Su “Idillio occidentale” di Andrea Tisano

Nota di lettura a cura di Gianluca Furnari.

Idillio occidentale di Andrea Tisano è un esordio atipico, oscuramente apparentato a quel ramo di poesia isolana che ambisce a costruzioni poematiche complesse, riassemblando eventi e luoghi del presente intorno a nuclei epico-mitici ben definiti. A questo schema strutturale, che potrebbe ricordare Suite Etnapolis (Interlinea, 2019) di Antonio Lanza, anch’esso prosimetro, corrispondono in Tisano una forma strabordante e un plurilinguismo estremo di marca ipercolta, che innesta morfemi, parole, periodi in lingue diverse — greco, latino, francese, inglese, tedesco, etc. — su un sostrato d’italiano letterario: ne derivano una «fitta selva / di parole», «un mare / rotto, tra le quasar», in cui «si sversi il segno, il soma, il sema, il semantema, / il sogno, un simbolo di lira consumata / a forza di passarla tra le dita» (p. 4), atti a rappresentare una realtà più metamorfica che fluviale.

Nel complesso l’opera evoca una lunga catabasi nella storia collettiva o nel «magma / favillante» (p. 17) di un oscuro ego mitico: tale è, ad esempio, il Ninfoletto del terzo componimento — «il suo nome è una finzione, una funzione, ve l’ho detto / che è da un’altra parte» — (p. 17). Che assuma le sembianze di una passeggiata in provincia o di un viaggio in autobus, tra i volti di un’umanità piagata e sfruttata — «salivamo io e loro, quattro neri, e pure il cieco / (la negra terra non dicitur), quattro sgangherati» — (p. 15), o più propriamente quella di un’odissea cittadina — tra «i giri della periferia», «le linee scure dei palazzi, i marmi di meringa» (pp. 17-18) — in ottemperanza a una duplice vocazione urbano-agreste che risale agli Idilli teocritei, la catabasi si apre però a frequenti sbocchi in superficie come a visioni di panica solarità e/o ad accessi di disciplina metrica: «Polverosamente sfolgorando il sole / con il suo bacinio di bianche lame / le pozze liquefatte di catrame, / che l’aria sfilacciando sbruma in veli, / mulinava nel torbido livore / del fitto suo sentiero palpebrale» (p. 20).

Comune alla maggior parte dei testi — cinque in tutto, più uno introduttivo — è l’affiorare di monumenti, documenti, fabulae e aneddoti sulla storia della Magna Grecia, dal siracusano tempio di Apollo alla Villa del Casale, dal De rebus gestis Rogerii di Goffredo Malaterra al Voyage en Sicile di Dominique Vivant Denon, passando per due entità mitiche fisicamente e onomasticamente sfigurate come Ninfoletto e Tifeone, «la bestia che sopita dalla crosta / dei campi annerati di Flegrea insozza / (una febbre da tifo, una schifezza) / i sacchi affocati di monnezza» (p. 14); ultimo della serie, l’Empedocle suicida del quinto componimento, un quasi-sonetto che fissa provvisoriamente la meta del viaggio nel «cuore sepolto delle cose» (p. 24).

Accusando il contrasto tra le «belles et grandes idées» (p. 7) sul passato e l’endemica infezione di ogni epoca storica, di cui la cronaca di Denon offre testimonianza, Idillio occidentale trova il suo orizzonte di senso in un’archeologia linguistica che non si limita a polverizzare la realtà, ma ne raccoglie frantumi, lapsus e abbagli con laboriosa dedizione, raggiungendo i suoi esiti migliori quando lo sperimentalismo funambolico si coniuga a un ruvido e allucinato lirismo: «un Parnaso privato strinse le tue mani / e sopra turbinavano le stelle / le lentissimamente» (p. 22).


[…] E poi dalla tua bocca, e poi dai tuoi capelli, saltano
le tigri, le pantere (l’occhio di zaffiro), saltano gli arbusti
i daini alla maggese, brillano i delfini, e l’onda sfalda un quadro
(realistico) di vera vita agreste (signorile), di fisica dei moti,
di moto delle braccia. Poi il rosso che è nascosto sotto il nero, segrete mulattiere
di mulatti, secreti neuronali, poi la villa ed i palazzi
abbandonati, poi giù tutta la balistica del cuore e poi
ciò che non c’è non resta, e poi –
E poi di troppa luce, noi, si sa, si muore.

Sole di mezzanotte: Alejandra Pizarnik e la sua sete sacra.

Introduzione e traduzioni dallo spagnolo a cura di Roberta Truscia.

Estratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960)

Ne Il ponte sognato, primo volume dei suoi diari, Alejandra Pizarnik nomina la parola “equilibrio” solamente tre volte: il 7 luglio 1955,quando immagina facetamente gli elementi di un’opera tra i cui personaggi inserisce anche un vaso “senza base che mantiene l’equilibrio grazie a un ventilatore”; il 27 luglio dello stesso anno, quando Alejandra si domanda se non sarà l’equilibrio psichico della sua collega d’Università la causa della repulsione che prova nei suoi confronti. Infine il 3 gennaio 1959, quando, per la prima volta, associa la parola equilibrio a sé stessa, ma non come qualcosa che le appartenga e disprezzi, come nel caso della sua collega, bensì come il nuovo oggetto del suo desiderio. “C’è, tuttavia, un desiderio di equilibrio. Un desiderio di fare qualcosa con la mia solitudine.” Dalle prime due date all’ultima sono passati quattro anni e Alejandra è ora una ragazza di 22 anni che ha pubblicato tre raccolte poetiche, ha aspirato (e aspira) a scrivere un romanzo, ha abbandonato la carriera universitaria, ha intrapreso e sospeso la terapia psicoanalitica e l’anno successivo si trasferirà a Parigi, dove potrà finalmente “diventare quello che già è”: la più grande poetessa argentina del suo tempo. Tuttavia, la strada verso l’affermazione non è battuta, è piuttosto un sentiero che si snoda lungo la sua angoscia esistenziale, il desiderio ardente di scrivere, la solitudine sofferta, la notte. Lungo la sua strada non c’è spazio per la parola “equilibrio”, perché Pizarnik ha familiarità con le notti polari alla ricerca del sole di mezzanotte. Ricorre, invece, la parola “ponte”: Alejandra si strugge infatti per quel ponte invalicabile tra il desiderio e la parola, e l’immagine rimanda al suo essere sempre al confine tra la veglia e il delirio. In questo caso, non appare molto chiaro verso quale direzione lei scelga di attraversare il ponte, perché il delirio è solitudine e profondo malessere, mentre la veglia rappresenta la loro fine. La veglia significa conformarsi a una vita priva di poesia; il delirio, invece, ne è la base. Il ponte rappresenta anche la ricerca stessa della parola che incarna la poesia, l’infinito oltre ogni limite. Perché, se Alejandra conosce precocemente la sensazione di sradicamento dal mondo, precoce è anche la certezza che l’unico mondo degno di essere vissuto sia la Poesia, non mera sostituzione di quello esistente, ma una realtà a sé stante.

Non è l’equilibrio tra le parti quello che interessa Alejandra, ma l’attraversamento, un appagamento completo della sua “sete sacra”. Essa non è sacra solo perché nella sacralità della poesia ricerca il suo appagamento, ma perché rappresenta la fonte della sua vita, ciò che la scuote o la lascia immobile, perfino quando manca di un oggetto concreto.

I diari includono punte altissime di voli spirituali, passi caratterizzati da un’immaginaria e ingegnosa lucidità, le aspirazioni degne di ammirazione e le degradanti, rappresentando la trascrizione di quella sete sacra della quale percepiamo i due effetti complementari: il mysterium tremendum et fascinans. E noi lettori, dopo aver letto Il ponte sognato, avremo un po’ della stessa sete.


I testi qui pubblicati sono tratti da Il ponte sognato, Diari vol. 1 (1954-1960), pubblicato nel 2022 dalla casa editrice La Noce d’Oro.

23 de septiembre 1954

Un nuevo día llegó
pleno de sol y de sombras
un nuevo día llegó
a enquistarse en mi hondo caudal señero
el nuevo día es torneado
e insulso
día sin soplo ni dicha
es un sábado verde molido
en la nada
es un sábado deshecho en la vertiente del vacío.

23 settembre 1954

Un nuovo giorno è giunto
pieno di sole e d’ombre
un nuovo giorno è giunto
per arginare il mio profondo flusso solitario
il nuovo giorno è tornito
e insulso
giorno senza soffio né gioia
è un sabato verde tritato
nel nulla
è un sabato sciolto nel versante del vuoto.

