Quando ho scoperto Kathy Acker

Restituzione dell’incontro “Tradurre genealogie femministe: da Kathy Acker a Lidia Yuknavitch” a cura della rassegna di letteratura e traduzione Quasi La Stessa Cosa.

Introduzione a cura di Elena Strappato, contributi a cura di Guia Cortassa, Alessandra Castellazzi e Arianna Preite

Se è vero, come ricorda un narratore da L’Impulso (Nottetempo, 2024) di Lidia Yuknavitch, che le storie sono «quanti», particelle elementari che connettono esistenze, da quale interazione, da quale groviglio di vita e di materia si generano a loro volta le storie? Quali incontri materiali le precedono? Quali nuovi incontri riproducono?

Il 12 ottobre, insieme alle traduttrici Guia Cortassa e Alessandra Castellazzi, e alla dottoranda Arianna Preite, ci siamo trovate alla Biblioteca delle donne per raccontare un libro e un incontro. Quell’innesto di materia esplosa, violenza e tenerezza che è L’Impero dei non sensi di Kathy Acker (NERO Editions, 2024) con un occhio aperto su una sua lettrice, e poi scrittrice, privilegiata: Lidia Yuknavitch. Un incontro, quello tra Kathy Acker e Lidia Yuknavitch, fuori e dentro il testo; un incontro, il nostro, con le loro voci.

Abbiamo tentato di leggere Acker con Yuknavitch e Yuknavitch con Acker per ricreare una genealogia delle nostre letture. Non solo perché queste autrici si sono incontrate, e l’influenza di una è stata fondamentale per la seconda. Ma anche perché la voce dell’una scopre e riscopre quella dell’altra, senza gerarchie o ordine che tenga, ma in un gioco di echi e reti nate fuori dal testo, cause ed effetti di un incontro incanalato dalla parola scritta e poi condivisa.

In una, è il desiderio di lacerare tutto, fare della pagina la ferita e la cassa di risonanza della ferita, nell’altra, la voglia di cucire insieme i tagli, ricreare una mappa con le suture. Nelle loro differenze abbiamo cercato uno spazio per raccontare i loro testi senza addomesticarne suoni e sensi.

Riportiamo qui una traccia dell’incontro nei contributi di Guia Cortassa, Alessandra Castellazzi e Arianna Preite.

PRENDERE. DISTRUGGERE. RICOSTRUIRE.

[Kathy] Acker racconta ripetutamente la stessa storia: la madre è incinta della figlia e il padre se ne va. La madre incolpa la figlia e cerca di abortirla. Il corpo della figlia sopravvive, ma non il suo sé unificato… È vero? Ha importanza?… Acker libera la libido dal mondo sotterraneo represso di Freud.[1]

Ma poi, ancora, non ha fatto quello che tutti gli scrittori devono fare? Creare una posizione da cui scrivere?

La vita di Acker era una favola, e descrivere la confusione, l’amore e gli obiettivi contrastanti dietro questi memoriali sarebbe come abbozzare un’allegoria apocrifa di una vita artistica alla fine del ventesimo secolo.[2]

Si è parlato molto della sperimentazione formale di Yuknavitch, in particolare dell’uso di forme ibride nel testo… Ma l’aspetto genuinamente sovversivo e stimolante dell’opera di Yuknavitch è la sua messa in primo piano del corpo, e in particolare la sua presentazione del sesso. Yuknavitch ci costringe a vedere il corpo in tutta la sua fisicità, la sua carne, i suoi fluidi e le sue escrezioni, e raffigura scene di sesso, tra cui sesso feticista e sadomasochistico, che sono brutalmente viscerali. Le scene di sesso di Yuknavitch sono famose tra le scrittrici americane contemporanee, non solo per la loro esplicitezza, ma per il modo in cui le usa per perseguire questioni di intenzione, individualità e implicazioni etiche del fare arte.[3]

Se un lavoro è abbastanza immediato, abbastanza vivo, la risposta più adeguata non è essere accademiche, scriverne, ma usarlo, per andare avanti. Usandoci l’un l’altra, usando i testi delle altre, continuiamo a vivere, immaginare, fare, scopare, e combattiamo a morte questa società.[4]

Allora non limitarti a leggere questo testo. Usalo – come un attrezzo, un martello, una pietra per infrangere qualsiasi barriera ti impedisca di immaginare un posto altro e migliore. I testi letterari partecipano alle conseguenze nel mondo reale.[5]

Non è vero che non sei niente. Sei vitale per la tua cultura. Noi disadattati siamo quelli capaci di entrare nel dolore. Nella morte. Nel trauma. Ed emergerne. Ma dobbiamo continuare a raccontare le nostre storie, ad affidarle l’uno all’altra, o ci mangeranno vive. La nostra sofferenza non è la storia di Cristo. La nostra sofferenza genera un significato secolare. Mettiamo al mondo delle forme ordinarie di speranza così che gli altri, trasandati o raffinati che siano, possano andare avanti.[6]

di Guia Cortassa

Kathy Acker + Lidia Yuknavitch

Ho deciso che volevo saperne di più di Kathy Acker quando l’ho incontrata per la seconda volta, nel giro di pochi mesi, in un libro che stavo traducendo. Il primo era Everybody di Olivia Laing (Saggiatore,2022), un saggio sui corpi e sulla libertà. A partire dal potentissimo “The Gift of Disease”, un articolo in cui Acker descrive il proprio rapporto con la malattia, Laing rifletteva sulla sua scelta di rifiutare le cure convenzionali per il cancro, di cui morì nel 1997. L’altro era La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch (Nottetempo, 2022), un memoir in cui Acker appare in compagnia di George Bataille e il Marchese de Sade, Dennis Cooper e William Burroughs, a formare il «ventre molle della letteratura» (e in carne e ossa, a nuotare con l’autrice).

«Ho trovato una progenitrice letteraria in Kathy Acker» conclude Yuknavitch. E in effetti tra le due c’è più di un’affinità. Per cominciare, c’è la voglia di sbattere in faccia a chi legge il dolore e la violenza del mondo, e il modo in cui ricadono sul corpo di una donna o di una bambina, senza mai edulcorare il racconto. «Una caratteristica notevole dei romanzi di Acker è che sono popolati da alter ego» scrive Laing, «che a prescindere dall’età restano povere bambine abbandonate, trascurate, precocemente sessualizzate, perse in un paesaggio psichico sudicio, pericoloso, spesso letale». Ci sono figure ricorrenti nei suoi romanzi: pirati, motociclisti, tatuatori – bambine stuprate dai padri. In L’impero dei non sensi queste figure deflagrano nel viaggio allucinato di Thivai (un pirata) e Abhor (mezza donna e mezza robot), due amanti che si odiano, nelle strade di una Parigi messa a ferro e fuoco da una rivolta algerina, alla ricerca di un farmaco salvavita. Esplode tutto: la città simbolo dei lumi europei, i corpi che – come figurine di pongo – sopravvivono a ogni brutalità immaginabile. Salta in aria l’ordine patriarcale, occidentale, del capitale. Restano le macerie in cui continua a formicolare ostinata, mutilata, la vita.

Anche i romanzi di Yuknavitch sono pieni di alter ego. C’è sempre una bambina – la bambina che è stata, la figlia che ha perso. In L’impulso è una ragazzina che viaggia nel tempo tuffandosi in acqua; in Lasciarsi cadere (Nottetempo, 2023) è l’unica superstite di una famiglia annientata dalla guerra. C’è sempre una donna che insegna a purificare il dolore nel sesso: a volte assume i connotati di una fotografa, altre della maitresse di un bordello. Sempre, è l’artefice di una catarsi. Il suo intervento sprigiona il desiderio nella scrittura di Yuknavitch, una fame di piacere, di dissoluzione, che racchiude in sé gli opposti della distruzione e della speranza. Serpeggia nei romanzi, asseconda il fluire del racconto: la speranza intima e feroce è il motore che muove la scrittura di Yuknavitch. «È il mio fuoco» spiega. «Le storie nascono dal luogo dove in me sono avvenute la vita e la morte». 

Di Alessandra Castellazzi

Giochi della matassa collettivi dentro e fuori dall’opera di Kathy Acker

Parlare di Kathy Acker a quattro voci ha creato un momento di riflessione e comprensione nuova della sua scrittura, attraverso quello che mi è sempre sembrato chiedere la sua opera: un gesto attivo di ingaggio con i suoi testi, molto più che una lettura solitaria, silenziosa e attenta. Le sue pagine hanno più spesso evocato l’idea che il modo migliore per comprenderle fosse quello di saper creare dei momenti condivisi a partire da queste, dei rituali che si riverberassero nel mondo, che uscissero in maniera radicale dall’oggetto-libro.

Quando questo accade, quello che mi colpisce sempre è vedere come ogni persona segua il proprio filo rosso, tra i molteplici che possono condurre a questa autrice, e lo percorra religiosamente sulla base della sua genealogia di Acker alla quale i propri personalissimi giochi della matassa nel tempo hanno condotto. Questo ovviamente genera a sua volta delle letture che moltiplicano la percezione che si ha della sua scrittura: il fatto di averla scoperta tramite una certa altra autrice, che ha nascosto un pezzo di lei in un suo testo, spalanca le porte a una specifica visione della sua narrativa, basata sulla fonte della scoperta, sulla sorgente che ne ha consentito la rivelazione. Lo scambio collettivo fa incontrare tutte queste diverse versioni di lei, e scoprire quante ne esistono e come si relazionano tra loro consente di osservare quello che ha visto qualcun’altra e di confrontarlo con quello che hai visto tu.

Lo facciamo con tutte le scrittrici? Lo facciamo con tutte le opere letterarie? In qualche modo sì, ma forse in una maniera diversa quando i testi in questione, e soprattutto la loro autrice, hanno molte voci e una narrativa fondata sulla liberazione di tutte queste contemporaneamente, sull’intersezione di medium diversissimi, che chiedono a chi legge di approcciarsi a ogni pagina in modo nuovo: di girare il libro al contrario, di guardare le parole diventare immagini, di decifrare una lingua inconoscibile. Forse da questo possiamo riconoscere una grande scrittrice, e non da quanto i burocrati del canone ritengano valido o meno inserire il suo nome nei loro registri, ma dalla sua capacità di rifiutare così radicalmente ogni confine da portarci fuori dal testo, e anche se in qualche modo insieme, ognuna in una direzione diversa.

di Arianna Preite

Note

1] Dodie Bellamy, Digging Through Kathy Acker’s Stuff, citato in Chris Kraus, “Littoral Madness: On Kathy Acker”, the Paris Review, 22 agosto 2017, https://www.theparisreview.org/blog/2017/08/22/littoral-madness/

[2] Chris Kraus, “Littoral Madness: On Kathy Acker”, the Paris Review, 22 agosto 2017, https://www.theparisreview.org/blog/2017/08/22/littoral-madness/

[3] Garth Greenwell “The Wild, Remarkable Sex Scenes of Lydia Yuknavitch” in the New Yorker, 25 agosto 2015,​​https://www.newyorker.com/books/page-turner/the-wild-remarkable-sex-scenes-of-lidia-yuknavitch

[4] Kathy Acker citata in Alexandra Kleeman “The Future Is a Struggle: On Kathy Acker’s Empire of the Senseless”, the Paris Review, 12 giugno 2018, https://www.theparisreview.org/blog/2018/06/12/the-future-is-a-struggle-on-kathy-ackers-empire-of-the-senseless/

[5] Alexandra Kleeman “The Future Is a Struggle: On Kathy Acker’s Empire of the Senseless”, the Paris Review, 12 giugno 2018, https://www.theparisreview.org/blog/2018/06/12/the-future-is-a-struggle-on-kathy-ackers-empire-of-the-senseless/

[6] Lydia Yuknavitch “It’s a myth that suffering makes you stronger”, Ideas.Ted.Com, 24 ottobre 2017, https://ideas.ted.com/its-a-myth-that-suffering-makes-you-stronger/


In copertina, una fotografia di Kathy Acker scattata nel 1996 (Creative Commons Licence)

Sette domande sul post-esotismo. Intervista ad Antoine Volodine

Le parole dei vivi | Intervista a cura di Lorenzo Petrachi (Università di Bergamo; Dalla Ridda)

L’utilizzo del “noi” e del “voi”, in quest’intervista del 7 ottobre 2024, è dovuto allo statuto peculiare della funzione autore nella letteratura post-esotica, statuto accomunabile per certi versi all’eteronimia. Antoine Volodine si vuole infatti unico “portavoce” di una letteratura scritta altrove, composta da una molteplicità di voci autoriali che, nella finzione post-esotica, abitano un universo concentrazionario e prendono il nome di “surnarratori”. Tra questi, Manuela Draeger, Elli Kronauer, Lutz Bassmann e lo stesso Antoine Volodine, eteronimo sui generis del solo individuo in carne ed ossa che congegna e dà alle stampe il post-esotismo. “Essere un collettivo”, scrive, “è qualcosa di molto delicato”. Si ringraziano Anna D’Elia, traduttrice del volume Liturgia del disprezzo, e la casa editrice 66thand2nd.


Lorenzo Petrachi: Il rapporto della letteratura post-esotica con l’attività di traduzione è tutt’altro che esteriore, al contrario, si potrebbe dire che è particolarmente stretto, forse persino costitutivo. In primo luogo, perché lei, Antoine Volodine, oltre che portaparola e delegato degli scrittori post-esotici – quanto a loro morti, imprigionati, impazziti, comunque sia impossibilitati a parlare da sé fuori dalle mura del loro universo concentrazionario –, è traduttore dal russo e dal portoghese di una letteratura che non appartiene agli orizzonti del post-esotismo (con l’eccezione degli Slogans di Maria Soudaïeva). Poi, e più fondamentalmente, perché i volumi che compaiono in libreria accompagnati dalle vostre firme costituiscono le prove materiali dell’esistenza di un altrove, rappresentano e veicolano una cultura non solo relativamente, ma assolutamente straniera. Nelle vostre parole, il post-esotismo è «una letteratura straniera scritta in francese», pensata in una lingua estranea al francese, indistinta quanto alla sua nazionalità. Per questo motivo, i vostri libri prendono forma in una «lingua di traduzione» da situare a valle rispetto a un originale inaccessibile, spurio e dall’esistenza comunque incerta. Qual è il rapporto tra questa traduzione primaria e quelle che ne derivano, come ad esempio quelle in lingua italiana? In che modo gli scrittori post-esotici affrontano la traduzione dei loro libri in più lingue, tutte estranee a diverso titolo al loro mondo e alle loro abitudini?

Antoine Volodine: È un grande piacere per me essere tradotto in una lingua straniera, e in particolare – siamo in Italia – in particolare in italiano, perché ciò che adesso è disponibile in traduzione non è un piccolo libro isolato, ma già una parte dell’edificio post-esotico. Infatti, Isabella Ferretti, che dirige 66thand2nd, ha in progetto di pubblicare tutto il post-esotismo, e sono davvero molto felice di vedere questo progetto prendere forma. Si sta concretizzando rapidamente e con costanza. Inoltre, ho una traduttrice straordinaria, Anna D’Elia, che ha recentemente tradotto – ma non era il primo libro che traduceva – Liturgia del disprezzo, ed è davvero molto piacevole sapere che questi testi, che hanno all’origine un’esistenza in lingua francese, riprendono vita in Italia in altro modo, grazie alla magia della traduzione. Per me, è un vero piacere sapere che i libri esistono in un altrove vicino o lontano e toccano un pubblico non francese, dialogando con un pubblico non francofono. È magico. E infatti, come lei ha sottolineato, il fatto che il post-esotismo esista in lingue diverse, comprese lingue poco abituali, come il coreano, il cinese, lo sloveno, fa parte di questa costruzione senza bandiera che è il post-esotismo. È un’estensione del nostro progetto, un superamento degli ostacoli che esistevano all’inizio, quando la nostra «letteratura straniera scritta in francese» restava meno accessibile, meno internazionalista. Oggi questa proclamazione internazionalista è meno astratta. In Italia, diventa profonda. Questo non cambia in nulla le nostre abitudini di scrittura, i nostri fondamenti ideologici, ma rafforza il nostro progetto. Molte lingue mancano all’appello, anche in Europa. Speriamo che la situazione evolva!

