimenti all’autoritarismo mediorientale, seppur non citati esplicitamente. Considerando la feroce repressione in Bahrein della comunità sciita di cui il poeta fa parte, nominare gli Al Khalifa, la famiglia regnante al momento in carica nel paese, avrebbe sicuramente portato alla censura.
La realtà socio-politica del Bahrein, però, è senza dubbio peculiare e, essendo sconosciuta ai più, merita una breve digressione. Il Bahrein è una piccola isola del Golfo Persico di poco più di 500 kilometri quadrati. Per quanto l’industria petrolifera sia dominante, è più povero e, a livello geopolitico, meno potente delle altre monarchie arabe del Golfo Persico (come gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita o il Kuwait). Inoltre, a differenze di questi altri stati, ha una popolazione indigena che non si può definire tribale.
Fino alla fine del diciottesimo secolo, la piccola isola e i suoi abitanti erano sotto il dominio dell’Impero Persiano (l’odierno Iran). A differenza delle bellicose tribù dell’Arabia centrale (l’odierna Arabia Saudita), la sua popolazione era pacifica, sedentaria, e dedita alla pastorizia e all’agricoltura. Erano i “Baharna”, come si fanno chiamare ancora oggi. Le tribù del Najd, invece, (Arabia centrale), erano nomadi. L’ostilità climatica delle loro terre li portava spesso a spostarsi e, a seguito di invasioni e guerre, a conquistare territori più miti. Nel 1783, secondo la tradizione, la famiglia tribale degli al-Khalifa migrò dall’Arabia centrale e conquistò l’isola. Poco dopo l’insediamento, fu imposto un sistema feudale, che discriminava i Baharna e favoriva le famiglie tribali. Con l’avvento degli al-Khalifa, infatti, molte tribù si erano mosse dal Najd al Bahrein: essendo un’isola, il clima era più mite, le terre più redditizie e la pastorizia possibile. La famiglia degli al-Khalifa è ancora la famiglia regnante. Sarebbero diventati monarchi nel 1820, quando i Britannici (sotto la cui sfera di influenza rientrava il Bahrein), al fine di sigillare un’alleanza che controbilanciasse l’Impero Persiano nella regione, li dichiarò tali.
Molti dei Baharna, già dai tempi della conquista, erano fuggiti in Iran (allora, Impero Persiano). Soggetti a discriminazione, costretti a lavorare la terra e a cederne i frutti alle famiglie tribali alleate degli al-Khalifa, il risentimento nei confronti dei regnanti, percepiti come illegittimi invasori, si sarebbe formato già nel diciannovesimo secolo, per poi incancrenirsi nel corso del secolo successivo. I monarchi e le famiglie alleate, non solo non erano indigene; non solo, a differenza dei Baharna, gli autoctoni, che erano sempre stati sedentari, erano di tradizione tribale e beduina (vale a dire, prima di insediarsi nell’isola, erano nomadi); professavano anche una corrente dell’Islam che non era la loro. Erano, infatti, sunniti; mentre i Baharna, da sempre, sciiti.
Fin dai tempi della scissione tra sunniti e sciiti, la popolazione del Bahrain aveva sposato la causa di ʿAli bin Abi Talib, cugino e genero di Maometto, ed era quindi sciita. Ad oggi, gli sciiti rappresentano la netta minoranza del mondo musulmano (non costituiscono più del 15%). Sono, però, la maggioranza in Iran, Iraq e, appunto, in Bahrein. In quest’ultimo stato, in realtà, ormai non più (si stima un approssimativo 50%). La popolazione dell’isola, infatti, ha subìto varie ondate di “social engineering”: attraverso l’espulsione e la rimozione della cittadinanza di varie figure sciite di spicco, o l’elargizione della doppia cittadinanza a sauditi, pakistani, giordani (presumibilmente sunniti), il regime degli al-Khalifa è riuscito, nel tempo, a cambiare la demografia del Paese. Molti giovani sciiti, inoltre, subendo forti discriminazioni, sono stati costretti all’esilio. Moltissimi lasciano il paese non riuscendo a trovare lavoro a causa, evidentemente, della loro confessione religiosa.
È difficile riuscire a comprendere la natura del conflitto tra sunniti e sciiti, non solo in Bahrein, ma in numerose realtà del Medio Oriente. È facile indulgere nell’assunto orientalista secondo il quale, trattandosi di musulmani, la religione ha un ruolo centrale e, nonostante le differenze tra sciiti e sunniti non siano poi così cruciali, scoppino addirittura guerre guidate da uomini fanatici e barbuti. La realtà è più complessa e non prende le forme di una discriminazione religiosa: in Bahrein ciascuna festività propriamente sciita è consentita e rispettata; il Re, anzi, manderà perfino i suoi migliori auguri. È, semmai, di natura politica: la denominazione “sunniti” o “sciiti” dovrebbe essere intesa come una fra tante altre di natura politica che, in un determinato contesto, si sviluppa attraverso i decenni in un binomio di competizione (“repubblicani” e “democratici” nel contesto americano, ad esempio). Gli sciiti del Bahrein sono politicamente discriminati: il principale partito d’opposizione sciita in Bahrain, al-Wefaq, è stato sciolto nel 2016 e, tramite un decreto che impedisce a membri di ex congregazioni politiche di ricandidarsi alle elezioni, i suoi membri sono stati banditi dall’arena politica. Sarebbe un errore, però, leggere questa discriminazione in termini “identitari”: le ragioni di questa discriminazione sono da individuarsi nel timore che l’Iran – temuto come super potenza rivale dell’Arabia Saudita, potente alleato degli Al-Khalifa – possa foraggiare al-Wefaq al fine di esercitare la sua influenza nel piccolo paese del Bahrein. L’Iran è, sì, una Repubblica Islamica Sciita, ma sarebbe di nuovo un errore vedere in questo possibile supporto militare iraniano (per il quale non ci sono prove) una ragione ultima di natura religiosa (Hamas, partito politico e milizia attiva nella Striscia di Gaza foraggiato dall’Iran, è di stampo sunnita, ad esempio). Si tratta, ancora, di ragioni politiche: gli al-Khalifa, come detto, sono storicamente un forte alleato dell’Arabia Saudita e quest’ultima, possedendo similare peso geopolitico nell’area alla potenza iraniana e avendo simili aspirazioni di influenza regionale, è una forte rivale dell’Iran.
سريعاً يتحرّكُ الألم
ليس هذا هو العالمُ الذي ولدتُ لأجله.
vv. 1-38 / 49-51/ 70-72 / 77-88 / 518-526
زمنٌ آخرُ، غيرُ الذي حلمتُ به، ولم يكنْ جديراً بمهامِه في تحويلي إلى إنسانٍ جديد.
زمنٌ قطعَ لساني بسرعة وأبقى كلماتي محتجزةً، في قاعِه، ككوماتِ خزف.
مازلتُ أصغي إلى بذاءاتِه المكتوبةِ باليقين، وأستمدُّ أفكاري من عظامِه المرقّقة.
فيه انجرفتُ إلى سَفحِ الدّمِ، وصادقتُ يرقاتِ الظلمةِ المحشورةَ وسطَ أكبر كذبة، تُسمّى الطُمأنينةُ والسلام.
هرباً من مراعي الخوف، صنعتُ لنفسي ربّاً متوحّشاً، وصرتُ أخشاه، أرتعبُ من عقلِه، وساديّتِه.
حتى اللحظةِ، لم أرَ أفكاراً للنجوم، في هذا الكتابِ القديمِ، المنسوبِ إلى عصافيرَ طينية.
أصرخُ في ذاتي، فيرجعُ صداي كصوتِ مزمارٍ مُنهك، مُغطى بما يتناثرُ من أحزان، بما يسيلُ من بلعومِ الشمس.
عشتُ دهوراً في حمّى الكآبة، إلى ظهرِ الخواءِ أُسندُ نظراتي دونَ رؤيةِ أثرٍ لابتسامةِ الفجر.
[…] بمصباحٍ أعمى، في غاباتِ البكاءِ، استمرت هرولتي دونَ الابتعادِ عن فوّهةِ العذاب. […] السحرُ سريري، والدجلُ وسادتي، وأرغبُ، كثيراً، في مواصلةِ النوم ورؤيةِ سحابةٍ تُمطرُ التخلّفَ. […] صارَ رأسي بالونةً يملؤها بخارٌ مهزومٌ، وتطفو في فضاءٍ شاحبٍ نسجته يدٌ عطشانةٌ، مقطوعةٌ من الجسد.
في كبسولةٍ خانقةٍ، بحثاً عن الخرس، يتواصلُ دوراني حولَ صخرةِ الغثيان، الشبيهةِ بثدي القداسة.
ما أراه، ليس سوى اشتعالٍ للدموع، وما أسمعُه، ليس أكثرَ من دقةِ ناقوسٍ تدعو إلى إشاعةِ التمزّق، وإهدارِ دمِ النهار. […] جوهري يدورُ في طلاسمِه البعيدة، العدمُ طائرٌ جارحٌ محبوسٌ في قفصِ الصدر.
أين كينونتي، أريدُها في الرمادِ المطلق، لأسمعَ صوتي بلسانِها؟
Si muove veloce il dolore
Questo non è il mondo per cui sono nato
vv. 1-38 / 49-51/ 70-72 / 77-88 / 518-526
Un altro tempo, non è quello che sognai, non era all’altezza, il tempo, del suo compito nel trasformarmi in un uomo nuovo.
Un tempo che, veloce, ha tagliato la mia lingua, sono rimaste in ostaggio, le mie parole come seppellite, nel profondo, sotto a un cumulo di ceramiche intagliate.
Con attenzione ascolto ancora l’oscenità di questo tempo, le sue parole certe, e i miei pensieri nascono dalle sue ossa fini e fragili.
Mi porta via il tempo, fino al limite del sangue. Divento amico delle larve della notte che affollano il cuore della più grande menzogna, chiamata salvezza, pace.
Fuggendo dalle valli del terrore, un Dio mostruoso ho costruito per me. Ho paura, mi spaventa il suo intelletto, il suo piacere per il mio dolore.
Ancora non trovo il pensiero delle stelle in questo libro antico, consegnato al fango, ai suoi uccelli.
Nella tristezza, la mia mente è trafitta dal corno del divino. Con parole sporche, ho lasciato che la mia immaginazione si imbevesse di fragilità.
Della verità il più grande dei fantasmi, dentro di lui la mia anima ho seppellito, e ho dimenticato il mio cuore nel suo petto, per un tempo più lungo della morte, che sbadiglia indifferente.
Ho visto il bagliore delle tenebre nutrire la paura, e spostare il sole sopra un campo posseduto dalla falsità, gli assassinii, le astrazioni della morte.
Urlo entro i confini di me stesso, e la mia eco torna indietro come la voce di un antico flauto, consumato e stanco, avvolto da ciò che sparge il dolore, ciò che scorre dalla faringe del sole.
Ho vissuto ere nella febbre della melanconia, sulle spalle del vuoto ho appoggiato i miei pensieri. Nessuna traccia antica del sorriso dell’aurora.
[…]
Con una lanterna cieca, nelle foreste del pianto, la mia corsa lenta è continuata, senza mai allontanarsi dal cratere del tormento.
[…]
Il maleficio è il mio letto, e l’inganno il mio cuscino. Desidero, tanto, proseguire nel mio sonno, il sogno delle nuvole, da cui piove l’ignoranza.
[…]
La mia testa è diventata un pallone, i fumi della sconfitta lo riempiono. Fluttua nello spazio pallido, tesse le fila una mano esangue, amputata dal corpo.
In una navicella senza aria, alla ricerca del silenzio muto, il mio giro vorticoso continua intorno la roccia della nausea. È simile, nelle forme, ai seni della santità.
Ciò che vedo, non è che l’esplosione infuocata delle stelle, ciò che sento, non è che un solo gong, chiama al diffondersi dello squarcio, lo sperpero del fiume di sangue.
[…]
Fantasmi mi circondano, ridono di me, perché credo nella ragione. I miei compagni sono alberi che rifiutano di restare saldi.
Assenza di vuoto, esisti? Nel freddo pungente, non ho sentito battere i tuoi denti, non una parola tremante è stata versata da te.
Un’intervista a Bianca Tarozzi, a cura di Vassilina Avramidi e Elena Strappato
Mentre i countdown per le feste natalizie sono già iniziati, e tante finestrine dei calendari dell’avvento sono già state aperte, anche noi dell’Almanacco ritorniamo su alcuni dei momenti più belli che abbiamo condiviso durante il 2024. Ritorniamo alle giornate calde di giugno, quando abbiamo organizzato il Grisù Festival de Lo Spazio Letterario, in collaborazione con Porta Pratello e con la libreria indipendente Confraternita dell’Uva.
Con l’intervista a Bianca Tarozzi avvenuta durante il Grisù, si è chiuso un anno di lavori e collaborazioni sulla traduzione, e in particolare sul rapporto tra poesia e traduzione. Durante il 2024 abbiamo desiderato di incontrare traduttori e traduttrici per diversi motivi: certamente, per conoscere il punto di vista di chi traduce, considerandolo un punto di vista privilegiato, critico sul testo, ma anche per valorizzare il lavoro di chi traduce e per rivendicare il lavoro di traduzione come una forma di scrittura contemporanea.
Bianca Tarozzi è nata a Bologna e vive a Venezia. Ha insegnato letterature inglesi e angloamericane tra Verona, Venezia e Milano, e come traduttrice ha abitato la poesia americana, in particolar modo quella confessionale e i suoi nomi più rappresentativi come Robert Lowell, Sylvia Plath e Elizabeth Bishop. Ha tradotto anche la poesia di Emily Dickinson, A. E. Hausmann e Louise Glück, vincitrice del Premio Nobel del 2020. Come autrice e poeta, l’esordio di Bianca Tarozzi avviene con Nessuno vince il leone (Arsenale, 1988), una raccolta di riscritture al femminile dove ritroviamo, tra altre, figure note dalla mitologia greco-romana, come Arianna e Penelope. In questa intervista, Bianca ci racconta la sua esperienza in quanto traduttrice di due tra le opere più rilevanti di Louise Glück, Ararat e Meadowlands, in Italia pubblicate entrambi dal Saggiatore (2021 e 2023 rispettivamente).
Elena: Nel 2021, dopo la vittoria del Nobel di Louise Glück, il Saggiatore pubblica la tua traduzione di Ararat, che in realtà però è precedente; era già stata pubblicata nel 2012, in un numero monografico della rivista In forma di parole, curata da Gianni Scalia. In realtà, fino alla vincita del Nobel, Louise Glück era parecchio sconosciuta nel panorama italiano, a tal punto che giravano articoli dal titolo “Louise Glück chi?”… Considerando che tu provenivi da una poesia contemporanea americana come quella confessionale, e che la voce lirica di Louise Glück in qualche modo sfugge questa categorizzazione, vorremmo che ci racconti com’è avvenuto l’incontro con la poesia di Glück, e in particolare come sei arrivata a tradurre Ararat e Meadowlands?
Bianca: Partiamo dalla mia formazione in quanto americanista. Quando ancora frequentavo l’università a Venezia ho scritto una tesi su Robert Lowell, che penso sia l’unico o, meglio, quasi l’unico poeta americano che si occupi della storia americana, perché sia la Glück che altre importanti poetesse e scrittrici contemporanee nordamericane, come Mary Robinson e Anne Carson, non parlano della storia nella loro poesia. Lo stesso credo vale anche di molti poeti americani contemporanei. Ci sono, certo, alcune eccezioni, ma allora si tratta di newyorkesi, ebrei, che hanno una diversa consapevolezza della storia. Mentre dunque lavoravo su Robert Lowell ed Elizabeth Bishop, ho letto un libro della critica letteraria Helene Vendler, scomparsa recentemente, intitolato Part of Nature, Part of Us (Parte della natura, parte di noi), pubblicato nel 1980.[1] Lì, verso la fine del libro, c’era una parte dedicata sulla poesia di Glück. Allora ho pregato la mia sorella maggiore, filosofa che vive a New York, di farmi avere qualcosa della Glück. Quindi, per le vacanze di Natale del 1980, mi ha mandato proprio quel librino di Glück che Vendler aveva commentato nel suo grosso volume sulla poesia americana. A una prima lettura, mi è sembrato molto facile individuare le influenze di Glück. Già dalla prima poesia sua che ho letto, ho pensato a Silvia Plath, perché il suo verso era libero, drammatico, la tematica era gotica… aveva però un tema suo specifico, ed era quello – se vogliamo chiamarlo così – dell’anoressia. Louise Glück aveva avuto una formazione un po’ particolare: ha studiato alle scuole superiori, dopo però si è ammalata e ha avuto gravi problemi di salute (anoressia), come non ha seguito un curriculum “normale”, studiando, per esempio, in una facoltà di lettere. Quando dunque mi è arrivato questo libro, [n.d.r.: Descending Figure), io lo lessi con molto interesse, e pian piano che uscivano anche le opere successive, me le procuravo. Anni dopo, quando insegnavo letterature angloamericane all’Università di Verona, ho organizzato un convegno su Ulisse e Circe. A quel punto, Meadowlands, il libro in cui Glück riscrive in parte i personaggi di Ulisse, Penelope, Telemaco e Circe, era già uscito e lo conoscevo.
