Su “Ghost Track” di Marilina Ciaco

Nota di lettura a cura di Alessia Giordano.

«Alla fine del nastro c’è sempre un altro nastro».È con questa voce quasi robotica che Marilina Ciaco apre la sua nuova raccolta (Zacinto Edizioni, 2021). Ghost Track inizia con il presentare una stanza – scrostata, disabitata – chiedendo al lettore un atto di fede, di immaginarla come reale. Nella stanza c’è un timer: all’attivazione, inizierà un test psicologico a cui sottoporsi.

Ghost Track non si muove solamente sul piano visuale, ma su quello fonetico, acustico: il piano delle tracce sonore, degli spettrogrammi, delle «vocine». Il nastro – come quello di Möbius – si ripete, portando in sé storie, frammenti di vita: Adler, M., N., Occhiblu. Quattro personaggi che si muovono nella prima sezione della raccolta, introdotti da una voce fuori campo che li chiama e dopo poche righe li lascia scorrere via. Brevi e casuali frametratti da diverse vite, tutte accomunate dal vivere in una perdita: la perdita della bellezza, di un figlio, del gusto, di un terreno comune con l’interlocutore. Sono alcune delle tante storie che scorrono sul nastro – quella voce iniziale – che non si interrompe mai.

Nella sezione Vite a lunga esposizione, Ciaco inscena il quotidiano bloccato nell’automatismo, nel gesto ripetitivo e alienante («camminano in un momento della giornata che è sempre / le sei del pomeriggio») adottando la prospettiva di un apparecchio fotografico: dei tempi di posa, una cornice, un margine che non viene considerato. Ciò che la pellicola cattura non è altro che una «processione di fantasmi»: minuscole impressioni luminose, movimenti automatizzati, braccia che si avvicinano senza toccarsi. Si attende un intoppo, una stortura, «il rischio che tutti i pos possano incepparsi»: la leva giusta per disinnescare l’esplosione e bloccare il meccanismo.

Da qui, la ricerca di una strada laterale già dichiarata dal citare in epigrafe Volodine e il post-esotismo: è la ricerca di un fuori tempo, di un fuori campo. A rompere questo brusio continuo è l’immagine grottesca che appare nella sesta poesia: la pesca di gamberetti a cavallo, ekphrasis del dipinto Pescatori di Mario Sironi. Citando Sironi e spostando di getto il piano narrativo, Ciaco dà il chiaro segnale che ciò che cerca in Ghost Track non è tanto l’onirico, il fantastico, ma il metafisico: un luogo parallelo alla realtà, una lateralità.  

Ciò stilisticamente è creato attraverso il prelievo di chiacchiere televisive, domande psicologiche («Sei mai stato accusato di fissare le persone?», oppure: «Senti a volte l’istinto di saltare sopra le cose?») trasposte nel testo tramite la tecnica del cut-up; attraverso un continuo straniamento dato da cambi di scena e immagini; con un linguaggio nitido, razionale che però si rivela straniante, robotico, facendo sì che il lettore si muova in una struttura a buchi.

Il test si fa e si rifà da capo alla ricerca di quell’errore, della strada giusta per stare meglio. La stanza iniziale si rivela così essere l’inconscio da esplorare: una stanza in cui non si esce, ma si sprofonda.

Dal nastro escono «tracce fantasma personalizzate», segmenti di «genoma attraverso cui rivendicare un ruolo unico, una disappartenenza, una cicatrice»; storie impresse che prima o poi capita di ascoltare: Adler, M., N., Occhiblu, perché «alla fine del nastro c’è sempre un altro nastro».


da Vite a lunga esposizione

quanto rumore, fuori non c’è nessuno
la leva giusta per disinnescarmi
vorrei cercarla adesso, lei sa dov’è?
io ho undici buchi

il buco giusto per disinnescarmi 
è quello che non vedi, lo nasconde sotto il mento
si è rivoltato, adesso non si trova più
 non trova più le pupille, la peluria, la saliva

non so cosa mi mancasse di quei tempi
il prato artificiale, no, è la chiave che va tolta
la ruota giusta per disinnescarmi
adesso prendi le tue cose e vai via è meglio che tu lo faccia adesso

vive in centro, colpita in centro, è andata al centro
non so se voglio saperlo forse no
noi abbiamo sprecato molte vite
le vite giuste per disinnescarmi

“Noi siamo coloro che stiamo aspettando”: quattro poesie di June Jordan

Introduzione e traduzioni dall’inglese a cura di Lucrezia Bivona.

Nata a Harlem nel 1936 e cresciuta a Bedford-Stuyvesant, quartiere di Brooklyn, June Jordan è stata una voce essenziale della poesia americana del secondo Novecento. Autrice estremamente prolifica, si è cimentata nei generi più disparati, dalla poesia al romanzo, dal teatro alla letteratura per bambini, sempre portando avanti un impegno politico importante e resistente in tutti gli ambienti che si è trovata a frequentare, tra cui quello universitario e dell’istruzione. Ha sempre insegnato con la convinzione di educare al cambiamento sociale, lavorando a fianco di scrittrici dai simili intenti e presupposti come Adrienne Rich, Toni Cade Bambara e Audre Lorde, e credendo fermamente insieme a loro nel potere trasformativo della scrittura in versi

Cresciuta in una famiglia di origini giamaicane, il complesso rapporto con il padre e con le aspettative imposte dall’interno segna profondamente la sua vita e la sua scrittura. La sua è una poesia che trae dall’inglese colloquiale e vernacolare la propria forza comunicativa, per trattare argomenti come la famiglia, la sessualità, il corpo, l’autodeterminazione, l’oppressione razziale e politica. Il linguaggio di Jordan è lirico e personale, diretto e fortemente autobiografico. Una poesia scritta apertamente per le persone che la leggono.

Galleria di foto di June Jordan

da Some Changes (1971)

My sadness sits around me

My sadness sits around me
    not on haunches not in any
    placement near a move
and the tired roll-on
of a boredom without grief

If there were war
I would watch the hunting
I would chase the dogs
and blow the horn
because blood is commonplace

As I walk in peace  
    unencountered unmolested    
    unimpinging unbelieving unrevealing    
    undesired under every O
My sadness sits around me

Mi siede attorno la mia tristezza

Mi siede attorno la mia tristezza
    non sulle cosce non in nessuna
    posizione che implichi un movimento
e l’oscillare stanco
di una noia senza dolore

Se ci fosse una guerra
baderei alla caccia
inseguirei i cani
e suonerei il corno
perché il sangue è una cosa banale

Mentre cammino tranquilla
    senza incontri senza intralci
    senza lesioni senza credo senza epifanie
    indesiderata in qualsiasi Oh
Mi siede attorno la mia tristezza

da living room (1985)

Notes towards Home

My born on 99th Street uncle when he went to Canada
used to wash and polish the car long before coffee
every morning outside his room in the motel
“Because,” he said, “that way they thought I lived
around there; you ever hear of a perfectly clean car
traveling all the way from Brooklyn to Quebec?”

My mother left the barefoot roads of St. Mary’s
in Jamaica for the States where she wore
stockings even in a heat wave and repeatedly
advised me never to wear tacky underwear
“That way,” she said, “if you have an accident
when they take you to a hospital they’ll know you
come from a home.”

After singing God Bless America Kate Smith
bellowed the willies out of Bless This House O
Lord We Pray/Make It Safe By Night and Day
but my cousin meant Lord keep June
and her Boris Karloff imitations out of the hall
and my mother meant Lord keep my husband out
of my way and I remember I used to mean Lord
just pretty please get me out of here!

But everybody needs a home
so at least you have someplace to leave
which is where most other folks will say
you must be coming from

Appunti su casa mia

Mio zio nato sulla novantanovesima quando andava in Canada
lavava e lucidava la macchina molto prima di prendere il caffè
ogni mattina fuori dalla sua stanza del motel
“Perché”, diceva, “così pensavano che vivessi
in zona; hai mai sentito di una macchina perfettamente pulita
dopo un viaggio da Brooklyn fino al Quebec?”

Mia madre aveva lasciato le strade scalze di St. Mary
in Giamaica per gli Stati Uniti dove portava
le calze anche durante le ondate di calore di continuo
mi ricordava di non portare mai biancheria intima kitsch
“Così”, diceva, “se fai un incidente
quando ti portano all’ospedale sapranno
che hai una casa.”

Dopo aver cantato Dio benedica l’America Kate Smith
ci faceva venire i brividi con Benedici Questa Casa
Signore Preghiamo/Rendila Sicura di Notte e di Giorno
ma mia cugina intendeva Signore tieni June
e le sue imitazioni di Boris Karloff lontano da qui
e mia madre intendeva Signore tieni mio marito lontano
da me e io ricordo che intendevo Signore
soltanto ti prego per favore fammi andare lontano da qui!

Ma a tutti serve una casa
così almeno hai un posto da lasciare
e la maggior parte della gente dirà
che è il posto da dove vieni

da Haruko/Love Poems (1994)

Poem about Heartbreak That Go On and On

bad love last like a big
ugly lizard crawl around the house
forever
never die
and never change itself

into a butterfly

Poesia sui cuori spezzati che non si riparano mai

l’amore cattivo dura quanto una grossa
brutta lucertola che striscia sotto la casa
per sempre
senza mai morire
e senza mai trasformarsi

in una farfalla

da passion (1980)