L.P.: Leggendo i vostri libri e le vostre interviste ciò che risalta immediatamente è il valore che attribuite a ciò che chiamerei l’autonomia di questo universo letterario. Un’autonomia che non si illude certo di essere assoluta e che forse non è ostentata, ma che risulta inaggirabile, dacché indica precisamente l’alterità propria al post-esotismo. Avete più volte sottolineato come questo enorme edificio letterario si sia formato senza tenere conto dei gusti, delle tendenze, delle tradizioni del mondo editoriale, senza badare a eredità e filiazioni nella «letteratura ufficiale», avendo cura soltanto di produrre qualcosa che vi piacesse – cioè che piacesse a voi e al vostro pubblico immaginario, caratterizzato significativamente dalla condivisione pressoché totale della vostra sensibilità, della vostra visione del mondo, delle vostre ribellioni. Nel concreto, questa alterità si è prodotta sistematicamente, lavorando con metodo affinché nomi, luoghi ed eventi non portassero alcuna traccia che potesse ricondurli a un territorio culturale preciso, impegnandovi in una ginnastica traduttiva operante tramite l’auto-censura, la sovrapposizione di filtri onirici e la proliferazione di generi letterari inediti (narrats, entrevoûtes, Shaggäs…). Forse è anche per questo che avete descritto la vostra scrittura come non tanto schizofrenica quanto «ostinata», come una scrittura che procede, incurante, per la sua strada. Cos’è in gioco in questa questione dell’autonomia? Si tratta con ogni evidenza di un nodo cruciale della vostra poetica, dal momento che riguarda la centralità quasi fondativa del piacere dello scrittore-lettore, il metodo teorizzato e messo in opera dai surnarratori post-esotici e, di conseguenza, il procedimento di scrittura che costituisce la letteratura post-esotica in quanto tale.

A.V.: Uno dei miei obiettivi, l’unico obiettivo, è scrivere per i lettori. Includere lettori e lettrici nelle opere post-esotiche che hanno tra le mani, condividere le nostre emozioni, le nostre avventure, i nostri percorsi, e, prima di tutto, le nostre immagini. I lettori sono, in una prima cerchia, in un primo tempo, lettori immaginari, che sono prigionieri e prigioniere in una prigione immaginaria, e che forniscono anche dei frammenti di testo sui quali lavorano gli eteronimi per creare libri che appaiono all’esterno, al di fuori dei muri della prigione. Questo è il principio. Una letteratura puramente carceraria che funziona a circuito chiuso, in cui tutte le ricerche formali e le immagini, le allusioni storiche, i segreti, i falsi segreti, i giochi, l’umorismo, sono composti in un’atmosfera estremamente complice, e che, una volta pubblicata, diventerà una sorta di letteratura di poetica e di cultura testimoniale, offerta ai simpatizzanti e ai lettori e alle lettrici delle librerie. Una sequenza letteraria strana, offerta a un pubblico vasto, un pubblico che è chiamato a unirsi, simpatizzando, ai fantasmi, alle storie filmate o teatralizzate, alle ruminazioni di autori immaginari, la cui creazione è molto diversa da ciò che chiamiamo «la letteratura ufficiale». Ma, ben inteso, si può anche mettere tra parentesi questo sfondo carcerario, questa presenza genetica di un coro immaginario di voci imprigionate. Scrivo, come anche lei ha sottolineato, per il piacere di creare qualcosa che è sì marginale nella letteratura, ma che al contempo cerca di avere una propria estetica, una propria bellezza. Non nascondo che per me scrivere è un piacere, mi fa stare bene. Anche quando i passaggi che attraversano i libri sono dolorosi o inquietanti. Per la mia primissima opera, Biographie comparée de Jorian Murgrave, scrivevo soprattutto per me stesso, come avevo fatto fin dall’infanzia. Non avevo ancora pubblicato e scrivere era un piacere solitario. Ma, dal secondo libro in poi, ho preso coscienza che scrivevo per lettori concreti. E, da quel momento, ho saputo di avere il compito di coinvolgere uomini e donne concreti in sequenze di immagini, di farli entrare nelle storie e, se possibile, di renderli parte dei mondi onirici che mi perseguitavano, che ci perseguitavano.

L.P.: Alcune immagini post-esotiche portano con sé un alone piuttosto caratteristico di indefinitezza e indecidibilità. Penso ad esempio a quei personaggi che vengono descritti come uccelli, senza altre specificazioni, e che vengono poi visti compiere gesti che richiedono evidentemente una costituzione e una postura antropomorfe, senza che per questo smettano di essere degli uccelli. Si sarebbe tentati di dire che queste immagini facciano parte del funzionamento della complicità post-esotica tra scrittori e lettori, i quali, avendo una cultura, una memoria, una sensibilità comuni e condividendo la stessa necessità di eludere lo sguardo onnipresente del nemico, non hanno bisogno di esplicitarle ulteriormente, temendo anzi di venir troppo compresi da chi è estraneo alla loro solidarietà tramante e sediziosa. Queste immagini ambigue sono tali anche nel braccio di massima sicurezza o scaturiscono al contrario quali effetti di traduzione?

A.V.: Non si tratta di una questione di traduzione. Si tratta di costruire effettivamente una cultura, come ha detto anche lei, una cultura condivisa tra lettori, narratori, surnarratori. Si tratta di fare in modo che i lettori si approprino di questa cultura durante la lettura e non siano disorientati da ciò che hanno sotto gli occhi e da ciò che, consapevolmente o inconsapevolmente, emerge nei loro stessi sistemi di immagini. È nostra responsabilità, in quanto autori (parlo a nome di tutti noi, Lutz Bassmann, Elli Kronauer, Manuela Draeger e altri), riuscire in questa immersione accompagnata del pubblico nei nostri libri. Ciò significa che alcune nozioni stabilite dal “senso comune” vadano alla deriva verso un mondo più onirico, senza che ciò disturbi la lettura. Lei ha infatti segnalato una porosità completa tra l’animale e l’umano, che non è decisa, non è decidibile, e che consente, penso, al lettore di sognare a modo suo, di introdursi in personaggi totalmente marginali, estremamente mal posizionati nel mondo. Nei nostri romanzi più recenti, questa porosità si estende anche tra viventi e non viventi. Molti dei nostri personaggi non appartengono al mondo dei viventi, ma agiscono con normalità (con una normalità relativa), sebbene ciò avvenga dopo la morte, in mondi oscuri (come in Black village) o luminosi (come in Terminus radioso). In generale, si potrebbe dire che tutti questi mondi sono «magici», un aggettivo che uso con cautela, poiché troppo utilizzato, a torto e a ragione. Ci organizziamo affinché lettori e lettrici siano trasportati là dentro e ammettano questa nuova normalità che offriamo loro…

L.P.: L’edificio post-esotico sta per completarsi con la pubblicazione del quarantanovesimo volume, il ciclopico Retour au Goudron, cui lavorate ormai da molto tempo e che verrà firmato col nome collettivo di Infernus Iohannes. Antoine Volodine ha recentemente pubblicato il suo ultimo romanzo, Vivre dans le feu, congedandosi in maniera tutt’altro che mesta dal mondo editoriale, mentre Manuela Draeger ha annunciato Arrêt sur enfance, quarantottesimo e dunque penultimo tassello del mosaico. Come hanno preso il ritiro Elli Kronauer e Lutz Bassman? E Volodine, cos’ha intenzione di fare adesso, raggiungerà «finalmente» gli altri nel braccio di massima sicurezza? Come immaginate, una volta stampata l’ultima frase, quel «mi taccio» [Je me tais] che chiuderà Retour au Goudron, la posterità di questo strano oggetto letterario che è il post-esotismo?

A.V.: Innanzitutto, è molto difficile immaginare una posterità. E d’altra parte, l’ultima frase – l’ho detto e ridetto – sarà proprio «Je me tais», taccio, e, dopo essermi taciuto, non farò più apparizioni pubbliche né pubblicazioni. Vedo che è molto informato sugli ultimi titoli. Effettivamente, Manuela Draeger pubblicherà tra qualche mese, nella primavera del 2025, Arrêt sur enfance, che sarà l’ultimo titolo dell’edificio post-esotico romanzesco propriamente detto. Abbiamo dato grande importanza alle voci femminili in tutte le nostre opere (qualunque ne sia stato l’autore) e Manuela Draeger ha firmato moltissimi testi dell’edificio: è normale che dopo «l’ultimo di Volodine» esca «l’ultimo di Manuela Draeger» per chiudere il ciclo. Poi ci sarà un’ultima performance. Se vogliamo considerare la scrittura del post-esotismo come una performance letteraria che si è svolta per quarant’anni, allora questo ciclopico Retour au Goudron è una performance nella performance. Firmato Infernus Iohannes, 4000 pagine e anche più, 4400 pagine, 343 brochure «bardiche», con fotografie, testi e rubriche regolari: un oggetto gigantesco che non può avere una sua esistenza editoriale e si presenterà quindi (almeno in un primo momento) come una scultura labirintica, posta nello spazio di un’esposizione. Una struttura a cerchi concentrici, artistica, architettonica, ipnotica, nella quale i visitatori (non avendo quindi più lo statuto di «lettori») saranno invitati a passeggiare e a immergervisi. Le 4400 pagine saranno esposte – è enorme. Un oggetto onirico, concreto, posato nel mondo reale da tutti gli autori post-esotici: la firma Infernus Iohannes è collettiva e raggruppa tutte le voci del post-esotismo, anonime e non anonime. Non ci sarà alcun testo firmato all’interno di queste innumerevoli pagine. Infernus Iohannes, lo ricordo, è già esistito editorialmente nel panorama francese con un libro uscito due anni fa, Débrouille-toi avec ton violeur. Ma nel caso di Retour au Goudron, che non vedrà la luce prima del 2026-2027, entreremo tutti in un’altra dimensione.

L.P.: In diverse occasioni, avete spiegato che il post-esotismo è nato a tastoni e intuitivamente, facendosi man mano, dunque senza un progetto ben definito a monte e senza seguire tracciati o costrizioni compositive particolarmente vincolati, del tipo Oulipo. Ora, a un passo dal completamento di tale edificio, in che modo è cambiata, se è cambiata, la vostra visione di questa impresa? Più in generale, qual è la temporalità propria alla letteratura post-esotica? Si tratta di una letteratura immobile o ha al contrario attraversato delle fasi? Come appaiono, retrospettivamente, i vostri primi quattro romanzi editi – tra cui Rituel du mépris, appena apparso in traduzione italiana – e che sono in qualche modo precedenti alla presa di coscienza di sé da parte del post-esotismo? A noi lettori, probabilmente con una bramosia del principio che non vi appartiene, viene senz’altro voglia di leggere Biographie comparée de Jorian Murgrave

A.V.: I primi quattro libri che ho pubblicato non sono i primi quattro libri che ho scritto. Ho scritto moltissimo sin dall’infanzia, come si vede in Scrittori, dove figura l’episodio autobiografico del piccolo ragazzo preso da una trance di scrittura. Ho iniziato a pubblicare solo nel 1985, avevo 35 anni, e ho lasciato dietro di me numerosi manoscritti che non erano affatto destinati alla pubblicazione e che, peraltro, ho praticamente distrutto integralmente, secondo il principio «non lasciare tracce». Già in questi primi scritti c’era una sorta di slancio scritturale, di slancio nei temi, e nel modo di costruire i romanzi a partire da frammenti e da voci incrociate, che si ritrovano poi nei miei quattro primi libri pubblicati. Sono stati pubblicati in una collana di fantascienza, ma, per me, erano soprattutto e prima di tutto, marginali rispetto alla letteratura francese, e non segnati dal marchio della fantascienza. Non sapevo davvero cosa stessi facendo, semplicemente era per me chiaro che non mi collegavo a nessuna tradizione contemporanea ben definita. Avevo in mente molta letteratura sovietica, molta letteratura fantastica, molto surrealismo, molte influenze cinematografiche, ma ero consapevole di iniziare a camminare su un sentiero nuovo. E quindi ho continuato su questa scia, e infatti, è dopo una decina di romanzi, forse anche un po’ prima, che il progetto si è veramente cristallizzato per mostrare questa idea del post-esotismo come letteratura completa, a parte, totalitaria anch’essa, che non guarda né a destra né a sinistra, che non considera ciò che accade nella letteratura contemporanea, ma che si costruisce completamente, senza concessioni, con le proprie esigenze e le proprie regole. E poco a poco, effettivamente, ho camminato su questo sentiero, sempre con piacere, senza costrizioni, guardando indietro, senza rimpiangere ciò che avevo già pubblicato. I miei libri, i nostri libri, sono spesso molto diversi l’uno dall’altro. Nessuno, a mio avviso, deve essere considerato un errore, qualcosa da correggere o da dimenticare. Così, le stranezze narrative si sono completate per costituire un edificio che sta in piedi, e che noi rivendichiamo tutti senza sfumature. E oggi, dove l’edificio sta per essere coronato da questa performance, Retour au Goudron, non ho più quell’angoscia che a lungo ho provato. Avevo paura di non avere il tempo (per motivi fisici, di invecchiamento, medici, ecc. – ma mai per mancanza di ispirazione!) di terminare il progetto: di firmare 49 titoli e di scrivere la famosa frase «Je me tais». Ora, invece, posso tirare un sospiro di sollievo: è fatta!

L.P.: Forse da sempre, ma apparentemente con una centralità via via maggiore, uno dei motivi ricorrenti del post-esotismo è ciò che di recente ha descritto come la volontà o addirittura l’arte di riuscire a sopravvivere in un contesto sempre più sfavorevole e inospitale, rispetto cui ciò che abbiamo appreso non sempre risulta adeguato e sufficiente. Proprio quest’anno è comparso un suo scritto piuttosto atipico, un «racconto morale», le cui conclusioni sono così formulate: «Una volta nel Bardo, non contare troppo sulle Tesi d’aprile per uscirne». Non avete mai smesso di ribadire il vostro rifiuto di una letteratura che voglia imporre una visione del mondo o delle tesi, così come la disillusione degli scrittori post-esotici nei confronti del potenziale politico della letteratura. Ma d’altra parte avete anche sottolineato come, negli anni, la tonalità dei vostri libri sia andata modificandosi, accompagnando a suo modo la storia mondiale, le sue inversioni e i suoi crolli. Così, ad esempio, la fine dell’umanità è divenuta un tema più insistente, e oggi è davvero difficile, leggendovi, non pensare alla catastrofe ecologica e a tutta una serie di crisi conclamate e tra loro incrociate. Se il post-esotismo non vuole proporre niente di utile per confrontarsi con le sfide della contemporaneità, come dobbiamo intendere questo suo intervento inatteso nel dibattito francese che cerca di ripensare il rapporto tra letteratura e politica?

A.V.: Sin dall’inizio delle mie pubblicazioni, i libri che sono stati pubblicati erano caratterizzati da una riflessione politica profondamente rivoluzionaria, ribelle, con una visione del mondo marxista e che rimane tuttora totalmente marxista. Ma devo segnalare comunque che i miei primi libri sono esistiti in un momento in cui l’URSS esisteva e non era affatto pronta a scomparire. C’era nel mondo uno scontro tra, diciamo, una forma di socialismo e il capitalismo. Dopo gli anni di tumulto che hanno segnato la fine del XX secolo, l’alternativa tra socialismo e barbarie è cambiata e solo la barbarie è rimasta. Viviamo – a mio avviso, ma non sono l’unico a pensarla così – viviamo in un mondo barbaro. L’assenza di prospettiva è molto più grande rispetto agli anni ’80, quando uscivano i miei primi libri, in cui l’idea stessa della rivoluzione mondiale esisteva ancora. La rivoluzione mondiale non era un fantasma, un delirio militante, era concretamente davanti a noi. Oggi, siamo entrati in un periodo buio dell’umanità, ecco perché a partire dall’inizio del XXI secolo, si osserva un’evoluzione nel trattamento delle mie storie, dei miei personaggi. Per ogni autore, l’evoluzione è normale, e, anche se le mie opere “giovanili” sono rimaste nell’ombra, anche se, in un certo senso, i miei primi libri appartengono a un periodo di scrittura che si può definire “maturo”, il post-esotismo è evoluto. Non posso riscrivere all’infinito gli stessi libri. Mi sono interessato – dico “mi” per riferirmi a tutti gli autori post-esotici, Lutz Bassmann, Manuela Draeger, Elli Kronauer e Infernus Iohannes come collettivo – ci siamo interessati più spesso a destini individuali segnati da un cammino nell’aldilà. Il Bardo Thödol è il nostro faro poetico, Libro dei morti tibetani racconta che dopo la morte la vita continua. E quindi, se all’inizio nei nostri primi libri le storie già si situavano «dopo il crollo», «dopo la fine», con personaggi che si dibattevano negli incubi che seguono la catastrofe, nei nostri ultimi libri, il più delle volte, i personaggi hanno un altro status. Prima sopravvissuti, combattenti di una realtà amara e terribile nei primi titoli, diventano non viventi negli ultimi. Non si preoccupano più della catastrofe, sono in cammino verso la propria estinzione, sono passati in un aldilà della morte, in un aldilà dell’umanità. Intorno a loro il mondo è molto meno frenetico di quello descritto in Liturgia del disprezzo. L’estinzione del vivente è avvenuta, l’estinzione dell’umanità è quasi totale, come per l’elefante di Gli animali che amiamo, per esempio (o in Terminus radioso, o in Angeli minori, ecc.). Certamente, si può vedere qui non solo un’evoluzione dell’autore, ma anche il cambiamento di prospettiva che si è aperto fin dalla fine del XX secolo: la fine programmata dell’umanità, il suo suicidio inevitabile, la crescente prossimità della guerra nera generalizzata, ecc. Sempre più spesso i nostri personaggi accompagnano la fine e, con l’umorismo del disastro che ci caratterizza, pensano al fallimento di tutto ciò che è venuto prima. E quindi camminano nel buio, nelle ceneri della civiltà. Non combattono più come Moldscher in Liturgia del disprezzo.