5 de julio 1955

Heredé de mis antepasados las ansias de huir. Dicen que mi sangre es europea. Yo siento que cada glóbulo procede de un punto distinto. De cada nación, de cada provincia, de cada isla, golfo, accidente, archipiélago, oasis. De cada trozo de tierra o de mar han usurpado algo y así me formaron, condenándome a la eterna búsqueda de un lugar de origen. Con las manos tendidas y el pájaro herido balbuceante y sangriento. Con los labios expresamente dibujados para exhalar quejas. Con la frente estrujada por todas las dudas. Con el rostro anhelante y el pelo rodante. Con mi acoplado sin freno. Con la malicia instintiva de la prohibición. Con el hálito negro a fuer de tanto llanto. Heredé el paso vacilante con el objeto de no estatizarme nunca con firmeza en lugar alguno. ¡En todo y en nada! ¡En nada y en todo!

5 luglio 1955

Ho ereditato dai miei antenati l’ansia di fuggire. Dicono che il mio sangue sia europeo. Io sento che ogni globulo proviene da un punto diverso. Da ogni nazione, da ogni provincia, da ogni isola, golfo, collisione, arcipelago, oasi. Da ogni pezzo di terra o di mare hanno usurpato qualcosa e così mi hanno formato, condannandomi all’eterna ricerca di un luogo d’origine. Con le mani tese e l’uccello ferito balbuziente e sanguinante. Con le labbra espressamente disegnate per esalare lamenti. Con la fronte strizzata a causa di tutti i dubbi. Con il volto anelante e i capelli che rotolano. Con il mio rimorchio senza freno. Con la malizia istintiva della proibizione. Con l’alito nero a forza di tanto pianto. Ho ereditato il passo esitante così da non stabilirmi mai in nessun posto. In tutto e in niente! In niente e in tutto!

1 de agosto 1955

Luz de la mañana embebida en los ruidos cotidianos. Los ojos vueltos del sueño perciben asustados aún la Realidad que los sacude. Siento mi despertar como una adhesión de una hoja a «su» árbol, como mi volver a pegarme a la rama que me agitará arbitrariamente. Silencio de hoja matutina sin voz para sollozar la infamia de su inepcia. Silencio de tensión erguida en la sien del árbol. La hoja se agrieta al desmenuzar los días. El sueño lejano resuelve su espera en un rincón inhallable. Mis ojos que se agrandan confiados en el reconocimiento de los objetos cotidianos.

Despierto cansada y fría. La toma de posesión de una «libertad» exterior tan duramente lograda es triste. Pienso en mi vida condensada en un eterno intento de escudriñar mi yo. Libros y más libros. Hay momentos en que desaparece la esencia del libro, quedando solamente su ridículo cuerpecillo. Me veo entonces acariciando nebulosas hojas de papel y me pregunto si valen lo que una mirada humana. Me retuerzo en el interrogante axiológico. Pero ¡no necesito respuesta! Continúo leyendo; paulatinamente, desaparece el físico del libro. Me convierto en el receptáculo de su alma. (¡Oh, amo los libros!) Cada minuto que transita señala mi elevación.

1 agosto 1955

Luce mattutina impregnata nei rumori quotidiani. Gli occhi, gonfi dal sonno, temono ancora la Realtà che li scuote. Percepisco il mio risveglio come l’adesione di una foglia al “proprio” albero, come se stessi di nuovo aderendo al ramo che mi agiterà arbitrariamente. Silenzio di foglia mattutina a cui manca la voce per piangere l’infamia della propria inerzia. Silenzio di tensione eretta sulla tempia dell’albero. La foglia si incrina sminuzzando i giorni. Il sogno lontano risolve la sua attesa in un angolo introvabile. I miei occhi si ingrandiscono fiduciosi quando riconoscono gli oggetti quotidiani.

Mi sveglio stanca e fredda. Prendere possesso di una “libertà” esteriore, così duramente conquistata, è triste. Penso alla mia vita condensata in un eterno tentativo di esaminare il mio io. Libri e ancora libri. Ci sono momenti in cui l’essenza del libro scompare e rimane solo il suo ridicolo corpicino. Ecco che, a quel punto, accarezzo confusi fogli di carta e mi chiedo se valgono quanto uno sguardo umano. Mi contorco nel quesito assiologico. Ma non ho bisogno di risposte! Continuo a leggere; l’oggetto sparisce gradualmente. Mi trasformo nel contenitore della sua anima (Oh, amo i libri!) Ogni minuto che passa segna la mia elevazione.

Febrero 1956

VERANO

tanto miedo Alejandra
tanto miedo
la nada te espera
la nada
¿por qué temer?
¿por qué?

por más imaginación que tenga
no puedo esbozar la muerte
no puedo pensarme muerta
¿he de tener esperanzas?
¿he de ser eterna?
¿qué es entonces este vacío que me recorre?
¿qué es entonces la nada que camina por mi ser?
Sólo sé que no puedo más

siento envidia del lector aún no nacido
que leerá mis poemas
yo ya no estaré

Febbraio 1956

ESTATE

tanta paura Alejandra
tanta paura
il nulla ti attende
il nulla
perché temere?
perché?

pur avendo immaginazione
non riesco ad abbozzare la morte
non riesco a pensarmi morta
devo avere speranza?
devo essere eterna?
cos’è allora questo vuoto che mi percorre?
cos’è allora il niente che cammina nel mio essere?
So solo che non ne posso più

sento invidia del lettore non ancora nato
che leggerà le mie poesie
e io non ci sarò

14 de noviembre 1957

Un loco desflora a una flor. La flor da a luz una muchacha y luego muere. La muchacha queda herida por una carencia innombrable que aumenta hasta la locura cuando se enamora del león más inteligente de la selva. (El león es una especie de Sr. Nadie disfrazado de Todo… o viceversa.)

Vagidos, llanto. Y un estar siempre al borde de, pero nunca en el centro.

Anhelos de lo anhelado, de lo jamás anhelado.
Hermana estrella: soy Alejandra. Buenas noches.

Un pájaro sale a buscar la inocencia y vuelve muerto debajo de sus alas. Campanas en los bolsillos de la noche.

14 novembre 1957

Un pazzo deflora un fiore. Il fiore dà alla luce una ragazza e poi muore. La ragazza rimane ferita da una mancanza innominabile che aumenta fino alla follia quando si innamora del leone più intelligente della selva. (Il leone è una specie di sig. Nessuno mascherato da Tutto… o viceversa).

Vagiti, pianti. E un essere sempre sull’orlo di, mai al centro.

Desideri di ciò che è desiderato, di ciò che mai fu desiderato. Stella sorella: sono Alejandra. Buonanotte.

Un uccello esce a cercare l’innocenza e torna morto sotto le sue ali. Campane nelle tasche della notte.

Copertina de Il ponte sognato di Alejandra Pizarnik
Alejandra Pizarnik, Il ponte sognato, Diari Vol. 1 (1954-1960), traduzione Roberta Truscia (2022, La Noce d’Oro)

Su “Previsioni sull’arrivo del caos” di Lorenzo Chiereghin

Nota di lettura a cura di Simone De Lorenzi.

Lorenzo Chiereghin giunge alla quinta raccolta, Previsioni sull’arrivo del caos (Nulla Die 2021), proseguendo le principali tematiche di fondo dei libri precedenti e consolidando un linguaggio divenuto ormai riconoscibile. Le sue poesie evitano dissestamenti e ornamenti superflui: la materia, a dispetto del titolo e del contenuto, non è caotica ma viene ricondotta con sapienza entro i limiti di una sintassi piana. Questa asciuttezza stilistica viene però riscattata, sul piano contenutistico, dalle scelte lessicali che si addensano a comporre diversi nuclei semantici.

 A partire da Dante e Vittorio Sereni – dalle citazioni incipitarie e negli echi disseminati lungo il testo – si delinea una situazione che, in un certo senso, richiama una dimensione di limbo protratta poi per tutta l’opera. Il poeta compie un viaggio che prende le mosse dalla catabasi dantesca, ma a differenza di questa non ha mete da raggiungere: rimane bloccato in una statica attesa che anzitutto è sospensione dal tempo presente. Interessante poi che Chiereghin, sebbene lo spunto dell’attualità non esaurisca le motivazioni sottostanti alla poetica del libro, scriva la maggior parte delle poesie durante la pandemia.

Davanti a questo destino fatale, emerge come già in Giovanni Giudici la polisemia della «fortezza»; e dove il lessema «fortezza» assume il significato di prigione, allora la condizione di recluso – la quale investe sia l’io poetante che il lettore – viene a coincidere con quella del dannato infernaleautore di «misfatti»caricato di «colpe» la cui entità resta ignota. Altrove la fortezza assurge a luogo inespugnabile nel quale rifugiarsi e perciò introduce uno scenario di battaglia. Qui entrano in gioco altri elementi affini che riguardano la disfatta, ci si aggira tra sfaceli di macerie – in un panorama orrorifico che gioca sulla dialettica tra buio e luce, con la presenza di ombre e spettri –, si assiste a un declino che, allo stesso tempo, è sia fisico che morale.