A questo punto occorrerebbe tornare un po’ indietro: già anni prima, quando facevo lezioni di poesia americana alla Ca’ Foscari, per il Novecento partivo da Ezra Pound e dal suo poemetto Hugh Selwyn Mauberley (tradotto in italiano da Giudici), dove Ulisse diventa l’emblema del poeta novecentesco. Dopo Pound, anche Lowell, sul quale io avevo fatto la tesi, ritorna sul personaggio di Ulisse, per rappresentare la sua storia biografica, esistenziale: nella sua poesia Penelope era la maschera per la seconda moglie, Circe per la terza. Bisogna dire di Lowell che tutte le sue mogli sono state scrittrici, romanziere o critiche letterarie – almeno su questo direi che abbia rivelato un certo buon gusto! La sua versione però di Ulisse e Circe è tremenda: la sua era una maga aristocratica, dell’ Atlanta del nord, che si, scriveva romanzi, ma era di una famiglia disastrata, figli, droghe… insomma, succedeva di tutto. Per Lowell, quel periodo è stato un disastro, ed è quello che racconta attraverso questa riscrittura del mito. Ciò che fuori dalla poesia invece è che Lowell decide di ritornare dalla seconda moglie, Elizabeth Hardwick, ma il nostos non avviene: il poeta è morto in taxi, proprio mentre tornava a New York, dalla sua Penelope. La mia traduzione dell’Ulisse di Lowell è stata pubblicata nel 1977, in una rivista di Gianni Scalia, qui a Bologna – dico una perché, ai quei tempi, Scalia si inventava delle riviste in continuazione, appena finiva una ne cominciava un’altra.
Sono partita quindi da Ulisse, ma certo Penelope mi ha sempre molto interessata. Qualche anno dopo, nel 1985, ho scritto le “Variazioni sul tema Penelope”, un poemetto piuttosto lungo di trecento versi, mi fu subito pubblicato – per alcuni, quel poemetto sarebbe la cosa migliore che ho scritto; io non sarei tanto d’accordo su questo, ma ognuno ha i propri gusti. Allora, in quel periodo, sul terzo programma della radio, leggevano l’Odissea nella meravigliosa traduzione di Aurelio Privitera, pubblicato presso la casa editrice Lorenzo Valla. Passavo quindi le mie mattine ascoltando l’Odissea e nel frattempo scrivevo la mia versione di Penelope. L’ho ambientata nella contemporaneità, aggiungendo una buona dose di elementi autobiografici. Telemaco, per esempio, era mia figlia e mi faceva delle domande veramente strane: «tu, mamma, c’eri quando nell’era dei dinosauri?»… Avendo quindi scritto io stessa una Penelope, dai toni in parte comici e in parte drammatici, quando è uscito Meadowlands, mi sono precipitata, l’ho tradotto tutto e Gianni Scalia mi ha subito fatto pubblicare tutto il libro nella rivista In forma di parole. Questa è la storia del mio incontro con Glück.
Vassilina: Come hai ben accennato, in Meadowlands Glück riscrive l’Odissea in chiave lirica. Scrive, sì, in verso libero, ma gioca tanto con la forma e cerca di riportare dentro un genere per eccellenza monologico come la lirica, l’elemento del dialogo. Nei suoi versi, il mito è un velo, e la famiglia di Itaca diventa un’analogia triangolare (Penelope-Ulisse-Telemaco vs Glück-marito-Noah) attraverso cui la poeta racconta la fine del suo matrimonio. Una poesia che trasmette i sentimenti dolceamari del divorzio e della rottura, una poesia piena di lutto non per la morte, bensì per la perdita di una vita matrimoniale che ha segnato la vita della scrittrice e il suo rapporto con il figlio. Come Glück, anche Penelope è una figura che vive nell’assenza dell’altro, che fa esperienza della perdita, e del lutto continuo – del resto, anche la stessa tela di Penelope è un’arma contro i pretendenti, radunati a Itaca a causa dell’assenza del marito, ed è un oggetto del lutto, un che Penelope prepara per la morte eminente del suocero Laerte; una morte che non avverrà all’interno dell’Odissea.
Sentire il lutto per qualcosa che si è perso è anche un sentimento che ci riporta alla pratica della traduzione; pensiamo anche al termine “resa”, all’ “arrendersi” davanti al testo e ai possibili “intraducibili” della lingua di partenza. Facciamo un esempio: nella tua traduzione di Meadowlands hai scelto di lasciare il titolo uguale nella versione italiana, una decisione che abbiamo visto ripetersi anche nella traduzione in greco moderno, come anche in quella francese. Tale decisione è senz’altro giustificata, visto che Meadowlands è il nome dello stadio della squadra The Giants a New Jersey, un luogo-chiave in questo libro di Glück, che diventa tema centrale nei dialoghi lirici con il marito. Questa scelta però nasconde un altro significato nascosto nel titolo inglese: “meadowlands” sono, infatti, le terre dei “meadows”, parola che traduce il greco antico λειμών (il prato, il pascolo), luogo poetico già dai tempi dell’Odissea dove i «meadows» erano la casa delle Sirene. Questa, per esempio, è una connessione con Omero che il lettore italiano, greco, francese perde quando vede la parola «meadowlands».
Bianca: Allora, parliamo dei titoli e della strutturazione dei libri della Glück. Le sue poesie sono strutturate all’interno dei libri con un senso, con un’unità tematica, non sono poste cronologicamente man mano che le scriveva. Ararat, anche quello lasciato invariato nelle varie lingue, è un altro bel esempio della molteplicità di significati che si nascondono dietro i titoli della Glück: per la maggioranza dei lettori, Ararat è il monte dove si pose l’Arca di Noè, dopo l’alluvione; ma Ararat è anche un nome di un cimitero ebraico di Long Island, dov’è sepolto il padre della Glück, un personaggio centrale di questo libro. «Meadowlands» in inglese significa terreno a pascolo, ma è anche lo stadio. Questo è un punto tematico di scontro tra marito e moglie nel libro: per lui, i calciatori che giocano lì sono persone straordinarie, quasi eroi, mentre per lei, sono quasi dei delinquenti, degli energumeni. Addirittura, il personaggio di Penelope, attenta all’estrema cementificazione della zona, ride del nome dello stadio e lo paragona all’interno di un forno. Quindi i titoli della Glück sono sempre plurivalenti, indicando allo stesso tempo l’unità tematica dei libri.
Vassilina: Infatti, lo stadio dei Giants prende il suo nome proprio dai prati di New Jersey su cui è stato costruito, durante un periodo che ha segnato la zona per l’edificazione intensiva e la perdita di una dimensione più bucolica che la caratterizzava. Ritornando all’idea della perdita vorrei chiederti come ti sei approcciata a questo libro, e anche più generalmente, come ti approcci alla pratica della traduzione? Come riesci a mantenere i molteplici significati che ci sono all’interno dei versi e delle parole straniere, senza sentirti di perdere sempre qualcosa dall’originale?
Bianca: Ho recentemente pubblicato un libro sulla traduzione per Molesini, che si chiama Imitazioni.[3] Il titolo è un termine usato nel Settecento da traduttori inglesi, per es. da Dryden, perché si sono resi conto che una traduzione vera e propria è impossibile – addirittura, alcune volte è proprio impossibile tradurre. Poi la parola è diventata una tradizione, sia in Italia che negli Stati Uniti: un libro di Bertolucci si chiama così, come anche uno di Sinisgalli. Per non parlare poi delle Imitations di Robert Lowell, dove in realtà la voce poetica è tutta sua, non c’è nessuna fedeltà all’originale.[4] Per me, il problema delle traduzioni era dovuto al fatto che traduco poesia da sempre, ho cominciato appena ho potuto, partendo da Baudelaire per divertimento. Tradurre poesia è un atto di amore, perché la poesia interessa pochi. La vera sfida nella traduzione di poesia non è il ritmo, ma la struttura metrica, la rima… quelle non si possono tradurre. Ogni tanto uno può anche riuscirci, ma è raro. Le questioni, quindi, sarebbero due: la fedeltà al testo e il tentativo di costruire un ritmo, che non potrà, certo, essere proprio identico a quello del testo originale, ma che dovrà essere percepito come un ritmo.
Quando facevo le medie, studiavamo l’Iliade, e cioè leggevamo il testo omerico, ovviamente in traduzione. Quando invece mia figlia andava alle medie ha studiato l’epica antica in un modo tutto diverso: rispondevano a delle domande perlopiù teoriche come “cos’è un poema epico” e a imparare varie definizioni, senza fare esperienza diretta del testo omerico. La mia generazione – io sono del ’41 – ha avuto la gioia di leggere l’Iliade nella meravigliosa traduzione di Vincenzo Monti, completamente infedele, più lunga dell’originale, quindi per certi versi disastrosa. Il suo ritmo però è favoloso; del resto, anche Leopardi era apprezzata anche da Leopardi.
Se quindi accettiamo che una delle maggiori sfide nella traduzione di poesia è quella della struttura ritmica, con la Glück questo problema non si pone: il suo è un verso libero. Ciò che costruisce il ritmo nella Glück è la semplicità, la chiarezza, la laconicità della frase e della struttura sintattica. Lei dice addirittura che non adopera nessuna parola che un bambino non potrebbe capire. Si tratta dunque di una poesia comunicativa, non difficile da tradurre salvo che per delle questioni culturali: per es., meadowlands non vuol dire nulla per un italiano, mentre per un americano evoca immediatamente lo stadio. Io non ho trovato delle grandi difficoltà. Ho tradotto prima Ararat perché l’ho trovato più facile, mentre Meadowlands, anche per via della presenza di dialoghi, ha un linguaggio più complicato: da un lato, è un inglese colloquiale, parlato dagli americani, dall’altro è elegante; due cose che sembrano contraddirsi, e invece Glück riesce miracolosamente a costruire un linguaggio conciso, elegante, perfettamente chiaro e comprensibile, con una struttura sintattica interessante, e quindi con una ritmicità. Non ha però né la metrica, né la musica.
Vassilina:La musica è però presente in Meadowlands lungo tutto il libro, attraverso citazioni o invocazioni. Già nell’esergo, la coppia dei protagonisti comincia un gioco: «– Giochiamo a scegliere la musica. La forma preferita. – L’opera lirica. – La tua preferita. – Figaro. No. Figaro e Tannhauser. Ora tocca a te: cantamene una.» Si parte, dunque, dall’opera e si procede con la prima poesia del libro, intitolata «Penelope’s Song», «La canzone di Penelope», dove l’eroina si stacca dalla sua anima, e le chiede di cantare una canzone al marito perché ritorni.
Bianca: Io nel primo verso di questa poesia, «little soul», «piccola anima», vedo un chiaro riferimento all’ «animula vagula blandula» di Adriano. Infatti, avevo tradotto «little soul» con «animula», ma la casa editrice ha scelto diversamente.
Vassilina: E alle perdite si ritorna, quindi… Le referenze musicali in Meadowlands arrivano fino alla musica kletzmer, un genere musicale ebraico proveniente dall’Est Europa, tanto conosciuto a New York e generalmente negli Stati Uniti, che di solito viene scelto per le feste e i matrimoni ebraici durante gli anni in cui Meadowlands viene scritto. La Penelope di Glück, invece, esprime il desiderio di cantare una «accattivante / innaturale canzone – appassionata come Maria Callas» («La Canzone di Penelope»). La tua Penelope, dall’altra parte, fa i conti con l’epica, e anche se trovi che l’endecasillabo sia «una muffa», scrive comunque in endecasillabi, nonostante alcuni siano spezzati, e altri nascosti tra enjambements. Vorrei dunque chiederti: che legami vedi tra Penelope, la musica e la metrica e qual è il tuo rapporto personale metrica e con l’endecasillabo?
Bianca: Mentre nella poesia modernista del Novecento Ulisse è il poeta, nella poesia della Glück il poeta è Penelope – come lo è anche la mia, che scrive e traduce. Per quanto riguarda l’endecasillabo invece, la poesia dell’Ottocento inglese, mi viene in mente in particolare Tennyson, quella era una poesia così cantata, così musicale, che il Novecento ha dovuto reagire contro questa musica del metro. Anche Pound però, che ha preferito il verso libero, dice «there isn’t such a thing as free verse», «non esiste il verso libero», perché anche nel verso libero ci dev’essere un ritmo; se non c’è un ritmo, allora è semplicemente prosa. C’è chi ha molto criticato la Glück, dicendo «come mai quell’articolo su Persefone [n.d.r.: Averno] va sempre a capo»? La risposta è semplice, perché è poesia. Il ritmo della Glück è argomentativo. La poesia di Meadowlands ha come tema, tra altri, la musica, ma non è una raccolta di canzoni. Il suo è un lavoro quasi più simile a un’opera teatrale, con i personaggi che confliggono tra loro. Telemaco, per es., ha un ruolo centrale: è il figlio scisso tra due genitori completamente diversi. Il marito della Glück era un atleta, un professore di ginnastica, non era per caso che gli piaceva il calcio; era forse prevedibile che il matrimonio non potesse funzionare tanto bene. La struttura è dunque drammatica, un pensiero che si snoda ed esamina i pro e i contro di una relazione destinata a finire.
Per parlare del mio rapporto con l’endecasillabo tornerei ancora all’Iliade di Vincenzo Monti e all’influenza che ha avuto su di me – dovremmo anche considerare che allora si imparavano pezzi di poesia a memoria. L’endecasillabo è connaturato nella nostra tradizione, però nel mio caso si tratta di un endecasillabo terremotato: gioco con il verso lungo quello verso breve, endecasillabo e settenario, un’alternanza che troviamo già in Dante, Petrarca, Tasso, e via dicendo. Milton copia dall’Italia, l’endecasillabo influisce sulla poesia inglese del Cinquecento, perché leggono Petrarca e dopo viene creato il pentametro giambico. Il mio endecasillabo cerca di diversificare il ritmo, si spezza, in modo da evitare questa “cantilena” che risulta poco accettabile nella poesia del Novecento.
Elena: Tornando sui due libri della Glück che hai tradotto, Ararat e Meadowlands, noi abbiamo individuato un filo comune: entrambi questi libri sono pervasi dal lutto. Certo, parlando di perdite diverse. In Meadowlands c’è la perdita dell’eros, dell’intimità coniugale tra due sposi; c’è la lontananza di Ulisse da Penelope come anche la crisi, la fine di un matrimonio. In Ararat il lutto è prima di tutto familiare: vi ci troviamo il resoconto poetico di vicende familiari che forma un intreccio quasi narrativo, romanzesco. Allo stesso tempo questi due libri che cantano della perdita, sembra ragionino sul desiderio. Nell’epigrafe di Ararat troviamo una citazione da Platone: «il desiderio è la ricerca per l’intero; si chiama amore». Il tema della perdita in Ararat non è legato solo alla perdita del padre, ma anche all’amore difficilissimo che univa la Glück con la sorella; due sorelle tanto diverse, che ricordano in parte le opposing forces di Ulisse e Penelope in Meadowlands. Il desiderio come portatore di lutto, di perdita, ci ha fatto venire in mente la Canadese classicista, scrittrice e poeta Anne Carson, che definisce l’eros come perdita, mancanza e lutto. Per Carson l’esperienza erotica del desiderio come caratteristica dell’amante, del mancante (colei che non ha) e del sapiente (colei che sa di non sapere?) – un po’ come fa Penelope in Meadowlands. Dalla tua esperienza di questi due testi, c’è qualche riflessione che intreccia in entrambi desiderio, perdita, e ricerca di una voce creativa?
Bianca: Se pensiamo di nuovo al titolo Ararat, c’è una terza connessione che dovremmo aggiungere alle due precedenti, menzionate prima: nella radice ebraica, «ararat» vuol dire salvezza. Sarà dunque l’inevitabile ricerca dell’intero possibile? Dopo, un tema importantissimo di questo libro è vero, è il rapporto complicatissimo tra le due sorelle. Si tratta di una insopportabilità che ha una lunga tradizione: nella scrittura biblica, il primogenito è sempre cattivo; il secondogenito, invece, gode di una maggiore libertà, forse addirittura felicità. Il primogenito è condannato all’invidia. Il personaggio di Glück in Ararat confessa la sua invidia, è onesta ed esplicita. Avendo io stessa una sorella maggiore, ero molto interessata a indagare meglio sul racconto di Glück di questo rapporto tra sorelle.