L.P.: Da lettore appassionato e simpatizzante del post-esotismo, ho sempre cercato di accettarne le regole, consapevole che «il vero lettore del romanzo post-esotico è uno dei personaggi del post-esotismo». Ho dunque letto i vostri libri senza farmi troppe domande, perché la complicità presupposta tra scrittore e lettore implicava che io dovessi già conoscere le risposte e che i vuoti, le divagazioni, le menzogne contenute nel testo non erano rivolte a me, ma agli inquisitori estranei al nostro patto che a un certo punto, immancabilmente, l’avrebbero maneggiato, ponendogli domande senza risposta poiché, con le vostre parole, «non c’è nessun enigma, il libro sigilla un’alleanza amorosa che la bruttezza della politica e della guerra non può intaccare». Per questo, come probabilmente già saprete, non è un compito facile intervistarvi, bisogna cercare di schivare lo scenario dell’interrogatorio, dell’interpretazione, della spiegazione… Che rapporto avete con la critica, le letture e le interpretazioni più o meno accademiche della vostra opera? È possibile fare un’analisi non inquisitoriale?

A.V.: Ovviamente, non penso che i ricercatori siano degli inquisitori. Questo è scontato. La maggior parte sa che in Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, c’è una descrizione terribile dei critici che vengono in prigione a porre domande sul post-esotismo, sulle forme del post-esotismo, sulle tematiche del post-esotismo. E naturalmente, non possono fare a meno di essere imbarazzati e di dire: «spero di non essere come Niuki e Blotno che pongono queste domande»! Ma in realtà, ho ottimi rapporti con tutta la critica letteraria che, forse perché i miei libri sono abbastanza particolari, abbastanza ricchi, pone diverse questioni che sono interessanti anche per me. Quindi, certo, ho avuto l’occasione di leggere molti lavori accademici, in Francia in particolare, con approcci che non capisco dal punto di vista tecnico – non sono capace di comprendere un certo numero di questioni che si pongono sulla diegesi, sulla focalizzazione interna, ecc… sono cose che mi risultano piuttosto oscure. Perché personalmente non ho questa formazione e perché mi muovo a tentoni, nella mia scrittura, cercando essenzialmente di trasmettere immagini, impressioni, sogni. Ho le mie tecniche, un laboratorio davvero poco definibile, e la pretesa suprema di riuscire a entrare in contatto con il lettore e con la lettrice, di avviare un dialogo «da inconscio a inconscio». Tutto è spontaneo, non teorizzato, con molto lavoro. Non cerco, appunto – poco fa ha parlato di Oulipo – di obbedire rigorosamente a delle costrizioni che degli scrittori accademici potrebbero imporsi, per esempio: nella stesura del mio libro, a quale schema eterodiegetico o non so cosa risponderà questo personaggio?. Sto caricaturando, ma so che questo avvelena tutta la spontaneità di quegli scrittori che sanno sin troppe cose sul processo di scrittura. Questo tipo di questioni mi è estraneo. Ma lo accetto, e mi diverte anche molto essere analizzato. C’è un tipo di analisi che non ho mai visto fare finora ed è la psicoanalisi. E poiché ci sono moltissimi aspetti fantastici e onirici in ciò che scrivo, sono un po’ stupito che non ci sia stato un approccio psicoanalitico al post-esotismo. Ma forse è un bene che al momento non ci sia, perché potrebbe implicare il rischio di bloccarmi completamente sul finale. Di non riuscire a scrivere «Je me tais» e, al contrario, di sdraiarmi su un divano e parlare, parlare, parlare…


Nato in Francia (Chalon-en-Saône) nel 1950, ANTOINE VOLODINE è uno scrittore che sfugge a ogni classificazione. 

Dopo un’attiva partecipazione al movimento del ’68, denunciando da allora le derive della «barbarie planetaria», si è dedicato a studi di lingua e letteratura russa. Con il romanzo Biografia comparata di Jorian Murgrave (Biographie comparée de Jorian Murgrave, 1985, nt) ha esordito nel genere della fantascienza, rivisitato con pratiche di sconfinamento linguistico e tematico in direzione dei grandi classici della sua formazione, da Lautréamont a Beckett, da Dostoevskij ai formalisti russi degli anni ’20, alla narrativa latinoamericana degli anni ’70. Nelle sue opere successive (Alto solo, 1991, nt; I nostri animali preferiti, Nos animaux préférés, 2006, nt; il romanzo Scrittori, Écrivains, 2010) ha sviluppato le sue pratiche di attraversamento dei più diversi generi letterari proponendo una concezione della scrittura come «arte marziale», corpo a corpo con gli stereotipi e i limiti della narrazione e del pensiero. I suoi testi hanno ricevuto numerosi premi, compresi i prestigiosi Prix Wepler e Prix du Livre Inter assegnati entrambi ad Angeli minori, edito in Italia da L’Orma Editore nel 2016. Nello stesso anno esce Terminus radioso (66thand2nd), vincitore del Prix Médicis 2014. Nel 2024 esce Liturgia del disprezzo (66thand2nd), dall’originale Rituel de mèpris.

Presto mi staccherò da terra

Racconto di Caterina Villa, secondo classificato al Premio Lo Spazio Letterario 2024.

Pubblichiamo di seguito il testo terzo classificato per la sezione “Racconti” della terza edizione del Premio Lo Spazio Letterario: Presto mi staccherò da terra di Caterina Villa.


Un cappellino color panna, una tutina gialla e bianca, una verde. Due body di cotone così piccoli che non mi entrerebbe nemmeno un braccio. Aggiungo due mutande comode per me, di quelle senza cuciture, e un paio di calze elastiche. Mi servono per contenere l’esplosione dei capillari e delle vene che si sono dilatate negli anni, come fiori che non sanno smettere di sbocciare. Per ultime prendo le scarpette fatte all’uncinetto. Le ho ordinate su internet, dentro il pacco di cartone sembravano ancora più piccole, affogate in un mare di pezzi di polistirolo. Poso una mano sulla pancia, dove sento il peso della mia creatura, anche se lei non si muove mai. Immagino di toccare le sue dita minuscole. Le ho viste all’ultima ecografia, mentre sopra di me mio marito e la dottoressa confabulavano a bassa voce. Ho chiesto, le vedete. Non mi hanno risposto ma io le ho distinte chiaramente, tremolavano sullo schermo in bianco e nero come un ricordo mai morto.

Chiudo la zip. La borsa è color tortora, compatta. Me l’ha consigliata una commessa giovane con le labbra cariche di lucidalabbra. Ho passato la mano sul tessuto impermeabile, nelle infinite tasche e taschine. La prendo, ho detto alla fine e le unghie rosse con cui ha battuto il prezzo mi hanno fatto pensare alla bocca della mia creatura quando piangerà per chiamarmi. Cammino per la stanza mentre aspetto che mio marito venga a prendermi. Apro di nuovo l’armadio, è enorme e ricoperto di specchi; ricordo vagamente di averlo tanto desiderato in un tempo che adesso mi sembra appartenuto a un’altra donna. Abbiamo degli scomparti separati, io e mio marito. Qui i suoi completi, lì i miei vestiti. Uno scaffale è mio, uno è suo, uno mio e uno suo. Mi piego per raggiungere quello più basso. La pancia mi schiaccia la vescica, ma non è una sensazione spiacevole. Mi ricorda che finalmente sono piena fino all’orlo. Infilo le mani dietro i miei golf e afferro le tute, le magliette, le felpe. Le tiro fuori e le sparpaglio sul pavimento. Sono tutte piccolissime. In ginocchio, circondata dai vestiti che indosserà la mia creatura, sento che sto per schiudermi.

Se li vedesse mio marito li getterebbe via. Per questo li ho acquistati di nascosto e ho fatto a pezzi le loro buste grandi e colorate prima di farle sparire nei secchi in strada. Esito, poi li ripongo in fondo allo scaffale e chiudo l’armadio. Manca un’ultima cosa e per recuperarla devo andare nel ripostiglio e tirare fuori la scala. Faccio attenzione a mantenere i movimenti lenti, regolari. La serratura è vecchia, scatta a fatica. È quassù che ho relegato i vecchi album di fotografie, il cappotto blu che mia madre ha portato fino a che ha potuto, l’astuccio di stoffa in cui ho nascosto gli assorbenti inutili da quando ho smesso di sanguinare, ma che non volevo buttare. La scatola è lunga e stretta, sul coperchio il nome in lettere dorate di un negozio che non esiste più. Mi sento come se il mio corpo fosse troppo stretto per contenermi. Riscendo piano, i talloni nudi contro gli scalini gelati.

Apro la scatola e resto ferma a osservarla, acquattata sul suo letto di carta velina, le righe bianche e rosa strette come tagli di lametta. L’ho portata con me in ogni trasloco e l’ho riposta nei luoghi più bui che ho trovato. L’ho vista nei miei sogni e nelle mie preghiere così tante volte che non so contarle. Non l’ho mai indossata.

Mi sono sposata d’inverno come mia madre. Lei non ha voluto accompagnarmi all’altare, anche se mio padre non c’era più. Si era vestita a lutto, un buco nero spalancato nella navata, che risucchiava l’aria e lo spazio. Inghiottiva le note dell’organo. Mi son fissata le mani tutto il tempo. Il bouquet era di gigli. Sentivo freddo. La chiesa era enorme, le parole del sacerdote salivano verso l’alto e svanivano. Le ho dimenticate.

La camicia da notte me l’ha regalata qualche giorno dopo. È entrata nell’appartamento in cui ci eravamo appena trasferiti con la scatola davanti a sé, come uno scudo. Era mia, adesso è tua, mi ha detto, il cappotto ancora addosso. Ero la sua unica figlia femmina e da quando sono nata mi ha cresciuta con un amore impastato di ferocia che non aveva riservato ai miei fratelli. Mi aveva guardato sollevare il coperchio. Il fruscio della seta aveva riempito la stanza come un respiro. Poi si era mossa con uno scatto, le sue dita sulla mia pancia erano ghiacciate anche attraverso la lana del maglione. La camicia da notte mi era scivolata dalle mani, era caduta a terra. Devi riempirti o finirai col volare via, dai retta a me, ha detto, gli occhi azzurri e duri come le biglie per cui i miei fratelli litigavano da bambini.

Una fitta mi taglia il basso ventre. La voglia di ripiegarmi su me stessa fino a diventare un quadratino di carne è intatta, anche se il tempo ha invecchiato me e si è portato via lei. Mia madre ha indossato questa camicia da notte quando ha partorito me e i miei fratelli, e oggi finalmente sarò io a riempirla. La poso sopra le scarpette e richiudo la borsa.

Non me ne sono accorta subito. È cominciata con un gonfiore e una pesantezza che non sapevo definire. Poi hanno iniziato a stringermi troppo le calze, non sono più riuscita a entrare nei miei pantaloni preferiti. La consapevolezza mi si è posata sul fondo dei pensieri, come sabbia. Non ho avuto bisogno di test o di analisi e non mi è mai interessato sapere se fosse un maschio o una femmina. Non cambiava l’amore che già provavo. Ricordavo i racconti di amiche che avevano partorito ormai decenni prima, ma sentivo che la mia situazione era diversa. Si meritava delle regole nuove. Per esempio, non ho mai avuto la nausea. Qualche volta, la mattina dopo colazione, ho infilato due dita in gola per provare anche quello, ma poi mi ero sentita sporca, come se stessi sgualcendo un miracolo. Un pomeriggio ho guidato fino a un capannone in periferia. L’insegna diceva “vestiti per taglie forti”, e ho comprato di tutto: pantaloni, casacche, maglioni. Ci ho nascosto dentro il tesoro che mi dilatava. Non volevo che mio marito lo sapesse, non subito almeno. Siamo sposati da quarant’anni, ma non ha mai capito la mia paura di volare via. Non ha mai avvertito il terremoto che mi squassava con ogni perdita, con ogni test di gravidanza negativo. Non le ha mai sentite lui, le urla dei fantasmi che infestavano il mio utero vuoto. Ho custodito il mistero della mia creatura finché ho potuto. L’ho tenuta al riparo, anche quando faceva male, anche quando potevo sentirla scansare e schiacciare i miei organi. Non erano importanti. Non come lei. Le ho fatto ascoltare le mie canzoni preferite, le ho parlato di me; delle mani di mia madre sulle mie spalle, di come tiravano per farmi stare dritta; delle sue unghie perfette quando mi mostrava le foto del suo matrimonio. Ancora e ancora. Lei nel suo abito bianchissimo, il sorriso di mio padre come una ferita. Ho promesso alla mia creatura che non sarei stata come mia madre. Che l’avrei solo amata. Che non me ne sarei andata prima del tempo e con una manciata di parole amare in bocca. Due giorni fa sono andata al cimitero. C’era vento, nei vasi davanti alla tomba i fiori erano secchi, scricchiolavano. Lei mi ha guardato dalla foto di porcellana con il viso che aveva prima della malattia, gli occhi accesi. Non ho detto nulla, mi sono solo sbottonata il cappotto. Ho ruotato piano prima a sinistra e poi piano a destra per farle vedere bene cosa ero diventata.

Quando arriva, mio marito guarda sia me che la borsa. Hai preso una vestaglia, chiede. Io mi stringo nelle spalle. Ti servirà, insiste lui, hai sentito il dottore, rimarrai ricoverata per qualche giorno. Mi fissa dritto negli occhi. Dopo l’ultima visita mi ha detto: adesso ti devi operare. Io ho paura dell’anestesia, di cadere in un luogo da cui potrei non risalire, ma se è l’unico modo per far venire al mondo la mia creatura sono disposta anche a farmi tagliare a pezzi. Lui, figli, non ne ha mai veramente voluti. Non capisci, vorrei dirgli. Così rispondeva mia madre ogni volta che mettevo in discussione il modo in cui mi demoliva. Non capisci cosa vuol dire essere una madre, sibilava e le sue parole tagliavano e sigillavano insieme. Sono convinta che lo abbia pensato anche alla fine, quando me ne stavo in piedi accanto al suo letto, i miei fantasmi che ridevano. Seduta in macchina mi sento come se dentro di me tutto stesse prendendo una rincorsa; mi chiedo quanto sarà lungo il salto e dove atterrerò.

In ospedale mi fanno accomodare in camera. Ripongo nell’armadio la borsa e la vestaglia che mio marito mi ha costretto a portare. Mi siedo sul letto. Proprio davanti a me c’è un crocifisso. Ha le braccia sottili, allungate fino all’impossibile. Sento freddo anche se fuori c’è il sole. Mio marito entra ed esce dalla stanza. Oltre la porta socchiusa intravedo brandelli di camici. È sera quando mi portano dei fogli da firmare. La penna ha uno strano peso tra le mie dita. Cade, la raccolgono, me la rimettono in mano. Firmo e mi sembra che le spalle di mio marito tremino un po’. Corro in bagno e ho paura che, se non sto attenta, la mia creatura potrebbe scivolare giù con un tonfo. Passo la notte sveglia. La stanza mi sembra piena d’acqua densa, sporca e grigia. Cammino davanti alla finestra, il cielo è nero e senza fondo. Non so che ore sono ma a un certo punto tutto esplode di luci bianche e rosse, pulsano oltre il vetro. Lentamente realizzo che è un aereo, vicinissimo, seguo il suo cammino notturno verso l’aeroporto. Ne vedevo tanti da ragazzina, in spiaggia. Brillavano bianchi e azzurri come promesse mentre la sabbia mi cuoceva le piante dei piedi. Ricordo la pelle abbronzata di mio padre. Sei proprio una signorina, diceva, e io sedevo più dritta sulla sdraio, il seno che cominciava a spuntare e a farmi male sotto il costume. L’acqua si agita, poi recede. Mi sdraio a letto e penso agli aerei fino a che non arriva l’alba. Poi mi alzo, mi spoglio, nella luce bluastra la mia pelle è bianca e fredda come il ventre di un pesce. Indosso la camicia da notte e mi sembra che la seta bisbigli qualcosa, ma non afferro le parole. Mio marito arriva poco prima dei medici, mi abbraccia, inclina il corpo in modo da toccare la mia pancia il meno possibile.