L’esito del viaggio non potrà che essere una resa. Il percorso si svolge lungo le soglie di un «confine» – non a caso il frammento sereniano posto in esergo proviene da Frontiera (1941) –, fino ad arrivare a quello estremo «del distacco»: la morte. In questo paesaggio dominato dall’ignoto o dall’assenza, la voce del poeta si richiude in afasia. Sono allora la memoria e la scrittura a venire in soccorso del poeta che, seguendo la lezione di Eugenio Montale, tenta di “riaprire” un varco verso la salvezza, pur consapevole della fragilità della funzione letteraria. Di questa precarietà è spia la riduzione di incursioni nel metaletterario rispetto alla raccolta precedente, quasi a non voler deviare il focus dalla materia trattata.

La salvezza qui inseguita corrisponde alla ricerca di uno scopo – processo che appare e scompare lungo tutta la raccolta, e si scontra con la vanificazione dei suoi tentativi. E forse proprio in ragione dell’impossibilità di accedervi c’è l’adesione a una «preferenza, in qualsiasi scritto, / dei significanti sui significati». Se alla fine non lo trova, «un senso», può però tentare di ricostruirlo «come l’ultimo / tentativo di non sprofondare»: in questi attimi, per quanto fugaci, è capace di aprire uno spiraglio di vitalità. La discesa agli Inferi non ci attende poi al solo momento del trapasso, ma è già prefigurata da vivi; e da qui verrebbe l’ambiguità contraddittoria del legame vita-morte, che determina nell’autore un’oscillazione tra speranza e disperazione.

Il tono di fondo è sconfortato, pessimista – e le rare volte che si alleggerisce pare farlo con ironia – ma non prende mai le derive del vittimismo: lungi dall’essere un lamento, il poeta compie un’analisi lucida del proprio stato interiore. L’abbondanza di particelle pronominali, di volta in volta riferite al “me” di chi parla, oppure a un “noi” o a un “tu” indefiniti, segnala la volontà di un interlocutore universale (da cui la sentenziosità che talvolta connatura certe frasi) che finisce per essere sempre, in un certo senso, il doppio di sé.


Vorrei avere ancora dei desideri
tendere al culmine indicibile
dove le sillabe hanno una cadenza
antica, dove i miraggi sfoggiano
un vivido corredo di molecole.
Vorrei ancora essere
vivo o solo essere, mi basterebbe
sfiorare quel tacito azzardo.

Undercover in eco: tre poesie di Maartje Smits

Introduzione e traduzioni a cura di Marco Prandoni, professore di lingua e letteratura neerlandese presso l’Università di Bologna.

Curiosa è la dedica con cui si apre la raccolta poetica di Maartje Smits (Soest, Paesi Bassi, 1986) “come ho inziato un bosco nel mio bagno” (hoe ik een bos begon in mijn badkamer, 2017): non a persone, ma “agli ecodotti che ho attraversato di nascosto”. Sono passaggi pensati per consentire agli animali di superare le barriere imposte da strade e ferrovie che frammentano i loro habitat e ne mettono a repentaglio la vita. Fin da subito viene introdotta una delle tematiche riccorrenti dell’opera: l’attraversamento di confini, materiali-fisici e mentali-culturali. Non è solo l’io lirico sulla carta a effettuare queste trasgressioni. In una performance video registrata nel 2016 a Den Dolder, nella provincia di Utrecht, assistiamo alla corsa di Maartje Smits, un corpo in corsa, con il seguente testo in sovrimpressione:

ik (mens) (vrouw) (dertig jaar)stak illegaal een ecoduct over

ik (mens) (vrouw) (dertig jaar)stak illegaal een ecoduct over

io (essere umano) (donna) (trent’anni)

ho attraversato illegalmente un ecodotto

Posizionata e situata nella sua esperienza di umana trentenne di sesso femminile, la performer-poeta prende la via che gli umani con le loro preoccupazioni ambientaliste hanno concesso agli altri animali. Lo fa illegalmente, perché spesso questi ecodotti, come le aree naturali protette, non sono accessibili agli umani, o solo in certi orari e a certe condizioni, per fini ricreativi. Dura è la critica ai tentativi, pur ispirati a una sensibilità ambientalista, di proteggere la natura legiferando su di essa, con sempre nuove definizioni che tracciano limiti e confini tra cultura e natura (selvaggia) e così facendo riaffermano discutibili gerarchie, su discutibili presupposti.

Quale sia l’atteggiamento per contro della poeta illegale e undercover rispetto all’ambientalismo in voga in modo ancor più esplicito nel testo “rompere un’area di riposo” (een rustgebied breken). L’irruzione compiuta in quest’area protetta è piratesca: è un’incursione compiuta per sfuggire ai rituali della domenica ed entrare in una dimensione altra, sulla strada percorsa dagli animali, mentre i fari delle automobili ricordano la presenza costante della tecnologia umana interconnessa in modo irreversibile a tutti gli spazi dei Paesi Bassi. È un’interconnessione (come la “rete”, mesh di cui parla Timothy Morton) a cui, volenti e nolenti, oggi non è più possibile sottrarsi.

Nella poesia che dà il titolo alla raccolta, il soggetto dà conto della propria confusione: come acquirente, sedotta dalle strategie del marketing ecosostenibile, come essere umano “senza giardino”, come ambientalista occidentale, che un inserviente surinamese ammonisce a non sottovalutare il potere della natura. La crisi è anche esistenziale, e sfocia in aperta nevrosi. La disperazione è però condivisa, nel sentire dell’io, dalle felci che ha acquistato le quali, lungi dall’assorbire lo stress (secondo lo slogan promozionale), acuiscono la crisi del soggetto che è spinto a una radicale autocritica: «come avevo potuto mai osare / distinguermi dalle piante». Nella seconda parte della poesia assistiamo a processi testuali di antropomorfizzazione delle piante e di ecomorfismo dell’umano: le radici penetrano pensieri compulsivi. È un tentativo, grazie alle risorse metaforiche del linguaggio poetico, di esplorare la frattura comunque abissale tra soggettività umana e il mondo oltre l’umano.

Non stupisce che nella raccolta gli animali compaiano anche in poesie (post)apocalittiche. Gli animali sono infatti spesso presenti in quest’immaginario, dal testo fondante dell’Apocalisse alla letteratura e al cinema modernisti, fino alla fantascienza, purtoppo sempre più realistica, contemporanea. Davvero notevole il contributo dato da Smits a quest’immaginario nella poesia “the last human” (de laatste mens). L’essere umano ha perso la sua presunta centralità planetaria, è sull’orlo dell’estinzione in un’apocalissi che è tale solo per la sua specie, non per il resto del mondo naturale. A differenza di Oryx and Crake di Margaret Atwood (2003), in Smits non c’è traccia di un “poi” post-apocalittico. Si limita a un’istantanea di un momento appena precedente la fine della parabola dell’umano: idealmente iniziata con l’australopiteca Lucy e, dopo milioni di “ominescenza”, per dirla con Michel Serres, arrivata al termine con questa donna, al cospetto di scimpanzé indifferenti.


da hoe ik een bos begon in mijn slaapkamer (2017)

Een rustgebied breken

stiekem enteren mijn vader en ik
een rustgebied

het hek is ontspannen en te laag
voor mensen met mountainbikes

thuis durven we niet
stil te zitten
dus wagen we de oversteek vast
besluiten aan deze zondag
te ontsnappen

in het stiltegebied steken snelweglichten
onder ons rauzen mensen naar huis
wegaanduidingen in een rijtje ontwortelde bomen

mijn vader en ik nemen de weg voor dieren
onze banden verdwijnen in het mulle zand
volgens een scherm op mijn stuur bewegen we
buiten de kaart en we moeten zo
aan tafel
aan de andere kant

Rompere un’area di riposo

di nascosto mio padre e io abbordiamo
un’area di riposo

la recinzione è rilassata e troppo bassa
per persone in mountain bike

a casa non osiamo
stare zitti
quindi ci lanciamo alla traversata
decidiamo di sfuggire
a questa domenica

nell’area di silenzio luci dell’autrostrada tagliano
sotto di noi la gente si precipita a casa
segnalazioni stradali in una fila di alberi sradicati

mio padre e io prendiamo la strada per gli animali
le nostre tracce scompaiono nella sabbia polverosa
secondo lo schermo sul mio manubrio ci muoviamo
fuori dalla carta e fra poco dobbiamo
sederci a tavola
dall’altra parte

Paesaggio naturale olandese
Hoe ik een bos begon in mijn badkamer

verleid door handzame varens in de supermarkt
tuinloze wezens zoals ik amper dorst maar
IKRA GROEN IS GOED
en kamerplanten zuigen stress

de varen bleek geen varen
een vrouw keek vrij en schoon van verpakking
ze ademde Luchtzuiverende Plantenmix®
getest door NASA en TNO

thuis hoorde ik

bomen praten ondergronds
over het weer
veranderde klimaat ze ruilen
schimmels met superpowers
storten kalmerende mineralen
op een huishoudrekening