Per quanto riguarda invece la perdita, questo penso sia il tema di tutta la poesia. Ci tengo a citarvi almeno due casi. Elizabeth Bishop ha scritto una poesia intitolata «The Art of Losing», dove dice: «the art of losing isn’t hard to master», «l’arte di perdere non è difficile da padroneggiare» – del resto, questo è destino comune di tutto il genere umano. La poesia vuole conservare ciò che si perde, fermare l’attimo, congelare l’emozione. Qui ritorno ancora a Pound, che parla della poesia come «frozen emotion», «emozione ghiacciata, fermata, trattenuta». Emily Dickinson, invece, in una sua poesia ci ricorda come «la percezione di un oggetto costa precisamente la perdita dell’oggetto», cioè, se hai l’oggetto, sei contento, non hai bisogno di scrivere dell’oggetto. Sul tema della perdita ho scritto una poesia che si chiama «Orchidee impossibili», che finisce così: «io, invece, al posto della cosa, ho la figura. Non solo una, due. Ciascuna mi sollecita tentare un’arte non banale, una linea sottile. Io, che non so curare una vera orchidea, mi prendo cura delle immagini. Vive nella mente, indugiano, ritornano. Così vivo di niente. È come tessere una tunica di anemoni, con un filo di ragno, con le ortiche, raffigurare quello che non c’è o almeno non è qui. E ti chiedi perché puoi farlo, e poi perché, soprattutto perché non puoi non farlo». Potremmo chiederci, «perché fermare l’attimo?», ma questa è una vocazione, e non si può evadere.
[1] Helen Vendler, Part of Nature, Part of Us: Modern American Poets (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1996).
[2] La turbolente relazione tra Lowell e Hardwick viene rispecchiata nella loro corrispondenza, pubblicata recentemente nel volume The Dolphin Letters 1970-1979: Elizabeth Hardwick and Robert Lowell, The Dolphin Letters 1970-1979, ed. Saskia Hamilton (London: Faber & Faber, 2020).
Traduzioni a cura di Milo Lamanna, Irene Russo e Elena Strappato
Cosa sia la crushche dà titolo alla raccolta di Richard Siken non è facile da spiegare. Alla più comune accezione di infatuazione, innamoramento ai limiti dell’ossessione, lo scheletro delle poesie che leggete in traduzione, si accompagna quella dell’urto, della pressione violenta sulla materia, umana e non, i cui frantumi sparsi premono per uscire dalla memoria sulla carta. Ha qualcosa a che vedere con il concetto di “frantumaglia” di Elena Ferrante. Definita concretamente come «una folla di materiali incoerenti, di rottami», la frantumaglia è anche suono, «un ronzio in crescendo e uno sfaldamento a vortice di materia viva e materia morta». È «un ancoraggio per la nostra vita» che segue al senso della perdita «quando si ha la certezza che tutto ciò che ci sembra stabile, duraturo» è destinato a unirsi «a quel paesaggio di detriti che ci pare di vedere»; «la parola per un malessere non altrimenti definibile» che rimanda a «una folla di cose eterogenee nella testa, detriti su un’acqua limacciosa del cervello». Dove Ferrante però procede in un costante ritaglio tra chi perde e chi è perduto, Siken dispone questi frammenti in cerchio, murando sé e i ricordi all’interno della propria ossessione, fino alla spettacolarizzazione di questa (complice la parallela attività di filmmaker).
Nella prefazione all’edizione del 2019di CrushLouise Glück dice della poesia di Siken: «[Crush] è il miglior esempio che si possa dare di profonda selvaticità che è al tempo stesso completamente intelligibile». Glück non fa riferimento a una comprensione intellettuale e razionale delle poesie di Crush, ma a un’identificazione che ha più a che fare col farsi colpire – o trafiggere – da questi versi. Leggere Siken vuol dire esporsi alla violenza che trasuda, sofferta o inflitta, da ogni poesia di questa raccolta. Per quanto sia pervasiva e costante, la violenza non è mai data per scontata, e quando non è nominata apertamente è inflitta a chi legge attraverso una metrica ossessiva e frenetica, che non lascia scampo. L’effetto è immersivo e claustrofobico – una lettura ad alta voce con un microfono troppo alto, un feedback acuto – per Glück: «pura improvvisazione maniacale».
Pur non lasciando spiragli per respirare, Siken concede brevi istanti di chiarezza e trasparenza, dove il terrore e il panico incalzante lasciano spazio a momenti luminosi; per un attimo ci sembra di poter guardare tutto dall’alto, solo per un secondo:
[…] che ci riporta alle spalle dell’eroe e alla dolcezza che viene non dall’assenza di violenza, ma a discapito della sua abbondanza.
Se leggere le poesie di Crush significa esporsi al loro potenziale distruttivo, tradurle significa attivare un processo opposto: raccogliere i frantumi e ricomporli. Abbiamo cercato di mantenerci il più possibile aderenti al testo e di restituire le sensazioni fisiche scatenate dall’andamento sincopato delle poesie che abbiamo scelto.
Da Crush (yALE university press, 2019) di richard siken
The Torn-Up Road
There is no way to make this story interesting.
A pause, a road, the taste of grave in the mouth. The rocks dig into my skin
like arrowheads.
And then the sense of being smothered underneath a sack of lentils or potatoes, or of a boat at night slamming into the docks again
without navigation, without consideration,
heedless of the plank of wood that are the dock,
that make up the berth itself.
2
I want to tell you this story without having to confess anything,
without having to say that I ran out into the street to prove something,
that he didn’t love me,
that I wanted to be thrown over, possessed. I want to tell you this story without having to be in it:
Max in the wrong clothes. Max at the party, drunk again. Max in the kitchen, in refrigerator light, his hands around the neck of a beer.
Tell me we’re dead and I’ll love you even more.
I’m surprised that I say it with feeling. There’s a thing in my stomach about this. A simple thing. The last rung.
3
Can you see them there, by the side of the road,
not moving, not wrestling,
making a circle out of the space between the circles? Can you see them
pressed into the gravel, pressed into the dirt, pressing against each other
in an effort to make the minutes stop —
headlights shining in all directions, night spilling over them like
gasoline in all directions, and the dark blue over everything, and them
holding their breath –
4
I want to tell you this story without having to say that I ran out into the street
to prove something, that he chased after me
and threw me into the gravel. And he knew it wasn’t going to be okay, and he told me
it wasn’t going to be okay.
And he wouldn’t kiss me, but he covered my body with his body
and held me down until I promised not to run back out into the street again.
But the minutes don’t stop. The prayer of going nowhere
going nowhere.
5
His shoulder blots out the starts but the minutes don’t stop. He covers my body
with his body but the minutes
don’t stop. The smell of him mixed with creosote, exhaust — There, on the ground, slipping through the minutes,
trying to notch them. Like taking the same picture over and over, the spaces
in between sealed up —
Knocked hard enough to make the record skip and change its music, setting the melody on its
forward course again, circling and circling the center hole in the flat black disk.
And words, little words,
words too small for any hope or promise, not really soothing but soothing nonetheless.
La strada spezzata
1
Non c’è modo di rendere questa storia interessante.
Una tregua, una strada, il sapore di ghiaia nella bocca. Le pietre mi scavano la pelle
come punte di freccia.
E poi sentirsi soffocati da un sacco di lenticchie
o di patate, o una barca notturna che sbatte di nuovo contro il molo
senza navigazione, senza valutazione,
incurante delle assi di legno che sono il molo
che compongono l’ormeggio.
2
Voglio raccontarti questa storia senza dover confessare nulla,
senza dover dire che uscii in strada correndo per dimostrare qualcosa,
che lui non mi amava,
che io, posseduto, volevo farmi lasciare.
Voglio raccontarti questa storia senza che io ci debba essere:
Max in abiti sbagliati. Max alla festa, di nuovo ubriaco.
Max in cucina, alla luce del frigo, le mani sul collo di una birra.
Dimmi che eri morto e ti amerò persino di più.
Dirlo con sentimento mi stupisce,
È qualcosa nel mio stomaco. Una cosa semplice. L’ultimo gradino.
3
Li vedi laggiù, sul ciglio della strada,
non si muovono, non fanno la lotta,
creano un cerchio nello spazio tra i cerchi? Li vedi
schiacciati nella ghiaia, schiacciati nel fango, schiacciandosi l’uno contro l’altro
nello sforzo di fermare i minuti —
i fari fanno luce in ogni direzione, la notte si rovescia su di loro
simile a benzina in ogni direzione, e il blu scuro sopra ogni cosa, e loro
trattengono il respiro –
4
Voglio raccontarti questa storia senza dover dire che uscii in strada correndo
per dimostrare qualcosa, che lui mi rincorse
e mi spinse nella ghiaia.
E sapeva che non sarebbe finita bene, e mi disse
che non sarebbe finita bene.
E non mi baciò ma ricoprì il mio corpo con il suo corpo
e mi trattenne fino a quando non promisi di non correre più in strada.
Ma i minuti non si fermano. Non andava da nessuna parte la preghiera
di non andare da nessuna parte.
5
La sua spalla cancella le partenze ma i minuti non si fermano. Copre il mio corpo
con il suo corpo ma i minuti
non si fermano. Il suo odore misto al creosoto, vapore di scarico –
Lì, a terra, scivolando tra i minuti,
provando a intaccarli. Come scattare la stessa foto di continuo,
gli interstizi sigillati –
Un colpo abbastanza forte da far saltare il disco
e cambiargli la musica, riportando la melodia
di nuovo al suo inizio, girando, girando ancora intorno al foro del disco piatto e nero.
E le parole, piccole parole,
parole troppo piccole per ogni speranza o promessa, che non sono davvero di conforto
ma di conforto comunque.
Litany in Which Certain Things Are Crossed Out
Every morning the maple leaves. Every morning another chapter where the hero shifts
from one foot to the other. Every morning the same big
and little words all spelling out desire, all spelling out
You will be alone always and then you will die.
So maybe I wanted to give you something more than a catalog
of non-definitive acts,
something other than the desperation. Dear So-and-So, I’m sorry I couldn’t come to your party.
Dear So-and-So, I’m sorry I came to your party
and seduced you
and left you bruised and ruined, you poor sad thing. You want a better story. Who wouldn’t?
A forest, then. Beautiful trees. And a lady singing. Love on the water, love underwater, love, love and so on.
What a sweet lady. Sing lady, sing! Of course, she wakes the dragon.
Love always wakes the dragon and suddenly
flames everywhere.
I can tell already you think I’m the dragon, that would be so like me, but I’m not. I’m not the dragon.
I’m not the princess either. Who am I? I’m just a writer. I write things down.
I walk through your dreams and invent the future. Sure, I sink the boat of love, but that comes later. And yes, I swallow
glass, but that comes later.
And the part where I push you flush against the wall and every part of your body rubs against the bricks,
shut up
I’m getting to it.
For a while I thought I was the dragon. I guess I can tell you that now. And, for a while, I thought I was
the princess,
cotton candy pink, sitting there in my room, in the tower of the castle,
young and beautiful and in love and waiting for you with
confidence
but the princess looks into her mirror and only sees the princess,
while I’m out here, slogging through the mud, breathing fire,
and getting stabbed to death.
Okay, so I’m the dragon. Bid deal.
You still get to be the hero. You get the magic gloves! A fish that talks! You get eyes like flashlights!
What more do you want? I make you pancakes, I take you hunting, I talk to you as if you’re
really there. Are you there, sweetheart? Do you know me? Is this microphone live?
Let me do it right for once, for the record, let me make a thing of cream and stars that becomes,
you know the story, simply heaven. Inside your head you hear a phone ringing
and when you open your eyes
only a clearing with deer in it. Hello deer.
Inside your head the sound of glass, a car crash sound as the trucks roll over and explode in slow motion.
Hello darling, sorry about that. Sorry about the bony elbows, sorry we
lived here, sorry about the scene at the bottom of the stairwell and how I ruined everything by saying it out loud.
Especially that, but I should have known. You see, I take the parts that I remember and stitch them back together
to make a creature that will do what I say
or love me back.
I’m not really sure why I do it, but in this version you are not
feeding yourself to a bad man
against a black sky prickled with small lights.
I take it back. The wooden halls like caskets. These terms from the lower depths.
I take them back.
Here is the repeated image of the lover destroyed.
Crossed out. Clumsy hands in a dark room. Crossed out. There is something
underneath the floorboards. Crossed out. And here is the tabernacle
reconstructed. Here is the part where everyone was happy all the time and we were all
forgiven, even though we didn’t deserve it.
Inside your head you hear a phone ringing, and when you open your eyes you’re washing up
in a stranger’s bathroom, standing by the window in a yellow towel, only twenty minutes away
from the dirtiest thing you know. All the rooms of the castle except this one, says someone, and suddenly
darkness,
suddenly only darkness.
In the living room, in the broken yard, in the back of the car as the lights go by. In the airport
bathroom’s gurgle and flush, bathed in a pharmacy of
unnatural light,
my hands looking weird, my face weird, my feet too far away.
And the airplane, the window seat over the wing with a view
of the wing and a little foil bag of peanuts.
I arrived in the city and you met me at the station,
smiling in a way that made me frightened. Down the alley, around the arcade,
up the stairs of the building to the little room with the broken faucets, your drawings, all your things,
I looked out the window and said
This doesn’t look that much different from home,
because it didn’t, but then I noticed the black sky and all those lights.
We walked through the house to the elevated train.
All these buildings, all that glass and the shiny beautiful
mechanical wind. We were inside the train car when I started to cry. You were crying too,
smiling and crying in a way that made me even more hysterical. You said I could have anything I wanted, but I
just couldn’t say it out loud.
Actually, you said Love, for you, is larger than the usual romantic love. It’s like a religion. It’s
terrifying. No one will ever want to sleep with you.
Okay, if you’re so great, you do it— here’s the pencil, make it work . . .
If the window is on your right, you are in your own bed. If the window
is over your heart, and it is painted shut, then we are breathing
river water. Build me a city and call it Jerusalem. Build me another and call it
Jerusalem.
We have come back from Jerusalem where we found not
what we sought, so do it over, give me another version, a different room, another hallway, the kitchen painted over
and over, another bowl of soup.
The entire history of human desire takes about seventy minutes to tell.
Unfortunately, we don’t have that kind of time.
Forget the dragon,
leave the gun on the table, this has nothing to do with happiness.
Let’s jump ahead to the moment of epiphany,
in gold light, as the camera pans to where
the action is, lakeside and backlit, and it all falls into frame, close enough to see
the blue rings of my eyes as I say
something ugly.
I never liked that ending either. More love streaming out the wrong way,
and I don’t want to be the kind that says the wrong way. But it doesn’t work, these erasures, this constant refolding of the pleats.
There were some nice parts, sure,
all lemondrop and melon ball, laughing in silk pajamas
and the grains of sugar on the toast, love love or whatever, take a number. I’m sorry
it’s such a lousy story.
Dear Forgiveness, you know that recently we have had our difficulties and there are many things
I want to ask you.
I tried that one time, high school, second lunch, and then again,
years later, in the chlorinated pool. I am still talking to you about help. I still do not have
these luxuries. I have told you where I’m coming from, so put it together.
We clutch our bellies and roll on the floor . . .
When I say this, it should mean laughter,
not poison.
I want more applesauce. I want more seats reserved for heroes.
Dear Forgiveness, I saved a plate for you.
Quit milling around the yard and come inside.
Litania di alcune cose con una croce sopra
Ogni mattina le foglie d’acero.
Ogni mattina un altro capitolo dove l’eroe si sposta
da un piede all’altro. Ogni mattina le stesse grandi
e piccole parole tutte a scandire desiderio, tutte a scandire
Sarai solo sempre e dopo morirai.
Per questo forse volevo darti qualcosa di più che un catalogo
di atti non definitivi,
qualcosa di diverso dalla disperazione.
Caro Tal dei Tali, mi dispiace non essere venuto alla tua festa.
Caro Tal dei Tali, mi dispiace essere venuto alla tua festa
e averti sedotto
e abbandonato, livido e malridotto, tu, povera triste creatura.
Vuoi una storia migliore. Chi non la vorrebbe?
Una foresta, allora. Alberi bellissimi. E una dama che canta.
Che dolce dama! Canta, dama, canta! Certo, sveglia il drago.
L’amore sveglia sempre il drago e a un tratto
fiamme dappertutto.
So già che pensi che il drago sono io,
che sarebbe proprio da me, ma non lo sono. Non sono io il drago.
Non sono nemmeno la principessa.
Chi sono? Sono solo uno scrittore. Scrivo le cose.
Cammino attraverso i tuoi sogni e invento il futuro. Senza dubbio
affondo la barca dell’amore, ma quello viene dopo. E sì, ingoio
vetro, ma questo viene dopo.
E la parte dove ti spingo
dritto contro il muro e ogni parte del tuo corpo sfrega sui mattoni,
zitto
ci sto arrivando.
Per un po’ ho creduto di essere io il drago.
Forse ora posso dirlo. E per un po’ ho creduto di essere io
la principessa,
rosa confetto, seduta lì nella mia stanza, nella torre del castello,
giovane e bella e innamorata e aspettandoti con
sicurezza
ma la principessa guarda nello specchio e vede solo la principessa,
mentre io sono qui fuori, mentre mi trascino nel fango, respiro fuoco,
e sono pugnalato a morte.
Okay, così io sono il drago. Che grande affare.
Puoi comunque essere l’eroe.
Avrai i guanti magici! Un pesce parlante! Avrai due occhi come torce!
Cosa vuoi di più?
Ti faccio i pancake, ti porto a caccia, ti parlo come se ci fossi
davvero.