Il letto scivola per i corridoi. Vorrei poter spiegare all’infermiere che mi accompagna che questo è il giorno in cui finalmente la mia vita avrà un senso, ma ho paura di dirlo ad alta voce. Resto sdraiata mentre il soffitto scorre veloce e poi piano sopra la mia testa.

Non so più aprire gli occhi, le palpebre sono come appiccicate. Mi prudono il naso, le guance, il collo, i polmoni, il cuore. Le mie mani sono lente e non riescono a grattare dappertutto. Le passo sulle labbra. Sento il rumore che fanno quando si spaccano. Una specie di sibilo. La bocca è un grosso sasso al centro del mio cranio. Dal seno in giù è come se mi avessero scavato dentro. In spiaggia io e i miei fratelli facevamo delle buche profondissime. Certi giorni immaginavo mia madre che inciampava e cadeva e cadeva, fino al centro della terra e oltre. Le mie palpebre si scollano piano. Una fessura grigia. Una macchia. Una parete. Il crocifisso. Vorrei girare la testa per non guardarlo ma ho il collo bloccato. In compenso, la pietra che avevo in bocca si è sciolta, è salata sulla lingua. Provo a muovere le gambe e le dita dei piedi, sono avvolte da qualcosa di fresco e di ruvido. In mezzo alle cosce ho un tizzone che brucia. Penso: la mia creatura. Ma le parole sono cadute nella buca sulla spiaggia. Dal fondo sale l’acqua di mare. Mio fratello minore urlava sempre quando iniziava a sgorgare.

Tengo la mano sospesa in aria davanti al mio viso. È viola e gialla e l’ago al centro sembra un insetto. Con un dito tocco la pelle, non fa male. Il mio collo si muove di nuovo, mi guardo intorno. Sono sola, sulla sedia c’è la giacca di mio marito, ma lui non è qui. Tiro su con il naso, non sento il suo odore. C’è solo un sentore di sangue e di qualcosa di denso, mi ricorda la pomata che spalmavo sulle piaghe di mia madre. Negli anni avevo perso il ricordo del suo corpo e l’ho ritrovato nel modo sbagliato. Infilo una mano sotto il lenzuolo. Il braccio si porta dietro dei tubi che fanno un suono di campanelle. I miei polpastrelli sono impacciati, si impigliano nella garza. È tutto piatto, non c’è più niente. Aiuto, penso, ma non so come dirlo. Le unghie grattano sul cerotto. Il dolore è secondario. Tasto e schiaccio. Stringo i denti. Mi sembra che dondolino nelle gengive.

Come si sente, chiede un’infermiera, avrà sì e no vent’anni. La pelle liscia e pallida, gli occhi grandi. Dov’è, chiedo io. Le sue sopracciglia sono molto folte, disordinate. Si torcono. Suo marito è al telefono, risponde. Non lui, ribatto io. Lei si affaccenda intorno alla flebo, si piega a terra, non riesco a vedere cosa fa. Tra poco passeranno a cambiare la sacca del drenaggio, dice. Parla troppo veloce. Vorrei afferrare le parole e rimettergliele in bocca. Insegnarle come si fa a parlare a modo, forse sua madre non l’ha fatto. Fosse stata figlia mia… Dov’è, chiedo di nuovo. Lei si stringe nelle spalle. Stia tranquilla, signora, l’anestesia lascia qualche strascico ma presto sarà come nuova, risponde, un sorriso le deforma la bocca. Non voglio essere nuova, voglio la mia creatura. È maschio o femmina? Forse questo non lo dico ad alta voce perché lei si gira, esce. Io infilo di nuovo le mani sotto il lenzuolo, gratto ma il cerotto tiene, sembra che l’abbiano fuso con la mia pelle. Mi chiedo come dirò al mio bambino che per farlo uscire mi hanno spaccata in due. Voglio chiamare il suo nome, ma non lo conosco. Ho tanto insistito con mio marito, lui, però, non mi ha mai dato retta. Eccolo che rientra. Voglio alzarmi, dico. Lui sospira. È presto, risponde. Dove lo hanno portato, chiedo e già sento sotto le dita la sua pelle. Ha i capelli, domando, perché mi sembra importante saperlo. Mio marito si passa una mano sulla faccia, le dita scendono e sembra che gli portino via gli occhi, le guance, i baffi. Devo chiamare qualcuno, chiede, la voce bassissima come il sibilo di una bestia nascosta. Sono la madre, devo vederlo, mormoro. Non c’è nessun bambino, dice e non guarda me ma il crocifisso con le sue braccia lunghissime, da mantide. L’ho pregato così tanto, così forte. È morto, chiedo a lui che però resta muto. Non c’è mai stato, dice mio marito e si alza, esce di nuovo dalla stanza. Mi sembra di essere rinchiusa in una capsula che mi sta portando più lontano dalla Terra ogni secondo che passa. Oltrepasso l’orbita del pianeta, ecco che è tutto spento e freddo.

Qualche ora più tardi arriva un dottore. Ha il camice immacolato. Socchiudo gli occhi perché tutto quel bianco graffia qualcosa dentro di me. Tutto bene signora, la massa era piuttosto importante ma l’abbiamo asportata integralmente, scandisce bene le parole che mi cadono addosso una dopo l’altra come sassi. Dov’è, chiedo. Lui si aggiusta gli occhiali sul naso, lancia un’occhiata a mio marito. So che l’ha portato dalla sua parte, chissà cosa gli ha raccontato. Al laboratorio del reparto di anatomia patologica, risponde e mi guarda come se fossi una cosa molto sbagliata da chiudere in un posto buio. Mio marito annuisce, mi fissa e allarga le braccia. Un gesto che chiede che vuoi di più, adesso ci credi. Ma io non ci credo. L’ho sentito. L’ho riconosciuto dopo una vita intera.

È notte. Cammino piano, curva in avanti. In una mano ho la busta del catetere e nell’altra quella del drenaggio. È piena di un liquido color marmellata di fragole. Il corridoio è in penombra. Mi appoggio al muro, alle porte chiuse delle altre stanze. Il dolore mi assale a ondate, come il mare della mia infanzia, ma non posso fermarmi. Entro nell’ascensore che inizia a scendere verso il piano interrato. Le porte si aprono su un silenzio denso. Niente pianti, né disegni o fiocchi sulle pareti. Ogni porta è contrassegnata da un cartellino, mi fermo davanti a tutti. Leggo con il naso appiccicato alla carta, le lettere mi si intrecciano davanti gli occhi. Le buste di sangue e di pipì mi pesano come macigni in fondo alle braccia. Accanto alla porta con su scritto “laboratorio di anatomia patologica” c’è una vetrata. Nella stanza hanno lasciato delle lampade accese, mandano una luce tenue che illumina lunghi tavoli. Un grumo bollente mi pesa in petto. Abbasso la maniglia. C’è un odore aspro nell’aria. Tutto è pulito e in ordine. In fondo alla stanza c’è un frigorifero. Mi sembra di essere precipitata in un luogo che non è di questo mondo, in una sacca silenziosa dove vengono esiliati quelli come me. Vuoti o svuotati. Tiro lo sportello del frigo, si apre con uno scatto. Al centro del secondo ripiano, dentro una vaschetta, c’è una massa rossa e marrone. Attaccata alla plastica c’è un’etichetta con il mio nome. Le buste mi scivolano via dalle dita. Il dolore è un tamburo che mi suona nelle ossa. Allungo le braccia, le mani mi tremano. Sollevo il coperchio. È gelido. Schiaccio la carne, la sposto. Cerco un occhio, un orecchio, una mano. So che ci sono, che li ho portati dentro. Le mie dita affondano. Non esce nemmeno il sangue. Voglio urlare ma non ci riesco. Stringo la massa che doveva essere il mio bambino. Il vuoto si dilata di nuovo nelle mie viscere. Presto mi staccherò da terra.

Lazzaro

Racconto di Alberto Bartolo Varsalona, secondo classificato al Premio Lo Spazio Letterario 2024.

Pubblichiamo di seguito il testo secondo classificato e con menzione speciale della giuria per la sezione “Racconti” della terza edizione del Premio Lo Spazio Letterario: Lazzaro di Alberto Bartolo Varsalona.


“εἶπαν οὖν οἱ µαθηταὶ αὐτῷ · Κύριε, εἰ κεκοίµηται σωθήσεται”
Gv 11,12

Fuoco era la statale, che amici e parenti s’erano portati botti e contro-botti da mezza Palermo: bombe, tuoni che facevano tremare le celle, sbarre e catene al Pagliarelli. Era da poco iniziato lo spettacolo d’artifici, di sbummichiate in su per il buio cielo, fuoco su fuochi, e lampi, e tagli come di tempesta, di malotempo verticale sull’immondo fiume Oreto, ove scorre non acqua, ma melma.

Gli ospiti dello stato si godevano, aggrappati alle sbarre delle finestre, la loro ospitata a intermittenza: per lo più la sua monotonia, fatta di mangiate e dormite e grascia e corpi uno sull’altro che non c’era più spazio, non ce n’era più di spazio – e che ci liberassero, pensavano, se non lo sanno manco loro dove infilarci. Ma l’ospitata statale era cosa sacra e non poteva essere negata, né rifiutata: solo nelle angustie, ristrettezze fisiche e morali, gli ospitati statali si educavano, s’affinavano a lima le animuzze penitenti: sottovoce s’inquisivano sul ferro del letto a castello – mi scusasse se ho fatto questo, se ho fatto quest’altro, mi scusasse: vero dico, non per finta, vero.

In questa cupa noia da confessionale, tra i rosari che il parroco aveva dato loro in pasto, come se avessero dovuto masticare le perline a mo’ di scaccio e semenza, la sorpresa era cosa assai gradita, fosse anche dilaniante e furiosa come quel gioco di fuoco. E durante lo spettacolo protratto di schizzi tambureggianti e astrali, d’immensi ventagli, pioggie d’oro e girasoli, i parenti davanti ai cancelli sul viale regione manco se li guardavano più, manco rivolgevano loro mezzo saluto, mezzo bacio schioccante, che avevano la testa rivolta al cielo, fattosi ora non di aria, ma di fuoco, e in quel cielo scorgevano strane cose e segni: facce, colpe: forse memorie.

Avevano fatto le cose per bene: era già passata una buona mezzora di botti, ma l’attesa masculiata, il rimbombo definitivo e assoluto, tardava ad alzarsi per l’aria. E sebbene lo spettacolo proseguisse, coi suoi frastuoni laceranti, quello se ne stava immobile e rannicchiato nel suo angolo di cella, che non ne voleva sapere niente di svegliarsi. Tutte le avevano provate e niente ci poteva: il picciotto dormiva di un sonno profondo, non di creatura morta, ma di entità in stallo: come se avesse spento, d’un tratto, il lumino della vita sua, fuocherello pentecostale sul cervello. Passava il giorno così, smuovendo la sua obliosa letargia a colpi di runfuliate, ora silenti e caute, ora graffianti, capaci di provocare trasalimenti ai compagni di cella, o alle guardie del corridoio. Non era un sonno tranquillo e pacificato, di lavoratore che si arricampa dopo aver buttato il sangue, ma dormita schifiata e umiliata, scaricata in brevi spasmi sulla faccia. Siciliano o maghrebino, nessuno sapeva da quale antro recondito del mondo fosse uscito fuori, che mica si ci poteva parlare, faccia a faccia, quattr’occhi, a chiedergli come ti chiami, da dove vieni: nessuno sapeva niente, né dentro né fuori dal carcere, come se fosse sfuggito per miracolo a qualunque autorità burocratica, infallibile domanda istituzionale, e pareva quasi che lo stato se lo tenesse sotto custodia giusto per fargliela scottare la strafottenza sua. Aveva la faccia smorfiosa e la pelle olivastra dei morti di fame, solo questo sapevano, che quello dormiva, runfuliava di bella.

«Lazzaro manco con le bombe si sveglia! Vai a sapere che si fumò…»

Divertito gridava agli altri Cusimano, sempre guardando l’aria infuocata, ed era come se parlasse alla notte. Il Pagliarelli scoppiava di gente, che a poco si dormiva uno sull’altro e le sezioni del carcere, i luoghi separati per reati, s’erano mescolati in un’oscena promiscuità di diversissime detenzioni: lo spaccino di borgata chiacchierava a lungo con l’ergastolano, il cravattaro col pluriomicida, tessendo una sapiente e fittissima rete di conoscenze che sempre s’andava slargando, di maestranze antiche e tecniche incrociate per eludere il braccio smorto della legge, della giustizia bendata con la bilancetta per pasta o pane – bracci obliqui, piatti dispari.

«Crack sarà stato, che per ora ai mercati scorre manco fosse acqua.» Rispose, fattosi serio, Gambino, che se li era visti morire tra le mani, tra spasmi e sussulti, alcuni picciotti, mentre a Lazzaro gli era finita di lusso, che dormiva beato. Non polvere bianchissima per nasi delicati di gente composta e incravattata, ma surrogato nauseabondo a sfasare ogni connessione, ogni recettore: lo scarto dello scarto svenduto, botta violenta che al primo scoppio di plastica salisse veloce, per poi stroncarsi, offuscando il mondo.

«Ma quando mai… Non ha niente il tunisino: sta meglio di tutti noialtri messi insieme, fresco e pettinato. Non lo vedete che ci sta prendendo per il culo? Se la ride, e ci scommette…»

Disse Spina seduto al tavolo da gioco dall’angolo più interno della cella, lì dove non arrivavano i lampi di colore, e Ferrante gli diede manforte, calando pesante briscola e pigliandosi ogni carta.

«L’abbiamo capita la pensata sua, che si fa ‘sta scenata, ‘sta farsa da teatro per farsi trasferire: all’Ucciardone si respira meglio che gira l’aria di mare. Viene il cuore che ce l’hanno a portata di mano, e s’arrifrescano anche solo col pensiero d’averla vicina. Per questo fa il teatrante…»

E nelle pause dilatate lasciavano intendere oscuri interessi e spietati tornaconti.

«Non gli fa giustizia ‘sta ‘ngiuria al malandrino. L’attore lo dobbiamo chiamare – altro che Lazzaro – grande e famoso attorone, che qualche volta ce lo vediamo spuntare in tivvù mentre si fa la sua parte, e runfulìa…»

«E magari la gente gli batte pure le mani!»

Era più forte di lui: ricercatissima scenata portava avanti il siciliano-maghrebino, coi suoi tratti di razza indistinta, che dormendo dormendo manco mangiava, tanto che si era disposto di far venire – quotidie – assistenti statali, convocati direttamente dal Palazzo della giustizia: sacerdoti di culti indicibili sulla vita, che d’urgenza con le loro pipette, coi loro sali minerali tentavano di alimentare quel corpicino olivastro che sul letto andava scomparendo, come se le ossa già prendessero curve forme, pieghe di lenzuola. Lazzaro aveva le vene già sfaldate sotto la pelle, infrante in sbocchi di sangue, rami bluverdi sul braccio, che gli assistenti manco potevano attaccare mezza flebo, mezza farfallina, e quindi si limitavano a bagnargli le labbra che la bocca l’aveva sigillata, e la vita sua pareva trascinarsi lungo la patina umida che varcava le gengive.

«Talè, talè che bravo: non ci può niente… non s’arrende…»

«Bella vita da magnaccio si fa Lazzaro, che non dà conto a nessuno e si fa le meglio dormite: servito e riverito che pare un barone. Scaltro è… scaltrissimo…»

Rinforzò Spina, ed ebbe un sussulto, un conato improvviso di vomito che gli fece salire la brodaglia della cena, quando per incerte e stranissime correnti la cella fu travolta da una zaffata stomachevole, e ciascuno smorfiando si tappò il naso, che il tanfo era insopportabile e li svuotava d’aria.

«Che è cretino Lazzaro che vuole il trasferimento? Da dove minchia parte ‘sto fiume disgraziato non si può capire…»

L’Oreto, il laido corso d’inafferrabili natali, scorreva col passo di una colata lavica, densissimo e melmoso, come se a monte fosse stato animato da soli scarti, soli detriti, o come se il medesimo fosse stato un arto incancrenito della campagna – Conca Ossidata. Di giorno in giorno si faceva sempre più lento, scrutando le forme delle rive, dei clivi che su di esso s’annegavano: s’ancorava alla terra per farsi terra; o quantomeno palude. Svogliato voleva forse arrestarsi definitivamente, e scontare la sua intossicazione di viscere, rigettando ogni cosa.