één boom bestaat amper
één varen mag geen varen heten
ik kocht een tweede
een derde
ik kocht het hele laatste treetje
mix

tot de vulploegmedewerker mij vermaande
in Suriname moet je vechten tegen de natuur
anders neemt ze alles over
eerst tuin dan je huis je
bed je douchegordijn

maar bossen groeien tegenwoordig binnen
de lijntjes statische paddenstoelen langs de weg
is overwoekeren in Nederland nog wel een woord

hoe had ik me ooit van planten
durven onderscheiden
waar begon de mix en ik

zag mijn nauwelijksvarens vereenzamen
op de vensterbank
naast elkaar in kunststof aardewerk
waar alles op afketst
wortels die dwanggedachten ingroeien

mijn plantenmix huilde onder de douche
waar ik hun weke onderlijven ontpotte en begroef
in de uitgeknipte aarde

daarna droeg ik het overige
kamergroen naar boven

Come ho iniziato un bosco nel mio bagno

sedotta da comode felci al supermercato
esseri senza giardino come me a malapena sete ma
IKEA GREEN IS GOOD
e le piante da interno assorbono lo stress

le felci alla fine non erano felci
una donna dallo sguardo libero e pulito sulla confezione
respirava Piante Mix® per purificare l’aria
testato dalla NASA

a casa ho sentito

alberi parlare sottoterra
del clima
cambiato di nuovo scambiano
muffe con superpoteri
versano minerali calmanti
sul conto della casa

un albero solo esiste a malapena
una felce sola non merita il nome di felce
ne ho comprata una seconda
una terza
ho comprato tutto intero l’ultimo
mix di alberi

finché l’assistente mi ha ammonito
in Suriname devi combattere contro la natura
altrimenti ti prende tutto
prima il giardino poi la casa il
letto la tendina della doccia

ma al giorno d’oggi i boschi crescono dentro i bordi
funghi statici lungo la strada
infestare è ancora una parola in Olanda?

come avevo potuto mai osare
distinguermi dalle piante
dove è iniziato il mix e io

ho visto le mie a-malapena-felci isolarsi
sul balcone
l’una accanto all’altra in ceramica sintetica
su cui tutto rimbalza
radici che penetrano
pensieri compulsivi

il mio mix di piante ha pianto sotto la doccia
dove travasavo i loro molli corpi
e seppellivo
nella terra

quindi ho portato su il verde
da interno rimanente

De laatste mens

nu de arena opdroogt
nu een koufront over de tribunes klettert
nu schoothondjes gonzen

en wraakzuchtig loenzen naar
de laatste mens
een volwassen exemplaar
zij pronkt
haar melkklieren waar generaties in zijn verschrompeld

zelfs chimpansees hebben lang geleden
hun interesse verloren

dit is toch geen plek om uit te sterven
de laatste mens tekent hokjes in het zand
om zich thuis te voelen
ze kent alle namen van dieren en andere
begrippen die in onbruik zijn geraakt

The last human

ora che l’arena si dissecca
ora che un fronte di freddo picchia sulle tribune
ora che i cani da salotto sibilano

e vendicativi guardano storto l’ultimo
umano
un esemplare adulto
lei svetta
le sue ghiandole mammarie in cui generazioni si sono avvizzite

persino scimpanzé già tempo fa hanno
perso l’interesse

ma questo non è un posto in cui estinguersi
l’ultima umana disegna riquadri sulla sabbia
per sentirsi a casa
lei conosce tutti i nomi di animali e di altri
concetti caduti in disuso

Copertina di Hoe ik een bos begon in mijn badkamer di Maartje Smits
From: Hoe ik een bos begon in mijn badkamer. Copyright Maartje Smits and De Harmonie Publishers, Amsterdam 2017. All rights reserved.

Nella gabbia e oltre: tre poesie di Michèle Métail

Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Andrea Bricchi.

Michèle Métail, poeta francese nata a Parigi nel 1950, è un’autrice singolare e poco conosciuta persino in patria. Specialista di lingua e cultura tedesca, addottoratasi sulla poesia cinese, già dai primi anni settanta scrive poesie che si caratterizzano per una forte componente performativa e sperimentale. Proprio questa sua cifra la porta a entrare nell’OuLiPo, nel 1975, dopo aver catturato l’attenzione di uno dei due padri fondatori, François Le Lionnais, con un poema intitolato Compléments de nom.
Métail è fra i pochi membri femminili del gruppo, e introduce un numero consistente di contraintes (regole) in testi poi pubblicati nella collana de La Bibliothèque Oulipienne. Tra questi, costituiscono un caso interessante, anche per il loro effetto spesso umoristico, i suoi Portraits-Robots (cioè “Identikit”), ripubblicati di recente da les presses du réel. Si tratta di una serie di poesie i cui versi vincono la scommessa di delineare dei ritratti arcimboldeschi ponendosi una limitazione: impiegare solo espressioni ricavate dal lessico dell’ambito di cui fa parte il soggetto o il ruolo rappresentato. Il primo componimento che qui riportiamo, L’architecte, è solo un esempio di queste 102 prove di bravura lessicologica, che portano agli estremi le potenzialità della metafora, ricavando l’idea di base dall’attività meravigliosa – in senso barocco – e non priva d’ironia del celebre pittore milanese.
Se già poesie come queste pongono problemi non da poco al traduttore, poiché non sempre i termini di origine anatomica trapiantati nel lessico dell’architettura (per citare il caso specifico) trovano un esatto riscontro in italiano, le poesie-fotografie inserite in una particolare sezione di Toponyme-Berlin (Tarabuste, 2002) costituiscono una vera e propria sfida traduttiva. Ispirate alle misure del formato più comune delle fotografie (10×15), esse seguono con scrupolo la regola dei dieci versi da quindici lettere ciascuno (spazi e punteggiatura esclusi dal conteggio). Si intuisce allora come un certo “spirito oulipiano” sia rimasto una costante nell’attività dell’autrice anche dopo il suo volontario e cordiale allontanamento dal gruppo, avvenuto nel 1998. Tuttavia, sarebbe renderle un pessimo servizio ridurne l’opera all’abilità nell’uso delle contraintes; basti, come saggio della capacità impressionistica e della delicatezza di visione di Métail, la seconda poesia qui tradotta, che immortala una Berlino in procinto di scivolare sotto le coperte della notte.
L’ultimo testo è un estratto da Le cours du Danube, poema concepito come una ramificazione del più vasto Compléments de nom. Si tratta di una sequenza di complementi di specificazione, che scorrono proprio al pari d’un fiume, ritmati dall’introduzione – all’inizio d’ogni verso – di un nuovo sostantivo e dalla scomparsa dell’ultimo della serie. La risalita del Danubio è destinata ad arrivare alla Foresta Nera, certo, ma nel fluire delle parole Métail procede soprattutto a una straordinaria esplorazione del linguaggio e delle sue combinazioni, in un’opera che, nelle letture pubbliche che ne dà la scrittrice, suona magica e ossessiva come una litania.


da Portraits-robots (1987, 2019)

L’architect

TÊTE DE MUR
FIGURE D’UN BÂTIMENT
FACES DE L’ARCHITRAVE
FRONT D’UN MONUMENT
OEIL DE PONT
NEZ DE MARCHE
BOUCHE D’ÉGOÛT
MENTON À TRIPLE ÉTAGE
GORGE DE RACCORDEMENT
ÉPAULE DE BASTION
MAIN D’OEUVRE
CORPS DE LOGIS
TRONC DE COLONNE
COEUR DE LA VILLE
VEINE PORTE
JAMBE D’ENGOIGNURE
PIED DE L’ESCALIER

L’architetto

TESTA DI MATTONE
FACCIATA D’UN EDIFICIO
ARCHIVOLTO DI CATTEDRALE
FRONTONE D’UN MONUMENTO
OCCHIO DI BUE SULLA PORTA
PROFILO PER GRADINI
BOCCHETTA DI FOGNATURA
VOLTA A PADIGLIONE
COSTOLONE DI CUPOLA
FIANCO DI BASTIONE
MANO D’OPERA
CORPO DI FABBRICA
TRONCO DI COLONNA
CUORE DELLA CITTÀ
VENA PORTA
ASTRAGALO DI TEMPIO
PIEDISTALLO DEL FUSTO

da Toponyme, Berlin (2002)

écran soir et noir
le trajet fatigué
se signale sonore
riverain des rues
où la ville livrée
en photos banales
au virage, visages
s’effacent, mi-nuit
même des lumières
quand s’éteignent

13 décembre 2000 : retour en tram de Pankow

schermo sera nero
tragitti stanchi
rimbombano lungo
arenili di strade
e la città si offre
in scatti insulsi
alla svolta, volti
sbiaditi nel buio
poi la mezzanotte
soffoca ogni luce

13 dicembre 2000: ritorno in tram da Pankow

Da Le cours du Danube – en 2888 kilomètres/vers… l’infini (2018)

2883 la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire du poème de l’infini

2882 la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire du poème

2881 la solennité de la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité de l’anniversaire

2880 l’occasion de la solennité la cérémonie de la célébration de la quarantaine de l’annuité

2879 la voiture de l’occasion de la solennité la cérémonie de la célébration de la quarantaine

2878 le conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité de la cérémonie de la célébration

2877 le permis du conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité de la cérémonie

2876 la délivrance du permis du conducteur de la voiture de l’occasion de la solennité

2875 la préfecture de la délivrance du permis du conducteur de la voiture de l’occasion

2874 le chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis du conducteur de la voiture

2873 le canton du chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis du conducteur

2872 la confédération du canton du chef-lieu de la préfécture de la délivrance du permis

2883   la celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario del poema dell’infinito

2882 la cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario del poema

2881 la solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità dell’anniversario

2880 l’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale dell’annualità

2879 l’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione del quarantennale

2878 il conducente dell’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia della celebrazione

2877 la patente del conducente dell’automobile dell’occasione della solennità della cerimonia

2876 il rilascio della patente del conducente dell’automobile dell’occasione della solennità

2875   la prefettura del rilascio della patente del conducente dell’automobile dell’occasione

2874   il capoluogo della prefettura del rilascio della patente del conducente dell’automobile

2873   il cantone del capoluogo della prefettura del rilascio della patente del conducente

2872   la confederazione del cantone del capoluogo della prefettura del rilascio della patente

Su “Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo” di Tommaso Di Dio

Nota di lettura a cura di Federico Di Mauro.