Ci sei, tesoro? Mi conosci? Questo microfono funziona?
Lasciami fare la cosa giusta per una volta,
per la cronaca, lasciami creare una cosa di panna e stelle che sia,
la sai la storia, semplicemente divina.
Dentro la tua testa senti squillare un telefono
e quando apri i tuoi occhi
solo una radura con un cervo. Ciao cervo.
Dentro la tua testa il suono del vetro,
il suono dello schianto mentre i camion si ribaltano ed esplodono
[al rallentatore.
Ciao caro, mi dispiace.
Mi dispiace per i gomiti ossuti, mi dispiace
se abbiamo vissuto qui, mi dispiace per la scena sulla tromba delle scale
e di come ho rovinato tutto dicendo quella cosa a voce alta.
Di questo in particolare, ma avrei dovuto sapere.
Vedi, prendo le parti che ricordo e le ricucio insieme
per fare una creatura che farà quello che le dico
o che ricambierà il mio amore.
Non capisco bene perché, ma in questa versione non sei tu
a darti in pasto a un uomo cattivo
contro un cielo nero pizzicato da piccole luci.
Me la rimangio.
Sale in legno simili a bare. Termini dagli abissi più profondi.
Me li rimangio.
Ecco l’immagine ripetuta dell’amante distrutto.
Una croce sopra.
Mani goffe in una stanza buia. Una croce sopra. C’è qualcosa
sotto al pavimento di legno.
Una croce sopra. E qui è la nicchia
ricostruita.
Ecco la parte dove tutti erano felici tutto il tempo e noi eravamo tutti
perdonati,
anche se non lo abbiamo meritato.
Puoi sentire nella testa
un telefono che squilla, e quando riapri gli occhi ti stai lavando
nel bagno di uno sconosciuto
appoggiato alla finestra in un asciugamano giallo, a soli venti minuti
dalla cosa più sporca che conosci.
Tutte le stanze del castello a parte questa, dice qualcuno, e a un tratto
il buio,
a un tratto solo il buio.
Nel salone, nel cortile sconnesso,
dietro una macchina mentre passano le luci. Nel borboglio
dello scarico del bagno all’aeroporto, immersi in una farmacia
di luce innaturale,
le mie mani sembrano strane, la mia faccia strana, i miei piedi troppo distanti.
E l’aeroplano, il posto al finestrino sopra l’ala, vista
ala e un pacchetto di noccioline in alluminio.
Sono arrivato in città e ti ho incontrato alla stazione,
sorridevi in un modo
che mi ha intimorito. In fondo al vicolo, intorno al portico,
in cima alle scale del palazzo
fino alla piccola stanza coi rubinetti rotti, i tuoi disegni, tutte le tue cose,
ho guardato fuori alla finestra e ho detto
Non sembra così diverso da casa
perché davvero non lo era,
poi però ho notato il cielo nero e tutte quelle luci.
Siamo passati attraverso la casa fino alla sopraelevata.
Tutti questi palazzi, tutto quel vetro e quello splendido
vento meccanico.
Eravamo al vagone quando ho iniziato a piangere. Piangevi anche tu,
sorridendo e piangendo così da farmi diventare
ancora più isterico. Hai detto che potevo avere tutto quello che volevo, ma io
proprio non riuscivo a dirlo ad alta voce.
In verità hai detto, L’amore, per te,
è più grande del solito amore romantico. È una religione. È
terrificante. Nessuno
vorrà mai venire a letto con te.
Ok, se tu sei così bravo, fallo tu –
ecco la matita, fallo funzionare…
Se hai la finestra sulla destra, sei nel tuo letto. Se la finestra
è sul tuo cuore, sigillato, allora respiriamo
acqua di fiume.
Fai per me una città e chiamala Gerusalemme. Fanne un’altra e chiamala
Gerusalemme.
Torniamo da Gerusalemme dove non abbiamo trovato
quello che cercavamo, quindi falla da capo, dammi un’altra versione,
una stanza diversa, un altro corridoio, la cucina ridipinta
e così via,
un altro piatto di zuppa.
Occorrono settanta minuti per raccontare l’intera storia del desiderio umano.
Purtroppo, non abbiamo tutto questo tempo.
Dimentica il drago,
lascia il fucile sul tavolo, questo non ha nulla a che fare con la felicità.
Buttiamoci a capofitto nel momento dell’epifania,
nella luca dorata, mentre la videocamera segue dove si muove
l’azione
sulla sponda del lago e in controluce, e tutto ricade dentro l’inquadratura, abbastanza vicino per [vedere
gli anelli blu dei miei occhi mentre dico
qualcosa di brutto.
Non mi è mai piaciuto nemmeno quel finale. Altro amore che scorre nel verso sbagliato
senza essere il tipo che dice nel verso sbagliato.
Ma non funziona, queste cancellature, questo costante ripiegarsi delle pieghe.
Le parti belle non sono certo mancate,
tutte caramelle al limone e succo di melone, ridendo nel pigiama di seta
e i granelli di zucchero
sul toast, amore amore o non importa, prendi un numero. Mi dispiace
è una storia così triste.
Caro Perdono, sai che di recente
abbiamo avuto le nostre difficoltà e ci sono molte cose
che vorrei chiederti.
Ci ho provato quella volta, a scuola, la seconda colazione, e poi ancora,
anni dopo, nella piscina di cloro.
Ti parlo ancora di aiuto. Non ho ancora
questi lussi.
Ti ho detto da dove provengo, fai due più due.
Stringiamo i nostri ventri e rotoliamo sul pavimento…
Quando lo dico, dovrebbe suscitare una risata,
non avvelenare.
Ne voglio ancora di salsa alle mele. Voglio più posti riservati agli eroi.
Caro Perdono, ho messo da parte un piatto per te.
Smettila di girare intorno al giardino e vieni dentro.
Snow and Dirty Rain
Close your eyes. A lover is standing too close to focus on. Leave me blurry and fall toward me with your entire body. Lie under the covers, pretending to sleep, while I’m in the other room. Imagine my legs crossed, my hair combed, the shine of my boots in the slatted light. I’m thinking My plant, his chair, the ashtray that we bought together. I’m thinking This is where we live. When we were little we made houses out of cardboard boxes. We can do anything. It’s not because our hearts are large, they’re not, it’s what we struggle with. The attempt to say Come over.Bring your friends. It’s a potluck, I’m making pork chops, I’m making those long noodles you love so much. My dragonfly, my black-eyed fire, the knives in the kitchen are singing for blood, but we are the crossroads, my little outlaw, and this is the map of my heart, the landscape after cruelty which is, of course, a garden, which is a tenderness, which is a room, a lover saying Hold me tight, it’s getting cold. We have not touched the stars, nor are we forgiven, which brings us back to the hero’s shoulders and the gentleness that comes, not from the absence of violence, but despite the abundance of it. The lawn drowned, the sky on fire, the gold light falling backward through the glass of every room. I’ll give you my heart to make a place for it to happen, evidence of a love that transcends hunger. Is that too much to expect? That I would name the stars for you? That I would take you there? The splash of my tongue melting you like a sugar cube? We’ve read the back of the book, we know what’s going to happen. The fields burned, the land destroyed, the lovers left broken in the brown dirt. And then it’s gone. Makes you sad. All your friends are gone. Goodbye Goodbye. No more tears. I would like to meet you all in Heaven. But there’s a litany of dreams that happens somewhere in the middle. Moonlight spilling on the bathroom floor. A page of the book where we transcend the story of our lives, past the taco stands and record stores. Moonlight making crosses on your body, and me putting my mouth on every one. We have been very brave, we have wanted to know the worst, wanted the curtain to be lifted from our eyes. This dream going on with all of us in it. Penciling in the bighearted slob. Penciling in his outstretched arms. Our father who art in Heaven. Our father who art buried in the yard. Someone is digging your grave right now. Someone is drawing a bath to wash you clean, he said, so think of the wind, so happy, so warm. It’s a fairy tale, the story underneath the story, sliding down the polished halls, lightning here and gone. We make these ridiculous idols so we can to what’s behind them, but what happens after we get up the ladder? Do we simply stare at what’s horrible and forgive it? Here is the river, and here is the box, and here are the monsters we put in the box to test our strength against. Here is the cake, and here is the fork, and here’s the desire to put it inside us, and then the question behind every question: What happens next? The way you slam your body into mine reminds me I’m alive, but monsters are always hungry, darling, and they’re only a few steps behind you, finding the flaw, the poor weld, the place where we weren’t stitched up quite right, the place they could almost slip right into through if the skin wasn’t trying to keep them out, to keep them here, on the other side of the theater where the curtain keeps rising. I crawled out the window and ran into the woods. I had to make up all the words myself. The way they taste, the way they sound in the air. I passed through the narrow gate, stumbled in, stumbled around for a while, and stumbled back out. I made this place for you. A place for to love me. If this isn’t a kingdom then I don’t know what is. So how would you catalog it? Dawn in the fields? Snow and dirty rain? Light brought in in buckets? I was trying to describe the kingdom, but the letters kept smudging as I wrote them: the hunter’s heart, the hunter’s mouth, the trees and the trees and the space between the trees, swimming in gold. The words frozen. The creatures frozen. The plum sauce leaking out of the bag. Explaining will get us nowhere. I was away, I don’t know where, lying on the floor, pretending I was dead. I wanted to hurt you but the victory is that I could not stomach it. We have swallowed him up, they said. It’s beautiful. It really is. I had a dream about you. We were in the gold room where everyone finally gets what they want. You said Tell me about your books, your visions made of flesh and light and I said This is the Moon. This is the Sun. Let me name the stars for you. Let me take you there. The splash of my tongue melting you like a sugar cube… We were in the gold room where everyone finally gets what they want, so I said What do you want, sweetheart? and you said Kiss me. Here I am leaving you clues. I am singing now while Rome burns. We are all just trying to be holy. My applejack, my silent night, just mash your lips against me. We are all going forward. None of us are going back.
Neve e Pioggia Sporca
Chiudi gli occhi. Un amante in piedi troppo vicino per metterlo a fuoco. Lasciami sfuocato e cadi su di me con tutto il tuo corpo. Stai sotto le coperte, fai finta di dormire, mentre io sono nell’altra stanza. Immagina le mie gambe accavallate, i miei capelli pettinati, il brillare dei miei stivali nella luce filtrata dalle assi. Sto pensando La mia pianta, la sua sedia, il posacenere che abbiamo comprato insieme. Penso Qui è dove viviamo. Quando eravamo piccoli costruivamo case da scatole di cartone. Possiamo fare tutto. Non perché i nostri cuori siano grandi, non lo sono, è quello contro cui combattiamo. Il tentativo di dire vieni, porta i tuoi amici. È un potluck, faccio le costolette, sto preparando quei noodles lunghi che ti piacciono tanto. Mia libellula, mio fuoco dagli occhi neri, i coltelli in cucina cantano per il sangue, ma noi siamo i crocevia, mio piccolo fuorilegge, e questa è la mappa del mio cuore, il paesaggio dopo la crudeltà che è, ovviamente, un giardino, che è una tenerezza, che è una stanza, un amante che dice Stringimi forte, si sta facendo freddo. Non abbiamo toccato le stelle, né siamo stati perdonati, che ci riporta alle spalle dell’eroe e alla dolcezza che viene, non dall’assenza di violenza, ma a discapito la sua abbondanza. Il campo annegato, il cielo in fiamme, la luce dorata che cade all’indietro attraverso i vetri di tutte le stanze. Ti darò il mio cuore per farne un posto dove possa accadere, prova di un amore che trascende la fame. è aspettarsi troppo? Dare i nomi alle stelle per te? Portarti là? Lo schizzo della mia lingua che ti scioglie come una zolletta di zucchero? Abbiamo letto la trama del libro, sappiamo cosa succederà. I campi bruciati, la terra distrutta, gli amanti spezzati nella polvere marrone. E poi è finita. Ti rende triste. Tutti i tuoi amici se ne sono andati. Addio Addio. Niente più lacrime. Vorrei incontrarvi tutti in Paradiso. Ma c’è una litania di sogni che accade da qualche parte nel mezzo. Luce di luna che si rovescia sul pavimento del bagno. Una pagina del libro dove trascendiamo la storia delle nostre vite, oltre i chioschi di tacos e i negozi di dischi. Luce di luna che fa delle croci sul tuo corpo, e io che metto la mia bocca su di ognuna. Siamo stati molto coraggiosi, abbiamo voluto sapere il peggio, abbiamo voluto che il velo fosse sollevato dai nostri occhi. Questo sogno continua con tutti noi dentro. Scarabocchiandoci lo sciattone dal cuore grande. Scarabocchiandoci le sue braccia spalancate. Padre nostro che sei nei cieli. Padre nostro che sei sepolto nel cortile. Qualcuno ti sta scavando la tomba proprio adesso. Qualcuno ti sta preparando un bagno per lavarti, ha detto, quindi pensa al vento, così felice, così caldo. È una fiaba, la storia sotto la storia, che scivola lungo i corridoi lucidati, un lampo arriva e poi sparisce. Creiamo questi idoli ridicoli così da poter vedere cosa c’è dietro ma cosa succede una volta salita la scala? restiamo semplicemente a guardare ciò che è orribile e lo perdoniamo? ecco il fiume, ed ecco la scatola, e qui ci sono i mostri che mettiamo nella scatola, per testare contro di loro la nostra forza. Ecco la torta, qui la forchetta, e qui il desiderio di metterla dentro di noi, e poi la domanda dietro ogni domanda: Cosa succede dopo? Il modo in cui sbatti il tuo corpo sul mio mi ricorda che sono vivo, ma i mostri hanno sempre fame, caro, e sono solo qualche passo dietro di te, alla ricerca della falla, della saldatura lenta, del punto dove non siamo stati ricuciti bene, il punto da cui possono quasi scivolare dentro se la pelle non stesse cercando di tenerli fuori, di tenerli là, dall’altra parte del teatro dove il sipario continua ad alzarsi. Sono strisciato fuori dalla finestra e sono corso nel bosco. Mi sono dovuto inventare io tutte le parole. Il loro sapore, il modo in cui risuonano nell’aria. Ho attraversato lo stretto varco, sono entrato barcollando, barcollato in giro per un po’, e mi sono trascinato fuori. Ho creato questo posto per te. Un posto dove tu possa amarmi. Se non è questo un regno, allora non so cosa lo sia. Quindi come lo catalogheresti? Alba nei campi? Neve e pioggia sporca? Luce che cade a secchiate? Cercavo di descrivere il regno, ma le lettere continuavano a sbavarsi mentre le scrivevo: il cuore del cacciatore, la bocca del cacciatore, gli alberi e gli alberi e lo spazio tra gli alberi, che nuotano nell’oro. Le parole congelate. Le creature congelate. La salsa di prugne che cola dalla busta. Spiegare non ci porterà da nessuna parte. Ero lontano, non so dove, sdraiato sul pavimento, facevo finta di essere morto. Volevo farti del male ma la vittoria è non essere riuscito a sopportarlo. L’abbiamo ingoiato, hanno detto. È bello, è davvero bello. Ti ho sognato. Eravamo nella stanza dorata Dove ognuno finalmente ottiene ciò che vuole. Mi hai detto parlami dei tuoi libri, delle tue visioni di carne e luce e io ho detto Questa è la Luna. Questo è il Sole. Fammi dare nomi alle stelle per te. Lascia che ti ci porti. Lo schizzo della mia lingua che ti scioglie come una zolletta di zucchero… Eravamo nella stanza dorata dove ognuno finalmente ottiene ciò che vuole, quindi ho detto Cosa vuoi, tesoro? E tu hai detto Baciami. Eccomi, ti lascio degli indizi. Sto cantando mentre Roma brucia. Stiamo solo cercando di essere tutti santi. Mio applejack, mia notte quieta, schiaccia solo le tue labbra contro di me. Stiamo tutti andando avanti. Nessuno di noi torna indietro.
Boot Theory
A man walks into a bar and says: Take my wife–please. So you do. You take her out into the rain and you fall in love with her and she leaves you and you’re desolate. You’re on your back in your undershirt, a broken man on an ugly bedspread, staring at the water stains on the ceiling. And you can hear the man in the apartment above you taking off his shoes. You hear the first boot hit the floor and you’re looking up, you’re waiting because you thought it would follow, you thought there would be some logic, perhaps, something to pull it all together but here we are in the weeds again, here we are in the bowels of the thing: your world doesn’t make sense. And then the second boot falls. And then a third, a fourth, a fifth.
A man walks into a bar and says: Take my wife–please. But you take him instead. You take him home, and you make him a cheese sandwich, and you try to get his shoes off, but he kicks you and he keeps kicking you. You swallow a bottle of sleeping pills but they don’t work. Boots continue to fall to the floor in the apartment above you. You go to work the next day pretending nothing happened. Your co-workers ask if everything’s okay and you tell them you’re just tired. And you’re trying to smile. And they’re trying to smile.