Poem About My Rights

Even tonight and I need to take a walk and clear
my head about this poem about why I can’t
go out without changing my clothes my shoes
my body posture my gender identity my age
my status as a woman alone in the evening/
alone on the streets/alone not being the point/
the point being that I can’t do what I want
to do with my own body because I am the wrong
sex the wrong age the wrong skin and
suppose it was not here in the city but down on the beach/
or far into the woods and I wanted to go
there by myself thinking about God/or thinking
about children or thinking about the world/all of it
disclosed by the stars and the silence:
I could not go and I could not think and I could not
stay there
alone
as I need to be
alone because I can’t do what I want to do with my own
body and
who in the hell set things up
like this
and in France they say if the guy penetrates
but does not ejaculate then he did not rape me
and if after stabbing him if after screams if
after begging the bastard and if even after smashing
a hammer to his head if even after that if he
and his buddies fuck me after that
then I consented and there was
no rape because finally you understand finally
they fucked me over because I was wrong I was
wrong again to be me being me where I was/wrong
to be who I am
which is exactly like South Africa
penetrating into Namibia penetrating into
Angola and does that mean I mean how do you know if
Pretoria ejaculates what will the evidence look like the
proof of the monster jackboot ejaculation on Blackland
and if
after Namibia and if after Angola and if after Zimbabwe
and if after all of my kinsmen and women resist even to
self-immolation of the villages and if after that
we lose nevertheless what will the big boys say will they
claim my consent:
Do You Follow Me: We are the wrong people of
the wrong skin on the wrong continent and what
in the hell is everybody being reasonable about
and according to the Times this week
back in 1966 the C.I.A. decided that they had this problem
and the problem was a man named Nkrumah so they
killed him and before that it was Patrice Lumumba
and before that it was my father on the campus
of my Ivy League school and my father afraid
to walk into the cafeteria because he said he
was wrong the wrong age the wrong skin the wrong
gender identity and he was paying my tuition and
before that
it was my father saying I was wrong saying that
I should have been a boy because he wanted one/a
boy and that I should have been lighter skinned and
that I should have had straighter hair and that
I should not be so boy crazy but instead I should
just be one/a boy and before that
it was my mother pleading plastic surgery for
my nose and braces for my teeth and telling me
to let the books loose to let them loose in other
words
I am very familiar with the problems of the C.I.A.
and the problems of South Africa and the problems
of Exxon Corporation and the problems of white
America in general and the problems of the teachers
and the preachers and the F.B.I. and the social
workers and my particular Mom and Dad/I am very
familiar with the problems because the problems
turn out to be
me
I am the history of rape
I am the history of the rejection of who I am
I am the history of the terrorized incarceration of
myself
I am the history of battery assault and limitless
armies against whatever I want to do with my mind
and my body and my soul and
whether it’s about walking out at night
or whether it’s about the love that I feel or
whether it’s about the sanctity of my vagina or
the sanctity of my national boundaries
or the sanctity of my leaders or the sanctity
of each and every desire
that I know from my personal and idiosyncratic
and indisputably single and singular heart
I have been raped
be-
cause I have been wrong the wrong sex the wrong age
the wrong skin the wrong nose the wrong hair the
wrong need the wrong dream the wrong geographic
the wrong sartorial I
I have been the meaning of rape
I have been the problem everyone seeks to
eliminate by forced
penetration with or without the evidence of slime and/
but let this be unmistakable this poem
is not consent I do not consent
to my mother to my father to the teachers to
the F.B.I. to South Africa to Bedford-Stuy
to Park Avenue to American Airlines to the hardon
idlers on the corners to the sneaky creeps in
cars
I am not wrong: Wrong is not my name
My name is my own my own my own
and I can’t tell you who the hell set things up like this
but I can tell you that from now on my resistance
my simple and daily and nightly self-determination
may very well cost you your life

Poesia sui miei diritti

Anche stanotte ho bisogno di fare una passeggiata per schiarirmi
le idee su questi versi sul perché non posso
uscire senza cambiare i vestiti le scarpe
la mia postura la mia identità di genere la mia età
il mio status in quanto donna sola di sera/
sola per strada/sola non è questo il punto/
il punto è che non posso fare ciò che voglio
fare con il mio stesso corpo perché sono del
sesso sbagliato dell’età sbagliata di pelle sbagliata e
metti che non fossi qui in città ma giù in spiaggia/
o nel folto della foresta e che volessi andarci
da sola mentre penso a Dio/o mentre penso
ai bambini o mentre penso al mondo/tutto questo
rivelato dalle stelle e dal silenzio:
non potrei andare e non potrei pensare e non potrei
stare lì
da sola
come avrei bisogno
da sola perché non posso fare quello che voglio con il mio
corpo e
chi cazzo ha deciso che doveva essere
così
e in Francia dicono che se l’uomo penetra
ma non eiacula allora non mi ha stuprata
e se dopo averlo colpito se dopo le grida se
dopo aver implorato il bastardo e se perfino dopo avergli spaccato
un martello in testa se anche dopo tutto questo se lui
e i suoi amici mi scopano dopo tutto questo
allora ero consenziente e non c’è stato
nessuno stupro perché alla fine capisci alla fine
mi hanno scopata perché avevo torto avevo
torto di nuovo a essere me essendo me lì dove avevo/torto
nell’essere chi sono
che è esattamente come il Sudafrica
che penetra in Namibia penetrando in
Angola e questo significa voglio dire come fai a dire se
Pretoria eiacula come lo dimostri qual è la
prova che il mostro totalitarista ha eiaculato sulla Blackland
e se
dopo la Namibia e se dopo l’Angola e se dopo lo Zimbabwe
e se dopo tutti i miei consanguinei e le donne resistono perfino
all’autosacrificio dei villaggi e se dopo questo
comunque perdiamo cosa diranno i bestioni rivendicheranno o no
il mio consenso
Mi Segui: Noi siamo il popolo sbagliato dalla
pelle sbagliata sul continente sbagliato e cosa cazzo
fanno i ragionevoli tutti quanti
e secondo il Times questa settimana
già nel 1966 la C.I.A. aveva deciso che avevano questo problema
e il problema era un uomo di nome Nkrumah e quindi
lo uccisero e prima di lui era Patrice Lumumba
e prima ancora era mio padre nel campus
della mia università dell’Ivy League e mio padre con la paura
di entrare nella caffetteria perché diceva di essere
sbagliato l’età sbagliata la pelle sbagliata l’identità
di genere sbagliata e mi pagava la retta e
prima di questo
era mio padre a dire che sbagliavo a dire che
sarei dovuta essere un maschio perché lui lo desiderava/un
maschio e che sarei dovuta essere di pelle più chiara e
che avrei dovuto avere capelli più lisci e che
non sarei dovuta andare dietro ai maschi ma piuttosto sarei
dovuta essere uno di loro/un maschio e prima di questo
era mia madre a suggerire la chirurgia plastica per
il mio naso e l’apparecchio per i miei denti e a dirmi
di lasciar perdere un po’ i libri di lasciarli perdere in altre
parole
conosco molto bene i problemi della C.I.A.
e i problemi del Sudafrica e i problemi
della Exxon Corporation e i problemi dell’America
bianca in generale e i problemi degli insegnanti
e dei sacerdoti e dell’F.B.I. e degli assistenti
sociali e dei miei specifici Mamma e Papà/conosco molto
bene i problemi perché i problemi
si rivelano essere
me
io sono la storia dello stupro
io sono la storia del rifiuto di chi sono
io sono la storia dell’incarcerazione terrorizzata di
me stessa
io sono la storia di percosse e violenza e eserciti
senza confini contro tutto ciò che voglio fare con la mia mente
e il mio corpo e la mia anima e
che sia passeggiare per la strada di notte
o l’amore che provo o
la santità della mia vagina o
la santità dei miei confini nazionali
o la santità dei miei leader o la santità
di ogni singolo desiderio
che viene dal mio intimo e idiosincratico
e indiscutibilmente unico e singolare cuore
sono stata stuprata
per-
ché ero sbagliata il sesso sbagliato l’età sbagliata
la pelle sbagliata il naso sbagliato i capelli sbagliati il
bisogno sbagliato il sogno sbagliato la geografia sbagliata
lo stile sbagliato io
io sono stata il significato dello stupro
io sono stata il problema che tutti cercano di
eliminare tramite penetrazione
forzata con o senza la prova dello sperma e/
ma che sia ben chiaro questa poesia
non è consenso io non acconsento
a mia madre a mio padre agli insegnanti al
F.B.I. al Sudafrica a Bedford-Stuy
a Park Avenue all’American Airlines ai fannulloni
arrapati agli angoli di strada ai pervertiti appostati nelle
loro macchine
Io non ho sbagliato: Sbagliata non è il mio nome
Il mio nome è mio soltanto mio mio
e non so dirti chi cazzo ha deciso che doveva essere così
ma posso dirti che d’ora in poi la mia resistenza
la mia semplice autodeterminazione ogni giorno e ogni notte
potrebbe benissimo costarti la vita

Copertina di Directed by Desire di June Jordan
Directed by Desire: The Collected Poems of June Jordan (Port Townsend, WA: Copper Canyon Press, 2005)

Lingue di fuoco e nuovi glossari: tre poesie di Seán Hewitt

Introduzione e traduzioni a cura di Andrea Bergantino, vincitore della prima Call for Translators per l’inglese.

Seán Hewitt, nato nel 1990, è critico letterario e insegna letteratura inglese e irlandese al Trinity College di Dublino. La sua prima raccolta integrale di poesie, Tongues of Fire, è stata pubblicata nel 2020 e ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Laurel Prize. La poesia di Seán Hewitt si sviluppa intorno a una costellazione di temi ricorrenti, diversi ma interconnessi attraverso i versi, tra cui il rapporto con le proprie origini, l’immersione nella natura, ricordi ed esperienze di vita quotidiana, nonché rielaborazioni di miti irlandesi, come quello dell’esilio di Suibhne. Oltre al rapporto con la natura e al dialogo con la propria storia personale, i versi di Hewitt contengono anche eco religiose e riferimenti alla sfera della sessualità, un tema, quest’ultimo, che si ritrova anche nel memoir All Down Darkness Wide, che esplora l’identità queer dello scrittore.

Delle tre poesie proposte di seguito in traduzione, accompagnate dall’originale, due sono tratte da Tongues of Fire, “Evening Poem” e “Oak Glossary”, mentre “Ancestry” è stata pubblicata su Poetry nel 2013. “Ancestry/Discendenza” e “Evening Poem/Poesia della sera” condividono la rievocazione di eventi e scene passati, che al tempo stesso è l’esplorazione di legami familiari, della propria storia personale. Partendo da stimoli quotidiani quali profumi e piccole azioni, questi componimenti evocano relazioni più profonde tra genitori e figli, vecchie e nuove generazioni. Tali connessioni non mancano in “Oak Glossary/Glossario delle querce”, dove l’albero si sostituisce all’uomo e al suo linguaggio, pur condividendo con lui vibrazioni e legami non sempre visibili in superficie. Questi versi di Seán Hewitt scavano per riportare alla luce rapporti e dinamiche naturali tramite allusioni poetiche: lasciano intendere, suonano familiari, ma non disvelano parole e verità ultime.


da poetry (2013)

Ancestry

The damp had got its grip years ago
but gone unnoticed. The heads of the joists feathered slowly in the cavity wall
and the room’s wet belly had begun to bow.

Once we’d ripped the boards up, it all came out: the smell, at first, then the crumbling wood gone to seed, all its muscles wasted.
You pottered back and to with tea, soda bread,

eighty years shaking on a plastic tray.
One by one we looked up, nodded, then slipped under the floor. We moved down there like fish in moonlight, or divers round an old ship.

Discendenza

L’umidità aveva stretto la sua presa anni prima, inosservata. Le estremità dei travetti
si erano sbriciolate nell’intercapedine
e il ventre bagnato della stanza si stava curvando.