Per Anne Carson, la scrittura poetica è imparentata con una speciale forma di estasi che coincide con la completa liberazione dalla forma. È la decreazione, a cui la poetessa canadese dedica pagine memorabili in Decreation, uno dei suoi libri migliori: «To be a writer is to construct a big, loud, shiny centre of self from which the writing is given voice and any claim to be intent on annihilating this self while still continuing to write». Chi potrà negarlo? Scrivere significa disfare la propria esperienza e la propria identità, tendere – non ingenuamente: con disciplina, concentrazione – a uno stato di radiosa e benefica non conoscenza, che per Carson, autentica greca tra i moderni, è la capacità di amare. Un vero e proprio sacrificio, che dalle scorie dell’identità fa nascere una forma più pura di esistenza non più di donna o uomo ma di creatura capace di amare.

La «decreazione», questo processo di annullamento creatore implicito nell’atto poetico, è al centro della ricerca poetica di Tommaso Di Dio e del suo ultimo Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo, edito dalla casa editrice d’arte Scalpendi nella collana «Assemblaggi e sdoppiamenti», che ospita testi sperimentali che esplorano le possibilità connesse alla scrittura poetica delle immagini. In questo libro, il poeta milanese raccoglie testi editi e inediti concepiti lungo tutto l’arco della sua attività poetica, dall’inizio degli anni Duemila a oggi. Tra i suoi libri ricordiamo: Favole (Transeuropa 2009), Tua e di tutti (LietoColle 2014) e Verso le stelle glaciali (Interlinea 2020).

Nove lame azzurre fiammeggianti nel tempo (d’ora in poi NLAFNT) è un’opera significativa sul piano editoriale, perché recupera e antologizza testi dispersi e in certi casi ormai irreperibili –pubblicazioni “minori” in antologie, riviste o siti, oppure plaquette senza ISBN completamente fuori commercio, come ad esempio Alla fine delle favole (Origini Edizioni 2016).

Le poesie si articolano in nove sezioni – da qui le «nove lame» del titolo – ordinate cronologicamente e intervallate da riproduzioni di fotografie reali, tratte dall’archivio familiare dell’autore (a eccezione della fotografia d’apertura del grande maestro siciliano Ferdinando Scianna, che fa storia a sé).

Come avverte l’autore stesso nelle note finali, NLAFNT costituisce la seconda parte di un trittico in formazione, avviato con la pubblicazione di Verso le stelle glaciali. In effetti le linee di continuità sono moltissime, sia dal punto di vista tematico che formale: come per i più importanti poeti della sua generazione, per Di Dio è la forma del libro, e non il singolo componimento o la silloge, il terreno dove si misura la tenuta e la novità di un’opera. Come ha efficacemente sintetizzato l’autore in una nostra conversazione milanese: se Verso le stelle glaciali era un attraversamento dello spazio, questo libro è un attraversamento del tempo. Di Dio lavora sulla forma dell’antologia, scavando al proprio interno un percorso che va dal riconoscimento della necessità del distacco e della separazione dalle proprie esperienze passate alla ricerca di una dimensione umana corale – ci ritorneremo.

Un’indicazione fondamentale sulla forma del libro ci viene fornita dall’epigrafe montaliana (la poesia è tratta dal Carnevale di Gerti delle Occasioni (1933): «È Carnevale / o il Dicembre s’indugia ancora? Penso / che se tu muovi la lancetta al piccolo / orologio che rechi al polso, tutto / arretrerà dentro un disfatto prisma». Un disfatto prisma è proprio il libro che abbiamo davanti: un libro solido, tagliato dentro una dura materia cristallina, ma eterogeneo, vario e sfaccettato – e soprattutto disfatto, sottratto a se stesso, come precipitato dentro la propria assenza.

Raccogliendo esperienze poetiche sparse negli anni, NLAFNT affronta un grande numero di temi connessi alla vita dell’autore. Le prime raccolte appaiono dominate dal tema dell’amore, inteso come forza inquietante e disgregatrice, che produce allontanamento, solitudine e reclusione dell’essere nella sua identità, come in questo testo anonimo risalente al periodo di Favole:

Fare l’amore fino a fare i figli. Addentrarsi
nella genuflessione. Dire prendo questo corpo
senza limiti; a furia di reni sfondare
il fondo cupo dei preservativi. La neve poi
che immerge ogni cosa. Palazzi, strade, ogni volto
oltre i fiumi immemorabili della storia.
oggi volevo fare l’amore con te. Oggi volevo
sbranare la paura di essere solo due
corpi finiti.

Questa dimensione maggiormente intimista delle prime raccolte, in cui è esibita una chiara traccia della poesia di Mario Benedetti, si apre nelle opere successive verso una più narrativa, che si distacca con maggiore coerenza dal registro della lirica. Nelle poesie più belle di questa stagione, l’autore riesce a bilanciare con grande abilità il resoconto vividissimo della propria esperienza e una dimensione collettiva, corale, fatta di un intreccio di voci e di storie. È il caso, ad esempio, della quarta sezione «Per il lavoro del principio», che racconta un soggiorno di due settimane nel reparto di neonatologia dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna.

Il narratore di queste poesie si aggira tra le stanze del reparto osservando con occhio partecipe e allo stesso tempo straniato l’atto della nascita. Nessun individuo nasce nel vuoto della creazione; venendo al mondo, ognuno di noi eredita frammenti di tempo che provengono da vite passate, vite che non sono la nostra, e che pure in qualche modo ci costituiscono. In modo indiretto, allusivo, viene dunque istituito un nesso tra la scrittura autobiografica e la rinascita: in entrambi i casi, chi scrive abbandona il proprio tempo, risale verso la matrice, verso l’origine “preindividuale” delle nostre vite – in quanto individui, ma anche in quanto specie.

Tu che sei nato
adesso. Tu che sei
nato prima del tempo, prima
del compimento biologico totale.
tu non sei solo. Sei già stato
accolto e protetto
deposto in teche, scaldato amato curato
affinché tutto di te
possa crescere bene.
Quando sarai grande, non dimenticare
questo campo intermedio, spazio
fra i mondi, ventre più grande
dove hai incontrato cento madri
e cento padri: braccia
ti hanno già amato anonime
perché tu possa un giorno
dirti vivo.

Il movimento verso una dimensione in qualche modo “preindividuale” dell’umano è il lavoro di una decostruzione, di una cancellazione progressiva dell’identità: questo scambiarsi di presenza e assenza, così come di nascita e morte, è pervasivo e innerva e dà sostegno a tutta l’opera. Il raggiungimento della pienezza, diremmo, passa attraverso un’opera di disfacimento che conduce a un gioioso spossessamento di sé. Un disfatto prisma potrebbe dunque riferirsi anche al risultato del lavoro che Di Dio ha operato sul suo stesso Io poetico. Un lavoro, per usare un termine che abbiamo imparato, di decreazione. I momenti più belli della raccolta sono forse quelli in cui emerge in modo più diretto questa estatica fuoriuscita dal sé, dalla propria finitudine di soggetto, sulla scena di un mondo illimitato e privo di determinazioni, abitato unicamente dalla meraviglia delle forme in continua metamorfosi nel tempo:

«[…] Io sono il niente
dove sbarca la catena dei giorni
dove si svuota e si riempie
questo che ci scanala e ci devasta eppure vedi vive
si slancia» (p. 161)

«Se chiudo gli occhi, adesso sento
ognuno di noi
racchiuso in questa immagine» (p. 209)

«Perché questo è anche
ciò che siamo. Fin dal principio frutto
spartito nel lavoro di molti
nella luce e nell’aria scacciato
e costretto
nel reame d’amore plurale» (p. 82)

La prigione del significato: quattro poesie di Molly Brodak

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Marta Olivi.