A man walks into a bar, you this time, and says: Make it a double. A man walks into a bar, you this time, and says: Walk a mile in my shoes. A man walks into a convenience store, still you, saying: I only wanted something simple, something generic… But the clerk tells you to buy something or get out. A man takes his sadness down to the river and throws it in the river but then he’s still left with the river. A man takes his sadness and throws it away but then he’s still left with his hands.
Teoria dello Stivale
Un uomo entra in un bar e dice:
prendi mia moglie – per favore.
quindi esegui.
La porti fuori nella pioggia e ti innamori di lei
e lei ti lascia e tu sei disperato.
Sei sdraiato sulla schiena in canottiera, un uomo spezzato
su un brutto copriletto, a fissare le macchie di umidità
sul soffitto.
E puoi sentire l’uomo nell’appartamento di sopra
che si toglie le scarpe.
Senti il primo stivale cadere al suolo e guardi in alto,
attendi
perchè pensavi che avrebbe continuato, pensavi che ci sarebbe stata
una qualche logica, magari, qualcosa che tenesse tutto insieme
ma siamo di nuovo tra le ortiche,
eccoci
nelle viscere della cosa: il tuo mondo non ha senso.
E poi cade il secondo stivale.
e poi un terzo, un quarto, un quinto.
Un uomo entra in un bar e dice:
prendi mia moglie – per favore.
Ma tu prendi lui invece.
Lo porti a casa e gli prepari un panino al formaggio,
e cerchi di togliergli le scarpe, ma lui scalcia
e continua a scalciare.
Mandi giù un’intera bottiglia di sonniferi ma non fanno effetto.
Gli stivali continuano a cadere al suolo
nell’appartamento di sopra.
Vai al lavoro il giorno dopo fingendo che non sia successo niente.
Il tuo collega chiede
se è tutto okay e gli dici
che sei solo stanco.
E cerchi di sorridere e anche lui cerca di sorridere.
Un uomo entra in un bar, sei tu stavolta, e dice:
fammene uno doppio.
Un uomo entra in un bar, sei tu stavolta, e dice:
Mettiti nei miei panni.
Un uomo entra in un minimarket, sempre tu, dicendo:
Io volevo solo qualcosa di semplice, qualcosa di generico…
Ma il commesso ti dice di comprare qualcosa o di uscire.
Un uomo porta la sua tristezza al fiume e la getta nel fiume
ma poi gli rimane
il fiume. Un uomo prende la sua tristezza e la butta via
ma poi gli rimangono le sue mani.
I Had a Dream About You
All the cows were falling out of the sky and landing in the mud. You were drinking sangria and I was throwing oranges at you, but it didn’t matter. I said my arms are very long and your head’s on fire. I said kiss me here and here and here and you did. Then you wanted pasta, so we trampled out into the tomatoes and rolled around to make the sauce. You were very beautiful. We were in the Safeway parking lot. I couldn’t find my cigarettes. You said Hurry up! but I was worried there would be a holdup and we would be stuck in a hostage situation, hiding behind the frozen meats, with nothing to smoke for hours. You said Don’t be silly, so I followed you into the store. We were thumping the melons when I heard somebody say Nobody move! I leaned over and whispered in your ear I told you so. There was a show on the television about buried treasure. You were trying to convince me that we should buy shovels and go out into the yard and I was trying to convince you that I was a vampire. On the way to the hardware store I kept biting your arm and you said if I really was a vampire I would be biting your neck, so I started biting your neck and you said Cut it out! and you bought me an ice cream, and then we saw the UFO. These are the dreams we should be having. I shouldn’t have to clean them up like this. You were lying in the middle of the empty highway. The sky was red and the sand was red and you were wearing a brown coat. There were flecks of foam in the corners of your mouth. The birds were watching you. Your eyes were closed and you were listening to the road and I could hear your breathing, I could hear your heart beating. I carried you to the car and drove you home but you weren’t making any sense I took a shower and tried to catch my breath. You were lying on top of the bedspread in boxer shorts, watching cartoons and laughing but not making any sound. Your skin looked blue in the television light. Your teeth looked yellow. Still wet, I lay down next to you. Your arms, your legs, your naked chest, your ribs delineated like a junkyard dog. There’s nowhere to go, I thought. There’s nowhere to go. You were sitting in a bathtub at the hospital and you were crying. You said it hurt. I mean the buildings that were not the hospital. I shouldn’t have mentioned the hospital. I don’t think I can take this much longer. In the dream I don’t tell anyone, you put your head in my lap. Let’s say you’re driving down the road with your eyes closed but my eyes are also closed. You’re by the side of the road. You’re by the side of the road and you’re doing all the talking while I stare at my shoes. They’re nice shoes, brown and comfortable, and I like your voice. In the dream I don’t tell anyone, I’m afraid to wake you up. In these dreams it’s always you: the boy in the sweatshirt, the boy on the bridge, the boy who always keeps me from jumping off the bridge. Oh, the things we invent when we are scared and want to be rescued. Your jeep. Your teeth. The coffee that you bought me. The sandwich cut in half on the plate. I woke up and ate ice cream in the dark, hunched over on the wooden chair in the kitchen, listening to the rain. I borrowed your shoes and didn’t put them away. You were crying and eating rice. The surface of the water was still and bright. Your feet were burning so I put my hands on them, but my hands were burning too. You had a bottle of pills but I wouldn’t let you swallow them. You said Will you love me even more when I’m dead? And I said No, and I threw the pills on the sand. Look at them, you said. They look like emeralds. I put you in the cage with the ocelots. I was trying to fatten you up with sausage and bacon. Somehow you escaped and climbed up the branches of a pear tree. I chopped it down but there was no one in it. I went to the riverbed to wait for you to show up. You didn’t show up. I kept waiting.
Ti ho sognato
Tutte le vacche cadevano dal cielo e atterravano nel fango Tu bevevi sangria e io ti lanciavo addosso delle arance, ma non aveva alcuna importanza. Ho detto le mie braccia sono davvero lunghe e la tua testa va a fuoco. Ho detto baciami qui, e qui, e qui E tu hai eseguito. Dopo volevi mangiare la pasta, Così abbiamo pestato i pomodori e ci siamo rotolati per farne la salsa. Eri stupendo. Ci trovavamo nel parcheggio di Safeway. Non riuscivo a trovare le mie sigarette. Mi dicevi Sbrigati! ma mi preoccupava l’idea di una rapina E che saremmo rimasti bloccati, come ostaggi, nascosti dietro La carne surgelata, con niente da fumare per ore. Mi hai detto Non fare l’idiota, Così ti ho seguito dentro il negozio. Stavamo tamburellando sui cocomeri quando abbiamo sentito qualcuno dire Nessuno si muova! Mi sono piegato e ti ho sussurrato all’orecchio: te l’avevo detto. In televisione mandavano in onda uno show sui tesori sepolti. Stavi cercando di convincermi a comprare delle vanghe e andare fuori in giardino e io provavo a convincerti di essere un vampiro. Sulla strada per il ferramenta continuavo a morderti il braccio E tu mi hai detto che se fossi stato davvero un vampiro avrei puntato alla gola, così ho iniziato a morderti il collo e tu hai detto: dacci un taglio! e mi hai comprato un gelato, e poi abbiamo visto l’UFO. Questi sono i sogni che dovremmo fare. Non dovrei doverli ripulire così. Tu eri sdraiato nel bel mezzo della strada vuota. Il cielo era rosso, la sabbia era rossa e tu portavi un cappotto marrone. C’erano rivoli di bava agli angoli della tua bocca. Gli uccelli ti fissavano. I tuoi occhi erano chiusi e stavi ascoltando la strada e riuscivo a sentirti respirare, riuscivo a sentire il tuo cuore battere. Ti ho portato alla macchina e accompagnato a casa ma tu non avevi alcun senso Ho fatto una doccia e ho provato a riprendere fiato. Tu eri sdraiato in sul copriletto in boxer, a guardare cartoni animati e a ridere ma senza fare alcun suono. La tua pelle sembrava blu alla luce del televisore. I tuoi denti sembravano gialli. Ancora fradicio, mi sono sdraiato accanto a te. Le tue braccia, le tue gambe, il tuo petto nudo, le tue costole marcate come un cane randagio. Non c’è dove andare, ho pensato. Non c’è dove andare. Tu sedevi in una vasca da bagno all’ospedale e piangevi. Dicevi che ti faceva male. Intendo gli edifici che non erano l’ospedale. Non avrei dovuto nominare l’ospedale. Non penso di poter continuare a lungo. Nel sogno che non racconto a nessuno, tu poggi la testa sul mio grembo. Diciamo che guidi lungo la strada tenendo gli occhi chiusi ma anche i miei occhi sono chiusi. Tu sei sul ciglio della strada. Tu sei sul ciglio della strada e parli solo tu mentre io mi fisso le scarpe. Sono delle belle scarpe, marroni e comode, e la tua voce mi piace. Nel sogno che non racconto a nessuno, ho paura di svegliarti. In questi sogni sei sempre tu: il ragazzo con la felpa, il ragazzo sul ponte, il ragazzo che mi salva dal saltare giù dal ponte. Ah, le cose che inventiamo quando abbiamo paura e desideriamo essere salvati. La tua jeep. I tuoi denti. Il caffè che mi hai comprato. Il sandwich tagliato a metà sul piatto. Mi sono svegliato e ho mangiato il gelato al buio, Curvo sulla sedia di legno della cucina, Ascoltando la pioggia. Ho preso in prestito le tue scarpe e non le ho tolte. Tu piangevi mangiando riso. La superficie dell’acqua era ferma e luminosa. I tuoi piedi andavano a fuoco, così ho messo le mie mani su di loro, ma le mie mani pure andavano a fuoco. Avevi una boccetta di pillole, ma non le ingoiavi. Mi dicevi Mi amerai ancora di più quando sarò morto? E io rispondevo No, e lasciavo le pillole sulla sabbia. Guardale, mi dicevi. Sembrano smeraldi. Ti mettevo in gabbia con i leopardi. Provavo a ingrassarti Con salsiccia e bacon. In un qualche modo scappavi e ti arrampicavi sui rami di un pero. Lo abbattevo, ma non c’era nessuno dentro. Andavo sul letto del fiume ad aspettarti. Non ti sei presentato. Ho continuato ad aspettare.
Si chiama ‘Pur sempre amore’, l’abbiamo lanciata qualche settimana fa, è unaCall for translators in cui vi invitiamo a esplorare, con le vostre traduzioni poetiche, le forme, i modi e le funzioni della scrittura d’amore contemporanea. Come l’odore del cibo fa venire fame, come chi è innamorato innamora, con queste editors’ picks vogliamo farvi venire l’acquolina in bocca. Vi offriamo una specie di Satura lanx, un piatto di primizie in cui troverete un po’ di tutto: l’inglese, il francese e lo spagnolo, ma anche il greco moderno e il polacco; il verso, il verso che va verso la prosa, e la prosa; amori mortiferi esagerati erotici sconsolati bizzarri materni. Eppure, per quanto diversificata, la nostra è una selezione di testi che non vuole esaurire, quanto piuttosto suggerire, provocare, invitare ad aggiungere…
Aliquot lineae desiderantur, ‘mancano alcune linee’, è la formula che i filologi utilizzavano per segnalare la presenza di una lacuna in un testo. “Desiderantur…desiderantur…desiderantur”, insiste anaforicamente Sanguineti nel primo tassello del suo Laborintus, lasciando intuire come la lacuna in questione non sia più soltanto testuale, ma si apra nel ventaglio di una polisemica mancanza.
Donne desideranti (e non solo desiderate), donne scriventi (e non solo scritte), donne amanti (e non solo amate), donne osservanti (e non solo osservate), per esempio: una lacuna nella storia ufficiale della letteratura occidentale. Così, tradurre le voci contemporanee di Sara Torres, Bronka Nowicka, Phoebe Giannisi, ma anche le meno contemporanee di Louise Bogan e Catherine Pozzi, è il nostro tentativo parziale di colmare questa mancanza, ma è anche un modo per farvi venire voglia di tradurre, un invito ad aggiungere i vostri amori ai nostri, le vostre voci alle nostre. Perchè “solo nel coro”, diceva Kafka, “può esserci una certa verità”.
Da Phantasmagoria (La Bella Varsovia, 2019) di Sara Torres, traduzione di Camilla Marchisotti
has construido un escritorio en tu habitación nueva. la única en la qué me acuesto sabiendo que será necesario desaparecer a la mañana siguiente. hay flores secas en jarrones de cristal distinto. otras no tan muertas todavía en violáceo. verde oscuro. copa con agua. segunda fotografía de alguien que podría ser tú. tu figura y la suya son similares. vuelvo a mirar atenta. debo entenderlo todo. he de ser certera afilada contemplar todas las pistas en el mapa del dolor. seguir hasta la extenuación hasta la extenuación. busco y me encuentro también en los objetos. deseo trazar la jerarquía. más restos que lleven a mí. adherida con cinta a la pared una moneda de cinco peniques con la que codiciamos en tiempos de derrumbe. solo unos días atrás. vamos a intentarlo ―y entonces la respuesta es no. será heroico y tozudo o no será. será grandilocuente ostentado burdeos o no será. no será si no basa su entereza en la creencia de la gran mentira. la ciega. la fe. la ciega. la fe. voy abajo hasta el poso naranja de las huellas frescas. voy al compost buceando palmas palas de arcilla rota. será caprichoso y hambriento. irrrumpiente y trastornado como el carro que desborda la velocidad de las bestias que iban tirando de él y las empuja a las esquinas del camino. flancos hacia arriba. mirando perplejas. será como el gesto de sorpresa en los ojos redondos y oscuros de las bestias súbitamente arremetidas o no será
hai costruito una scrivania nella tua stanza nuova. l’unica in cui dormo sapendo che dovrò sparire la mattina dopo. ci sono fiori secchi in vasi di diversi vetri. alcuni non ancora così morti in viola intenso. verde scuro. acqua nel bicchiere. seconda foto di qualcuno che potresti essere tu. la tua e la sua figura sono simili. guardo di nuovo attenta. devo capire tutto. devo essere precisa affilata contemplare ogni indizio sulla mappa del dolore. continuare fino all’estenuazione fino all’estenuazione. cerco e mi ritrovo anche negli oggetti. voglio tracciare la gerarchia. altri resti che conducano a me. appiccicata con il nastro alla parete una moneta da cinque pence con cui tanto abbiamo desiderato in tempi di rovina. appena qualche giorno fa. proviamoci ―allora la risposta è no. sarà eroico e ostinato o non sarà. sarà grandiloquente ostentato porpora o non sarà. non sarà se non basato interamente sulla credenza nella gran menzogna. quella cieca. la fede. quella cieca. la fede. scendo fino al residuo arancio delle tracce fresche. scavando verso il compost i palmi pale di argilla rotta. sarà capriccioso e affamato. dirompente e frastornato come il carro che sorpassa in velocità le bestie che lo tirano e le spinge ai lati della strada. pancia in su. sguardo perplesso. sarà come il gesto di sorpresa negli occhi tondi e oscuri delle bestie d’improvviso soggiogate o non sarà
Da Kodeks pomylonych (Biuro Literackie, 2020) di Bronka Nowicka, traduzione di Marta Wanicka
SERCE Serce im prostsze, tym lepsze. Nie wydziwiaj przy nim. Uszyj mieszek. Nie za słaby, bo pęknie, zbyt mocny stwardnieje. Skrój go z płótna, które kurczy się i oddycha. Uchwyć właściwą pojemność. Serce ma pomieścić najcenniejsze rzeczy. Po odłożeniu igły weź coś ulotnego. Jednym dmuchnięciem tchnij płochliwość w środek. Dorzuć głośno chodzący zegarek.
CUORE Il cuore più è semplice, meglio è. Non sbizzarrirti troppo. Cuci un borsellino. Non troppo debole, così scoppia, troppo forte poi diventa duro. Ritaglialo dal telo che si stringe e respira. Cogli la capienza giusta. Il cuore è fatto per tenere le più care cose. Dopo aver riposto l’ago prendi qualcosa di effimero. Con un soffio inspiragli l’istinto della fuga. Buttaci l’orologio che ticchetta forte.
OKO Kulkę kwiatu bawełny nasącz wodą. Już z tego możesz uzyskać nie najgorsze oko. O ile nada się do czułego opatrzenia rany, zachowaj je jako udane. Jeżeli będzie mogło tylko widzieć – wyrzuć.
OCCHIO Bagna una pallina di fiore di cotone. Già così può uscirne un occhio niente male. Se si presta a fasciare con cura una ferita, tienilo per buono. Se può solo vedere – buttalo.
USTA Usta wykop w ciele. Lej mleko w ten dół. Jeżeli płyn wsiąknie, to znaczy, że się przyjęły. Sprawdzaj, czy zamieszkał tam czerwony robak. Jeśli tak, uwiąż go do nory, by nie wyszedł dalej niż za krawędź. Codziennie pobudzaj obleńca do ruchu. Jeżeli okaże się leniwy, zrobiłeś paszczę. Lecz gdy robak zacznie się uwijać i otwór przemówi, dokonałeś ust ludzkich.