Una volta rotti i pannelli, venne tutto fuori: l’odore, all’inizio, poi il legno vecchio ormai marcio, le fibre disfatte.
Tu andavi e venivi portando tè e pane,

ottant’anni che tremano su un vassoio di plastica.
Uno a uno abbiamo alzato lo sguardo e annuito, poi ci siamo infilati sotto il pavimento. Ci siamo mossi lì sotto come pesci
che nuotano intorno a una vecchia barca, alla luce della luna.

da tongues of fire (2020)

Evening Poem

What a world of apparitions: stifled warmth of the greenhouse, scent of tomatoes, my mother and I working closely

to shimmy the pots loose. Split sack of soil on the bench, glow
of a tealight in the jar,

and not a word between us. It is hard to tell where heaven starts, and where it ends:
me, a foot taller, standing

where her father stood,
and outside, look: the dove, like a paper lantern, is bobbing in the apple-blossom.

Poesia della sera

È un mondo di apparizioni:
il calore compresso della serra,
il profumo dei pomodori, mia madre e io che lavoriamo vicini

scuotendo i vasi.
Sacchi di terreno tagliati sulla panca, il bagliore
di una candela nel vetro,

e non una parola tra noi. È difficile dire dove il cielo comincia e dove finisce: me ne sto, solo più alto,

dove stava suo padre,
e fuori, guarda: una colomba,
come una lanterna di carta, dondola tra i fiori del melo.

Oak Glossary

In the language of the oak, sky is made by shivering the leaves to produce a hushing sound.
In winter, of course, sky is silent.

God is felt in the phloem and xylem as a deep echo of water – a low noise that must be observed by placing
an ear to the bark. For oaks, chanting

(which is akin to song) is produced via rhythms of air brought in and out of the branches in slow succession. On still days, song is not possible.

The familiar words, such as child, man, woman, are unknown, having fallen quiet from disuse. In oak, essential nouns include soil,

water and time – these are produced from their element. Water is a high and gentle noise of clearest quality which results from branches dripping.

For soil, or earth, a fastening of the roots can be felt as a low tension underfoot. Time, on the other hand, is more visual than aural, and is distinguished into

its linear and circular conceptions. As is well-known, circular time
in oak is communicated
most vividly at the site of a knot

or where the core has been exposed. The linear variety is felt only
on occasion. For this, sap is produced and is made to run from the body.

Glossario delle querce

Nella lingua delle querce, cielo
si fa scuotendo le foglie
per produrre un suono sommesso.
In inverno, naturalmente, cielo non si pronuncia.

Dio si sente in floema e xilema
come un’eco d’acqua profonda – un rumore basso da osservare poggiando
l’orecchio alla corteccia. Per le querce, cantare

(che è simile a canzone) si produce
tramite ritmi d’aria portata dentro e fuori dai rami in lenta successione.
Nei giorni di quiete, canzone non si può dire.

Le parole familiari come bambino, uomo, donna sono sconosciute, cadute in disuso. Per le querce
sostantivi essenziali includono suolo,

acqua e tempo – queste sono prodotte dai loro elementi. Acqua è un rumore alto e gentile di qualità chiarissima
che proviene dai rami grondanti.

Per suolo, o terra, si possono sentire
le radici allacciarsi, una tensione sotto i piedi. Tempo, invece, è più visivo
che uditivo, e si distingue nelle

sue concezioni lineari e circolari.
Com’è noto, il tempo circolare
tra le querce si comunica
nel più vivido dei modi nel punto di un nodo

o dove la parte centrale è esposta.
La varietà lineare si sente solo occasionalmente. Per questa si produce la linfa e la si fa scorrere dal corpo.

Copertina di Tongues of Fire di Seán Hewitt

Su “Autoritratto con sciame d’api” di Jan Wagner

Nota di lettura a cura di Beatrice Magoga.

Dopo la pubblicazione integrale di Variazioni sul barile dell’acqua piovana (Regentonnenvariationen, 2014), Jan Wagner torna in Italia con Autoritratto con sciame d’api, un’antologia interamente dedicata alla sua opera, dall’esordio di Prove di trivellazione in cielo (Probebohrung im Himmel, 2001) alla più recente Il live butterfly show (Die live butterfly show, 2018). Il progetto Bompiani, curato da Federico Italiano, prende le mosse dall’edizione originale tedesca del 2016, aggiungendovi una serie di più o meno rilevanti modifiche, comunque concordate da autore e curatore assieme.

Se anche un’antologia offre, per sua costituzione, una lettura “frustrata” dalla mancanza dei testi esclusi, quello che in un certo senso si guadagna è una comprensione agile ed estesa dei movimentidelle posture e delle attitudini del poeta. Nel caso di Jan Wagner, il profilo autoriale è almeno doppio. Si seguono, da un lato, gli spostamenti di un poeta-viaggiatore o poeta-turista che gravita attorno a oggetti noti, a piante e animali esotici o locali («bustina di té, carpe, pomodori, agurkai, tucano»), che retrocede al passato per dare voce a eventi e personaggi della storia («il passero di Guericke, saint-just, colombo»), e che si muove di luogo in luogo per annotare «il muto linguaggio delle cose» (p. 69), «la scrittura / dell’alga» (p. 71) (ricordando «las vegas, ecloga di eberhardzell, australia»). Dall’altro, il gusto è decisamente quello di un cultore dell’arte culinaria.

Con buona disinvoltura, Jan Wagner si cimenta nel ricercare una sempre nuova “farcitura” per le forme ormai canonizzate della tradizione (ci si imbatte facilmente in sonetti, sestine, haiku, terzine in rima dantesca), prendendo come punto di partenza l’occasione di poesia offertagli dal ricordo, dal vissuto personale e collettivo, da un dettaglio qualsiasi del circostante. Il risultato per ogni singola lirica sarà allora qualcosa di non molto diverso dalle «diciotto sfogliate ripiene» (catena di componimenti dedicati a diciotto tipi di sfoglia) che ci vengono servite come prova di «immaginazione e giudizio» (p. 129) del cuoco virtuoso.

Alla varietà degli argomenti, alla grande cura formale e musicale del testo, si accompagna un tono carezzevole, elegante, a tratti ironico, che governa con estrema grazia metafore e associazioni di pensiero, senza mai azzardare attacchi sarcastici né compiacersi di minuziose e indelicate descrizioni dell’orrido, anche quando il soggetto ritratto è la carcassa di un animale («geco») o la bottega di un macellaio («macellaio»).

Il lirismo di Wagner, con una coerenza tale da essersi mantenuto pressoché invariato negli anni, si presta, quindi, a una lettura indubbiamente piacevole e “gustosa” per quella vena barocca che lo contraddistingue, e insieme invita, come suggerisce Italiano, «ad aguzzare la vista, a sentire di più» (p. 335). Eppure, per alcuni – e il dibattito animatosi in Germania lo fa intuire – potrebbe non essere sufficiente.

La glorificazione del dettaglio, l’impressione di rifuggire l’attualità per ritirarsi nel privato e nella perfezione della forma hanno esposto Wagner alle critiche di chi vede nella sua poesia il ritorno a un “escapismo Biedermeier” accomodante, decorativo, che abbellisce la realtà e si rifiuta di opporre resistenza al già dato e al già scritto. La questione è tutta politica: c’è da generare un urto (intenzionale e forse addirittura violento) tra lingua, mondo e pensiero, o da dare voce a un sentimento più mite e rischiosamente “reazionario” dei luoghi e del tempo? È pure possibile che la poesia se ne infischi dell’uno e dell’altro, e chieda solo di esistere.


da achtzehn pasteten (diciotto sfogliate ripiene)
18
(quittenpastete)

wenn sie der oktober ins astwerk hängte,
ausgebeulte lampions, war es zeit: wir
pflückten quitten, wuchteten körbeweise     
       gelb in die küche

unters wasser. apfel und birne reiften
ihrem namen zu, einer schlichten süße –
anders als die quitte an ihrem baum im
       hintersten winkel

meines alphabets, im latein des gartens,
hart und fremd in ihrem arom. wir schnitten,
viertelten, entkernten das fleisch (vier große
       hände, zwei kleine),

schemenhaft im dampf des entsafters, gaben
zucker, hitze, mühe zu etwas, das sich
roh dem mund versagte. wer konnte, wollte
       quitten begreifen,

ihr gelee, in bauchigen gläsern für die
dunklen tage in den regalen aufge-
reiht, in einem keller von tagen, wo sie
       leuchteten, leuchten

18
(torta di mele cotogne)

quando l’ottobre le appese tra i rami,
protendenti lampioni, fu tempo: noi a raccogliere
mele cotogne, che a ceste montavano
       in cucina, gialle,

sotto l’acqua. mele e pere maturavano,
onorando i loro nomi, verso una dolcezza
semplice – al contrario della cotogna sull’albero
       nel più remoto angolo

del mio alfabeto, nel latino del giardino,
dura e strana nel suo aroma. tagliammo,
squartammo, snocciolammo la carne (quattro mani
       grandi e due piccole),

indistinti nel vapore della centrifuga, demmo
zucchero, calore, olio di gomito per qualcosa che
crudo in bocca falliva. chi poteva, voleva comprendere
       le mele cotogne,

la loro gelatina, in bulbosi vasetti di vetro
allineati sugli scaffali per i giorni bui,
in uno scantinato di giorni, dove loro
       splendevano, splendono.

Su “Nove” di Agostino Bertani

Nota di lettura a cura di Adriano Giuffrè.

Nove (2021) di Agostino Bertani non è un libro che verrebbe pubblicato a puntate su Oggi – anche perché è lungo solo 63 pagine –, ma potrebbe benissimo essere pubblicato da TIC, cosa che infatti è successa. Se fossi stato nella redazione, comunque, io probabilmente mi sarei opposto. E siccome è più comune che ti vengano a chiedere conto e ragione di un giudizio negativo piuttosto che di uno positivo, ho deciso di trasformare in una nota critica quella che sarebbe dovuta essere un’amichevole recensione. E quindi via col linguaggio accademico e con la posa da critico severo ma oggettivo.

La cifra stilistica, la presenza di temi tipici e il generale approccio speculativo e un po’ cerebrale di Nove rendono la vita del recensore molto facile quando si tratta di rintracciare le sue influenze letterarie. Del resto lo stesso Bertani, in un’intervista di presentazione del libro, le individua soprattutto in due autori, Samuel Beckett e Thomas Bernhard. Rispetto a loro, l’andamento della prosa si distingue per un’ulteriore contrazione della diegesi a favore della mimesi, per la sintassi essenziale e per il lessico ridottissimo e prevedibile, al limite del banale. Questa sorta di ascetismo formale si rifrange sulla superficie testuale attraverso una slegatura quasi totale degli episodi in cui si muovono, o piuttosto parlano, i personaggi, alla cui permanenza è esclusivamente affidata la coesione del libro.