«Una volta pure un cavallo ci ho visto: mi taliò col muso locco e gli incisivi lunghi lunghi. All’inizio ci ridevo, poi no, che era morto e manco se ne scendeva: il fiume pareva tenerselo a galla per farmelo guardare. Tutto sminchiato… non aveva pace: sarà in mare adesso…»

Disse sottovoce Gambino, quasi a non volere rievocare – forma e colore – la morte violenta e animale, e ricevette prontissima la risposta di Spina, che pure logorandosi sempre nell’angolo più interno della cella, conosceva ogni movimento, in entrata e in uscita, ogni spiffero, parola detta o magari pensata dentro al carcere.

«Tutte cose là vanno a buttare; mica solo i cavalli: che fa, magari deve profumare? Pure le carte nostre, tutte quelle cose stampate – lo sanno loro, lo sanno, quello che c’è scritto – manco le guardano più, e le vanno a vurricare là sotto… come tanti cavalli…»

Se n’erano accorti subito i più acuti, che il fiume negli ultimi tempi s’era incartato, attuppato da stracci e cartacce: geroglifici consunti, alfabeti cifrati dai quali spiccavano nomi, e articoli, e commi, e anni. Raccolte le inutili carte, giornalmente, piccoli cortei di guardie giunti alle sue rive, gliele davano in pasto, come a volergli dare un contraccolpo micidiale, un’indigestione fatale: rutto inespresso alla divinità fluviale.

Scorrevano, incartapecoriti, anche i loro fantasmi anagrafici: Cusimano, e Gambino, e Spina, e Ferrante lambivano l’alveo in una poltiglia di dati improcessabili, ammuffiti lungo i fumi pestiferi che loro stessi dovevano sorbirsi, chiusi e stipati nelle loro celle – e soli brevi respiri tiravano, sui palmi della mani a serrare naso e bocca, come a voler sfuggire dalla frustata finale e cadaverosa.

«Questa giustizia me la chiamate? I giudici la ripassata delle nostre azioni se la possono fare al fiume, con qualche retino…»

Solo le generalità del dormiente, che mai s’erano indovinate, erano sfuggite del tutto a quella parola bendata, o forse il fiume le aveva da sempre occultate nel suo ventre di carcassa, intorno al suo cuore nervoso e affaticato che aveva precorso lo Stato; che aveva previsto Lazzaro stesso.

Tardava, tardava ancora il colpo definitivo, quasi non fosse stato nemmeno calcolato dai masculari, quasi non dovesse mai arrivare. E ogni rimbombo faceva tremare il busto da uccellino dei pelleliscia, figli e nipoti degli ospitati che i giochi d’artificio se li sentivano sul petto, sul cuore, e dovevano scaricare nella corsa quella energia trasmessa, imprevista e vigorosa, come volessero ripercorrere, in terra, quelle traiettorie colorate. Parevano ingestibili, che nessuno riusciva a farli stare composti, magari pigliandoseli mano e manuzza – saluta a papà, saluta al nonno e al bisnonno, allo zio, al trisavolo – invano ordinavano a strattoni i parenti maturi e maturati.

Pure loro lo conoscevano Lazzaro. Non l’avevano mai visto, eppure l’avevano scolpito in testa, tale e quale a com’era: così indistinto, così vago. Agli incontri con gli ospitati parentati, nei silenzi che a loro spettavano in quei momenti, quel nome avventuroso usciva sempre, sparlato e umiliato. Era un grande attore che le provava tutte per uscire, o quantomeno per farsi trasferire, e per lui facevano il tifo, chiedendo novità ai parenti, sperando di vederselo fuori e baciargli la mano: pure loro volevano scapparsene dalle zaffate dell’Oreto, dal malovento rifiutato, e sempre lo chiamavano da fuori, quasi servisse proprio lui per la loro fuga. Restavano i più sicuri, sempre saldissimi nelle loro opinioni: Lazzaro sarebbe uscito fuori, camminando fresco e profumato, senza alcuna benda.

«È mago e prestigiatore, mica se ne poteva scappare muto muto.

Vuole fare una cosa sistemata per noialtri che siamo il suo pubblico.» Disse un pelleliscia, parente diretto di un ospitato, che dei colloqui dentro al carcere ricordava solo il nome straniero del dormiente.

«Il nome suo, gridiamo il nome suo che esce!»

Suggerì un’altra pelleliscia, gracile gracile, con una voce squillante e luminosa: attendeva insieme a tutti gli altri un evento inesorabile, babbiando col mezzo sorriso sulle labbra.

Nei loro moti furiosi avevano occhi solo per il settore che s’era già fatto luogo di miti e di conti, di gesta straordinarie e prodigi: sapevano, sapevano bene che come arrivava la masculiata Lazzaro se ne usciva, magari volando, e con la pace della previsione guardavano dilatarsi, alimentarsi da sé, quel trionfo di miscele chimiche, di zinco arsenico antimonio rame in fiammate azzurre violette carminie, e anche se passavano i minuti, e le ore, e i mesi, mai volevano dormire, che il sangue gli bolliva, e pensando a Lazzaro, gli ribolliva, violento e smisurato: come se la vita, in lui inarcata, verticale s’alzasse in loro. Venivano colpiti in pieno dalle luci di nitrati, quasi che l’oro e l’argento potessero stendersi solo in quelle pelli lisce, e parevano dei lumini, sul lato degli orti infecondi, davanti i cancelli: un tappeto fitto di lumi smaniosi.

Non sapevano, non sapevano ancora delle botte e dei cappi, dei tagli sulle vene e dei ricoveri, delle cinture stese e legate al collo, giù come serpi. Non sapevano; e giocavano, inseguendosi sul largo viale, facendo vibrare l’immenso recinto di grate, quasi volessero violarlo: Lazzaro svegliati, gridavano al buio loro soli, Lazzaro vieni fuori.

Case in prossimità del raccordo anulare

Racconto di Alessandro Tesetti, primo classificato al Premio Lo Spazio Letterario 2024.

Pubblichiamo di seguito il testo vincitore per la sezione “Racconti” della terza edizione del Premio Lo Spazio Letterario: Case in prossimità del raccordo anulare di Alessandro Tesetti.


L’Istat rileva un’importante e non trascurabile congestione di case lungo il raccordo anulare che abbraccia la capitale. Le case si susseguono pochi metri di distanza l’una dall’altra, sono piuttosto simili: forma rettangolare, un’ottantina di metri quadri ogni appartamento, massimo tre piani.

Gli agenti immobiliari dichiarano che i tabagisti cercano case in prossimità delle strade ad alta velocità, dei balconi non gliene fotte proprio, nemmeno dei colori spenti o dell’intonaco ceduto, gli importa solo dell’adiacenza alle strade ad alta velocità, di ampie finestre dove affacciarsi. Io confermo, sono un fumatore immattito dal vizio, e mi piace vedere le macchine che scorrono e corrono sotto casa mia, però mi piace vederle più dal balcone che da un buco nel muro. Ho in affitto un appartamento al terzo piano, pago poco perché affaccia esattamente all’uscita dell’autostrada A1 Tor Vergata direzione Napoli. Le pareti non sono spesse, i vetri vibrano al soffio di vento poco incazzato, quando passano grossi tir o auto prestanti, la casa trema da far paura, la polvere pullula nei fasci di luce. Non ho mai pulito casa, ci pensano le macchine che passano, velocità che alza la polvere sbattendola flaccida e caotica e serpentina nei vari antri. Così come le sigarette mezzesbucciate collezionate in bilico sul davanzale, con le vibrazioni crollano giù, nel balcone al piano di sotto, e poi è compito dell’inquilino buttarle. Curiosità mia è verificare dove le butta, se di sotto con una scopa o le raccoglie in un sacchetto: quasi sempre di sotto con una scopa.

Siamo tutti diffidenti qui, ci salutiamo malamente quando affacciati, ognuno dai propri antri, ci mettiamo a fumare. Uno vorrebbe un po’ di intimità, mettersi a fumare senza altri cristiani, solo col raccordo anulare che abbiamo davanti e contare le macchine, le moto, i tir. L’inquilino di sotto sembra farlo apposta, appena mi sente, subito esce fuori a fumare. Non so che orecchie abbia, sente la rotella dell’accendino e s’affaccia, che dici, tutt’apposto? (solito esordio) io rispondo con un grugnito o con un sì. Lo so che vorrebbe parlare ma io non ne ho voglia, lui può parlare se vuole, sono io che non ho voglia di sentire la mia voce, di ascoltare la sua sì, può capitare. Ogni tanto si mette a raccontare dei suoi cazzi e scazzi: l’ex moglie che lo tradiva con suo fratello, lui che la tradiva con la cugina, il figlio che lavora a Mestre, le puttane che frequenta in Portonaccio, se ho voglia di farmi un giro pure io.

Ma io consumo la sigaretta, s’accumula la cenere all’estremità, faccio con la saliva una lunga stalattite e miro con l’intenzione di prenderlo in testa per poi risucchiare quand’è al limite. Mi parla senza guardarmi, e perciò non s’è mai accorto della stalattite, dovrebbe contorcere il collo, invece inchioda i gomiti sul parapetto e guarda dritto a sé: conta le macchina, le moto, i tir.

Gli psicologi studiano il motivo per il quale i residenti attorno al raccordo anulare pratichino con gran ferocia, delle volte unicamente, ossessivamemte, il sesso anale: ricevuto o donato.

Il mio caso non è, non stringo un corpo da anni. La notte prendo la macchina, faccio un giro completo del raccordo a centoventi, poi esco all’uscita Prenestina. Rallento e cerco le cosce che fanno per me, giro in fretta quando trovo quelle giuste. Accendo una sigaretta e gioco tra prima e seconda marcia, le puttane mi mandano a fanculo quando faccio le finte, perché rallento e pensano che mi stia per fermare, invece ci ripenso e vado via. Capita di voler ascoltare la loro voce, capita e non voglio altro. Allora mi fermo e abbasso il finestrino, cinquanta dicono, ed io non rispondo, cinquanta dicono, ed io non rispondo ancora una volta, non mi va di sentire la mia voce, ma la loro sì. Imprecano e mi danno dell’idiota, cazzo vuoi sei venuto a rompere i coglioni, noi qui stiamo lavorando, vattene via idiota. L’idioma è spesso dell’Europa del nordest o misto tra francese e inglese tipico di Lagos e Nigeria in generale, frasi scarne e rituali masticate in quel italiano-dialetto non imparato ma assorbito, udito e perciò ripetuto senza sede né sedimentazione: metto la prima e vado. Nello specchietto vedo un braccio alzarsi e una bocca spalancata senza voce. Non ho soldi, esco sempre senza soldi così da non avere il mezzo. La tentazione ce l’ho, non ho il mezzo, il fine sta a un passo da me con cosce che fanno per me e la bocca arrossettata, il mezzo è rimasto coscientemente a casa, in tasca non ho un centesimo. Una volta ad una di loro ho risposto, dopo il solito esordio (sempre soliti esordi, tutti noi parliamo per repertori), della bestemmia e dell’idiota: culo, dico, culo chiedo. Cento, fa lei, ma lo dice per meccanismo, l’espressione è incredula, sa di star perdendo tempo. Sorrido e non rispondo, metto la prima e un braccio alzato che fa sciò sciò stronzo. L’unica volta che ho ascoltato un’altra parola da quelle bocche arrossettate, il secondo step di quelle frasi rituali e scarne, emanate e non custodite.

Tre anni fa quando stringevo il corpo, non abitavo ancora qui e non ho mai avuto il desiderio di praticare sesso anale. Vorrei chiedere all’inquilino di sotto se ogni volta spende una piotta, perchè così dicono gli psicologi: vivere vicino al raccordo anulare provoca un aumento del desiderio rettale, ricevuto o donato; e magari è vero, perciò indago, ma non c’è questa confidenza, forse la prenderebbe a ridere, ma non mi va di sentirlo più amico ogni volta che ci affacciamo a fumare, gli uomini hanno questa cosa che si sentono più amici quando parlano di sesso, si sentono più amici quando parlano di violenza e aggressioni e bande e gruppi e misure e superiorità. Contorcebbe il collo per guardarmi e sarei costretto a guardarlo, nella verticalità che ci separa, non formare le stalattiti, perlomeno notare le fibre cutanee, le rughe faticose, la

contorsione. Quando poi gliel’ho chiesto, lui s’è fatto una bella risata, una risata talmente scenica che gli è caduta la cicca dalle mani, poi com’è suo solito s’è contorto dicendo ma quelle fanno così, tu ci devi giocare, quelle fanno così, ci provano, devono pur incassare, ti direi di venire con me, andiamo insieme, ti mostro come si fa, non più di venti per quello e cinquanta per l’altro, sennò come ci arrivo a fine mese, quando si rigira mirando e conteggiando le vetture, accende un’altra sigaretta e continua a ridere, di una risata davvero plateale. Provo a formare la bava ma non ho saliva.

Gli psicologi verificano un netto numero di onirismo notturno da parte dei residenti in prossimità del raccordo anulare preoccupante: nel sogno c’è il proprio corpo che gira su stesso senza fermarsi mai soffrendo di nausea sfibrante e poi una perdita d’equilibrio, la caduta e la morte.

Io come ho detto prima, la notte prendo la macchina e giro, il più delle volte fin quando non mi viene sonno e mi addormento alla guida. Allora cerco un parcheggio spoglio e dormo o continuo a guidare per vedere quello che succede. Non mi piace tornare a casa e provare a dormire, mi fa sentire solo e gli uomini hanno questa cosa che non sopportano sentirsi soli, e poi non dormo, che senso ha tornare a casa se poi non dormo. In macchina di sogni non ne faccio, il mio psicologo dice sia l’assopimento furioso imposto a sassate, quindi è normale non sognare; a non essere normale, dice, ma io non sono molto d’accordo, è addormentarsi in macchina.

Vado dallo psicologo che saranno dieci anni, ma lo frequento da molti anni addietro. Eravamo pischelli quando ci siamo conosciuti alla scuola di recitazione, il venerdì pomeriggio a Garbatella. Io facevo la parte del tossico e lui del matto, portavamo in scena Caligari, e nessuno capiva, eravamo davvero bravi ma nessuno capiva. Poi con l’università abbiamo smesso di recitare, io mi sono trasferito a Bologna per fare il Dams e lui è rimasto a Roma. Ha iniziato Medicina con l’idea di fare psicoanalisi poi, neanche un anno che s’è scocciato e ha virato in Psicologia, non gli interessava studiare il corpo umano ma solo la coccia, non più i matti ma gli stati dell’umore, le persone alle prese con le oscillazioni.

Essendo amici si prende meno soldi, quando le cose gli vanno bene non si prende niente. Evitiamo di uscire come una volta, non ci prendiamo una birra da anni, l’ultima volta è stata per confidarmi la morte di sua madre, e lo doveva fare evidentemente fuori da dove ci vediamo di solito e cioè fuori dal luogo di lavoro per non confondere o peggio scambiare i ruoli in cui siamo finiti e invischiati, non più amici ma medico e paziente. Ci incontriamo nel suo studio, un paio di domande di transizione, poi iniziamo. La mia disperazione è sempre più o meno la stessa[1], lui mi dà degli spunti ma non ho mai capito se è bravo. Di rivolgermi a qualcun altro non se ne parla, non ho soldi e poi vederlo è un modo per non perderlo. Forse sto meglio quando prendo la macchina e vado da lui, sto meglio nell’attesa dell’incontro che dura giorni e non arriva, mentre quell’oretta di monologo e breve dialogo a volte aiuta a volte no. Esco da lì e mi sento svuotato ma è la stessa sensazione del post coito, dura un attimo, la stessa sensazione di quando cerco quelle donne e interazione con esse ma poi mi mandano via. Ed io che continuo a dire al mio migliore amico, nonché disgraziatamente, psicologo, che mi voglio ammazzare quasi ad avvertirlo, e lui che mi dice: il motivo è l’oppressione artistica, devi scrivere cazzo, perché non scrivi, concentrati cazzo. Il turpiloquio è la linea sottile che smentisce i nostri ruoli, da medico-paziente ad amici, mi fa stare meglio. Ma forse non siamo più nemmeno amici, dovrei cambiare psicologo per tornare ad essere quello che eravamo, io il tossico e lui il matto in un teatro della Garbatella, io quello andato via, lui quello rimasto, a vederci finita la sessione, recuperare il tempo perduto. Allora provo a scrivere di notte in macchina l’inverno sui vetri appannati, come se il problema fosse il mezzo, il supporto: non la carta, non il computer, servono i vetri. Ci sono due personaggi che mi ossessionano, due ventenni sfaccendati che girano e girano, indaffarati dalla scimmia e dal morbo, li conosco benissimo, li ho perfettamente in testa come per ricordo, ma perché non mi parlano non lo so. Appena gli chiedo di aprire bocca non mi parlano. Poi il consiglio è stato scrivere di sesso, ma esce roba frettolosa e schematica, non possedere un corpo ma possedere il linguaggio, applicare il desiderio nel diverso e affine luogo-del-desiderio: devi desiderare, mi dice, tu non desideri, aspiri, vuoi, ambisci, rosichi ma non desideri diocane, corteggia e esci da questa situazione, desiderare un corpo, desiderare il linguaggio: tu non hai né l’uno né l’altro, è tutta qui la tua dispersione, poi perde la pazienza e non scaccia sillaba. Io so che reputa patetico tutto questo, facile da diradare espellere rimuovere disperdere, e anch’io m’incazzo e non scaccio sillaba, fargli capire che non è affatto facile non riuscire a scrivere più, patetico che continuiamo a vederci in questo studio solo per non abbandonarci: l’ora finisce e me ne torno a casa, quindi chiudo gli occhi e vedo quello che succede. Il raccordo anulare è deserto stasera e di cercare corpi proprio non ne ho voglia. Vedere le case in prossimità della strada è una sorta di uscita. Qualcuno è affacciato e mi chiedo chi, dal proprio veicolo, nota me che sto per sputare all’inquilino del piano di sotto. Ma non ne vale la pena pensarci, soprattutto a questa velocità, con gli occhi chiusi: questa non è un’uscita.