BOCCA Scava la bocca nel corpo. Versa del latte nella fossa. Se assorbe il liquido, vuol dire che ha attecchito. Controlla regolarmente se ci è andato a vivere un lombrico rosso. Se sì, legalo alla tana, in modo che non vada oltre il bordo. Ogni giorno stimola il verme a muoversi. Se viene fuori pigro, hai creato delle fauci. Ma se il lombrico comincia a dimenarsi e il buco parla, hai realizzato una bocca umana.
SZEPT Opakuj głos mówiący w aksamit, w którym ukryłeś listek celofanu. Podawaj zawiniątko przez wąską szczelinę.
SUSSURRO Avvolgi la voce parlante nel velluto in cui hai nascosto un foglietto di cellofan. Il pacchettino va servito da una fessura stretta.
SŁOWO Mowa jest niczym pokarm. Zawiera treść. Może krzepić jak cukier lub palić jak pieprz. Truje bądź odżywia. Dlatego tak wyrabiaj słowa, żeby podawane z ust do ust były jak świeże ryby, winne jabłka, miód.
PAROLA Il parlare assomiglia all’alimentazione. Contiene sostanza. Può rinvigorire come lo zucchero o bruciare come il pepe. Avvelena o nutre. Per questo, lavora le parole in modo che servite da labbra a labbra siano fresche come pesci, mele succose, miele.
SKŁADNIA Sztukę scalania słów poprzedzaj praktyką dotyku. Nim wypowiesz „miękka sierść”, długo trzymaj rękę na psim łbie.
SINTASSI All’arte di assemblare le parole fai precedere la pratica del tocco. Prima di dire “pelo morbido” tieni una mano poggiata a lungo sulla testa di un cane.
WIERSZ Uszyj brzuch. Umieść w nim embrion – zwitek czystej kartki. Przywiąż ciążę trokami i noś. Chodząc, kołysz. Kiedy poczujesz, że to już, przykucnij, przyj. W pęknięciu błyśnie główka, zmarszczone papierzątko. Przytul kukiełkę ze znamieniem pisma. Odczytaj z jej czoła pierworodny wiersz.
POESIA Cuci un ventre. Piazzaci un embrione – foglio bianco arrotolato. Allaccia la gravidanza con le cinghie e portala. Nel camminare, ondeggia. Quando senti che è arrivato il momento, accovacciati, spingi. Nella fessura risplenderà una testolina, un pezzetto di carta sgualcito. Abbraccia il pupazzetto macchiato di scrittura. Leggi dalla sua fronte la poesia primogenita.
Da Très Haut Amour. Poèmes et autres textes di Catherine Pozzi (ed. di Claire Paulhan e Lawrence Joseph, Gallimard, 2002), traduzione di Elena Strappato
N’ayant absolument plus aucun espoir Ne comptant, même plus, sur l’intelligence Comprenant que la gloire est pour les heureux ; Empêchée de vivre de ce corps foudroyé, Les amis étant morts, La science utile étant pour les vivants ; Objet d’étonnement à ceux qui passent, Scandale à ceux qui se contentent, Assise sans presque respirer, Elle travaille, Une rose au cœur.
Non avendo assolutamente più nessuna speranza Non contando più nemmeno sull’intelligenza, Preso atto che la gloria è per i felici; Impedita a vivere da questo corpo fulminato, Gli amici ormai morti, La scienza utile riservata ai vivi; Oggetto di stupore per i passanti, Scandalo per chi si accontenta, Seduta quasi senza respirare, Lei lavora, Una rosa al cuore.
Da Body of this Death: Poems (Robert M. McBride, 1923) di Louise Bogan, traduzione di Elena Strappato
“Epitaph for a Romantic Woman”
She has attained the permanence She dreamed of, where old stones lie sunning. Untended stalks blow over her Even and swift, like young men running.
Always in the heart she loved Others had lived,—she heard their laughter. She lies where none has lain before, Where certainly none will follow after.
“Epitaffio per una donna romantica”
Ha raggiunto la permanenza che sognava, dove vecchie pietre stanno al sole. Steli negletti le respirano accanto rapidi e compatti, simili a giovani in corsa.
Sempre nel cuore ha amato altri hanno vissuto – li ha sentiti ridere. Sta dove nessuno è mai stato dove è certo che nessuno seguirà.
Da ομηρικά (οmeriche, Kedros, 2007) di Phoebe Giannisi, traduzione di Vassilina Avramidi
“(Πηνελόπη ΙΙΙ)”
λατρεύει τα παιδιά της όταν ήταν μικρά από το πιάτο τελείωνε αυτή το φαγητό τους ακόμα τρώει τα υπολείμματα και τώρα πλέον φορά τα ρούχα της κόρης της από εκείνης ψηλότερης όταν τα έχει βρωμίσει και στο καλάθι τα αφήνει για πλύσιμο φορά τα καλτσάκια και πάει μ αυτά στη δουλειά τα λερωμένα δανείζεται άραγε κάνει οικονομία στις πλύσεις ή το φυλαχτό είναι ενεργό
μονάχα όταν κρατά από το σώμα το πιο δικό μας ίχνος των εκκρίσεων τη μυρωδιά;
“(Penelope III)”
adora i suoi figli quando erano piccoli lei stessa dal piatto finiva il loro cibo ancora mangia gli avanzi e adesso ormai porta i vestiti della figlia, più alta di lei quando sporchi li lascia nel cesto del bucato si mette i calzini e con questi va al lavoro prende in prestito quelli sudici sarà per risparmiare sui bucati oppure l’incantesimo rimane attivo
soltanto quando mantiene dal corpo traccia quella più nostra l’odore delle secrezioni?
“(Πηνελόπη IV)”
όταν γεννιέται ένα παιδί η τρυφερότητα ρέει όπως το γάλα απ’ τις ρώγες ο ουρανός καθαρός όπως τα μάτια του που θολά βλέπουν γεννιέται μεγάλο μέσα στο τόσο μικρό
ανοιχτό και κλειστό κάθε νεογέννητο ο Δίας στο άντρο του θηλάζει απ’ την κατσίκα το γάλα ανίσχυρο και για αυτό δυνατότερο όλων έτοιμο έχει στα χέρια του τον κόσμο
ξύπνησα μέσα στη νύχτα να μουρμουρίσω την αγάπη μου για αυτό τον αγώνα τη δύναμή του για ζωή
τις κάλτσες τα ρούχα του την δική μας ανίκητη μυρωδιά τον ήσυχο ύπνο του ένα απέραντο δώρο έπεσε πάλι από τα αστέρια
“(Penelope IV)”
quando nasce un bimbo la tenerezza cola come il latte dai capezzoli il cielo chiaro come i suoi occhi che guardano sfocati nasce grande dentro quel tanto piccolo
aperto e chiuso ogni neonato è Zeus nel suo antro prende il latte dalla capra impotente e perciò più forte di tutti pronto tiene nelle mani il mondo
mi sono svegliata nella notte a mormorare il mio amore per lui la sua gara la forza per la vita
i suoi calzini i vestiti il nostro invincibile odore il suo sonno quieto un altro regalo infinito caduto dalle stelle
Introduzione e traduzioni dal greco moderno a cura di Vassilina Avramidi.
In Negotiating with the Dead, Margaret Atwood descrive l’esperienza della scrittura come «un rischioso viaggio nell’aldilà», con l’obiettivo orfico di riportare alla luce le voci disperse nel regno dei morti.1 Le sfide, però, non intimoriscono il poeta greco Yiannis Stiggas, che intraprende la discesa agli inferi dei crematori, per dar voce agli incompresi della Shoah. I testi di Sonderkommando (Άγρα, 2023) emanano un male che è tutt’altro che banale: i personaggi principali sono, appunto, i membri delle squadre speciali composte da quei detenuti ebrei che nei campi di concentramento venivano obbligati dai nazisti, sotto minaccia di morte immediata, a collaborare allo sterminio del loro stesso popolo.
Nei versi di Stiggas, i Sonderkommando formano un coro inusuale, e cantano «con la morte adosso»2 le torture che continuano a subire, da uno strano luogo in cui il tempo ha smesso di scorrere. Anzi, sono proprio loro a dover spingere la Ruota del Tempo, costretti forzatamente a lavorare anche post mortem. Alle liriche corali si alternano singole poesie-incontri tra il soggetto poetico e personaggi ben noti del Terzo Reich, o intellettuali sopravvissuti al genocidio. Ne «L’angelo bianco», le memorie di Josef Mengele si intrecciano con quelle universitarie dello stesso Stiggas che, ancora studente, sradica il cuore di una rana, e lo sente fantasmaticamente battere sulle proprie unghie per ore, ancora e ancora.3 Qualche pagina dopo, si palesa Jean Améry, per dare al poeta qualche consiglio di scrittura: «mi manca solo un tuo verso», gli dice, «ciò che scrivevi da piccolo / che il sangue si sparge / sempre in tempo presente» («απλώς μου λείπει ένας στίχος σου / εκείνο που ‘γραφες μικρός / ότι το αίμα χύνεται / πάντα στον ενεστώτα»). Proprio al presente ci parla ancora Adolf Eichmann, che ignaro del suo status attuale cerca disperatamente i prossimi capri espiatori negli elementi naturali.
Dal collage di Soña Spitzová sulla parte anteriore della copertina, al disegno di František Brozan sul retro,4 morti ad Auschwitz all’età di tredici e undici anni rispettivamente, Sonderkommando si configura come «un luogo di lamento» (« τόπος οιμωγής»), e il lettore spesso condivide il sentimento di «imbarazzo» («αμηχανία») del poeta, preannunciato in esergo: «questo Mondo / ho balbettato / è specchio del mio imbarazzo» («αυτός ο Κόσμος / ψέλλισα / είναι φτυστός η αμηχανία μου»). Rimane ancora da capire se, tra i versi di Stiggas, imbottiti di memoria e di storia, riusciremo a trovare anche «calore nei colori».
Yiannis Stiggas, Sonderkommando
Sonderkommando, p. 14-15
Κατά τ’άλλα βαριόμαστε εδώ κάτω ο Χρόνος είναι χειροκίνητος γυρνάμε τον τροχό για τον Τροχό και συνθλίβουμε τούτη την Άνοιξη κλείνοντας το μάτι στην επόμενη
κατά τ’άλλα η εργασία απελευθερώνει (μισή αλήθεια που σκουριάζει – την ίδια ώρα που οι ολόκληρες γίνονται λίπασμα) Ύστερα πέφτει μια ψιλή βροχούλα και ιδού ο ασφόδελος Μιχαήλ ιδού η λυγαριά Μαρία με τα μακριά ικετευτικά κλαριά Άααχ αγαπήσαμε τη φύση για τους λάθους λόγους στις τρεις διδαχές οι δυο είναι κάτεργο – αδυνατώ να το εξηγήσω αυτό –
Αλλά για να δύει ο ήλιος κάτι θα ξέρει.
Sonderkommando, p. 14-15
Per il resto ci annoiamo qui sotto il Tempo è manuale giriamo la ruota per la Ruota e schiacciamo questa Primavera strizzando l’occhio alla prossima
per il resto il lavoro rende liberi (mezza verità che si ossida – mentre quelle intere si fanno concime) Dopo cade una pioggerellina ed ecco Michele, l’asfodelo ecco Maria, l’agnocasto dai rami lunghi, supplicanti Aaah amavamo la natura per le ragioni sbagliate sui tre insegnamenti due sono torture – questo non riesco a spiegarmelo –
Però se il sole tramonta qualcosa ne saprà.
Sonderkommando, p. 30
Δεν έχω αμφιβολίες πια η γλώσσα μου θα γίνει βυσσινιά θα βρούμε θαλπωρή στα χρώματα. Δυο σαλαμάνδρες καταπράσινες θα δικαιώσουν – εν αγνοία μου – το κρανίο μου αργότερα θα ερωτευτούν La vita nuova! La vita nuova, μέσα στ’ατάραχο μυαλό του μαυρομπούμπουρα Φέρνει πέντ’-έξι σβούρες και σωριάζεται σαν τιποτένιος στις καμέλιες
θα σας ξανάρθω σύντομα
Εχθές στο συρματόπλεγμα καθόταν κόκκινο υμενόπτερο, πλησίασα δειλά δειλά στιγμούλα δεν πετάρισε –
το φίλησα στο στόμα.
Sonderkommando, p. 30
Non ho più dubbi avrò la lingua color amarena troveremo calore nei colori. Due salamandre verdissime riabiliteranno – a mia insaputa – le mie ossa più tardi si innamoreranno La vita nova! La vita nοva, dentro la mente serena del calabrone nero Fa cinque-sei giri e poi crolla come un nulla sulle camelie
tornerò a trovarvi presto
Ieri sul filo spinato si sedeva imenottero rosso, l’ho avvicinato con timore con pudore – non ha battuto ciglio
gli ho dato un bacio in bocca.
Η θλιβερή πασιέντζα του Αϊχμαν
Δεν ξέρω τι γυρεύω εδώ
Το Έλεος δεν έχει μηχανή δεν έχει ούτε ένα τόσο δα γρανάζι κι εγώ ήμουν γραναζάκι πάντοτε μαθήτευσα να φέρνω τέλειους κύκλους να συμπλέκομαι μ’ άλλα γρανάζια μεγαλύτερα με -αν το θες- ιμάντες
Δεν ξέρω τι γυρεύω εδώ
Όταν ζυγίζεις τις ψυχές με την οκά μοιραία γίνεσαι μπακάλης -δεν θα ΄χες τύχη στα τεφτέρια μου- Δεν φταίει ο Βάγκνερ φταίει το θρόισμα δεν φταίν τα τραίνα φταιν τα κάρβουνα -από τι φτιάχνονται τα κάρβουνα;- φταίνε, σαφώς, τα δέντρα
Οι σοφιστείες μου σκαρφαλώνουν εύκολα μέχρι τη μεγάλη σοφιστεία: τον Θεό αν θες να τον κρεμάσεις – κρέμασ’ τον
ψευτοφονιά μου, τριτοδεύτερε
το ξέρω θα με χρειαστείς ίσως σε χίλια χρόνια όσο βαστά ένα Ράιχ όσο βαστά το μίσος μου εγώ θα είμαι εδώ για σένα.
Il triste solitario di Eichmann
Non so che ci faccio qui
La Pietà non ha motore non ha neanche un minimo ingranaggio ero anch’io ingranaggio minuscolo ho appreso a tracciare cerchi perfetti ad allacciarmi con altri ingranaggi più grandi con -se preferisci- delle cinghie
Non so che ci faccio qui
Quando pesi le anime all’etto è destino, sarai bottegaio -non avresti successo nei miei blocchetti- Non è colpa di Wagner è colpa del fruscio non è colpa dei treni è colpa del carbone -di cos’è fatto il carbone?- è colpa, certo, degli alberi I miei sofismi si arrampicano facilmente fino al grande sofisma: Dio se lo vuoi impiccare – impiccalo
caro finto assassino, farabutto lo so, ti servirò forse tra mille anni per quanto dura un Reich per quanto dura il mio odio io sarò qui per te.
Margaret Atwood, Negotiating with the Dead: A Writer on Writing, [Cambridge University Press, 2002] Virago: London, 2009, p. 152. ↩︎
Salmen Gradowski, Sonderkommando. Diario di un crematorio di Auschwitz, 1944, Carlo Saletti, Philippe Mesnard (a cura di), Marsilio: Venezia, 2021. ↩︎
Yiannis Stiggas, Sonderkommando, “Ο λευκός άγγελος”, p. 16-17. ↩︎
Entrambi provenienti da “… I never saw another butterfly…” – Children’s Drawings and Poems from Terezin Concentration Camp 1942-1944, Schocken 1987. ↩︎
Quando il 9 ottobre 2024 mi sono collegato su RaiPlay per seguire la cerimonia finale del Premio Strega Poesia, mi trovavo nello stato d’animo di chi si appresta a partecipare ad una veglia funebre: malinconia, generale disagio e il timore di rivedere amici e conoscenti in uno stato di profonda prostrazione. Non c’è infatti un luogo dal quale un poeta dovrebbe tenersi più alla larga di un palco in diretta nazionale. Le caratteristiche del Premio erano già state ampiamente riassunte nel corso della prima edizione. Sarebbe inutile ora stilare una lista dei pro e dei contro dei singoli libri finalisti; cercare tra loro un minimo comune denominatore; snocciolare le peculiarità dell’opera vincitrice.
Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: il Premio Strega Poesia esiste in quanto perfetto coronamento di un sistema editoriale che, per funzionare a dovere, richiede ingenti investimenti nell’ambito pubblicitario e della promozione. Il meccanismo stesso di selezione, che prevede in una prima fase la pubblicazione di una lista di più di cento libri “candidati”, incarna alla perfezione il desiderio delle case editrici di venire accostate, anche solo con la presenza nel listone, al prestigioso nome dello Strega. In effetti la lista dei candidati pre-dozzina è sempre più coincidente con quella dei libri di poesia pubblicati tout court in Italia.