Il minimalismo di Bertani non risparmia né il luogo dell’azione: non c’è modo di scoprire se si tratti di una stanza, o magari di un palcoscenico, né i personaggi stessi. Infatti, se ne incontrano solo tre (fatta eccezione per gli hapax di Casimiro e dell’ispettore Cavallo): AlfredAlbert e Manfred. Presentati insieme fin dalla prima pagina, l’assonanza dei nomi suggerisce una loro parziale sovrapponibilità, come se formassero una specie di assurda trinità. D’altra parte, come i nomi propri sembrano avvicinare i loro portatori fino a farli collassare l’uno nell’altro, così il senso sfuggente delle parole che usano li rende vicendevolmente estranei. Come già si indovina, per quanto la struttura franta del libro permetta l’emersione di tematiche correlate o eccentriche, il perno di Nove è il linguaggio, la sua funzione comunicativa e il suo rapporto con il reale.

Ma l’andatura erratica del testo rende molto complesso suggerire un quadro d’insieme senza rischiare approssimazioni troppo grossolane. Perciò, chiedo alla lettrice la pazienza di sopportare la close reading di una pagina (la numero 44) che veicola in nuce il senso generale del libro.

Parla Alfred, che narra la storia della parola a partire dal suo arrivo sulla terra. La proiezione del racconto «all’inizio dei tempi», che a orecchie occidentali evoca l’attacco del Genesi (In principio creavit Deus..), prepara a una narrazione eziologica o teogonica, con quanto di stilizzato, ma anche di assertivo, le è consono. E dal versante retorico le aspettative vengono tutto sommato rispettate, specialmente se si guarda al modello biblico, nella sintassi per lo più paratattica e nella ripetizione a breve distanza, che schiva l’uso di sinonimi e pronomi, di parole-chiave di elementare semplicità (in ordine di frequenza: parola, parole, terra, pace). Ma lo spirito intimo di questo modello narrativo non è tradito, è irriso. Non si fa in tempo a definire il proprio orizzonte d’attesa che tocca ristrutturarlo, già a partire dall’incipit, dove al riferimento biblico si aggiunge l’inciso «che non è mai l’inizio vero dei tempi». L’innesto contraddittorio compromette la credibilità di un racconto che si presentava come veridico, dal momento che svela un misterioso abisso temporale precedente alla durata, che si sospetta irrilevante, su cui la parola esercita la propria autorità. Quell’obbligo di rispetto reverenziale che la forma dell’attacco pareva rivendicare, perciò, viene irreparabilmente meno. 

Ma di seguito, Alfred ci informa che «la parola ha piantato la sua tenda sulla terra» e che «questa parola è una pianta che ha messo le radici nella terra». Non è necessario conoscere il signor Saussure o il signor Lacan per riconoscere in quest’immagine un’idea sostanzialmente referenzialista del linguaggio, per esempio del tipo esposto nelle Confessioni (poi giustamente ma cordialmente criticato dal Wittgenstein delle Ricerche), secondo cui in buona sostanza non c’è frattura tra parola e realtà. Ponendo nuovamente al centro la pienezza del linguaggio, come già visto con l’incipit mitico, Bertani compie quindi per la seconda volta una brusca inversione di rotta.

Ma il testo continua ad evolversi in maniera inaspettata con la seconda metamorfosi. Da pianta che era, la parola prende la forma di un animale. Dopo aver messo le ali e aver spiccato il volo, la bestia inizia a generare dalla bocca una prole di nuove parole (ma Bertani scrive figli, dimenticando che parole è femminile), che a loro volta ne generano altre. Questo nugolo linguistico si abbatte sull’umanità, schiacciandola a terra. La terra sembra avere qui un significato antitetico rispetto alla prima occorrenza. Dove infatti si trattava di una aderenza di parola e natura, si insedia un immaginario vagamente neoplatonico, il cui fulcro è il binarismo unità/molteplicità, e i cui termini corrispondono, rispettivamente, alle coordinate cielo/terra sull’asse verticale, a quelle positività/negatività su quello assiologico. Questo comporta da una parte la collocazione della parola, a questo punto una specie di ibrido tra Logos e Uno plotiniano, dentro un orizzonte trascendente in cui funge da matrice inattingibile; dall’altra il riconoscimento della condizione di assoggettamento e prostrazione dell’umanità, incapace di far fronte all’esplosione terrena del linguaggio.

Fino a questo punto la pagina sviluppa il conflitto tra decostruzione e ricomposizione del rapporto lingua-mondo. Ma la chiusa del brano inaugura un contrasto diverso. Alcuni, continua Alfred, trovano riparo all’interno della tenda lasciata vuota e silenziosa dalla parola. Ma questo precario rifugio può offrire soltanto un sollievo incerto, «perché nasce sempre sotto la tenda della parola». Vale a dire, al netto delle tautologie care alla prosa di Bertani, che si tratta di un silenzio che inevitabilmente evoca la parola come suo polo dialettico.

Ora, questa coppia di relazioni, quella cioè di lingua piena e lingua vuota da una parte, e di lingua-tormento e silenzio-pace dall’altra, rappresenta le due direttrici principali del libro. Ed è solo dopo averle riconosciute che si fanno più accoglienti alcuni passi altrimenti impervi. Tra questi, il desolante incipit è un buon esempio della prima:

Quando esce Alfred entra Albert, ma non Manfred.
Quando esce Albert, entra Manfred, ma non Alfred.

completato a distanza di una pagina da una terza proposizione che chiude la triade di personaggi:

Quando esce Manfred, entra Alfred, ma non Albert.

e da una quarta, nella pagina ancora seguente, di carattere generale:

Alfred, Albert e Manfred non s’incontrano mai tutti insieme.

Ciò che si deduce da questi assiomi è una sequenza di coppie fisse che parte da Alfred-Albert (per decisione arbitraria dell’autore), continua con Albert-Manfred e termina con Manfred-Alfred, per poi ricominciare. Sembrerebbe dunque che questo sistema triadico di implicazioni debba governare il ritmo delle interazioni tra i personaggi. Senonché a pagina 11 «Esce Albert, entra Alfred»; a pagina 13 «Esce Manfred, entra Albert»; a pagina 19 «esce Manfred, esce Albert» ed «entra Alfred» e così via: la dura lex imposta all’inizio rivela subito la sua impotenza. Alla luce del racconto della parola, dunque, la strategia di Bertani si rivela sempre la stessa, quella di convocare un codice carismatico per smantellarne le pretese di verità.

La seconda direttrice è efficacemente esemplificata da wuammolWuammol è una parola pronunciata da una voce ignota che esce da un registratore, oggetto di misteriosa origine su cui si incardinano alcune delle pagine più ispirate degli ultimi capitoli. La voce lo presenta come «l’unica cosa che mi sento di dire» (58), sebbene per sua stessa ammissione non significhi niente, come non significano niente tutte le altre parole: «se non ci fosse la parola albero, pensi che non esisterebbero gli alberi?» (58). Wuammol è però l’unica parola disposta a sacrificare la propria referenzialità per mostrare in bella vista la piaga del non-senso. Ed è per questo che può cavalcare i venti, salire sulle montagne, fare il giro del mondo e avventurarsi nell’esplorazione intergalattica (59). È insomma nel momento in cui rinuncia alla pretesa di essere una parola e lambisce il confine del silenzio, quando diviene pura enunciazione, che la parola acquisisce una corporalità che le permette di esplorare il mondo. Perciò, Wuammol si colloca nella crepa tra lingua e silenzio, assumendo le caratteristiche di un’entità di confine che permette di evadere la gettatezza nel simbolico (Heidegger), riabbracciare il naturale e conquistare il piacere perduto. Ma coerentemente con l’allegoria della tenda, Wuammol si rivela un tentativo fallimentare, e la gioia promessa dal silenzio un obiettivo inarrivabile. Finito il nastro, Alfred fracassa il registratore nel tentativo di distruggere le parole, ma Albert gli si oppone, lo colpisce, lo lega e inaugura il delirante monologo finale, che lascio alla curiosità delle lettrici.

Questo è quanto ha da dire Nove: i problemi del senso del linguaggio e dell’angoscia di chi lo abita non ricevono risposta. E dopotutto noi lettrici e lettori smaliziate un po’ ce lo aspettavamo. Ma mi dispiace che Bertani si sia infilato in questo discorso novecentesco già stanco da morire, prevedibile e, almeno per me che ci ho dovuto scrivere sopra, pure un po’ noioso. Perché alla fine della lettura sono rimasto con l’impressione che Nove sarebbe potuto essere un libro molto diverso. Di tanto in tanto, infatti, fa capolino un’ispirazione lirica, completamente incoerente col resto, che apre dei veri spazi di autenticità. E manco a dirlo, quando capita c’è di mezzo l’amore (sempre in versione pessimismo cosmico eh, non sia mai che ci si conceda cinquanta centesimi di gioia):

[…] ci siamo conosciuti all’Osteria dell’Angolo, lei stava bevendo un bicchiere di vino rosso, mi sono seduto e le ho chiesto se voleva mangiare con me, lei mi ha detto, voglio fare l’amore, io sono stato zitto, il cuore mi batteva forte, mi sono alzato e sono uscito dall’osteria, ho cercato dentro di me una stanza da letto e non l’ho trovata, sono rientrato e seduto al tavolo di fronte a lei c’era un uomo altissimo, quando ho provato ad avvicinarmi, lui senza voltarsi ha allungato il braccio che sembrava infinito e con la mano mi ha fatto segno di fermarmi, io mi sono bloccato, e così si è fermato anche l’amore, io sono innamorato, ma l’amore non c’è, è volato via con le sue ali nere e nessuno può sapere dove sia finito. Alfred dice, nessuno lo sa.

Nessun paesaggio si riflette: due poesie di Arai Takako

Introduzione e traduzioni dal giapponese a cura di Edoardo Occhionero.

È il marzo 2011 quando, a pochi giorni di distanza dal terribile terremoto che ha scosso la terra del Tōhoku, si verifica il meltdown del terzo reattore della centrale Daiichi di Fukushima. Di fronte alla catastrofe non ha tardato nemmeno la risposta della poesia (perché, in fondo, la letteratura nasce anche in simili circostanze: basti pensare alla testimonianza in versi sulla bomba atomica da parte di Kurihara Sadako, o a quella di Ishimure Michiko sul disastro chimico di Minamata del 1956).  

In simili tentativi di documentazione della realtà, rientra anche Letti e telai (2013) di Arai Takako che, protesa con uno sguardo sconcertato sui resti di una terra devastata, si domanda che cosa valga la pena recuperare, talvolta trasformando il sarcasmo in una caustica critica verso coloro che detengono le responsabilità dell’incidente. Così la scarpa spaiata di katahō no kutsu diventa metonimia di migliaia di cadaveri trascinati a riva dalla corrente, e in Galapagos il paesaggio spettrale e tossico della centrale nucleare si contrappone all’eden terrestre rappresentato dall’arcipelago equadoregno del titolo.