[1]  Il mio schifo di lavoro al catasto; voler scrivere sceneggiature la notte ma non stendere nemmeno un rigo; l’ossessione per il sesso senza praticarlo; il fascino del suicidio automobilistico.

Un altro nuovo mondo

Racconto di Roberto Pedotti.

Informe, senza nome, con tutti i nomi. 

«Agid Böhm, Germania. Luogo di nascita: Magdeburgo. Quindici anni di servizio. Dipartimento: astrofisica teorica. Famiglia: assente. Sei stato scelto per il quindicesimo lancio. Congratulazioni». Lo sguardo del rettore gli fa capire quanto sia importante per lui quest’ultima nomina.

L’anno è irrilevante, ma non lontano. L’umanità, sopravvissuta a ogni suo tentativo di uccidersi da sola, vede per la prima volta dall’Osservatorio di Greenwich qualcosa di ben strano: sette punti nel cielo, quasi contemporaneamente, brillano intensamente di una luce azzurrina, per poi dileguarsi nel firmamento. La squadra di astronomi che assiste all’evento la chiama convergenza, la definisce come una coincidenza, tra le infinite casualità dello spazio infinito. 

Ma il giorno dopo, altre ventiquattro stelle scompaiono. 

«Heat death», e mentre lo dice non gli sembra che esca alcun suono dalla bocca. Immagina invece di aver creato una bolla, ripiena di parole e significati: in tedesco quel termine ne ha così tanti

«Ma che bel bambino, come si chiama?»

«Agid. Agid, dài, di’ ciao alla signora».

Suo padre lo spinge in avanti dolcemente, gli strofina la nuca per rassicurarlo, ma Agid si mette le mani davanti alla bocca e corre a nascondersi dietro le sue gambe imponenti, grandi come la più grande quercia del mondo. Anni dopo, al liceo studia di Yggdrasil, l’albero mitico che tiene il mondo intero, e pensa alle gambe del padre, impiantate salde per terra. 

Kauer Böhm è sdraiato su un letto di ospedale. Non vede più – dice la dottoressa –, il tumore gli ha preso gli occhi. Papà sta morendo fra mura ingiallite. Papà che quando aveva avuto la varicella gli aveva regalato una piccola mappa del sistema solare ed era stato con lui tutto il tempo a raccontargli dei curiosi altri nuovi mondi che aspettavano dall’altra parte di esser scoperti. Papà che aveva sorriso sentendogli dire per la prima volta che voleva studiare le stelle, papà.

Agid pensa a Yggdrasil e alle sue gambe che non riesce più a vedere, fra le coperte pesanti, mentre gli carezza la barba incolta. Nella sua mente, là sotto le radici corrono a impiantarsi nelle fondamenta dell’ospedale e più in fondo ancora, fino ad arrivare al nocciolo della terra. 

Nocciolo. Nüss. Hasselnüss. Nocciola. Ed eccola davanti ai suoi occhi in mezzo alle figure informi, dove tutto cambia, il guscio scuro e lucido che riflette la luce (che luce? Da dove arriva questa luce?) E sembra, no, è la stessa che aveva gettato nel fiume con lei la notte che era partita. 

Il tonfo quando cade in acqua sembra coprire tutti gli altri rumori del bosco. Anche lei lo avverte, si guardano e senza capire perché ridono. 

Ha le labbra strette e le iridi verdi costellate di satelliti castani, che si illuminano di luce propria mentre gli parla di microbi e tardigradi e ambergris. Lui la guarda come se fosse un miracolo. Per un attimo non gli interessa nulla dello spazio, delle stringhe, delle stelle di neutrini, rivede l’enormità del tutto nella sua pelle liscia e scura e preferisce gettarsi in lei che in una navicella verso il vuoto, che in quel momento gli appare freddo, freddissimo. 

Quando si rivestono le chiede se è sicura di partire, spera non confessandolo in un suo ripensamento, ma lei risponde che è deciso, che ha già comprato il biglietto e che la sua vita la attende là, lontano, che oltreoceano ci sono cure sperimentali nuove, e che anche non fosse, ci sono tante piccole bellezze che deve ancora scoprire. Che vuole ancora scoprire.

Rialzandosi, ansima, ma non smette per un attimo di fissare Agid, come se stesse forzando il suo cervello a fotografare le sue borse sotto gli occhi, i lineamenti scavati e le cicatrici dell’acne, tutti i dettagli che lo rendono una persona, e non un’idea. Gli dice che è meglio così per entrambi, che se restasse lui non si dedicherebbe al suo obiettivo, toccare le stelle con mano. Racconta una storia che suona falsa ad entrambi, su come sia meglio andarsene quando c’è ancora amore. Gli carezza la guancia, gli lancia un’ultima occhiata, coi suoi occhi profondi e vasti, lo spazio fra due corpi celesti, lo stesso che lui sente sta per crearsi fra loro due .

 «Promettimi di dirmi cosa c’è al centro di tutto quando ci sarai arrivato».

Heat Death. 

E la nocciola si apre e al suo centro danza una fiamma ardente, ma più Agid la fissa, più tremola incerta. 

È su tutti gli schermi, su tutti i giornali. Heat death, la fine del ciclo del nostro universo, una serie di reazioni a catena che partono dalle sue estremità per arrivare al suo centro, nell’occhio. Ogni sole innesca una supernova, ingloba i pianeti circostanti per poi scomparire dalla mappa. In meno di venti giorni, quattrocentoventi sistemi solari vengono osservati estinguersi. 

Ma si calcolava che mancassero milioni di anni.

I calcoli erano sbagliati.

Tempo stimato perché succeda al sistema Helios: meno di due anni.

Possibilità di impedirlo:

Nessuna. 

La fiammella muore. Intorno tutto si fa buio, ma Agid lo sente muoversi ancora. Come scosse telluriche, sente che non ha ancora finito di vivere. Scalcia, ma manca poco, manca poco. 

Qualche ricco e potente crea delle capsule fatte per resistere al vuoto siderale, iper-reattive e dotate di ogni comfort. Dittatori, CEO e presidenti vengono avvistati catapultarsi oltre l’atmosfera senza alcun preavviso, puntini che veloci scompaiono e tornano al niente.

Ma il mondo non cade in preda al caos. Nelle città e nei paesi la gente si riunisce. Canta, gioca, ride, fa l’amore, si abbraccia. Questa volta tutti sanno che non c’è fuga, che il più forte farà la stessa fine del più debole, e si ama di più.

Accademie, istituzioni, governi si stringono in un ultimo interrogativo: le più grandi menti del pianeta si trovano per la prima volta nella storia a concordare sul fatto che prima della fine è necessario sapere cosa ci sia nell’Occhio dell’Universo, nel suo centro rovente. Lo chiamano Dio, il Tutto, il Nucleo Quantico delle possibilità, l’Uovo, ma il nome non importa più. I lavori per creare i veicoli da scagliare nel vuoto procedono veloci, velocissimi, perché chi lavora vuole aiutare a trovare l’ultima risposta e sacrifica tutto con mani sporche e felici.

Agid è fra i primi a iscriversi al programma, supera tutti gli esami con il massimo dei voti, pensando a suo padre e a lei, pensando che deve a loro ogni cosa, e non si risparmia.

«Agid Böhm, Germania. Luogo di nascita: Magdeburgo. Quindici anni di servizio. Dipartimento: astrofisica teorica. Famiglia: assente. 

«Sei stato scelto per il quindicesimo lancio».

Agid sta cadendo ma non esiste un terreno su cui atterrare. Sente il clamore dei balli sulla Terra e l’utero di sua madre morta durante il parto. Agid cade e continua a cadere, senza appigli

Salendo sulla rampa di lancio, vede Mark correre verso di lui. Incurante delle norme di sicurezza, strattona le guardie e il pubblico per avvicinarsi. 

«È morta, Agid. Erano anni che il cuore giocava a dadi con lei. Mi ha chiesto di ricordarti della promessa». E il cuore di Agid ora gioca a dadi con lui, si inabissa, ma non cambia rotta. I passi dentro la scatola in titanio e speranza non sono meno decisi. 

Quando si stacca da terra, la navicella è un pennello leggero, e traccia fra le nuvole i suoi occhi. 

I piedi di Agid, astrofisico e astronauta, non toccano terra, ma non sente più di stare precipitando. Le contrazioni intorno a lui si sono fatte più lente. Attorno, sagome aliene si mischiano a immagini familiari. Un letto di ospedale, una nocciola, un libro di mitologia nordica. 

È a metà strada, a migliaia di anni luce da casa, che una voce elettronica lo avverte:

«Attenzione. La massa di Helios ha superato il limite critico di stabilità. Collasso imminente».

Non la vede, Agid, la fine di tutto quel che ha conosciuto. Non riesce nemmeno a immaginare il sole, che in un agosto lontano brillava mentre lui correva con uno shuttle giocattolo in mano, rinchiudersi nella grandezza di una nocciola e poi esplodere in una luce bluastra, catturando nel suo abbraccio il golfo di Palermo, le montagne dell’Oklahoma, i boschi di Magdeburgo.

Mentre il computer urla, lui torna alle gambe del padre e agli occhi di lei, a Yggdrasil, le cui radici salde non possono cedere nemmeno davanti all’esplosione del sole.

E continua verso la meta. 

Tutto tace.

Agid si sorprende a udire il suo respiro all’interno del casco. Nel silenzio cosmico, suona come quello di un gigante risvegliatosi da un sonno lungo millenni. Lo trattiene per qualche secondo ma appena si accorge quanto sia spaventoso non avvertire niente, comincia a respirare angosciosamente. 

Agid iperventila, cade nel panico, si contorce al posto dell’Universo, forse credendo di starlo salvando, di starlo invitando a ballare con lui, a scuoterlo, a reagire. Ma l’universo è silente.

La navicella passa attraverso la polvere di sistemi consumati. Dallo schermo il pilota vede nastri di luce carezzare le pareti del vascello, avvista forme tetradimensionali fissarlo curiose, lingue di tenebra che si accoppiano con batteri impossibilmente enormi, meraviglie e terrori che non riesce a descrivere e che gli bucano la testa se tenta di concentrarsi. Tutti lo lasciano andare, e lui si racconta sia perché anche loro capiscono dove sta andando, si convince lo stiano incitando verso la meta, gli stiano dicendo che manca poco, ancora poco, scimmia col casco, sei quasi arrivata. 

E Agid, ultimo pilota, ultimo essere umano, scorge l’Occhio dell’Universo, distante e allo stesso tempo vicinissimo: è un buco rigonfio, solcato da fulmini solidi che si imprimono e si spezzano in altri multicolore, è un cerchio perfetto senza geometria, un punto minuscolo che avvolge l’orizzonte, un trucco ottico che rimane dopo averlo lasciato, porte del Paradiso e voragine infernale. 

Si dimena, Agid, primate di cromosoma XY, sente di non essere più del tutto vivo. 

È a quel punto che la nave si incrina. Le pareti si piegano, cambiano di materia, decadono, diventano di legno, poi di pietra, poi di leghe sconosciute e irreali, di colori nuovi ed estranei che si sfaldano e si ricompongono, e Agid avverte le ossa scricchiolare e gli occhi cuocere dentro le orbite, il cervello congelarsi, contrarsi ed espandersi toccando il cranio.

Agid sa di stare morendo, ma spinge i propulsori, la tuta, le gambe, la mente, spinge ogni cosa mentre perde il controllo lanciandosi verso l’orizzonte degli eventi e solo quando sa di essere oltre si abbandona alla presa dell’Occhio.

Agid si schianta contro il cielo. 

*

C’è della terra sotto il suo palmo. È umida e calda, e fili di erba dondolano in mezzo alle sue dita. 

Si alza, confuso. Ricorda di esser caduto e di aver volato, ricorda di essere morto. Si rende conto di esserlo in parte. 

L’odore di legno vecchio come il mondo invade le sue narici, e senza pensare al come, capisce dove si trova: sono i boschi attorno a Magdeburgo. Querce e faggi e salici piangenti lo accolgono a casa. Agid si toglie il casco, inspira. L’ossigeno non riciclato gli fa salire le lacrime agli occhi, ed è solo quando con il dorso del guanto le scosta che le vede tutto intorno a lui.

Fra i tronchi aleggiano migliaia di luci minuscole, ciascuna non più grossa di un granello di sabbia. Vorticano senza peso e si condensano in galassie delle dimensioni del suo volto.

«Sono meravigliose», e la sua voce ora echeggia fra gli alberi e non fa più paura. 

Corre Agid entusiasta a esplorare la mappa del cosmo, senza metodo e con un bisogno infantile, piange e le gocce si impigliano fra la polvere di stelle, e così non si rende conto che ai lati della foresta il bagliore si sta spegnendo, prima lentamente, poi senza pietà. 

Quando se ne accorge, impazzisce. Corre furioso a vedere le luci, tutte le luci, bestemmia e sa che il tempo è già scaduto.

Le afferra con più cura che può, le tiene accanto ai suoi occhi, ma ogni fiocco che gli muore davanti è minuto e splendido e terribile, troppo intricato perché possa capirlo in una vita che non ha già più. Le parti di un telaio impossibile si sgretolano in polvere fra i polpastrelli.

Agid Böhm, tedesco, nato a Magdeburgo, quindici anni di servizio, del dipartimento astrofisica teorica, ultima persona in vita, capisce meno adesso di quando era partito. Si mette le mani davanti alla bocca, ma non ha gambe imponenti dietro cui nascondersi. Sotto il terreno le radici di Yggdrasil, vecchie, stanche, hanno lasciato la presa. Rivede suo padre entrare in camera, in piena notte, per sedersi al lato del letto e sussurrargli che è tardi, che c’è tempo domani per leggere di tutte le stelle distanti, di spegnere la luce ora. Chiede a entrambi altro tempo, ancora un attimo, per favore.

Ma la foresta non ha orecchie per ascoltare, e resta una fiamma solitaria accanto al fiume. Oltre, non c’è più nulla.

Così, Agid si appoggia al tronco che sa esser lo stesso vicino al quale con lei aveva fatto l’amore, e si accascia. 

Nel momento in cui l’ultimo tizzone si spegne, chiude gli occhi, e quasi gli sembra di sentire qualcuno accanto, col viso poggiato sull’incavo della spalla. 

Un fascio di nervi brilla in un’ultima striscia di messaggi, simile al calore di una carezza alla guancia, a una mano strofinata sulla nuca. Un rumore di foglie toccate dal vento attraversa le tenebre.

E una costellazione di immagini implode ai margini del cervello. Le illustrazioni di un libro mutano nelle radici di un albero nascoste da lenzuola d’ospedale. Labbra strette in un sorriso triste si affiancano a satelliti castani trasformati in cenere. Le dita di un bambino mentre tentano di afferrare il cielo dipinto sul soffitto di camera sua.

Agid tende qualcosa, le ultime sinapsi che restano gli suggeriscono “mano”, anche se mani non ne ha più, prova a raggiungerlo ancora una volta.

Poi la lascia andare.

Agid non aprirà mai più gli occhi, eppure vede chiaramente la nocciola sul fondo del fiume,

il seme del prossimo Yggdrasil.

Agid vede.

Lo vede.

Un altro nuovo mondo, sbocciato nel solco del vecchio.


Roberto Pedotti è insegnante, traduttore e giornalista. Scrive poesie e racconti, e cerca di trovare le poche giuste parole con cui esprimersi (spesso fallendo). Adora le incomprensioni e gli anagrammi, e infatti online lo si trova come @orbiteprodotte.

Su “La verità e la biro” di Tiziano Scarpa

Nota di lettura a cura di Lavinia Ceci.