Una delle caratteristiche che il neonato Strega Poesia ha cooptato dalla sua versione adulta di prosa è quella di nascere già ricoperto da una patina di polvere come tutte le cerimonie nazional-popolari che si svolgono a Roma, dove un tempo il papa consegnava l’alloro al poeta che ne avesse fatto espressa richiesta, e non è superfluo sottolineare che il Premio conserva un suo nucleo coriaceo locale (basti pensare che sette sui dodici membri totali del comitato scientifico sono nati nella Capitale). Da questo punto di vista, nessuna sorpresa per un premio come lo Strega che ha sempre avuto una tradizione familiarista, essendo di fatto legato ad un salotto letterario e ad un gruppo di lettori molto specializzati, uniti da un senso di cameratismo che è proprio delle specie protette.
La sorpresa non è stata molta nemmeno per quanto riguarda la vittoria di Stefano Dal Bianco con il suo Paradiso(Garzanti, 2024), un libro già ampiamente individuato come favorito dal momento della pubblicazione, essendo il Premio Strega Poesia anche una specie di premio alla carriera (si veda la vittoria di Vivian Lamarque nella prima edizione), ma prima di tutto una struttura di promozione solida e rodata per i grandi gruppi editoriali.
Tornando proprio alla questione della promozione, è curioso notare come al giorno d’oggi il tour promozionale di un libro possa impegnare un autore fisicamente e psicologicamente più di quanto non lo tenga impegnato l’esercizio vero e proprio della scrittura. Dirò forse una banalità quando dico che ormai non esiste in Italia una letteratura (e in particolare una poesia) che sopravviva soltanto attraverso la fruizione dei libri. È come se la promozione del libro fosse diventata essa stessa il centro dell’operazione culturale legata a quel libro specifico. Nel caso dei libri di poesia, poi, la faccenda assume spesso inquietanti tratti religiosi: la presentazione è il vero rito; il libro è lo strumento; l’autore il sacerdote. A volte immagino Rainer Maria Rilke a bordo di una Fiat 501 Torpedo partita da Duino che fiancheggia la costa adriatica, raggiungendo a sera la Feltrinelli di Venezia giusto in tempo per presentare le sue Elegie, e questa idea mi provoca un profondo imbarazzo.
Essendo ormai il ciclo vitale di un libro paragonabile a quello di alcuni piccoli molluschi invertebrati, ovvero circa tre mesi, è naturale che il sistema editoriale vigente sia improntato alla pubblicazione di più proposte possibili, lasciando poi alla selezione naturale il compito di scremare gli elementi deboli, facendo risaltare i sopravvissuti.
Il sistema dei premi letterari italiani, tra i quali lo Strega ricopre il ruolo di primus inter pares, sembra insomma aver garantito svariati benefici, tra cui spicca quello di creare un nesso solido tra produzione editoriale, già predisposta internamente verso le “opere da premio”, e il gusto del pubblico, avvalendosi di una fitta rete di mediatori. Uno di loro è Edoardo Prati, presente alla cerimonia di premiazione in quanto rappresentante della giuria dei giovani.
Prati è un ragazzo di 20 anni che conta mezzo milione di follower su Instagram e che svolge un lodevole ruolo nel mondo dell’intrattenimento legato alla letteratura, incarnando quasi fisiognomicamente la parte dello studente di lettere classiche.
Ma benché la principale caratteristica di Prati sia la sua giovinezza, si ha come l’impressione che gran parte del suo pubblico di riferimento sia quello dei quaranta-cinquantenni, ormai troppo lontani anagraficamente per comprendere a pieno la sua gimmick.
Fuoriuscendo dal campo delle ipotesi, è un dato di fatto che ormai gli editori di libri si siano in parte trasformati in editori di personaggi e per quanto riguarda l’Italia sarebbe anche possibile tracciare un’evoluzione di questo fenomeno facendolo partire dall’acquisizione da parte dei Fratelli Treves dei diritti di Gabriele D’Annunzio, ma non è questa la sede adatta.
Il fatto è che non esiste in Italia un pubblico di lettori abbastanza forte e folto da poter sostenere da solo la vitalità di un’opera letteraria sul mercato e spesso i libri di qualità, stando ai dati delle vendite, si fermano a poche centinaia di copie.
Incidentalmente, il giorno seguente la cerimonia dello Strega Poesia, mi sono trovato ad assistere alla proclamazione del Nobel per la letteratura sullo schermo del mio smartphone. La vittoria della coreana Han Kang mi ha portato a fare una di quelle riflessioni peregrine che si fanno di solito davanti al caffè la mattina.
Leggendo La vegetariana(Adelphi, 2016) mi sono chiesto cosa mancasse all’Italia per diventare un paese esportatore di letteratura, e cosa mancasse agli scrittori italiani in termini di internazionalità, carisma e forse qualità. Volendo per un momento attribuire al Nobel un’importanza che forse non riveste, è interessante notare che paesi come la Francia, dotati di un sistema editoriale in salute e di una buona risonanza internazionale, abbiano vinto negli ultimi venti anni ben tre volte il Nobel per la letteratura (in totale quindici volte dalla creazione del premio). Di contro l’Italia non vince il Nobel per la letteratura da ventisette anni; la letteratura italiana pare esprimere timidi tentativi di radicamento all’estero (è il caso di Elena Ferrante negli ultimi anni) e sembra che nessun premio letterario italiano sia improntato ad una libertà dai vincoli di amicizia e contiguità, né che sia capace di selezionare un livello di letteratura in grado di spostarsi all’estero con le proprie gambe, come accade per il premio Goncourt in Francia o per il Premio Pulitzer negli Stati Uniti. E questo qualcosa vorrà pur dire.
Per approfondire sul Premio Strega si consiglia la lettura di Caccia allo Strega di Gianluigi Simonetti (Nottetempo, 2023) e dell’articolo di Alberto Casadei pubblicato su Doppiozero intitolato Cosa manca ai premi letterari?.
In copertina: miniatura da Olao Magno, Historia de gentibus septentrionalibus, Liber XIII. De agricultura et humano victu, Cap. XXXVII. De ritu bibendi Septentrionalium populorum (1555).
Introduzione e traduzione dall’inglese a cura di Federico Rosati, secondo vincitore della Call for translators “Poesia e Lutto”.
Jan Verberkmoes è una poetessa, editor e ricercatrice statunitense. Originaria dell’Oregon, ha studiato all’Università del Mississippi, alla Bucknell University e in Germania. Ora vive in Colorado, dove frequenta un corso di dottorato in English and Creative Writing presso l’Università di Denver. Le sue poesie sono apparse in diverse riviste, tra cui Lana Turner: a Journal of Poetry and Opinion, Nashville Review, TheAdroit Journal, 32 poems, Ecotone e The Poetry Foundation. Nel 2021 ha pubblicato la sua prima raccolta poetica, Firewatch (Fonograf Editions), da cui sono tratti i testi qui tradotti.
La lettura delle poesie di Verberkmoes conduce a un intenso confronto con i recessi più porosi della memoria e dell’incertezza, che si manifestano quando ci si avventura in territori psicologici e fisici segnati dal trauma. Gli spazi bianchi permeano l’intera raccolta, come se cercassero di esprimere una repressione verbale, ma anche un rispettoso intervallo nel silenzio naturale della pagina di fronte a concetti indicibili. I termini in corsivo, come “now“, “then” e “the stars”, impostano un rapporto in continua evoluzione del narratore con il tempo e l’universo, mentre viene narrato il quotidiano e violento deterioramento della vita terrestre. Si delinea un tentativo di comprensione in un paesaggio fisico e mentale che è sia minaccioso che minacciato, e che si trasforma in un’elegia per un mondo e un sé che non sono ancora scomparsi, ma in pericolo di sparire.
Il termine ‘elegia’, che ricorre nel titolo delle tre poesie, non è da intendersi solamente nel senso di un componimento legato al congedo dalla vita materiale o al suo disfacimento, occasione per l’io lirico di sancire la propria presa di coscienza di fronte a una realtà in rovina. È importante osservare che il simbolismo delle due immagini naturalistiche presenti in Elegy as Conditionality: Hornets Building e Elegy as Hypothesis: Burning the boat (l’alveare e i calabroni; la balena e la barca) porta anche a una riflessione su dinamiche di tipo relazionale. Nel primo caso l’alveare è il risultato del duro lavoro e della sinergia tra le parti coinvolte; tuttavia, la sua distruzione, anche solo ipotetica, rappresenta un sogno infranto sia dalle circostanze esterne (“se l’alveare si disfa e la pera fa breccia nella carta grigia”) sia dalla negligenza dell’io lirico e del suo destinatario verso il pericolo imminente (“se avessi saputo che la casa sarebbe caduta ma avessi scelto di non / sentire”; “se io sospiro se tu non puoi sentire”; “se nessuno parla della breccia”). Nel secondo caso, viene sottolineata l’incapacità dell’io lirico e del destinatario di trasportare la barca in mare (“perché incapaci di risollevarla / in acqua”; “perché non sapevamo reggere il corpo”), l’incapacità di assistere alla sua disgregazione per poi darla alle fiamme, decretando così la sua fine in modo prematuro, pur di superare il dolore prima del tempo (“così bruciammo sulla pira il suo scheletro di legno perché / non sapevamo vederla marcire”).
In Elegy as Insistence: Bulls in a Field l’inquietudine delle prime due poesie e la loro disperata ricerca di significato sembrano invece placarsi. La soluzione pare emergere dal gesto solenne e definitivo del fratello anonimo che libera in un ruscello le ceneri della sorella , ultima traccia materiale e ricordo di lei. I tori che prima correvano senza sosta nel ‘campo’ della mente, turbandone la quiete, ora rimangono “bassi dietro i suoi occhi”, mentre egli si congeda definitivamente da quel che resta della sorella e trova pace in una fusione con lo spazio naturale circostante (“e i tori gemono cupi dalle loro teste d’incudine / mentre lui si immerge fino alle ginocchia nella corrente”). Se nei primi due componimenti il mondo naturale è associato a simboli di disgregazione e rimpianto, nel terzo si intravede la possibilità di ritrovare in esso un “luogo in cui poter dormire”. La soluzione sembra risiedere allora nel ricongiungimento panicocon la natura, un cammino che permette di superare l’inquietudine esistenziale in favore di un progressivo riconoscimento della propria esistenza come parte di un’essenza cosmica che trascende le vicende umane.
Da Firewatch, 2021
Elegy as Hypothesis: Burning the boat
If there is a now this must be it which I think is why this sand-matted tuft of kelp crisps in the winter sun just like the varnish curling from the side of the boat we burned on the beach because we could not lift it back to the water because the tide would not carry it but the boat more than anything was a whale when it held us in the dark piano of its fat and wood cords and padded bones that rang the water once and over and over and so we lit the pyre of its planked frame because we could not bear to watch it rot because we could not bear the body and the ocean reaching and receding would not hold and only then did I see there is nothing more grand than an animal burning the hull of its belly falling open to a blackened spindle and when I say animal that includes you too which must be my way of suggesting weren’t you in flames fighting your way out of your own skin until you fell into the sound where the whale ripped the seam between water and sky a sky that now dims as I search it for a then that will show me our boat again on a water that ripples when the whale clenches the way the skin of the face rides the muscle underneath but never splits
Elegia come Ipotesi: Bruciare la barca
Se c’è un ora deve essere questo ragione per cui questo ciuffo di alghe insabbiato si increspa al sole invernale come i riccioli della vernice sul fianco della barca che bruciammo sulla spiaggia perché incapaci di risollevarla in acqua perché la marea non l’avrebbe sostenuta ma la barca più d’ogni altra cosa era una balena quando ci teneva nel suo scuro piano di cordegrasse e lignee, di ossa piene che battevano sull’acqua un tempo e ancora e ancora così bruciammo sulla pira il suo scheletro di legno perché non sapevamo vederla marcire perché non sapevamo reggere il corpo e l’oceano che avanzava e si ritirava non avrebbe retto e solo allora vidi che non c’era nulla di più grandioso di un animale in fiamme lo scafo del suo ventre che si apre su un fuso annerito e quando dico animale parlo anche di te e deve essere il mio modo di suggerire che forse eri tu in fiamme a lottare per uscire dalla tua pelle fino a sprofondare nel suono dove la balena strappò la cucitura tra acqua e cielo un cielo che ora si oscura mentre lo scruto per trovare un allora che mi mostri la nostra barca ancora su un’acqua che s’increspa quando la balena si contrae così come la pelle del viso scorre sul muscolo sottostante ma non si stacca.
Elegy as Insistence: Bulls in a Field
There is only morning it shimmers and shifts into bodies into beasts into the man sleeping now waking in the damp grass a jar of ashes at his side and the bulls still running loose though tired inside his skull they ram here and there against its walls as last night’s star-smeared sky spreads clean now and flat over him jar in hand he walks toward the spring creek its water draws a cold thrill through the meadow and the bulls groan dark from their anvil heads as he wades knee-deep into the current he remembers the ashes back into his sister when she told him loss is no more one thing than the sky is one thing the pasture behind her eyes lay wide and empty and looked like a place he could sleep he tips the jar and lets the ash fall into the stream and the cold rolls over in its bed over over until she’s neither ash nor water the stars the stars the bulls low behind his eyes he forgets about the stream and the meadow and nothing could be so empty as the jar in his hands
Elegia come Insistenza: Tori in un campo
C’è solo il mattino brilla e si trasforma in corpi in bestie nell’uomo che dorme e ora si sveglia nell’erba umida un’urna di ceneri al suo fianco e i tori che corrono ancora liberi anche se stanchi dentro il suo cranio si scagliano qua e là contro le pareti mentre il cielo stellato della scorsa notte ora si stende terso e piatto su di lui con l’urna in mano cammina verso la sorgente del ruscello la cui acqua trascina un brivido freddo attraverso il prato e i tori gemono cupi dalle loro teste d’incudine mentre lui si immerge fino alle ginocchia nella corrente rimembra le ceneri di sua sorella quando gli disse la perdita non è una cosa sola più di quanto non lo sia il cielo il pascolo dietro gli occhi di lei si stendeva ampio e vuoto e sembrava un luogo in cui poter dormire inclina l’urna e lascia che le ceneri cadano nel ruscello e il freddo si rigira nel suo letto ancora ancora finché lei non è più cenere né acqua le stelle le stelle i tori bassi dietro i suoi occhi lui dimentica il ruscello e il prato e niente potrebbe essere più vuoto dell’urna che porta.
Elegy as Conditionality: Hornets Building
when a hornet nest swells in the pear tree with a pear at the hive’s green center if the hornets swaddle the pear in grey paper over paper until it cannot see and cannot hear for the humming if the pear begins to rot before it can say when the hive grows heavy with quiver and grit and the tree begins to fall patiently like a house going to ruin if the pear is the last door to the house if I fall inside the house as it sighs and kneels if I sigh if you cannot hear when the house is ruined and you cannot say if the hive unravels and the pear breaches the grey paper if no one speaks of the breach if the hive was made by hundreds of mouths when the hornets knew the pear would rot in the hive but could not see to leave if I knew the house would fall but would not hear if you pull the pear from its limb if I go dark when it is so dark I can only see how it could have been if you hum as you leave when I fall if I was made by your mouth
Elegia come Condizionalità: I calabroni costruiscono
quando un nido di calabroni si gonfia nel pero con una pera al centro verde dell’alveare se i calabroni avvolgono la pera in carta grigia su carta finché quella non può vedere né udire per il ronzio se la pera inizia a marcire prima di poterlo dire quando l’alveare si fa pesante di fremito e sabbia e l’albero inizia a cadere paziente come una casa in rovina se la pera è l’ultima porta di casa se io cado dentro la casa mentre sospira e si inginocchia se io sospiro se tu non puoi sentire quando la casa è distrutta e non lo puoi dire se l’alveare si disfa e la pera fa breccia nella carta grigia se nessuno parla della breccia se l’alveare fosse fatto da centinaia di bocche quando i calabroni sapevano che la pera sarebbe marcita nell’alveare ma non riuscivano ad andarsene se avessi saputo che la casa sarebbe caduta ma avessi scelto di non sentire se stacchi la pera dal suo ramo se mi spengo quando è così buio che posso vedere solo come sarebbe potuto essere se tu ronzi mentre te ne vai quando cado se fossi fatta dalla tua bocca
Introduzione e traduzione dall’inglese a cura di Chiara Liso, vincitrice della Call for translators “Poesia e Lutto”.
La storia semantica della parola amuk è intrinsecamente legata a quella dei soprusi del colonialismo. Se in indonesiano e malese il termine sta a indicare il sentimento e l’atto di collera, a partire dal sedicesimo secolo si diffonde l’inesatta interpretazione che i coloni europei danno del vocabolo, ovvero di una condizione di furia violenta e omicida diffusa in alcune culture dell’Asia sudorientale. È proprio in questa traduzione erronea che si cela il pretesto per giustificare la criminalizzazione e sottomissione di intere popolazioni, l’accaparramento di terre e la distruzione di ecosistemi. A tutt’oggi, il lascito coloniale di talemistraduzione è cristallizzato nell’espressione idiomatica inglese to run amok con cui si denota la perdita del raziocinio.