Poche voci all’interno del panorama della poesia giapponese si distinguono per la loro esplicita posizione di impegno civile e di anticonformismo. Tra queste c’è quella di Arai che presenta un Giappone diverso da quello dei ciliegi in fiore o delle rane che saltano nei vecchi stagni. È un Giappone che si preoccupa più dello “tsunami di recessione” che della salvaguardia dei propri cittadini, è il Giappone del kaso (esodo dalla campagna) e dello shōshi (calo della natalità).

Lo smascheramento della nazione idilliaca avviene attraverso un uso plastico e a volte sperimentale della lingua giapponese. Itō Hiromi al riguardo scrive: “[…] non conosco nessun’altra donna che ha avuto così successo nel trovare una lingua indigena [土着的なことば], affilandola con precisione chirurgica, e usandola per parlare con una voce così vivida”. Arai infatti torce il verso fino al massimo livello di espressività (si vedano, per esempio, l’associazione “nerume/Uniqlume” e le numerose rime in –bō). È poi consuetudine imbattersi in frammenti dialogici, in inflessioni dialettali e in tecnicismi del linguaggio settoriale, con l’intenzione di amplificare il raggio di azione della poesia. Un altro strumento di riverberazione – impareggiabile – è l’adozione e la coniazione di omofoni/omografi (come la coppia 中性子 e 中精子 (chūseishi) in cui il primo designerebbe sia il neutrone sia la persona intersex mentre il secondo rappresenterebbe un hapax, in quanto è attestata unicamente la forma 精子, “spermatozoo”).


Arai Takako (新井高子,1966 –), originaria della prefettura di Gunma (più precisamente della città di Kiryū, famosa per la produzione di stoffe), attualmente abita a Yokohama ed è professoressa associata dell’Università di Saitama dove insegna lingua giapponese agli studenti internazionali. Tra le sue opere si menzionano Haō bekki (“Vita separata del sovrano”, 1997),  Tamashii dansu (“La danza dell’anima”, 2007) – per cui è stata insignita del Premio Oguma Hideo –, e Betto to shokki (“Letti e telai”, 2013). Nelle sue raccolte poetiche non mancano i riferimenti autobiografici all’infanzia trascorsa nella fabbrica di tessuti del padre, e in particolare alla condizione di vita e al lavoro delle donne. Per anni, dall’inizio delle politiche di modernizzazione post-bellica, l’occupazione nell’attività tessile è stata di esclusivo dominio femminile, fino all’esternalizzazione in paesi in via di sviluppo avvenuta verso la fine del secolo scorso. I versi di Arai ripercorrono quindi il declino del paesaggio industriale, si affacciano sulle numerose mani che hanno continuato a compiere i gesti consueti anche dopo la chiusura della fabbrica. Perché questa ha forgiato le loro vite.


Da Letti e telai (2013)

片方の靴

紅いひなげしが咲いていました
浜辺に、
片方だけ、皮靴が打ち上げられておりました
縛ったままの靴ひもでした
.
花びらのあさつゆを
ひなげしが 身をしならして垂らしたら
息づきます、かすかに、
精いっぱい振りこぼしたら
あけようとする、
目ぶたを
泥靴が、
.
古井戸のように深い目に、
おそらく
景色は映っていない
記憶さえ
ぐっしょり濡れて、
ひなげしは さすってみるほかありません
葉を伸ばし
胸のような靴の甲を、
 ––––– 砕くことはできないよ、波も 
    流せない
    すりへった踵と
    皺が、
    たぐり寄せるのです、
   はぐれたひとの眼ざしを
 浜辺まで、
ひなげしが覗きこめば
いっそう透きとおり、
井戸の底に
小魚の背びれのような、火が、
.
  ––––– 消せないさ
     存在のおくの、正直なほそい光は
     海もまた、
     巨きな瞳だから、
.
    あのとき
   うるんで疾走しながら、
  怒濤しながら
 どんな光を放ったか
沖へ、
飲まれていく、もう片方は
.
   ––––– かこうとする、ひと輪の
      蒼い火を、
      見たでしょうか
      いわしの群れの目が、
.
また揺れてるね
いいえ、
.
風だよ
裸のひなげしが立っていました
花びらを、
井戸に降らして
.
へその緒なのです
靴ひもの
その先は、
つかもうとする瞳の底まで
.
這って、

La scarpa spaiata

Il papavero rosso è in fiore,
Sulla riva,
Spaiata, solo una scarpa di pelle trascinata dalle onde,
I lacci ancora annodati
.
Mentre il papavero si flette sgrondando
La rugiada dai petali,
La scarpa imbrattata
Tira un sospiro, leggero
Mentre il fiore si scrolla,
La scarpa apre
Le palpebre
.
In occhi profondi come un vecchio pozzo
Forse
Nessun paesaggio si riflette
Perfino la memoria
È bagnata fradicia,
Al papavero non resta allungate le foglie,
Che accarezzare
Il dorso della scarpa, ora simile a un torace
.
––––– Non puoi rompermi! Neppure le onde
Riescono a trasportarmi
Col mio tacco logoro
E le grinze,
Riavvolgono lo sguardo
Del bambino che l’ha persa di vista
Fino alla riva,
Se il papavero sbirciasse
Nel letto del pozzo
Vedrebbe un fuoco ancora più trasparente
Come la pinna dorsale di un minuscolo pesce
.
––––– Il mare non può spegnere la luce
Integra e sottile, dal fondo della mia esistenza
Perché il mare
È un enorme pupilla
.
Quale luce deve aver emesso
In quel momento
Velata di lacrime, mentre procedeva
Verso il largo,
E infuriava la burrasca,
Inghiottita, già spaiata
.
––––– L’anello di fiamma verde
Disegnato attorno ai miei occhi
L’avrà visto
Il banco di sardine?
.
Ondeggia ancora il papavero
No
È il vento
Nudo, sta in piedi
Facendo cadere i petali
Nel pozzo
.
La punta del laccio
È un cordone ombelicale
A cui il bambino prova ad aggrapparsi
Fino al fondo delle pupille
.
Striscia giù

ガラパゴス

茶飲みばなしだろ!、景気って
お伽ばなしだよ!、株相場は
やらかしてよ、
  もっと、揶揄化してよ
うんざりだね
黒づくし、ユニクロづくしは

台なしだよ!、エロスが
出しっぱなしだろ!、タナトスを
いかしてよ、
  もっと、異化してよ
ケータイの 引っきりなし、
マイクロソフトの 人でなしに

   ––––– 着さしてもらえて なかったんじゃアありませんか?
      国民服しか、
      震災のずっと前から
      わたしたち、
      不況という 津波 ばっかし恐怖して、

防護服です、
ソレは
打たれ強いのです、
高波に
6メートルまで 耐えられます
いいえ、
水着 と言っちまおうか
冷たいグローバル
グロテスクなグローバリズムの 胎内で
溺れそう
リーマンに、
サラリーマン
欲しがりません
申しません
もう しません、やりません
女子も、男子も、中性子
生殖しない ユニセックス
   ほら、
  分裂する、
 中精子は、
なかなか融合しないんです、って

放りっぱなしだろ!、核分裂も
野ざらしだぞ!、原発ドームの 胎内も
燃料棒が、安全帽が、卵細胞が、けちん坊が、どろぼうが、
冷房が、暖房が、
赤ンぼうが、仏(ほとけ)ンぼうが、大海原に浮かぼうが、叫らぼうが、
原子炉建屋がぶっ飛ぼうが、
堤防が、陰謀が、官房が、
 アンビリーバボーが、
 インクレディボーが、
東電が、
  ユニクロ着込んで
 防御する、
津波

  コンドームで
 発電する、
半減期
で いいのか?

わたしたち

Galapagos

Un discorso da bar, l’andamento del mercato!
Delle favolette, le quotazioni in borsa!
Avanti, fallo!
                       Deridili ancora di più!
Ne ho abbastanza
Di tutto questo nerume, di tutto questo Uniqlume

Rovinato! Eros
Trascurato! Thanatos
Resuscitali!
                    Scomponili ancora di più!
Questi cellulari incessanti
Questo Microsoft disumano

––––– Ciò che ci avete fatto indossare     non erano forse
            Le nostre divise nazionali?
          Prima del terremoto
            Noi
            Terrorizzati solo dallo     tsunami     di recessione

Questa
È la nostra tuta protettiva
La nostra resistenza
Ai cavalloni
Alti 6 metri     sopportiamo
No
Non è più   un costume da bagno?!
Sembra annegare
Il freddo globale
Nel grembo   del grottesco globalismo
Alla Lehman Brothers
I salarymen
Non vogliono nulla
Non dicono nulla
Non fanno nulla, non fanno più nulla
Ragazze, ragazzi, non-binary
Nessuna procreazione         unisex
                    Ecco
          La divisione
    Dicono che non si fonderanno
Gli spermio-neutroni

Sono stati abbandonati a loro stessi! Anche la cariocinesi
Lasciata esposta! Pure il ventre del reattore,
La barra combustibile (nenryōbō), gli elmetti antinfortunio (anzenbō),
                       [gli ovociti (ransaibō), gli spilorci (kechinbō), i furfanti (dorobō),
gl’impianti di condizionamento (reibō), i termosifoni (danbō),
Gl’infanti (akanbō), i defunti (hotokenbō),  
                       [che affiorano sul grande oceano (ukabō), lì lì per gridare (orabō),
L’edificio di contenimento divelto (buttobō),
I frangiflutti (teibō), i complotti (inbō), il segretariato (kanbō),
Unbelivabō
Incredibō
La TEPCO
             Indossa il suo Uniqlo
        A baluardo
Dello tsunami
         Nel dome
Si produce energia elettrica

Nei nostri condom
C’è mezza vita
È abbastanza?

Noi

Su “Atlante di chi non parla” di Maddalena Lotter

Nota di lettura a cura di Gianluca Furnari.

Ampliando gli intenti delle opere precedenti in una direzione più scopertamente metafisica, Atlante di chi non parla (Nino Aragno, 2022) di Maddalena Lotter dà ancora l’impressione di un libro che funziona perfettamente a dispetto – o in ragione – del suo «lirismo neoclassico» (Davide Castiglione), che si sostanzia di un dettato dimesso e di un’immaginazione spontanea.

Il libro si snoda lungo tre sezioni, dalle «Migrazioni» funebri della prima parte, incentrata sul tema della «bestia moribonda» (p. 15) (farfalle, cicale, uccelli, cani, etc.), alla «cosmogonia negativa» (p. 53) di «Il testimone», poemetto conclusivo in quattrodici movimenti su una caproniana «fuga di Dio», passando per le «Storie di animali grandi», ove l’ambientazione oscilla tra un museo di storia naturale e i fondali oceanici.