L’esordio poetico nel 2010, a trent’anni, e una seconda collezione nel 2020, l’anno della sua prematura scomparsa. Nel frattempo, chapbooks di poesia, insegnamento universitario, e tutta la vita raccontata nel memoir del 2016, Bandit, in cui Molly Brodak sceglie di raccontare il rapporto con il padre, un rapinatore di banche più volte arrestato. Ma è un escamotage per parlare di sé, per delineare in controluce un’identità che non sarebbe stata altrettanto osservabile direttamente. Un io narrante che fatica a narrarsi, un sé fortissimo ma liquido, mutevole, perché basato sull’assunto che un io obiettivo non esista. Specie per chi scrive.

Molly Brodak inizia il suo memoir con due pagine in cui racconta i fatti della vita di Joe Brodak: la dipendenza dal gioco, i debiti, le rapine, gli arresti. In due pagine, la realtà viene liquidata. Tutto quello che viene dopo, ci avverte, è narrazione: comprese le vite dipanatesi attorno a questa figura, e i traumi che hanno subìto a causa sua. Come Brodak ammette, la scelta del memoir, della nonfiction, punta a distaccarsi dalla facilità della fiction, dai suoi “rounded, finite arcs, tidy rise and fall, buttressing values, their little lessons, like solved equations”, ma allo stesso tempo non prova a perseguire un’esattezza fattuale che, semplicemente, non esiste. La soluzione, dunque, una realtà vera perché dichiaratamente soggettiva, è ciò che Brodak trova da adolescente nella forma poetica, quella che non abbandonerà mai più e che “it seemed to know a better way to the world – an approach more honest, more direct, sharper”.

Eppure, se sembra impossibile raccontare una vita in modo “onesto e diretto”, specie il dolore che la caratterizza, è proprio sul trauma che si incentra la ricerca letteraria di Brodak. Forse proprio in nome della sua capacità di influenzare la percezione di sé e degli altri. Nel 2010, nell’esordio A little middle of the night, Brodak parte dal trauma fisico di un corpo malato, descrivendo la sua esperienza di ricovero in ospedale a seguito di un’operazione al cervello. Poesie in cui la realtà si mescola alle visioni indotte dalla malattia e dai farmaci, in cui l’esperienza del coma traccia una linea netta tra la propria percezione e quella altrui, con la poesia come unico mezzo per cercare di comunicare tra prospettive inconciliabili.

Ma la risposta, o perlomeno un tentativo, arriverà solo in The Cipher, nel 2020, in cui si affronta compiutamente il trauma della fuga dall’Olocausto che hanno affrontato entrambi i suoi genitori, la madre dalla Russia e il padre dalla Polonia. Un trauma generazionale che diventa proprio; la perdita del nonno, morto a Dachau, che diventa la perdita della figura paterna; una coazione a ripetere che perpetua il trauma dell’assenza. Il dolore ci pone in un limbo tra passato inalienabile e futuro inconoscibile, descritto come “the awful future: half magnetic, half chiaroscuro”, che ci tira a sé pur nascondendosi da noi. Intrappolati tra il passato che il destino ci ha dato e ciò che con la nostra volontà decidiamo di farci, diventa impossibile stabilire veri nessi causali, capire chi siamo e cosa ci ha reso tali. Ed è di nuovo la poesia ad essere proposta come unico modo per arrivare alla realtà del proprio io. Se ogni scrittura è metafora di una realtà inconoscibile, “one x that did not equal x”, come viene detto nella poesia che apre The Cipher, allora la poesia è il mezzo che più di ogni altro sa seguire esattamente il processo non lineare che caratterizza la coscienza:

I listened to some invisible bird

rattling off the facts of consciousness.
He used that exact word,
cipher.

La poesia diventa così l’unico modo per affrontare una realtà che sembra una prigione, in cui l’unica reazione sensata è “Panic, because suddenly everything signifies”, ma in cui l’accesso al vero senso sembra sempre interdetto, sempre un passo più in là rispetto a noi.

In the cipher, where
we live, there is only personality.
What is outside of the cipher, where we’re headed?

Due scelte, di fronte a questa impossibilità conoscitiva. Perpetuare l’illusione del simbolo grazie al mezzo poetico. O abbandonare il gioco, dirigersi “outside the cipher”, fuori dalla prigione della propria personalità, verso quella morte che viene così spesso accennata in The CipherPosare la penna, scegliere la pace dell’assenza definitiva di ogni significato.


Da the cipher (2020)

Bells

Nothing special, a home,

a plot of empty space,

with a calendar on the wall. Each day ahead
is lake black. Bells, still.

God popped like a balloon
when I looked directly.

Songs just clank the fetters.
I remember ergo sum.

I never needed to dig graves.
Everyone, a terminal,

a terminal of photons,
irritating rackets,
generosity, gently extinguishing
fire,
which is nothing special.

All of them.
The people ran for the boats.

I stayed to ring the bell. I’ve forgotten
their faces but I remember their white aprons with eyelets,
leather hoods with spark burns, small shoes, the sound of them
all typing at once, their little worn dice, worn to beads.
Blue and pink charms, cassocks, gold chains they shared.
They dragged mom’s body and dad’s body as far as they could on the beach.
They scattered into a shoreless sea.
And you want to be happy.

Campane

Una casa, niente di speciale,

un terreno, uno spazio vuoto,

con un calendario sul muro. Ogni giorno a venire
è nero come un lago. Eppure, le campane.

Dio è scoppiato come un palloncino
non appena l’ho guardato.

Le canzoni scuotono le catene, nient’altro.
Mi ricordo ergo sum.

Non ho mai avuto bisogno di scavare tombe.
Ogni persona, un capolinea,

un capolinea di fotoni,
un baccano fastidioso,
generosità, un fuoco che si spegne
piano,
niente di speciale.

Tutti loro.
La gente corre verso le barche.

Io sono rimasta per suonare la campana. Ho dimenticato
le loro facce ma ricordo i loro grembiuli bianchi orlati di pizzo,
cappucci di pelle bruciacchiati, scarpe piccole, il suono
di tutti loro che scrivono a macchina contemporaneamente,
i loro piccoli dadi consumati, tanto da sembrare perline.
Ciondoli rosa e blu, abiti talari, catene d’oro condivise.
Hanno trascinato i corpi di mamma e di papà sulla spiaggia più lontano che potevano.
Sparsi in un mare senza riva.
E tu vorresti essere felice.

bee in jar

You cannot help knowing, said Tolstoy.
The world is a distance to go.
Remember, once you were good for nothing
and you didn’t know it.

Cedar branches live a little while on the fire.
Some young swallows
cover some sea then
turn back on their first migration.

Only matter can
be transformed.
Transformed into matter.
Things that are not matter
cannot be transformed.

The key is cut by the lock.
You will code then decode your mind.
You will save yourself.
You cannot help it.

l’ape nel barattolo

Non si può fare a meno di sapere, diceva Tolstoj.
Il mondo è una distanza da percorrere.
Ricordati, una volta eri un buono a nulla
e non lo sapevi.

I rami di cedro vivono ancora per un po’ mentre bruciano.
Alcune giovani rondini
percorrono un po’ di mare poi
tornano indietro durante la loro prima migrazione.

Solo la materia può
essere trasformata.
Trasformata in materia.
Le cose che non sono materia

non possono essere trasformate.

La chiave assume la forma del lucchetto.Programmerai e decifrerai la tua mente.
Ti salverai.
Non puoi farne a meno.

in the morning, before anything bad happens

The sky is open
all the way.

Workers upright on the line
like spokes.

I know there is a river somewhere,
lit, fragrant, golden mist, all that,

whose irrepressible birds
can’t believe their luck this morning
and every morning.

I let them riot
in my mind a few minutes more
before the news comes.

di mattina, prima che accada qualcosa di brutto

Il cielo è aperto
da parte a parte.

Operai dritti sulla linea
come raggi.

So che da qualche parte c’è un fiume,
illuminato, fragrante, nebbia dorata, tutto quanto,

con i suoi uccelli irrefrenabili
che stamattina non riescono a credere ai loro occhi
come ogni mattina.

Li lascio sfogarsi
nella mia mente qualche minuto ancora
prima che la notizia arrivi.

come and see

The far away
asphalt lot
covered over in fog
& lit raw gold by
one lamppost
against night.
The terminal
helplessness
of one creature
without its others.

I saw the owl’s wings
but no owl.
The slow-mo mushrooms.
I taught my hands to work
to keep them away
from each other. Rasp,
awl, the block plane, the spirit
level. The needle
one holds, which sharpens
which? Still, I was separate.
Still they
were where
the song came from.

The light from our closest star
is not starlight, it being
just one.
I saw Michigan, sunk home, from space
in a moment, and I hadn’t cried
until just then, in the dark
kitchen, no hands
to close over my face.

vieni a vedere

Il parcheggio d’asfalto
così lontano
ricoperto di nebbia
e illuminato d’oro crudo da
un lampione
contro la notte.
La fragilità
terminale
di una creatura
senza i suoi altri.