Autore prolifico e discusso, Tiziano Scarpa ha recentemente pubblicato per Einaudi il suo ultimo lavoro dal titolo La verità e la biro. Dico lavoro perché, a ben vedere, tale titolo difficilmente rientra nella tradizionale categoria di romanzo, quello fatto di trame e personaggi. Infatti, come l’autore stesso specifica con un’«Avvertenza» ad hoc in apertura, il racconto segue una sorta di collazione di «fatti accaduti anni fa e altri abbastanza recenti»; fatti, appunto, che precedono «quella diagnosi» su cui l’autore non si dilunga ma che lascia come «sottinteso di ogni parola», un sottofondo dagli «accesi toni azzurro cielo o rosso sangue». In sostanza, La verità e la biro appare alla penna dell’autore come un richiamo all’ordine, una ricognizione personale, un tentativo di intrecciare in nome del Vero i due grandi temi della sua poetica: il sacro della filosofia, dell’arte e del bello; il profano dell’indagine nei più materici aspetti dell’esistenza umana e nei rapporti che in essa si iscrivono. Eppure, sono gli occhi del lettore il vero target della riflessione: strumenti in grado di decifrare e progressivamente svelare le verità – tali o presunte – di cui l’autore dissemina il testo, quasi nel tentativo di prodursi in un’estrema confessione, quasi un denudarsi, che assume i drammatici connotati della summa filosofica.

Il testo ha un’impostazione diaristica, struttura che permette all’autore di muoversi liberamente all’interno delle questioni discusse, lavorando tanto per associazioni paratattiche di idee quanto in forme concentriche: spesso una riflessione tira l’altra, generando un sistema di parallelismi e variazioni che, pur nella loro incostanza, mostrano una logica di fondo che segue il fil rouge della verità e della sua confessione, intendendo «apertamente affrontare la questione della verità, [de]le cose che si possono dire e quelle che è meglio tenere segrete per non sgretolare la società». D’altro canto, l’impostazione diaristica ha una sua deontologia della verità, e l’autore la prende a monito e regola per costruire l’impalcatura del discorso. Discorso che procede entro la narrazione di un duplice viaggio: quello estivo in compagnia della consorte Lucia, in una Grecia spaccata tra il consumismo dei villaggi turistici e le reminiscenze filosofiche della Grecia Antica di pensatori e poeti; quello più intimo e personale di rilettura della propria esistenza, dall’infanzia all’età adulta, con annessa confessione di fatti ed eventi veritieri e particolarmente segnanti.

In tale articolata dinamica, che lavora in modo ondivago tra passato e presente, teorico e pratico, Scarpa dissemina i suoi strampalati spunti di riflessione, fornendo spesso quadretti bassi e triviali: il sesso orale praticato da una studentessa di filosofia, donna le cui parole avevano sempre un ché di vero, almeno a detta dello scrittore, «perché me le raccontava lei stessa, di persona»; la spiaggia nudista su cui approda con la moglie; il catechista pedofilo; il consumismo della Grecia turistica. La riflessione sulle figure femminili appare quella più insistita: le diverse ragazze menzionate nel romanzo, tutte senza nome, assumono agli occhi dell’autore oramai anziano il ruolo di mistiche portatrici di verità quotidiane, che vengono in un certo senso “consumate” al pari dell’atto sessuale. La studentessa di filosofia, quella di letteratura russa, la ragazza dagli occhi spiritati scatenano, nel distratto e quotidiano loro mettersi a nudo dinanzi a un uomo, riflessioni profonde che dialogano col presente dell’autore in un progressivo disvelamento di verità taciute o nascoste. Ovviamente, si tratta di un meccanismo tutto interno alla mente dell’autore, rispetto al quale il contatto con queste figure è puramente funzionale: le donne non vengono assunte a divulgatrici di queste piccole verità, ma sono semplici evocatrici, le cui azioni o parole inducono realizzazioni intime e veridiche nel profondo dell’autore; rivelazioni che rimangono ancora nella memoria fortemente agganciate all’eccentricità sessuale di queste donne, la cui sola esistenza si fa ispirazione.

L’aggancio alla dimensione filosofica si verifica proprio nel momento di massima assolutizzazione di questi quadretti, in cui Scarpa adulto si ritrova a riflettere; e riflette sui significati profondi di certi comportamenti o frasi casuali delle sue compagne o delle persone che ha incontrato; o più semplicemente lo fa quando si sente particolarmente ispirato perché in contatto con le anime di autori e pensatori classici. In tale intreccio, l’aspetto forse più interessante riguarda il rapporto col lettore. L’acquisizione di queste verità illuminate, infatti, verrebbe presentata da Scarpa all’interno di una forma narrativa che vede la riflessione inserita all’interno di una vera e propria sovrariflessione, vera struttura del romanzo. Le verità giovanili, estrapolate dalle discussioni postcoitali con donne senza nome, acquisite a seguito di ripensamenti e nuove interpretazioni di fatti ed eventi passati, diventano la base per la costruzione di un romanzo che è di per sé una continua ricerca di verità, che si palesa agli occhi dell’autore e del lettore quasi nello stesso momento. Verità, vera o presunta, perché di un romanzo si tratta e giustamente Scarpa ne rispetta i canoni: «poter essere libero di scrivere la verità che comprende anche le mie fantasie, le storie inventate che ho pubblicato».

Sole nero

Racconto di Martina Faedda.

La spiaggia era coperta di ciottoli, si facevano via via sempre più piccoli fino a diventare sabbia dentro all’acqua. Antonio e Francesco giocavano a pallone sulla battigia, con i piedi scalzi e i calzoni arrotolati sulle caviglie; intanto Aurora e Camilla avevano sparso barbies e altre bamboline tra le pietre. Le loro madri, poco distanti, prendevano i primi raggi del sole primaverile senza perderli di vista. Mentre Camilla le mostrava tutti i vestitini di ricambio che aveva ricevuto per il compleanno, Aurora guardava il fratello in lontananza.
“Anche io voglio mettere i piedi in acqua”, disse.
A Camilla però non andava. “Mi dà fastidio la sabbia che si appiccica tra le dita quando mi rimetto le scarpe.”
“Allora chiediamo se vengono a giocare a palla con noi, senza bagnarci i piedi.”
“Non possiamo giocare con le bambole? Io mi vergogno, non sono brava a calcio.”
“Dai, mi annoio.”
Camilla sbuffò.
“Uffa. Va bene”.
Le due bambine si diressero verso i rispettivi fratelli, lasciando le madri a recuperare tutti i giochi mollati in giro. La tramontana accarezzava loro le guance arrossate dal sole.

“Sai che se hai bisogno puoi chiamarmi quando vuoi, vero?”
“Grazie. Sarà strano tornare a lavoro e non passare più tutto questo tempo con loro.” disse Rachele, la mamma di Aurora e Antonio, voltandosi a guardare le teste bionde dei suoi figli che giocavano insieme agli amici. I riflessi tra i loro capelli cominciavano a schiarirsi in primavera, per diventare quasi bianchi a fine estate. Lei era più scura, li avevano presi dal papà.
“Però ne hai bisogno. Devi riprendere a fare qualcosa per te.”
“Lo so.”
“Loro come stanno reagendo?”
“Non malissimo. Aurora fa un po’ più fatica. Non vuole andare a dormire, fa gli incubi, la pipì a letto. Mi sveglia quasi ogni notte.”
“Ha cinque anni, penso sia normale, vista la situazione.”
“Può darsi.”
Rimasero in silenzio qualche secondo, una nuvola solitaria aveva coperto i raggi del sole.
“E Antonio?”
“Lui va meglio, però è molto nervoso. Sua sorella lo infastidisce, prima di venire a svegliare me prova a mettersi nel suo letto come quando erano più piccoli. Tre anni di differenza non sono così pochi. Sto pensando di dividerli in due stanze.”
“Aurora non la prenderebbe male?”
La conversazione fu interrotta bruscamente da un grido acuto che si tramutò immediatamente in singhiozzi. Aurora era per terra sui ciottoli che piangeva, mentre Camilla cercava di consolarla.
“Che è successo?” domandò Rachele spazientita.
Aurora si strofinò via le lacrime dagli occhi con il dorso della mano. “Antonio mi ha spinta!”
“Sei una lagna.” Si lamentò il ragazzino. “Stavo solo riprendendo la palla, non l’ho spinta giuro.”
La madre la afferrò da sotto le ascelle e la tirò in piedi, poi le pulì la gonna blu dalla polvere dei sassi con delle brusche manate. “Dai, non è successo niente” disse Antonio alla sorella, a voce più bassa. La bambina tirò su col naso e fece cenno di sì con il capo.
La madre di Camilla e Francesco li raggiunse e propose di andare a prendere il gelato, lanciando un’occhiata di complicità a Rachele. Tutti i bambini acconsentirono felici, specialmente Aurora, che si era già dimenticata dell’accaduto e sorrideva entusiasta, con le ciglia ancora appiccicate l’una all’altra per le lacrime.
“Grazie” disse Rachele, seguendo i bambini che correvano verso la gelateria.

Il giorno dopo, Aurora e Camilla erano sedute in due seggioline verdi al tavolo dell’asilo e coloravano concentrate sui loro disegni. Nel foglio di Aurora, quattro figure stilizzate giocavano a palla: una mamma, un papà, e due più piccole coi capelli dello stesso giallo del sole, il cerchio nell’angolo in alto a sinistra. In quello di Camilla, invece, due bambini si tenevano per mano, le braccia due righe rosa e la mano un unico pallino. Camilla finì di disegnare il cielo, un rettangolo azzurro in tutto il confine superiore del foglio, poi si alzò, si diresse verso la cattedra della maestra e le mostrò il disegno. Dopo qualche secondo tornò trionfante dall’amica e glielo porse.
“Lo puoi dare ad Antonio? Glielo regalo”, disse Camilla, sventolando il foglio.
Aurora prese il disegno. “Perché lo vuoi regalare a mio fratello?” chiese stizzita.
“Perché lo amo e voglio che diventiamo fidanzati.”
“Ma lui è grande, ha otto anni!”
“Anche mio papà è più grande di mia mamma.”
Aurora infilò il foglio nel suo zainetto, spiegazzandolo.
“Così lo rovini!”
“Tanto è bruttissimo.”
Gli occhi di Camilla si fecero umidi. “Antipatica”, sbottò, e corse dalle altre bambine che giocavano con gli animali di plastica nel morbido tappeto dell’aula.
Aurora rimasta sola guardò il suo disegno, che ancora doveva finire di colorare. Le quattro figure avevano gli stecchetti delle braccia protesi verso la palla, che sospesa per aria sembrava un altro sole, nero, al centro del cielo, proprio sopra la testa del padre.

Quella sera, dopo cena, Antonio giocava al game boy sul divano e Aurora era seduta per terra davanti a lui che guardava la televisione. Rachele, in cucina, preparava le loro merende per il giorno seguente.
Aurora si alzò e andò a sedersi vicino al fratello, poi si protese sopra la sua spalla per vedere meglio lo schermo.
“Posso giocare con te?” chiese dopo un po’. Il fratello annuì senza distogliere lo sguardo dallo schermo. “Appena perdo ti faccio fare una partita.”
L’omino vestito di rosso correva in avanti saltando gli ostacoli e i mostri che arrivavano in direzione opposta. Saltò su dei mattoncini sospesi in aria, poi di nuovo giù e riprese a correre, fino a che un salto sbagliato non lo fece schiantare contro un nemico e il gioco si interruppe.
“Tocca a me!” disse Aurora.
“No, non ho proprio perso, sono solo tornato indietro, ora ricomincia.”
“Non è vero, hai perso, hai detto che potevo giocare!”
“Anto, falle fare una partita, dài” ordinò la madre entrando nella stanza.
“Appena perdo la faccio giocare” sbuffò lui.
Rachele sistemò le merende dentro i loro zainetti e trovò in quello di Aurora il disegno. “Che bello questo disegno. Chi sono?”
“Siamo io e Anto, l’ho fatto per lui.”
La madre la guardò sorpresa. “E perché ti sei disegnata coi capelli scuri?”

“Così.”
Rachele voltò il foglio. Sul retro del disegno la maestra aveva scritto la data e una dedica: Per Antonio da Camilla.
Il videogioco tra le mani di Antonio strombazzò in segno di game over e lui lo passò alla sorella.
“Sei sicura che l’hai fatto tu questo?” continuò Rachele.
Aurora nascose lo sguardo nello schermo, senza rispondere.
Antonio si alzò e andò dalla madre. “C’è scritto che l’ha fatto Camilla! Sei una bugiarda” disse correndo nuovamente sul divano e strappando il gioco di mano alla sorella.
“Cosa ti importa?” gli urlò Aurora, con gli occhi pieni di lacrime, a pochi centimetri dalla faccia.
La madre si avvicinò e alzò la voce per richiamare la loro attenzione. “Basta. Smettetela subito. Aurora, non si dicono le bugie!”
La bambina cominciò a singhiozzare e ansimare, le lacrime le si rovesciavano copiose sulle guance.
“Aurora, basta piangere.”
La bambina si alzò dal divano e corse fuori dalla stanza, sbattendosi la porta del salone alle spalle. Rachele la seguì fino alla cameretta. Era sdraiata nel suo lettino con tutte le luci spente e la trapunta di Winnie the Pooh tirata fin sopra la testa. “Posso?” le chiese sulla soglia.
“No. Vattene via!” rispose la bambina, con la voce ovattata dalle coperte.
“Aurora, stai facendo i capricci. Si vede che sei stanca, almeno stanotte dormirai. Buonanotte.”
La bambina non rispose e la madre uscì. 

Poco dopo Antonio entrò nella stanza e si infilò nel suo letto, appoggiato alla parete opposta di quello della sorella. Aurora, ancora rifugiata, singhiozzava flebilmente.

“Auri? Sei sveglia?”
“Sì.”
Antonio accese una luce.
“Perché hai rubato il disegno di Camilla?”
“Perché non voglio che vuoi più bene a lei.”
“Ma io mica le voglio bene. È lei che ha fatto un disegno per me, non io.”
“Non mi importa, non voglio che ti faccia i disegni.”
“Tanto era bruttissimo.”
Aurora si scoprì la testa, ridacchiando. “È vero.”
“I tuoi disegni mi piacciono molto di più.”
“Domani finisco di colorare il mio e te lo porto.”
“Va bene. Buonanotte Auri.”
“Buonanotte Anto.”
Antonio spense l’abat-jour sul suo comodino. Dopo qualche secondo sentì nuovamente la voce della sorella, che lo chiamava.
“Anto?” sussurrò lei.
“Dimmi Auri.”
“Posso venire nel letto con te?”
Lui sospirò “Va bene, ma solo questa volta.”
Le fece spazio tra le coperte mentre lei si incastrava dentro al lettino per bambini dove in due, ormai, stavano stretti.

Io abbreviazione di Dio. Una lettura de “Le schegge” di Bret Easton Ellis

Nota di lettura a cura di Simone Salomoni.

Su Le schegge, ultimo romanzo di Bret Easton Ellis, è già stato scritto molto e il contrario di molto: il capolavoro dello scrittore californiano, l’ennesima riscrittura del solo romanzo che lo scrittore californiano ha scritto nella sua carriera, Ellis al massimo del suo splendore, Ellis al massimo della sua sciatteria stilistica.

Quello che mi interessa fare qui (per altro non so dire se Le schegge sia un capolavoro, se sia il capolavoro di Bret Easton Ellis, mentre sono anche io convinto che Ellis abbia scritto un solo romanzo – come quasi tutti gli scrittori: la differenza è che Ellis lo fa in maniera più spudorata e quindi onesta – e cercato a ogni riscrittura la forma finale di sé: ho l’impressione che ora sia riuscito a raggiungerla e gli auguro di potere spurgare il suo male), non so se è stato fatto altrove, non mi pare, è riflettere su come Bret Easton Ellis si ponga, si muova – come scrittore ma anche come vivente: per BEE le due cose sono più che per altri inscindibili – si mimetizzi e si esponga all’interno di un romanzo come Le schegge, romanzo che potremmo con una certa sicurezza inserire nel novero delle cosiddette autofinzioni.

Partiamo da un fatto evidente: Ellis ci ricorda costantemente di essere uno scrittore, lo fa ogni dieci pagine per oltre settecento pagine e in maniera neanche troppo velata, lo fa a partire dallo splendido, davvero splendido, incipit e pertanto, se questa è la sua autobiografia di uno scrittore dobbiamo allora leggerla ricordandoci che per lo scrittore, come scriveva Rimbaud, io è – SEMPRE – un altro.