Fil rouge del libro, più che la natura, è una sua deformazione mitico-fiabesca: sprofondando nel mondo che descrive in una sorta di animismo infantile, l’io lirico coincide talora con l’animale (di qui il titolo), fino al paradosso dei cetacei che, durante una traversata, osservano gli uomini che li osservano stupiti («Ci guardano da una nave ferma come per capire», p. 38). Spesso anziano, come la megattera di p. 41, il cetaceo serba memoria delle proprie fasi evolutive («Ora come un’onda / scivolano le pinne antiche zampe», p. 36), e la sua identità, più collettiva che individuale, sembra scaturire da una preistorica sedimentazione.  

Il tema del soffio vitale che percorre le membra altrimenti inerti («viene tutto dal greco, è un vento», p. 19) può sfociare, come già in «Questioni naturali», in un tono «sentenzioso» (Marco Malvestio), eppure esso appare neutralizzato dal respiro fiabesco, dando vita, tutt’al più, a paralogismi affabulatori come quello di p. 50 («Un altro nome di ciò che muta è movimento, / solo ciò che si muove è vivo, / io sono vivo, ciò che vuole essere vivo / ama la distanza»), ove, se c’è una perentorietà, essa sembra quella del bambino che pensa fra sé e sé a voce alta (connotata in senso infantile, del resto, è la stessa locuzione «animali grandi»).

In alcune poesie de «Il testimone» parla il dio creatore, l’animale più grande di tutti: non però il dio biblico («io non sono un legislatore», p. 51), ma un dio ovidiano, che crea il mondo un po’ a caso, compiacendosi delle sue intuizioni, e il cui atto supremo è quello di negarsi e «mancare» (p. 55), in linea con una nozione di «distanza» quale presupposto di vitalità e comunicazione.

Il segreto di questa poesia, che si conferma tra le più vivaci della scena contemporanea, è forse nelle chiuse, spesso in metri dispari (con prevalenza di endecasillabi e novenari), ove il testo trova un’armonica composizione e squaderna scenari nascosti, lontani nel tempo e nello spazio: «si è aperta un’immagine nitida: / me stessa invecchiata. / Arrivavo sola sulla spiaggia, / ma non quella, un’altra assurda, sconfinata» (p. 20).


Da «Il testimone»:

VI

volavo da una parte all’altra
incastrando opali neri nella roccia
lo facevo un po’ per impegno
e un po’ per esuberanza
come quando, felice di aver pensato il sole,
mi gettai all’indietro in una tempesta di gemme
e minerali, pioggia d’ambra, ametista, quarzo
satelliti di madreperla e di topazi
dal mio corpo celeste
aprivo la bocca e ridevo e li mangiavo

Su “Macchine del diluvio” di Stefano Massari

Nota di lettura a cura di Graziana Marziliano.

Macchine del diluvio è la quarta raccolta poetica di Stefano Massari (Roma, 1969), pubblicata a Marzo 2022 per MC edizioni nella collana Gli insetti. La sezione iniziale della raccolta, «primi dodici morti (1969-1996)» – insieme alla seconda sezione «figure del diluvio» e all’«(antefatto)» – contiene poesie composte dal 2010 al 2016. Le ultime due sezioni, «macchine del diluvio» e «diario nostro», contengono liriche elaborate dal 2016 al 2021. Questa raccolta di Stefano Massari si pone in un momento particolare della produzione dell’autore: guardando alle prime tre pubblicazioni – diario del pane, libro dei vivi, serie del ritorno – che costituiscono una specie di trittico, Macchine del diluvio arriva dopo un momento di silenzio autoimposto, un silenzio che l’autore stesso credeva definitivo.

È interessante vedere come il testo si apra con delle parole trascritte durante una seduta spiritica: «raccontare non è facile. le mie rinunce – le piango / ancora», in cui emerge sin da subito il tema della raccolta: chiamare chi c’è dall’altro lato, far riapparire figure che continuano a bruciare e consumarsi nella mente di coloro che vivono. La sezione d’apertura «primi dodici morti (1969-1996)» contiene dodici componimenti, ciascuno relativo all’esperienza di una morte – anche non diretta, cioè raccontata per bocche di altre persone, con uno scarto di tempo – di un personaggio. Non si tratta necessariamente solo di una morte corporale, ma anche esistenziale e generazionale, infatti, l’arco temporale indicato nel titolo comincia con l’anno di nascita dell’autore e il fatto che al centro del primo componimento (la prima delle dodici morti) ci sia l’io lirico bambino dà l’idea che la nascita stessa coincida con un elemento mortifero, con qualcosa di mancante in nuce.

I personaggi di questa prima sezione sono fantasmi familiari dal destino coatto, che ripetono le loro azioni in un esercizio di sfinimento cieco. Uno di questi è la madre, figura che pulisce e protegge. È lei che abita le stanze asfittiche della poesia «con gli occhi abituati al buio e le finestre sbarrate per paura dei topi dei servi e del caldo // con le unghie masticate fino all’alba e tutto il nervo del secolo addosso»; è incastrata in un meccanismo di ripetizioni senza uscita: «io non ho più fede in niente / ma non posso». La madre si muove nel testo di apertura con gesti di fatica e protezione che continuano a ripetersi senza interruzione né possibilità di un altro tipo di azione nella storia.

Αlla figura della madre se ne sovrappone un’altra, più oscura e laterale: il padre, di cui sentiamo il rumore delle bestemmie e dei pugni sulle porte di casa prima ancora di vederlo comparire nel buio. A completare questo albero genealogico disfatto sono i parenti di secondo grado, «il padre del padre» e «la madre della madre»: figure in macerie, deliranti, che sono separate e in contrapposizione rispetto ai figli «perduti e mai nati» le cui esistenze non sono nemmeno abbozzate, ma rimangono limitate all’ipotesi, all’assurdo.

ΙΙ
poi la madre della madre   cullava qualcuno
che per sempre non c’era   fissava qualcosa
che per sempre spariva   stretta nella camicia
che puzzava di bianco  la notte mi pisciava
di fianco e piangeva   e si strappava i capelli
e chiamava madre sua figlia

un po’ d’acqua e nient’altro  signora
tanto da questo male   nessuno ritorna
signora

In mezzo a questa folla, tra fantasmi e apparizioni, si situa un noi, un soggetto plurale con radice anagrafica: «noi / gli interrotti   condannati a tradire / addestrati a sparire». Tra i suoi interlocutori troviamo i fratelli e le sorelle, che sono stati spazzati via prima del tempo («crani di fratelli e le sorelle   liquefatti troppo presto / troppo presto»). I loro strumenti di sparizione ritornano più volte nel testo: la corda, le siringhe, gli aghi sporchi. Queste sparizioni si inseriscono nelle due sezioni centrali («figure del diluvio» e «macchine del diluvio»), in cui si possono intravedere apparenti echi storici riconducibili agli anni Ottanta e Novanta («le leggi di falciare le vene» «le grandi femmine sovrane» «di urina e rivoluzione»).

Il soggetto plurale al centro della raccolta si caratterizza come superstite, sospeso in una frattura tra generazioni e fa i conti – attraverso tentativi di catalogazione – con ciò che rimane e ciò che si è perso durante il diluvio.

Il noi collettivo che è rimasto vivo deve raccogliere le morti improvvise e non assimilate degli scorsi decenni. Deve chiedere un perdono per chi è sparito troppo presto (e anche per se stesso) e deve farlo utilizzando un lessico di preghiera. La materia del testo – riferita, storica, concreta – viene incastrata in un edificio di parole sacre, tuttavia, questo campo semantico della sacralità è continuamente corrotto e sporcato dalle evidenze della storia: «poveri cristi e criste   con le iene in testa / e lo sporco di dio   sottopelle».

Ad attraversare tutta la raccolta è un monito, un giuramento infedele «che ogni cosa  verrà generata ancora». Le figure tramiti di questa promessa di rigenerazione, le portatrici, sono le figure femminili («la nuda impaurita trafitta», «l’innamorata», «l’insanguinata», «la testimone», «la bambina con la morte» o «che piove senza pace e aspetta / sulle soglie») vengono poste come elementi liminari, spiragli di un futuro possibile, ma inefficaci, perché la rigenerazione si inceppa già nei suoi presupposti.

Ciò si spiega con il fatto che questa collettività femminile ha due funzioni principali: la prima consiste in uno sguardo retroattivo che serve a ribadire l’impotenza dei padri, che però è sempre santa («sulle gole delle sorelle che baciano / il padre morto   come un talismano»). La paternità è un’eredità sfuggita di mano («alla destra di nostro padre terminale»): la sua impossibilità si configura nei confronti di un soggetto lirico che deve riconoscersi oggi nel ruolo di padre: «uova / di maschio mangiate sulle schiene / sporche e sfinite di padri prede e pietre / come pezzi di corpi che non nasceranno mai più» o almeno i padri non sono più distanti, lontani, incomprensibili e intraducibili e sono finalmente dei «padri impauriti   che sorvegliano / la schiena del mondo   e battono le mani le mattine / nere di freddo   e si preparano   all’odio e al lavoro /al cospetto dei giudici e i loro denti   inauditi».

I personaggi più insoliti e interessanti che appaiono nella sezione centrale «macchine del diluvio» abitano un paesaggio infetto e desolato, hanno le sembianze di macchine organiche: «i grandi acciai animali scavatori»«gli uccelli fissi e idioti»«il verme cardanico», «la sorella carotide metallica»; in questa categoria si potrebbe includere lateralmente anche dio stesso: «chiunque tu sia   perduto dio   incompiuta bestia».

In Macchine del diluvio la scrittura si configura come un’operazione in minuscolo, in cui le spaziature sono le  vene – spezzate dalla continua tensione – del corpo orizzontale del testo. «Una poesia contratta» la definisce Pasquale di Palmo, direttore della collana, i cui versi si articolano per blocchi sintagmatici. Guardando la struttura dei componimenti, verrebbe da notare che la terza sezione «macchine del diluvio» e la prima parte della quarta sezione «(roma-corale)», rispetto alle precedenti, presentino una più accentuata contrazione dei testi (di tre o quattro versi): qui i sintagmi nominali si accalcano evidenziando una maggiore urgenza del dire. Questi sono i testi più recenti, composti dal 2016 al 2021.

i morti ce li portiamo in bocca
non sappiamo come altro fare

La quarta sezione, «diario nostro», prosegue rannicchiandosi in un’intimità cercata: dalla pluralità di figure delle altre sezioni si passa a un dialogo tra una coppia di sopravvissuti: «la nostra notte / lentissima   assurda verticale   ora che ci raggiunge / ci semina e ci crede illesi   ci lascia riposare». La raccolta si chiude sui toni di un dolore nudo e onesto, girato di schiena. Viene quasi da pensare che quelle dodici morti iniziali non siano effettivamente figure necessarie, attraverso cui si deve passare ogni notte, prima di trovare – o nella speranza di trovare – il sonno o il perdono.