Ho visto le ali del gufo
ma nessun gufo.
I funghi al rallentatore.
Ho insegnato alle mie mani a lavorare
per tenerle staccate
l’una dall’altra. Lima,
punteruolo, pialla, la livella
in bolla. L’ago
che si tiene in mano, che affila
cosa? Eppure, ero separata.
Eppure era
da lì che
veniva la canzone.

La luce dalla stella più vicina a noinon è luce di stelle, perché è
soltanto una.
Ho visto il Michigan, sono sprofondata a casa, dallo spazio,
in un istante, e non avevo pianto
fino a quel momento, nella cucina
buia, senza mani
in cui nascondere il volto.

Molly Brodak, The Cipher (2020, Pleiades Press)

Su “Sonetti del giorno di quarzo” di Aldo Nove

Nota di lettura a cura di Gaetano De Virgilio.

Poeta e ancor prima scrittore, Aldo Nove pubblica il suo ultimo libro, Sonetti del giorno di quarzo (2022), nella collana Collezione di poesia di Einaudi.

Un canzoniere il suo, scanzonato e canzonatorio, che si rivela un «florilegio di miserie» in 350 sonetti, scritti dal 4 dicembre 2020 al 15 gennaio 2022 (con la piacevole incursione, ogni tanto, di sonetti più datati). In questi ultimi mesi sono stati pubblicati molti diari di narratori ed è sempre interessante vedere il pensiero della creazione al di qua della stesura, l’impalcatura dei libri che amiamo prima che vengano scritti.

Nove scrive di aver «traslocato in questi versi i giorni/ passati e gli improbabili futuri» ed è davanti agli occhi di tutti questo io che oscilla tra le acque di una tv continuamente accesa. Attraverso una metrica precisa e matematica Nove consegna al lettore «una forma d’addio/ a tutto quanto d’abitudinario». Un addio espresso in registri linguistici continuamente incrociati: l’alto, il basso, il di fianco e il di lato.

Non si fa segreto della passione smodata per «Avanti un altro!», «lui soltanto/ televisivo residuale incanto/ dalla mancanza di un qualche argomento/ che non sia questo tormento del vero/ che tale si dichiara e non lo è» (p. 205) e che guarda mentre mangia «la zuppa con i ceci/ scaldata al forno», a cui sono dedicate di volta in volta diverse poesie dai titoli sequenziali: «Bonolis I», «Bonolis II», «Bonolis III». Inconsueto poi che si scenda lungo il crinale di questa mascherata leggerezza per poi trovarsi davanti a poesie che per titolo hanno: «Suicidarsi».

Quando a 25 anni pubblicai
Woobinda e altre storie senza lieto
fine da Castelvecchi diventai
un classico. Ora sono un obsoleto
cinquantatreenne senza più lavoro,
senza casa, ammalato ed ancorato
a questo ottuso ultimo decoro
che non credo mi verrà pubblicato
se non post-mortem (p. 106).

I sonetti sono tutti perlopiù composti dai soliti quattordici versi endecasillabi sviluppati in due quartine a rima alternata e in due terzine a rima varia. Solo in pochi casi Nove aggiunge in chiusura un’altra terzina che segue le regole della precedente. È un testo di grande acume, solido, costruito con cura. È una continua dichiarazione di poetica, sia nella forma che nei contenuti:

Sono le tre di notte. «Sono», prima
persona singolare. E tra un istante
sarò le cinque e mezza e farò rima
col ticchettio dell’albeggio scostante
di ciò che fui tra un anno. […]
Forse, mentre nevicando
genererò miriadi di gemelli
di me che sono mari di cristalli,
frattali di un’infinità d’appelli
a cui risponderò che sono valli
e fiumi, e sono questo, e sono quello (p. 44).

Il testo di Nove, assieme a quello di Emilio Isgrò – Sì alla notte (Guanda, 2022) – è un volume che, in un tempo solo, segue il solco della tradizione per aprirsi alla novità. Sono infatti tanti i padri e le madri ideali del poeta, tanti i pilastri del Novecento verso cui mostra estrema gratitudine: Eugenio Montale, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, Franco Loi, Franco Battiato, Amelia Rosselli, Gianni Rodari, solo per citarne alcuni. E da loro fa in modo di apprendere questo uso spesso ludico della poesia, questi versi nei quali si chiede l’assurdo in cambio di un briciolo di verosimiglianza:

Mi sono comperato un universo
a 39 euro. Lo proietto
sulla parete quando vado a letto
con il telecomando, e poi converso
con lui del perché sono e cosa devo
fare domani o quale senso ha avuto
quest’e quest’altro e lui rimane muto
similarmente a Dio, come sapevo (p. 221).

Su “Poesie per giovani adulti” di Michele Zaffarano

Nota di lettura a cura di Andrea Ragazzo.

[Pubblicato nel giugno 2022 nella collana diretta da Monica Romano «Assemblaggi e sdoppiamenti», a cura di Scalpendi Editore.]

I. Partirei dal presupposto (tutto sommato ormai scontato) che una “ricerca” poetica programmatica non possa essere avvalorata da un’interpretazione immediata di contenuto. Ossia: la parola qui è data in dissolvenza; la lettura consuma, e sulla linea autore-lettore «quel che sta dietro è meglio di ciò che passa attraverso»1. La ricezione si svuota di senso, e si riattiva nel definirsi progressivo di un ristretto orizzonte formale («quel che sta dietro») entro cui il lettore è costretto a muoversi. Piuttosto che interrogare quanto il testo stia dicendo, dunque, sembrerebbe opportuno cercare di cogliere come funzioni il dispositivo attivato, e che spazio circoscriva al lettore.

II. L’assertività del libro non è mai descrittiva, ma al contrario fondata sulla sfiducia nella descrizione che si sta facendo. Se il testo sembra comunicare qualcosa, lo fa quasi autonomamente, a distanza dagli intenti dell’autore. Ed è su questo allontanamento che si fonda l’ironia percepitaL’assertività percepita, invece, è soltanto un espediente come un altro per scrivere qualcosa.

III. L’«esaurimento di un concetto affatto contemporaneo di lirica» – questa la “ricerca” in questione, così proposta nel sottotitolo – passa per l’esaurimento del corpo nella versificazione. Toccherà scomodare Petrarca, ma la lirica è affare suo: sarà sufficiente prestare orecchio a un qualsiasi sonetto dal Canzoniere per entrare in contatto con l’estrema complessità ritmica soggiacente al testo. La fatica che ne deriva al momento dell’esecuzione costringe in molti casi a rallentare, a sospendere la comprensione testuale nel tentativo di capire – sentire – come pronunciare i versi in questione. In questo avvicinamento sensibile alla lingua prima ancora che al discorso, il lettore si ritrova a contatto con l’«enorme densità psicologica» di un ritmo che è «quanto di più fisico, diretta emanazione del corpo di chi scrive, […] si possa immaginare»2. Il verso di Petrarca ha qualcosa di profondamente corporeo. La versificazione del libro di Zaffarano spinge in direzione opposta: gli accenti sono pochi, spesso riproposti verticalmente, con ritmi ripetitivi; l’esecuzione è molto veloce (nonché la lettura che ne fa l’autore); i versi sembrano quasi lanciati, non sorvegliati nella misura, senza punteggiatura, inseriti artificialmente uno dopo l’altro. L’effetto ottenuto è il silenziamento di quanto possa esserci di corporeo nel ritmo.

IV. Lo spazio del lettore è ridotto a una specie di camera insonorizzata3, in cui anche la minima produzione di suono, laddove ci sia, disperde nell’immediato, senza riflessione, né risonanza. Il ritmo, così programmaticamente messo a tacere, qui, spoglia il linguaggio mostrando le sue slogature, i suoi giri a vuoto. Nel consegnare questo spazio chiuso e senza rumori, nella privazione del corpo, l’esaurimento della lirica.


A

A un certo punto
mi faccio la domanda
se sono capace
che scrivo una poesia
e dentro vi metto
mia sorella
mio padre
mia madre
mio cognato
i miei nipoti
e che dentro
assieme di loro
vi metto anche
la mia forse
futura prossima
magari fidanzata
e cos’è mai che racconto
che raccolgo assieme
tutte queste persone
e le faccio entrare
a una stessa poesia
e le metto per bene
in contemporanea
con la mia prossima
futura spero fidanzata
che infatti penso
se non lo faccio
lei non lo sa mai
di questa gente
che mi stanno vicini
e mi vogliono bene
e se lo faccio invece
però in maniera mala
mi aumenta molta
la consapevolezza
di me incapace
che scrivo una poesia
che vi stanno tutti dentro
e alla fine mi viene
tanto di tristezza
e di disperazione
che lei allora
vi ha la scusa
a quel punto
e dicendo parla
sei immeritevole
che io divento
la tua prossima
futura a venire
forse fidanzata.


  1. M. Zaffarano, Wunder-kammer, ovvero Come ho imparato a leggere, in Prosa in prosa, Tic edizioni, Roma 2020, p. 107. ↩︎
  2. S. Dal Bianco, L’endecasillabo del Furioso, Pacini Editore, Pisa 2007, p. 28. ↩︎
  3. Cfr. S. Colangelo, TwentyTwenty Extended Conference, 2 febbraio 2021. ↩︎

L’abbraccio del mondo: tre poesie di Abdellatif Laâbi

Introduzione e traduzioni dal francese a cura di Raphael Louvet.