Amuk è anche, significativamente, il titolo della terza e ultima silloge poetica di Khairani Barokka, scrittrice, traduttrice e artista interdisciplinare nata nel 1985 a Giacarta e attualmente residente a Londra. Pubblicata nel marzo 2024 dalla casa editrice indipendente britannica Nine Arches Press, la raccolta si dipana lungo il filo di un’acuta riflessione sulla violenza perpetrata sul e dal linguaggio. La poesia di Barokka si offre, al contempo, come antidoto a qualsivoglia forma di tirannia, nel segno della riappropriazione dell’etimo originario di amuk e della rivendicazione, spiccatamente anticoloniale e femminista, della liceità della rabbia e della sua ancestrale sacralità. La scrittura poetica diventa, dunque, luogo d’elezione per l’elaborazione del lutto, personale e collettivo, e la celebrazione del resistere – di individui e comunità, di lingue e paesaggi – a ogni tentativo di dominazione e distruzione.
Si tratta di un libro, come la stessa autrice dichiara nei ringraziamenti finali, che reca l’impronta sia del dolore della perdita degli affetti che della furente solidarietà con i sopravvissuti e le vittime dei genocidi contemporanei, dalla Palestina al Papua, dal Sudan al Congo, eccidi che hanno come matrice comune il capitalismo coloniale (Barokka 2024: 105). La vena elegiaca pervade soprattutto la seconda delle due sezioni che compongono il volume, intitolata «doa», parola indonesiana di origine arabo-islamica che significa ‹preghiera›.
Come sostiene il critico Jahan Ramazani, introdurre la preghiera musulmana nella poesia di lingua inglese significa sintonizzare un linguaggio letterario saturato dal cristianesimo con l’esperienza discorsiva del mondo islamico (Ramazani 2013: 175). La ritualità e il linguaggio religiosi non vengono svuotati del loro significato divino, bensì la retorica della preghiera si intreccia con la tensione estetica e l’autoriflessività del genere poetico. Inoltre, sebbene profondamente radicati nella tradizione religiosa dell’Islam, i componimenti di questo ciclo delineano, allo stesso tempo, una liturgia ibrida portatrice di un messaggio di lotta e resistenza. Così recita icasticamente un verso della poesia di apertura: «amuk is a prayer» (Barokka 2024: 69).
Quattro poesie da amuk (Nine Arches Press, 2024)
withstanding is a prayer
pain is a prayer, the soulbody screeching it asks for help in the guise of fire
amuk is a prayer is a word that prays and is itself a unit of asking
prayer is a form of rage while you rage, remember to keep the truth within these arms: [ ]
il resistere è una preghiera
il dolore è una preghiera, il corpoanima stridente chiede aiuto in guisa di fuoco
amuk è una preghiera è una parola che prega è in sé unità di richiesta
la preghiera è una forma di rabbia mentre ti arrabbi, ricorda di tenere la verità tra queste braccia: [ ]
tub
what digs you out with a verdigris scalpel, while a powerful blast ignited in their latest attempt to grow lives in the dirt of your online receipt, human blood carries all kinds of filigreed debris, coexisting with the coffin hinges from grotesquely groping eyes panoptic that brought you your morning kettle-hiss, faucet fiddling now, let loose, hotness coldness, piety, lust, bewilderment, supremacy writ into capital, rent hikes for men oiling hair with your rainforests, corners hiding gaspings for breath, a ladybug swatted away by a tank in gaza, a man with down’s syndrome killed with no consequences, violet memories of neuropathic pain still imprinted on your body you are soaking in a fluid warm enough to let it bleed out, breathe in, deliberately feel the edges of a ghost, the heart already drawn in pencil on your hospital radiator seven years ago, fuzzy twinges bear on your muscle feel these deliberate, you may not bathe in kind waters so lower your head below the surface, part your lips and scream it
vasca
cosa ti estrae con un bisturi verderame, mentre un potente boato innescato nel loro ultimo sforzo espansionistico vive nello sporco della tua ricevuta online, sangue umano trascina detriti filigranati di ogni sorta, coesistendo con le cerniere della bara dalle panottiche pupille grottescamente brancolanti che ti hanno portato il tuo mattutino fischio di bollitore, ora armeggiando con il rubinetto, lascia andare, caldo freddo, pietà, brama, perplessità, supremazia iscritta nel capitale, affitti rincarati per gli uomini che oliano i capelli con le tue foreste pluviali, angoli che celano respiri annaspanti, una coccinella spazzata via da un tank a gaza, un uomo con la sindrome di down ucciso senza conseguenze, ricordi violacei di dolore neuropatico ancora impressi sul tuo corpo a mollo in un fluido caldo abbastanza da dissanguarlo, inspira, senti deliberatamente i contorni di un fantasma, il cuore già disegnato a matita sul tuo radiatore ospedaliero sette anni fa, fitte sfocate pesano sul tuo muscolo sentile deliberate, non ti puoi bagnare in acque docili quindi china il capo sotto la superficie, schiudi le labbra e gridalo
prayer for dzikir as mnemonic device
still all your percussive orbits and soft-click a thumb to each third of each finger
praise how light work is, unshirking remembrance
vicissitudes plant grief in skin-pricks, out of the gasping sun climbs daybreak
crackling, cyclonic core tenets and ninety-nine names flooding back to thick bloodstream
memento mori, recuerda tu vida ingat, ingat ingat-ingat
preghiera per lo dzikir come espediente mnemonico
frena tutte le tue orbite percussive e schiocca lievemente il pollice su ogni terzo di ogni dito
ringrazia quanto leggero sia il compito, ineludibile il ricordo
le vicissitudini piantano il lutto in punture cutanee, dal sole ansimante spunta l’aurora
crepitando, ciclonici capisaldi e novantanove nomi ritraboccano in un denso flusso sanguigno
memento mori, recuerda tu vida, ingat, ingat ingat-ingat
dust ablution
spreading fingers against a wall then onto self, what cleansing’s reachable when spent, followed by what supposedly-holy movements can.
salvation comes from trying and wanting god as much as from calmer tendon stretch, from anti-affirmation of what,
to much of venal world, a good body should a good body can a good body best a best body as though heaven’s narrow-gauged
and god a headmistress rapping rulers against these many best bodies not marked so by others, against totalities given to her beneficence.
abluzione pulverale
dita distese contro un muro poi su di sé, quale purificazione è raggiungibile se a secco, seguita da ciò che movimenti presumibilmente sacri possono.
la salvezza viene dal provare e volere dio tanto quanto dall’allungare i tendini con più calma, dall’antiaffermazione di ciò che,
per gran parte del mondo venale, un buon corpo dovrebbe un buon corpo può un buon corpo meglio un corpo migliore come se i cieli fossero a scartamento ridotto
e dio una preside che scaglia la bacchetta contro questi tanti corpi migliori non marchiati così dagli altri, contro le totalità affidate alla sua beneficenza.
Giorgio Drago traduce dall’inglese alcune poesie di Maurice Kenny
Maurice Kenny è stato un poeta Mohawk. Nato a Watertown, New York nel 1929, viene considerato uno degli interpreti più importanti delle istanze politiche e culturali dei popoli nativi americani. Dopo una carriera di sessant’anni dedicata alla poesia e all’insegnamento, muore nel 2016 a Saranac Lake.
Come poeta, Maurice Kenny è stato attivo tanto nel contesto del movimento politico conosciuto come Red Power che in quello letterario della Native American Renaissance, di cui rifiuta l’etichetta, conscio che il termine “rinascimento” presuppone l’idea di una cesura nella tradizione della poesia nativa, di cui invece ha sempre valorizzato la continuità attraverso la sua dimensione orale. Nel corso della sua lunga carriera ha pubblicato innumerevoli raccolte. Le più significative sono state pubblicate dall’editore White Pine Press, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, quando una rinnovata consapevolezza rispetto alle proprie radici lo porta a rifondare il suo mondo poetico, inizialmente vicino alla poesia modernista americana dei suoi maestri Louise Bogan e William Carlos Williams. La gioia della riconnessione con un passato prima ignorato che traspare nella poesia più campestre, dove viene ristabilito un legame sano e organico tra l’uomo e la natura grazie alle tradizioni Irochesi, lascia spazio anche allo sgomento e alla tristezza, alla rabbia e al lamento per un mondo gravemente compromesso dalla violenza coloniale.
Autore del primo saggio e della prima lirica che descrivono in epoca contemporanea le figure tradizionali dei Two-Spirit, rispettivamente «Tinselled Bucks: A Study on Indian Homosexuality» e «Winkte», Kenny ha svolto un infaticabile lavoro di organizzazione e di insegnamento universitario che, insieme ai centinaia di reading annuali organizzati negli Stati Uniti e in Europa, è stato seminale per la creazione della nuova sensibilità scrittoria nativo-americana. In contatto con autori celebri come N. Scott Momaday, Leslie Marmon Silko e Paula Gunn Allen, Kenny non ha vissuto un grande successo editoriale, ma ha attirato l’attenzione dei colleghi e della critica, ottenendo l’American Book Awards (per The Mama Poems) e due nomination al premio Pulitzer per le raccolte Between Two Rivers e Black Robe: Isaac Jogues.
The Mama Poems e Blackrobe rappresentano due modi diversi di risalire alle radici, quello privato e quello storico-comunitario. Questo secondo filone è sviluppato in particolare in quello che Kenny stesso considerava il suo capolavoro Tekonwatonti/Molly Brant: Poems of War dove sono esplorate la violenza e le brutalità coloniali. Pur innestandosi su un apparato retorico ricco di sfumature e su ricerche storiche amalgamate da un poetico revisionismo, la raccolta tenta di far rivivere le antiche passioni e i veri moventi dei protagonisti della guerra franco-indiana e della rivoluzione americana. Il linguaggio rimane semplice e diretto, scandito da un verso libero proteiforme che si piega e si modella sulla voce dei vari personaggi del poema.
Da Tekonwatonti/Molly Brant: Poems of War, 1992
Molly: Report Back to the Village
“Leg blackened at the stump with blood
Fingers scattered through brush
Torso painted and jeweled
porcupine quills pretty beads
beads rolling off in a line
ants
scurrying from a foot;
torso split open a ripe pumpkin
entrails
hang/drip from rib cage
belly
Swath of black hair
blue
from clouds and river water
three feathers stir in the breeze
The head…
missing
kicked off into the brush
a ball
Name unknown/unsung there are many too many
Buzzards wait in the sky
Why do they call this the Indian war? It isn’t Indians who want rivers and land and more pelts to ship to kings or throats to pour whisky down.
Why? This is my report. That is all. Niaweh.”
Molly: rapporto di ritorno al Villaggio
“Gamba nera di sangue sul moncone
Dita sparse tra gli sterpi
Torso dipinto e ornato
aculei di porcospino
belle perline
perline che rotolano via in fila
formiche
scappano da un piede;
il corpo spaccato una zucca matura
interiora
penzolano/gocciolano dalla gabbia toracica pancia
Ciocca di capelli neri blu
di nuvole e di fiume
tre penne si spostano nella brezza
La testa…
mancante
calciata via tra gli sterpi una palla
Nome ignoto/ignorato ce ne sono tanti troppi
Poiane aspettano in cielo
Perché la chiamano la Guerra Indiana? Non sono gli indiani a volere fiumi e terra e più pellicce da spedire ai re, o gole per versarci il whisky.
Perché? Questo è il mio rapporto. È tutto. Niaweh.”
George Washington: “Town Destroyer”
Flames river the low valleys.
Their music crackles like a kettledrum.
Vines, stalks, orchards on fire.
Melons explode, apples spit sweet
juice
on broken boughs of dying trees.
Horseflesh and pig fume in the morning air.
Barns wither and topple as insane
cows
run wild, flames snorting out
their nostrils
and lambs bleat, their wool a coat
of fire.
Log huts and houses crumble beneath
the forest.
The valleys rise in smoke.
George Washington: “Distruttore di Città”
Fiamme inondano le basse valli.
La loro musica crepita come un timpano.
Viti, spighe, frutteti a fuoco.
Meloni esplodono, mele sputano dolce
succo
sui rami rotti degli alberi morenti.
Carni di cavallo e maiale fumano nell’aria del mattino.
Le stalle seccano e crollano mentre mucche
impazzite
corrono via, soffiando fiamme
dalle narici
e agnelli belano, la lana un manto
di fuoco.
Capanne di tronchi e case si sgretolano sotto
la foresta.
Le valli si alzano in fumo.
Molly
I wish never to live to see
another war.
I’ve gagged on flesh
and chocked on blood.
I’ve seen the bones of my brothers
float in the river,
smelled the stench of their rot.
My nostrils are clogged
with powder smoke.
My arms are weary from the
weight of rifles.
Villages are burned to the ground,
old men pierced on stockade posts.
Women and babies sleep on the
scars of bayonets.
Maggots infest the bed.
General George, town destroyer,
you have won.
Won and accomplished more in your
victory
than you ever dreamed.
Our blood is your breakfast.
The flames of your village smoke
the ham you carve and bring to your lips.
General George, leader of a new
country,
our stars are yours now,
but our blood stains your flag.
Remember we were once
powerful, a formidable nation
now on our knees.
Your hatred controls
our destiny.
May your nation never know
this unbearable loss, this pain,
this exodus from home, the smoking
earth,
the sacred graves of the dead.
I bathe in this river to wash
away the blood of war,
But no water can
wash away
the horrors tattooed
on my flesh.
I pray I shall never smell
the cannons of war again,
nor hear the cries,
nor see the body of a chief
mutilated by hate and fear
and greed.
As your stars, General George, rise
above the many battlegrounds
I want you to remember all those
who died
so that your flag may wave
in tribute.
Molly
Non voglio vivere tanto da vedere
un’altra guerra.
la carne mi ha asfissiato
e il sangue soffocato.
Ho visto le ossa dei miei fratelli
galleggiare nel fiume,
annusato il tanfo del loro putrefarsi.
Le mie narici sono occluse
dal fumo delle polveri.
Le mie braccia sono sfinite
dal peso dei fucili.
I villaggi sono rasi al suolo,
i vecchi impalati sulle palizzate.
Donne e bambini dormono sulle
ferite da baionetta.
Larve infestano il letto.
Generale George, distruttore di città,
hai vinto tu.
Hai vinto e ottenuto di più dalla tua
vittoria
di quanto non avessi mai sognato.
Il nostro sangue è la tua colazione.
Le fiamme del tuo villaggio affumicano
il prosciutto che tagli e porti alle labbra.
Generale George, capo di un nuovo
paese,
le nostre stelle sono tue ora,
ma il nostro sangue macchia la tua bandiera.
Ricorda che una volta eravamo
potenti, una nazione formidabile
ora in ginocchio.
Il tuo odio controlla
il nostro destino.
Possa la tua nazione mai conoscere
questa perdita insopportabile, questo dolore,
questo esodo da casa, dalla terra
fumante,
dalle sacre tombe dei morti.
Mi bagno in questo fiume per lavare
via il sangue della guerra,
ma l’acqua non può
lavare via
gli orrori tatuati
sulla mia carne.
Prego di non dover mai più fiutare
i cannoni di guerra,
né udire le grida
né vedere il corpo di un capo
mutilato da odio e paura
e cupidigia.
Mentre le tue stelle, Generale George, sorgono
sopra i tanti campi di battaglia,
voglio che ricordi tutti
i morti
così che la tua bandiera sventoli
in tributo.
Aroniateka/Chief Hendrick at the Battle of lake George
Mountain pool
eye of this woods
reflects
robin wing
smoke of war camps
the march of angry feet which
ruffle ripples
Here a birch bends
into the clarity
deer takes a drink
fish jumps for flies
Fed by freezing mountain creek
winter snows
young boys swim like brown trout
warriors canoe
women wash clean the innards of fish
for a hot supper
and a general bathes exhausted feet
Mountain pool
eye of this woods
reflects
eagle wing
perched on a pine
a lofty tower
for surveillance
Mountain pool
soon
will reflect
stains of blood
a young soldier’s broken dream
an old man’s scattered vision
reflect
an absent king’s crown
Pool
prism of tomorrow
fragments of history
twisting in the sun
Aroniateka/Capo Hendrick alla battaglia di Lake George
Lago di montagna
occhio di questi boschi
riflette
ala di tordo
fumo di accampamenti
la marcia di piedi rabbiosi che
rimestano increspature
Qui una betulla si piega
nel chiarore
il cervo beve
il pesce salta alle mosche
Nutriti dal gelido torrente di montagna
nevi invernali
ragazzini nuotano come trote
guerrieri pagaiano su canoe
donne puliscono viscere di pesce
per un pasto caldo
e un generale immerge piedi esausti
Lago di montagna
occhio di questi boschi
riflette
ala d’aquila
appollaiata su un pino
un’alta torre
di sorveglianza
Lago di montagna
presto
rifletterà
macchie di sangue
i sogni spezzati di un giovane soldato
lo sguardo sperduto di un vecchio
riflette
la corona di un re assente
Lago
prisma del domani
frammenti di storia
che si torcono al sole
Tekonwatonti / Molly Brant di Maurice Kenny
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