Macchine del diluvio è un tentativo di scavo e riconciliazione con un mondo dal quale si è stati per molto tempo disconnessi, chiusi in solitudine. Quando si tira fuori la voce dopo un periodo di silenzio, la bocca è impastata e il peso della sillabazione si percepisce maggiormente, ma quel composto ritmico e materico che era in attesa preme per uscire – le parole allora si rivelano necessarie.

da (roma-corale)

XVII
chiunque tu sia allora sillaba contro sillaba
corpo madre cardinale   giura che posso
ancora pronunciare questo ennesimo addio
curvo come un diluvio   un digiuno   una febbre
un calendario di prede e regole del bene
che finalmente posso entrare   nell’unica tua
temperatura dell’alba1    perfetta e finale


  1. N.d.A.: «temperatura dell’alba» è un verso di Carlotta Cicci. ↩︎

Come le cicale: tre poesie di Phoebe Giannisi

Introduzione e traduzioni acura di Valeria Cassino, vincitrice della prima Call for Translators per il greco moderno.

“Sono una chimera, un essere ibrido tra animale e macchina, una poeta, un’architetta. La mia poetica si esprime inevitabilmente con i mezzi a mia disposizione, senza censurarne la molteplicità”. Nata ad Atene nel 1964, Phoebe Giannisi è poeta e architetta, ha un dottorato in Lettere Classiche e insegna presso l’Università della Tessaglia. Fondatrice e co-editrice della rivista “Mavro Mouseio” negli anni ’80, attualmente è membro della redazione di “FRMK”, rivista biennale di poesia, critica letteraria e arti visive, punto di riferimento nel panorama poetico greco contemporaneo, di cui Giannisi è una voce di spicco.

La sua ricerca si concentra sui confini tra poesia e performance, identità e metamorfosi, tempo e memoria, e indaga i legami della poesia con il corpo, la voce e lo spazio. Giannisi si inserisce nella tendenza tipica della poesia greca contemporanea definita come diakallitechnikotita, ovvero “trasversalità fra le arti”: il suo lavoro è frutto di un dialogo continuo fra espressioni artistiche diverse, parte da modelli archetipici per declinarli in nuove forme ed espanderli attraverso la sperimentazione transmediale. La lingua di Giannisi è disadorna, minimalista; tratteggia immagini apparentemente disarticolate fra loro, ma architettate con cura artigianale, che esplorano con icastica immediatezza la relazione del linguaggio con lo spazio urbano e naturale.

Dal 1995, anno del suo esordio con Achinoi (“Ricci di mare”), ha pubblicato otto raccolte poetiche, alcune delle quali sono state tradotte anche in inglese e in tedesco. Giannisi è stata inoltre inclusa nelle antologie di poeti greci contemporanei Futures. Poetry of the Greek Crisis (2015), a cura di Theodoros Chiotis, e Austerity Measures. The New Greek Poetry (2016), a cura di Karen Van Dyck.

Le poesie presentate in questo contributo appartengono alle raccolte Omirika (Kedros, 2009) e Rapsodia (Gutenberg, 2016). Omirika intreccia la mitologia classica con l’esperienza moderna; personaggi, episodi e luoghi dell’Odissea sono i diversi tasselli della narrazione, che crea in questa raccolta un io polifonico attraverso cui parlare di temi come l’amore, lo straniero, la maternità, il viaggio, la memoria, la nostalgia. Ispirandosi inoltre alla tradizione orale dell’epica, Giannisi modella la propria poetica sperimentando con il ritmo, il suono, la ripetizione. Rapsodia è un’opera composita che racchiude più di cento poesie ed è il culmine di un progetto che comprende manoscritti poetici, performance, video, mostre e installazioni multimediali, fra cui spicca Tettix (“cicala” in greco antico), che si ispira all’associazione della figura del poeta con quella dell’insetto attraverso l’antica mitologia greca, la filosofia e la poesia.


Da Oμηρικά (2009)

Προοίμιο

μία πέτρα στον βυθό άσπρη
σειρές από γαλάζια χαλίκια το μούτρο
πάνω τους μες στο νερό
η αναπήδηση της βάρκας στα κύματα
πάνω στα κύματα ταχύτητα του αέρα η ώθηση
πετάμε
ένα μοναχικός γλάρος στην ξέρα
συνέλευση γλάρων οι γλάροι κρώζουν ασταμάτητα
κατά περιόδους
σιωπούν
όπως τα τζιτζίκια
ο ασταμάτητος βόμβος τους απότομα παύει την ώρα
της μεγαλύτερης αιθρίας της ζέστης του μεσημεριού
με το αυτοκίνητο ο βόμβος των τζιτζικιών πιο συχνός
πιο συνεχής
πιο γρήγορος
τα ξέχασες όλα
δεν μπορείς να θυμηθείς
το πώς
αρχίζεις να ξεχνάς το τι
Ας ήτανε το πώς μια επανάληψη του τι
η λήθη των στιγμών για σένα φάρμακο
ενάντια
στου αμετάκλητου την λύπη
με καλυμμένο το κεφάλι σε τόπο αχαρτογράφητο
ακούς του εαυτού σου τον τραγουδιστή
λέξεις του Κανενός
δαήμονος ανδρός περιπλανήσεις
αέρα θάλασσα λάθη ανεπίστρεπτα δώρα
να αριθμεί
ξέρεις καλά ότι η σειρά των τι είναι εαυτός
αλλά άραγε να έμαθες πως η σειρά των πώς
είναι ο άνεμος;

Proemio

una pietra sul fondo bianca
serie di sassolini azzurri la faccia
su di loro dentro l’acqua
il sobbalzare della barca fra le onde
velocità sulle onde la spinta del vento
voliamo
un gabbiano solitario sulla secca
adunanza di gabbiani i gabbiani gracchiano senza sosta
di tanto in tanto
tacciono
come le cicale
il ronzio senza sosta interrompe brusco il tempo
di maggior chiariore del caldo di mezzogiorno
con la macchina il ronzio delle cicale più costante
più continuo
più veloce
hai dimenticato tutto
non riesci a ricordare
il come
inizi a dimenticare il cosa
Se solo il come fosse una ripetizione del cosa
l’oblio degli attimi per te medicina
contro
la tristezza dell’irrevocabile
con il capo coperto in un luogo senza mappa
ascolti il cantore di te stesso
mentre conta
parole di Nessuno
il vagare di un uomo navigato
aria mare errori irreversibili doni
sai bene che la serie dei cosa è il sé
ma hai forse imparato che la serie dei come
è il vento?

Da Ραψωδία (2016), sezione “Τέττιξ”

Γενέθλια

Φαγουρίζουνε τα φτερά όταν βγαίνουν;
όταν από την έξοδο της κοιλιάς
έβγαλες πρώτα το κεφάλι
και σπρώχνοντας από τον πόνο
πετάχτηκες έξω στο φως
για να φωνάξεις
ήταν τα μάτια σου ανοιχτά;
άκουσες τα λόγια αυτών
που σε κρατούσαν βοηθώντας
όλο το σώμα συστραμμένο
μαζεμένο τα πόδια λυγισμένα
και η μέρα ζεστή;
μία γυναίκα γεννούσε
στου αυτοκινήτου της το πάτωμα–
κάθε μεγάλωμα άραγε
πονάει σαν το πρώτο;
δεν μεγαλώνει κανείς
με τον ίδιο ρυθμό αδιόρατα;
ή μήπως μετά από περιόδους στάσης
αίφνης η κίνηση σε κατακτά
κι αυξάνεσαι και ανυπόφορα αλλάζεις;
πετάς από πάνω σου
σαν το λουλούδι τα πέταλα
μέσα στη δρόσο που ρουφάς
κάτι παλιό και ξανά;
κατοικημένος
από της νύχτας τις αγωνίες
ανοίγεις τα πρωινά σου μάτια
ανάποδα να κοιτάξεις τον κόσμο;
έχεις μαζέψει τ’ άστρα τα κρατάς
στα χέρια τα σκορπάς
στο χώμα την άμμο
έχεις ψηλώσει πια
το δέντρο εσύ
στη μικρή σου σκιά μάς χωράς
πιο ελαφρούς τώρα πιο ελαφρούς

Compleanno

Prudono le ali quando spuntano?
quando dall’uscita del ventre
hai tirato fuori prima la testa
e spingendo dal dolore
sei saltato fuori alla luce
per urlare
avevi gli occhi aperti?
hai sentito le parole di quelli
che ti tenevano aiutando
il corpo tutto attorcigliato
raggomitolato le gambe piegate
e la giornata calda?
una donna stava partorendo
sul tappetino della sua macchina –
forse ogni crescita
fa male come la prima?
non si cresce
con lo stesso ritmo impercettibilmente?
o forse dopo periodi di stasi
all’improvviso il movimento ti possiede
e cresci e cambi insopportabilmente?
ti scrolli di dosso qualcosa di vecchio
come un fiore i petali
nella rugiada che succhi
ancora e ancora?
abitato
dalle ansie della notte
apri gli occhi mattutini
per guardare il mondo sottosopra?
hai raccolto le stelle le tieni
in mano le spargi
sulla terra sulla sabbia
ormai sei diventato alto
l’albero tu
nella tua piccola ombra ci contieni
più leggeri ora più leggeri

Sezione “Τ-ώρα”

Η παρούσα στιγμή

Ι

Ο άνεμος ο φέρων τις φωνές
δροσίζοντας σαλεύει το μανίκι
κουνάει του φουστανιού την άκρη
ενώ στην άσφαλτο
μπροστά στις ρόδες
χορεύει το σπουργίτι με την πεταλούδα

ΙΙ

Ανοίγω το στόμα να μιλήσω
αλλ’ αυτό σφίγγει τα δόντια
κοχύλι εσύ
λέξη κρυμμένη
στο βυθό θαμμένη
μαλάκιο
ακίνητο στην άμμο
με τις κεραίες
προς τα μένα να σαλεύουν

ΙΙΙ

Γιατί η στιγμή είναι ασύλληπτη
καθόλου παρούσα
το «παρόν»
«αυτό που είναι εδώ»
χώρος αντί για χρόνο
η γλώσσα την έλλειψη μιλά

ΙV

Γιατί διαφεύγει του νοήματος η γλώσσα
τα λόγια μου
η σκυτάλη
ένα χαλίκι
δανεισμένα
αόριστα θυμίζουν μίαν άλλη παρουσία
πριν από εμένα
να ανοίγει δρόμο
κι ο δρόμος όταν ξαναπατηθεί
είναι δικός μου
και δεν είναι
κι ο δρόμος όταν ξαναπατηθεί
έγινε λάκκος
για να πέσω

V

Γιατί το χέρι που γράφει
τα λόγια
μιλά μία φωνή
μοιράζει νέμει
το πιο δικό σου φέροντας
κι ας είναι δανεισμένο
μοιράζει
τον χρόνο σε κομμάτια
μοιράζει προεκτείνει
πέρα από όλους εμάς
καλὰ καὶ ὕψι βιβὰς
τα πόδια ψηλά με ρυθμό
μουσική
προς τον άλλο
ανοίγεται
προς τον ουρανό
καθαρή αγάπη
μέσα στην έλλειψη
απολλώνειος χορός