“Nato presumibilmente nel 1942 a Fes. Le viuzze e i cimiteri. L’eredità, un bel fiasco. O meglio, un imbastardimento. Il paese pietrificato, tanto vale specializzarsi nell’ibernazione dei licheni. Ma ci sono le ascelle fulve, i tatuaggi, l’ignoranza che fa esplodere parole muscolose”.

Così descrive se stesso il poeta e traduttore marocchino Abdellatif Laâbi, in occasione della pubblicazione del primo numero della rivista Souffles, nel 1966. Nel giro di qualche numero, questa rivista collettiva dove compaiono voci tra le più importanti del nuovo spazio letterario marocchino (Mohammed Khaïr-Eddine, Mostafa Nissaboury) fa saltare in aria i codici letterari e morali del Marocco conservatore di re Hassan II. Interrogandosi su questioni come l’uso del francese e lo statuto dello scrittore colonizzato, questi scrittori criticano l’immobilismo della cultura nazionale e le nuove narrazioni nazionaliste del giovane Marocco decolonizzato, che paralizzano l’espressione letteraria. La rivista presto si apre a posizioni terzomondiste, accogliendo intellettuali e scrittori. La reazione, però, non si fa attendere: nel 1971, Abdellatif Laabi viene torturato e incarcerato. Quando esce di prigione, otto anni più tardi, si esilia in Francia e si stabilisce a Créteil, nella banlieue parigina, dove attualmente vive con la moglie Jocelyne Laâbi.

La sua è una poesia profondamente impegnata nelle lotte per l’emancipazione, in modo particolare contro l’oppressione del regime marocchino, e viene concepita come una risposta risoluta al “regno della barbarie”. Laâbi vi affronta la questione dell’esilio, ma anche quella del difficile ritorno al paese natale, qui presente nelle poesie tradotte da Le Spleen de Casablanca. Nonostante questo peso, la ricerca poetica di Abdellatif Laâbi è un percorso di umanità e la sua scrittura è sempre carica di speranza. La lingua viene concepita come uno spazio di resistenza e di ospitalità – un luogo dove riprendere fiato -, dove l’esiliato crea una patria sognata, un “sole fraterno” e una libertà inalienabile.  

Dopo le prime poesie sulla rivista Souffles, Abdellatif Laâbi ha pubblicato numerose raccolte, tra le quali vale la pena citare Sous le bâillon le poème (1981), scritta in prigione, L’Étreinte du monde (1993), Le Spleen de Casablanca (1996)  e Les fruits du corps (2003), un’esplorazione del desiderio e della sessualità. Si è speso molto anche nel ruolo di “mediatore” di poeti siriani e palestinesi, pubblicando per Les Éditions de Minuit due magnifiche traduzioni del grande poeta palestinese Mahmoud Darwich, Rien qu’une autre année (1983) et Plus rares sont les roses (1989). Più recentemente, ha pubblicato per la casa editrice Points una Anthologie de la poésie palestinienne d’aujourd’hui (2022), che ha il merito di far conoscere al pubblico francese le voci di una nuova generazione di poeti e poete.


da L’Étreinte du monde (1993)

En vain j’émigre

J’émigre en vain
Dans chaque ville je bois le même café
et me résigne au visage fermé du serveur
Les rires de mes voisins de table
taraudent la musique du soir
Une femme passe pour la dernière fois
En vain j’émigre
et m’assure de mon éloignement
Dans chaque ciel je retrouve un croissant de lune
et le silence têtu des étoiles
Je parle en dormant
un mélange de langues
et de cris d’animaux
La chambre où je me réveille
est celle où je suis né
J’émigre en vain
Le secret des oiseaux m’échappe
comme celui de cet aimant
qui affole à chaque étape
ma valise

Emigro invano

Emigro invano
In ogni città bevo lo stesso caffè
e mi rassegno al volto chiuso del cameriere
Le risate dei miei vicini di tavolo
inseguono la musica della sera
Una donna passa per l’ultima volta
Invano emigro
e mi assicuro di essere lontano
In ogni cielo ritrovo una falce di luna
e il silenzio testardo delle stelle
Parlo nel sonno
una miscela di lingue
e grida di animali
La stanza in cui mi sveglio
è quella dove sono nato
Emigro invano
Il segreto degli uccelli mi sfugge
come quello di questa calamita
che incalza ad ogni tappa
la mia valigia

La langue de ma mère

Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans
Elle s’est laissée mourir de faim
On raconte qu’elle enlevait chaque matin
son foulard de tête
et frappait sept fois le sol
en maudissant le ciel et le Tyran
J’étais dans la caverne
là où le forçat lit dans les ombres
et peint sur les parois le bestiaire de l’avenir
Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans
Elle m’a laissé un service à café chinois
dont les tasses se cassent une à une
sans que je les regrette tant elles sont laides
Mais je n’en aime que plus le café
Aujourd’hui, quand je suis seul
j’emprunte la voix de ma mère
ou plutôt c’est elle qui parle dans ma bouche
avec ses jurons, ses grossièretés et ses imprécations
le chapelet introuvable de ses diminutifs
toute l’espèce menacée de ses mots
Je n’ai pas vu ma mère depuis vingt ans
mais je suis le dernier homme
à parler encore sa langue

La lingua di mia madre

Non vedo mia madre da vent’anni
Si è lasciata morire di fame
Raccontano che si togliesse ogni mattina
il fazzoletto dalla testa
e colpisse sette volte a terra
maledicendo il cielo ed il Tiranno
Ero nella caverna
lì dove il galeotto legge nelle ombre
e dipinge sulle pareti il bestiario del futuro
Non vedo mia madre da vent’anni
Mi ha lasciato un servizio da caffè cinese
con le tazze che si rompono una a una
e sono così brutte che non le rimpiango
Ma il caffè, lo amo di più
Oggi, quando sono solo
prendo in prestito la voce di mia madre
o meglio, è lei che mi parla nella bocca
con le sue parolacce, le volgarità e le imprecazioni
l’introvabile rosario dei suoi diminutivi
tutta la specie minacciata delle sue parole
Non vedo mia madre da vent’anni
ma sono l’ultimo uomo
che parla ancora la sua lingua

da Le spleen de casablanca (1996)

Le spleen de Casablanca

Dans le bruit d’une ville sans âme
j’apprends le dur métier du retour
Dans ma poche crevée
je n’ai que ta main
pour réchauffer la mienne
tant l’été se confond avec l’hiver
Où s’en est allé, dis-moi
Le pays de notre jeunesse ?

*

Ô comme tous les pays se ressemblent
et se ressemblent les exils
Tes pas ne sont pas de ces pas
qui laissent des traces sur le sable
Tu passes sans passer

*

Visage après visage
meurent les ans
Je cherche dans les yeux une lueur
un bourgeon dans les paroles
Et j’ai peur, très peur
de perdre encore un vieil ami

*

Je me sentirai perdu
à tout âge

*

Je ne suis pas ce nomade
qui cherche le puits
que le sédentaire a creusé
Je bois peu d’eau
et marche
à l’écart de la caravane

*

Le siècle prend fin
dit-on
et cela me laisse indifférent
Quoique le suivant
ne me dise rien qui vaille

*

Dans la cité de ciment et de sel
ma grotte est de papier
J’ai une bonne provision de plumes
et de quoi faire du café
Mes idées n’ont pas d’ombre
pas plus d’odeur
Mon corps a disparu
Il n’y a plus que ma tête
dans cette grotte de papier

*

J’essaie de vivre
La tâche est ardue

Lo spleen di Casablanca

Nel rumore di una città senz’anima
imparo il difficile mestiere del ritorno
Nella tasca bucata
non ho che la tua mano
per riscaldare la mia
tanto l’estate si confonde con l’inverno
Dove se n’è andato, dimmi
Il paese della nostra gioventù ?

*

Oh come tutti i paesi si assomigliano
e si assomigliano gli esilii
I tuoi passi non sono quel tipo di passi
che lasciano tracce sulla sabbia
Passi senza passare

*

Viso dopo viso
Muoiono gli anni
Cerco negli occhi un barlume
un germoglio nelle parole
E ho paura, molta paura
di perdere ancora un vecchio amico

*

Mi sentirò perso
a qualsiasi età

*

Non sono quel nomade
in cerca del pozzo
che il sedentario ha scavato
Bevo poca acqua
e cammino
discosto dalla carovana

*

Il secolo sta per finire
dicono
e ciò mi lascia indifferente
Per quanto il prossimo
non mi dica nulla di buono

*

Nella città di cemento e di sale
la mia grotta è di carta
Ho una buona riserva di penne
e ciò che serve per fare il caffè
Le mie idee non hanno ombra
Nemmeno odore
Il mio corpo è scomparso
C’è solo la mia testa
in questa grotta di carta

*

Cerco di vivere
Il compito è arduo