πάνω στην προκυμαία το φεγγάρι
αρνείται με τη σειρά του να βγει

L’attimo presente

I

Il vento foriero di voci
rinfrescando muove la manica
agita il lembo dell’abito
mentre sull’asfalto
davanti alle ruote
il passero balla con la farfalla

II

Apro la bocca per parlare
ma quella stringe i denti
conchiglia tu
parola nascosta
sul fondale sepolta
mollusco
immobile sulla sabbia
con le antenne
che si muovono verso di me

III

Perché l’attimo è inafferrabile
affatto presente
il “presente”
“ciò che è qui”
spazio anziché tempo
la lingua dice l’assenza

IV

Perché la lingua del senso rifugge
le mie parole
il testimone
un sassolino
prestate
indefinite ricordano un’altra presenza
prima di me
che spiana la strada
e la strada quando si calpesta ancora
è mia
e non lo è
e la strada quando si calpesta ancora
è diventata una fossa
dove cadrò

V

Perché la mano che scrive
le parole
dice una voce
divide distribuisce
portando ciò che è tuo
anche se è in prestito
divide
il tempo in frammenti
divide estende
oltre tutti noi
a passi rapidi e eleganti
le gambe in alto a ritmo
musica
verso l’altro
si apre
verso il cielo
amore puro
dentro l’assenza
danza apollinea

sopra il molo la luna
quando è il suo turno si rifiuta di spuntare

Rasi al suolo e post-testuali. Su “Soggetti a cancellazione” di Lorenzo Mari

Nota di lettura a cura di Fabrizio Maria Spinelli.

È noto come per Lacan il soggetto non possa mai realizzarsi sul piano dell’enunciato, ma solo su quello dell’enunciazione. Da qui l’origine di quelle frasi vertiginose come «il significante rappresenta il soggetto per un altro significante» che ci piace tanto citare nei nostri paper, ma soprattutto l’abitudine, nei bizantini diagrammi che costellano il Seminario e gli Scritti, di rappresentare il soggetto come barrato, scisso, separato, più o meno così: $Proprio laddove il soggetto viene designato dall’enunciato (dalla catena significante), esso viene a mancare, si afferma come manque-à-être. Smarrisce il proprio essere, viene squalificato. Una volta che il significante (afferente al simbolico, cioè al territorio dell’Altro, del linguaggio socializzato) nomina il soggetto, esso si eclissa, scompare nel momento che appare: come un cliché, come una cosa che smette di sembrarci vera una volta che la verbalizziamo. Il soggetto lacaniano è perciò un soggetto a cancellazione.

Soggetti a cancellazione è il titolo della nuova (bella) raccolta di Lorenzo Mari, uscita per Arcipelago Itaca, nella collana Lacustrine diretta da Renata Morresi. Il libro si presenta con un insolito formato A4, e, fin dal primo sguardo, appare evidente che giochi tanto sulla iconotestualità (impaginazione, parole cancellate, testualità esplosa – soprattutto nella notevole sezione Monte dei cocci, dove frammenti saggistici e note idiosincratiche si agglutinano intorno al testo della poesia (?), rimandando a quel labirinto tipografico che è, in alcuni suoi punti, House of Leaves di Danielewski), che sull’ipertestualità (le pagine sono corredate di QRcode, talvolta anch’essi cancellati o frantumati, ‘glitchati’, che rimandano al sito montedeicocci.wordpress.com e a una stanza virtuale, una piana verde circondata da collinette, tipo il primo livello di un videogioco – una schermata di Minecraft o del primo Doom – dove in una visuale in prima persona l’utente può muoversi tra monumenti a forma di QRcode e registrazioni audio di Corrado Costa).

Piccola nota autobiografica, che però dice molto su come un simile oggetto (post-)testuale modifichi le abitudini di lettori. Ho un cellulare molto vecchio, con la memoria ingolfata, che uso praticamente solo per condividere meme (che sono costretto a cancellare repentinamente) con un ristretto gruppo di persone (no, lettore, non rispondo mai alle chat) e prendere appunti. Sono perciò stato costretto a cancellare un cospicuo numero di fotografie (aridi paesaggi greci, dozzine di gatti, meme sul calcio che raccontano la mia vita meglio di un romanzo, video di ricci, screenshot di call per convegni o di copertine di libri tradotti da amici) per scaricare un lettore di QRcode che mi permettesse di godere pienamente del libro.

Già da questa sommaria descrizione apparirà evidente come l’operazione di Mari metta in primo piano, usando ancora termini lacaniani, il «perceptum» rispetto al «percipiens», anzi, sottolinea come sia il primo a istituire il secondo e non viceversa (non c’è un soggetto originario e autentico che si esprime, ma è quanto enunciato che crea una piattaforma ricevente che potremmo chiamare, per mancanza di altri termini “soggetto”). Mari: «Tutta la lotta con i pronomi contro i pronomi/ per farla finita con il canto a soggetto». Con il canto a soggetto, ma non con il canto. Uno dei temi che informano il libro, e che costituiscono il filo sottile che lo lega alle altre opere dell’autore (soprattutto Querencia) è quello della lallazione, cioè dell’articolazione prefonematica di suoni elementari ripetuti (con il conseguente piacere orale che tale ripetizione comporta; vale la pena notare che per Lacan il processo di soggettivizzazione inizia quando il neonato entra nel linguaggio, ossia nel simbolico; la lallazione è una sorta di soglia). Ciò non significa che la poesia di Mari si risolva nell’informale o in un fonosimbolismo spinto, ma è tuttavia ancora presente, nella sua pratica ipercontemporanea, un forte orecchio metrico, una tensione al canto, una preminenza del somatico rispetto al semantico che domina alcune sezioni del libro (soprattutto Délibáb e Vertigo/Lai; nella prima c’è una poesia che è una vera e propria danza dei prefissoidi).

Tuttavia, ciò che contraddistingue Soggetti a cancellazione rispetto ai libri precedenti, è la varietà e l’eclettismo. C’è la lallazione, appunto, ma anche la lirica fredda e percussiva (fatta di bassi e di ritmi metallici) di Malco, la poesia che si esaurisce nella chiosa accademica di Monte dei cocciuna sezione concettuale in pieno stile uncreative writing statunitense (la traduzione automatica di un discorso di Godard preso da una live su Instragram, dove ci sono associazioni luminose come questa: «Ti ho pensato molto perché/ hai commentato molto»), una sezione dedicata alle traduzioni di un poeta spagnolo che sembra uscito dalla penna di Bolaño (un realvisceralista ante litteram, dotato di una consistenza ontologica sottile e fantasmatica, tipicamente sudamericana, nonostante sia nato a Madrid), di cui Mari riproduce filologicamente anche la pagina Wikipedia, con tanto di impaginazione html (il poeta si chiama Carlos Salamón, e forse è il destinatario dell’Urlo di Ginsberg, forse non è mai esistito, forse c’entra con un progetto di sparizione della fauna avicola; se, come scrive Ben Lerner nel suo primo romanzo, «i nomi propri dei governanti sono distrazioni dai sistemi economici concreti», i nomi dei poeti – dimenticati o mai esistiti – che funzione sociale hanno?).

Insomma, Soggetti a cancellazione è un libro molto vario, molto stratificato, molto complesso, che prova a mappare (solo io ci vedo un intento enciclopedico?) il paesaggio di quella che potremmo chiamare lirica 2.0, cioè il canto (non totalmente serio, non totalmente ludico) di un mondo sovraesposto alle immagini e alle informazioni, dove anche il dominio della merce si è spostato nell’immateriale, dove è crollato il discrimine tra fattuale e virtuale, dove la soggettività è il risultato delle nostre ricerche su Google.

Di seguito alcuni appunti sparsi.

Versi che mi sono piaciuti di più: «Si potevano ancora/ scambiare i rumori della strada/ per rumori della strada».

Hype: una sezione del libro riporta delle citazioni tratte dal delizioso poemetto eroicomico (rigorosamente in ottave) La Vaiasseide, scritto da Giulio Cesare Cortese nel 1612 in dialetto napoletano. Il PDF della prima stampa è consultabile online.

Quanti anni ha Lorenzo Mari: 38.

Bergeriana: Délibáb, prima sezione del libro, si occupa di miraggi. Parla di piani, piani inclinati, sirene, campanili ed orizzonti. A un certo punto, mai nominato, verso la fine, compare Ulisse. L’Ulisse dantesco, che cerca di navigare fino al termine della terra piatta, e la sua ciurma deve resistere al canto delle sirene (il canto a soggetto, la cadenza dei pronomi). Solo che il piano su cui naviga è una pellicola. Lo schermo del cellulare. Le onde del mare sono i pixel. La terra piatta è lo smartphone che ho in mano. Oltre il quale c’è l’immagine di un campanile rovesciato. Una fata morgana. La montagna del purgatorio.

Un’altra manciata di versi: «Ancora disastra il mondo/ […] ne abbiamo fatto ragione/ canto e alfabeto soprattutto/ ci rassicuriamo perché/ l’abbiamo scritto».

sequenza di malconon si compone: non sa fumare
dello spazio che fumare riempie di ictus
il canto che fumare potrebbe
fumare come una riserva
altamente disponibile e in cerchio
per ogni tipo di combustione fumare
senza risoluzione o quasi come
un lapsus o un’altra forma
questo dovrebbe almeno
smettere perché ai suoi molti figli
squadrando il cammino da parte a parte
il padre aveva lasciato soltanto una cassa
piena di carte
si pensava a un tesoro
che invece si poteva semplicemente
fumare poi se n’era andato ridendo
si ricordava che era pieno
di vita fino alle punte
dei polmoni alle punte dei fiori
e lasciando solo una cassa
da fumare disse amore mio
poi correggendosi amori miei
di mio resta questo
pieno ma proprio soltanto
di carte e cartine per

             [dire e far dire: c’ero anch’io]


Post ScriptumSoggetti a cancellazione è stato letto sotto l’effetto di Ambien, uno pseudobenzodiazepinico abbastanza blando (almeno per come lo uso io), e si è prestato davvero in modo mirabile a una simile lettura (eccitata, piena di immaginazione, di confini sfocati, ma anche di un certo acume paradossale). I libri di poesia andrebbero catalogati sulla base del tipo di sostanza a cui si adattano meglio. Un saggio andrebbe poi scritto sul rapporto tra antidepressivi e poesia (se i farmaci ci rendono più sopportabile la vita, influenzano – ma in che termini – anche il nostro modo di rappresentarla, o, come fa la poesia, di farla riaccadere ritualmente) e, ovviamente, tra antidepressivi e recensioni di libri di poesia.