Chi è allora io per Bret Easton Ellis ne Le schegge? Io, innanzitutto, è abbreviazione di Dio, e Ellis gioca e quasi porta all’estremo l’idea facendosi Dio e demiurgo del proprio mondo narrativo, e mi pare lo faccia servendosi principalmente di tre personaggi, tre protagonisti, se vogliamo: il suo doppio narrativo, Bret, autore e narratore e protagonista de Le schegge, Robert Mallory, lo studente nuovo arrivato affetto da problemi mentali, nemesi dello stesso Bret, e The Trawler, tradotto da Giuseppe Culicchia con Il pescatore a strascico, sadico e misterioso serial killer che impera su Los Angeles.

Bret, Mallory e The Trawler sembrano a un primo sguardo, e senza possibilità di smentita, tre personaggi diversi, separati, monadi indipendenti l’una dall’altra che si muovono all’interno dello stesso spazio narrativo. Fin dalle prime pagine, però, Ellis insinua il dubbio che Mallory possa essere The Trawler o quantomeno che la sua apparizione a Los Angeles sia collegata all’apparizione e agli omicidi del Pescatore a strascico: “E poi naturalmente, si presentò il Pescatore a Strascico. Per circa un anno c’erano state diverse effrazioni e aggressioni, e sparizioni, e poi nel 1981 venne rinvenuto il secondo cadavere di un’adolescente scomparsa – il primo era stato scoperto nel 1980 – e infine fu collegato alle effrazioni nelle case. Tutto questo avrebbe potuto verificarsi senza la presenza di Robert Mallory, ma il fatto che il suo arrivo fosse coinciso con lo strano offuscamento che aveva iniziato a insinuarsi nelle nostre vite fu una cosa che non mi fu possibile ignorare, sebbene gli altri lo facessero, a loro rischio e pericolo” (pag. 19).

Ellis insinua e quando l’autore insinua il lettore, o quantomeno il lettore che sono io, si sente autorizzato a insinuarsi a sua volta, a insinuarsi e insinuare propositi e desideri autoriali più o meno manifesti, nascosti non come fatti ma come fantasmi nelle pieghe della narrazione e così il lettore che sono io si è trovato a chiedersi: ma non è che come BEE (il narratore) insinua una correlazione se non una sovrapposizione fra Robert Mallory e The Trawler, BEE (l’autore) voglia insinuare anche una correlazione se non una sovrapposizione fra BEE (il personaggio) e Robert Mallory?

ATTENZIONE: NON PROSEGUIRE LA LETTURA SE SI TEMONO SPOILER.

Questa ipotesi diventa qualcosa in più di un’ipotesi mano a mano che si avvicina la fine del romanzo – Bret e Mallory hanno un confronto, un tentativo di chiarimento delle incomprensioni avute “Non sapevo più che cosa dire, perché non c’era nient’altro da dire – niente faceva presa su di lui, era come parlare a uno specchio” (pag. 682) nel quale Mallory finge di sedurre Bret salvo poi umiliarlo “Lo guardai in faccia e il sorriso sexy era sparito, e lui si tirò via e sedette sul bordo del letto e poi mi guardò dall’alto in basso e con una lieve traccia di disgusto si ripulì la bocca col dorso della mano e mormorò: – Frocio del cazzo –. E poi: Lo sapevo” (pag. 684) – e prende maggiore forza durante la notte in cui prima Thom e Susan (il migliore amico di Bret e la sua fidanzata) vengono aggrediti con la ferocia che caratterizza The Trawler e dopo avviene la colluttazione fra Bret e Robert Mallory – “Abbassai lo sguardo e vidi che stringeva in pugno un coltello da macellaio. E poi lui vide il coltello che impugnavo io” (pag. 694) “Incespicai alla cieca in avanti alzando il coltello, ma Robert era corso fuori dalla stanza e io collassai contro il lavabo del bagno ma non riuscivo a vedermi nello specchio perché c’era troppo vapore” (pag. 697) – colluttazione nella quale è Mallory a soccombere.

Anche se le indagini ufficiali dicono il contrario, Bret insiste sulla possibilità che Mallory – prima di aggredirlo – abbia aggredito i suoi amici con inumana ferocia (a Susan è stato amputato un seno, mutilazione che caratterizza The Trawler, come vedremo), salvo poi aprire al lettore (o almeno: al lettore che sono io) un diverso e inquietante scenario – “Io indossavo una camicia Polo azzurra, con le maniche lunghe, abbottonata fino al collo, ma una delle maniche era ricaduta indietro quando avevo alzato un braccio per premerle un dito sulle labbra, e mi resi conto che era lì che stava guardando. Il sorriso da sballata era sparito e i suoi occhi incrociarono i miei e poi tornarono sul mio braccio. L’atmosfera ovattata, spossata, della stanza cambiò, e si attivò qualcosa – tutto stava ronzando. Susan prese a tremare intanto che tornava a guardarmi. Prima che potessi fermarla lei si sporse e tirò più su la manica. Dapprima non disse niente, ma mi resi conto che stava guardando una profonda ferita sull’avambraccio circondata da un livido viola e giallo.
Le sembrava di aver visto il segno di un morso. Lo disse alzando la voce.
Le sembrava che quel segno di un morso fosse esattamente dove aveva morso l’intruso sabato sera” (pag. 716) – lo scenario nel quale The Trawler possa in realtà essere lo stesso Bret.

La casa abbandonata su Benedict Canyon – casa appartenente alla famiglia di Mallory nella quale Bret entra abusivamente in cerca di un collegamento fra Robert Mallory e The Trawler – a me sembra funzionare come un corpo, il corpo che contiene la psiche di Ellis: il proprietario è Mallory, al suo interno vediamo muoversi esclusivamente Bret, ma sul finale si scopre che è il luogo nel quale, in effetti, è stata rinvenuta la quarta vittima di The Trawler: “Il suo corpo era stato «decorato»: la bocca riempita di pesci, la testa e il collo di un gatto cuciti sulla fronte, il resto del corpo dell’animale che fuoriusciva dalla vagina, mentre le gambe erano state ripiegate e divaricate come se Audrey stesse partorendo. La testa era adorna di corpi così che una sorta di parrucca le coprisse il cranio. I seni mancavano – erano stati rimossi, e nelle cavità erano state posizionate le teste di due gatti. L’ano era stato forzato col muso di un cane decapitato a cui era stato cucito il collo strappato a un altro cane. Come ho detto, solo mesi dopo venimmo a conoscenza di tali dettagli, e solo di alcuni: ci volle un anno perché l’orrore di ciò che il Pescatore aveva «realizzato» venisse reso noto nella sua interezza. Anche se il corpo della quarta vittima del Pescatore era stato ritrovato nella casa sulla Benedict Canyon, Robert Mallory non era mai apparso come il sospettato numero uno nei giorni successivi – appresi in seguito che si trattava di una teoria «allettante» ma che certi dati semplicemente non combaciavano.” (pag. 709-710). Una lunga sequenza per stomaci forti, la descrizione di un corpo smembrato che sembra quasi essere la sublimazione orrorifica del lavoro di selezione, correzione e montaggio di uno scrittore.

So che non è per forza così, mi rendo conto che attraverso gli strumenti della critica ufficiale l’analisi potrebbe dare risultati diversi, però io non sono un critico, e questa idea casa-corpo rafforza in me l’ipotesi che mi ha suggestionato, che mi ha portato a pensare: ma è possibile che per Bret Easton Ellis Bret, Mallory e The Trawler siano in effetti saldati, indissolubili, inscindibili? A me pare di sì. Mi pare che essi possano essere interpretati come la rappresentazione freudiana della psiche umana di Ellis nella quale Bret ha la funzione di IO (il giovane ragazzo ricco consapevole della propria omosessualità, pronto a sperimentarla ma non ancora ad accettarla), Robert Mallory quella di SUPER IO (Mallory è reduce da un ricovero psichiatrico, d’accordo, rappresenta comunque tutto ciò che Bret non è ma forse vorrebbe essere: bello e eterosessuale al punto da riuscire a sedurre Susan, la ragazza che Bret avrebbe voluto per sé, fosse stato eterosessuale) e The Trawler quella di ES (ciò che Bret sarebbe potuto diventare se avesse dato diverso sfogo assoluto alla sua parte oscura, se non fosse arrivata la scrittura a sublimare gli istinti più indicibili e violenti).

Se poi volessi andare oltre o di lato, e mi prendessi la libertà di immaginare un BEE ebbro di Cristianesimo, di immaginare un autore più europeo e meno americano, cosa che assolutamente Ellis non è – o almeno non mi pare proprio che sia – potrei arrivare ad affermare che Le Schegge potrebbe essere un tentativo di messa in scena di Dio più che di Io, la messa in scena di uno scrittore, demiurgo e trino, nella quale Bret è Padre, Mallory è figlio e The Trawler è Spirito Santo. Le Schegge è un romanzo che si presta a molte letture e molti lettori. Può essere letto come un thriller, la tensione è altissima e non cala mai; ci si può fermare a un secondo livello di lettura e leggervi la storia che segna la fine traumatica di una giovinezza e la nascita di uno scrittore; ci si può trovare molto altro: quello che ci ho trovato io – senza alcuna pretesa di univocità – è la sofferta ricomposizione di una trinità umana disgregata e sottomessa al trionfo dell’ego autoriale.

Galassie

Racconto di Deborah Guarnieri.

La catenina d’oro che suo padre portava al collo al momento dell’incidente la madre gliel’aveva infilata nella borsa in camera mortuaria, poco dopo che il medico di famiglia le aveva infilato nella stessa borsa un flaconcino di gocce che la sua migliore amica aveva definito non proprio omeopatiche. Avrebbe potuto girarla due volte attorno alla caviglia per farci una cavigliera, tre volte attorno al polso per farci un braccialetto, ma aveva preferito conservare la catenina lì, sul fondo della borsa.

Per la città era un periodo brutale, la violenza assopita si risvegliava ciclicamente, si sollevava dall’asfalto come il miasma di una pestilenza. Si finiva accoltellati sul viale per una carta di credito o per goliardia. Ogni volta assumeva una forma diversa e quella era la volta dei coltelli e del sangue. Accadeva di notte quindi si scoraggiava la vita notturna. Questa, l’unica misura adottata. Per lei non era un problema, per lei non era un problema niente. Lei ora la notte dormiva. Usciva per comprare le gocce, usciva per andare dalla psichiatra a farsi prescrivere altre gocce. Dal fondo della borsa la catenina la fissava con occhi di biscia.

Sperimentava da settimane, testava una quantità sempre differente, guardava le meduse dissolversi nell’acqua poi andava a rannicchiarsi sul letto, sopra il lenzuolo, aspettava che l’intonaco bianco del muro si espandesse in uno spazio infinito intorno al suo corpo, una nuvola di ovatta che la avvolgeva al punto che non vedeva più niente se non quel bianco accecante. Prima di ogni nuova prescrizione la psichiatra le domandava a cosa pensasse durante quei pomeriggi che trascorreva distesa e lei rispondeva: a niente, mangiava il minimo essenziale perché l’annebbiamento non si dissipasse, perché la nuvola di ovatta al massimo si sfilacciasse. Dalla finestra della cucina osservava la luce assumere il colore e la consistenza dell’albume dell’uovo, appollaiarsi sui rami addensata in blocchi cubici. Si accorgeva del calo dell’effetto dal sopraggiungere di una visione, un tunnel, lei camminava in questo tunnel, doveva essere un tunnel lunghissimo perché le pareti non convergevano mai verso l’occhio giallo dell’uscita. Mentre vagava in quella foschia lo aveva incontrato, lui era nero, tutto nero, le iridi nere si confondevano con le pupille. Si erano guardati e si erano riconosciuti, si erano visti attraverso immediatamente; toccandosi, avevano trovato conferme. Insieme si sarebbero saziati. Insieme sarebbero stati invincibili.

Mangiavano caramelle schifose perché i denti non si sarebbero cariati, non dormivano perché non avrebbero sentito stanchezza. Lei non era tornata più a casa, non aveva più bisogno di una casa. Fumavano e i polmoni non sarebbero anneriti, fumavano in continuazione e se la passavano, se la poggiavano l’un l’altro sulle labbra, sputandosi nella bocca si scambiavano la saliva. Si fermava a scrutarlo per cercare di capire se le piacesse davvero la sua faccia, ma non era la bellezza del corpo, qualche pura simmetria a ispirarli; era il fatto che la sua figa fosse piccola e calda e il suo cazzo sempre duro, che le mani di lui, prima o poi, dovessero ritrovare le sue cosce, quelle mani grandi che le lasciavano galassie nere verdi e viola, quelle mani grandi che la picchiavano e quel cazzo duro che la fotteva fino allo stremo, fino a quando non restava che il suo involucro da usare, mentre lei trapassava, si elevava in quello stato beato della semi-incoscienza.

Si erano stabiliti in un buco di quaranta metri quadri con poche finestre non esposte a est, frigido come uno scantinato, avevano preso a uscire soltanto di notte perché la luce non guastasse il loro ordine. Il giorno impone le proprie leggi mentre la notte si può plasmare. Si addormentavano, non era cosa voluta ma una conseguenza, l’apice dell’amplesso e della perdita di coscienza, lo facevano per ore, le sue mani sul torace, tutto il suo peso premuto sul torace, quando lei rinveniva, se faceva buio, uscivano, vagavano per la città perché i piedi non avrebbero fatto male, i calli non sarebbero spuntati, anche se lei portava sempre stivaletti con il tacco quadrato, i piedi non facevano mai male.

Più volte era successo che, tornati a casa, lei sfilasse lo stivaletto e trovasse il sangue. Sangue secco impregnava le calze e la pelle intorno alle unghie. Era sempre il piede sinistro a sanguinare. Dopo le botte, le galassie nere verdi e viola comparivano a sinistra, dopo le sberle era l’occhio sinistro ad andare, per un istante, fuori fuoco. Ricordava una visita dal ginecologo, poco dopo averlo conosciuto, crampi da sudori freddi l’avevano assalita all’inguine sinistro, e giù per tutta la gamba sinistra, il ginecologo le aveva infilato la sonda e le aveva comunicato che a ovulare era stato il suo ovaio sinistro. Il male si insinua sempre a sinistra. La destra è di Dio.

A tratti la folgorava il pensiero che stesse succedendo qualcosa alla sua parte sinistra ma lo ignorava. Se fossero rimasti insieme lei non sarebbe marcita. Era tornata a vedere i colori, grazie a lui, grazie a loro insieme vedeva a colori e non più il bianco accecante, e non più il tunnel. I colori della notte e delle galassie non la ferivano, non erano invadenti, squillanti, la notte nella città era nera, rosso carminio e verde scuro, soprattutto verde scuro, verde muschio, la notte nella città era gocciolante e frigida come lo scantinato, così che nemmeno lo sbalzo di temperatura li poteva colpire. Il sottopassaggio della stazione era il posto più umido della città. Aveva quell’odore di tessuto bagnato asciugato male, e macchie di piscio, e un rimbombo da latrina. Era un posto da evitare. Si circumnavigava il quartiere, pur di non passarci. Forse, erano da attribuire a quell’umidità i miasmi della violenza.

Aveva capito subito che qualcosa non andava perché il sottopassaggio era giallo e verde acido. Ascoltava i loro passi, i suoi tacchi quadrati e pensava che se stavano insieme non sarebbe successo niente, siamo insieme e non ci succederà niente, e gli strizzava la mano. Erano usciti con il buio, come al solito, come sempre, avevano seguito la corrente e la musica che trascinava, aveva piovuto e i marciapiedi luccicavano, avevano svoltato due o tre angoli ma la musica proveniva dall’altra parte dei binari, al di là dell’edificio della stazione, non potevano vederla, potevano solo sentirla. Il sottopassaggio era la via più breve, lui aveva detto: due minuti e saremo di là, due minuti, che saranno mai due minuti, bastava trattenere il respiro prima di entrare, sarebbe riuscita a trattenerlo due minuti. Ma quel giallo e il verde acido incrinavano la bolla, stavano forando la loro bolla, crick, un uovo che si buca, aveva accelerato il passo perché la bolla non si crepasse, continuando a trattenere il respiro, se siamo insieme non ci succederà niente, ma dovevano uscire, non le piaceva restare nel tunnel, lì le pareti convergevano verso l’occhio dell’uscita quindi dovevano uscire, tornare ai colori rassicuranti della notte. Rosso carminio, verde scuro, verde muschio. Erano lì che li aspettavano.

Era lì che li aspettava. Stava appoggiato al muro e lo avevano superato fingendo che non ci fosse. Avevano visto quel che c’era da vedere: un uomo macilento, ma un telaio agile, nervoso. Li aveva attaccati alle spalle.

Lui gli aveva sferrato un pugno, sapeva quanto le sue mani potessero far male, era lei a chiederlo: di più di più. Lo aveva messo a terra e gli si era seduto sopra. L’aveva guardata. Non aveva detto niente ma lei aveva sentito è il tuo turno. Quegli occhi neri nerissimi le stavano lasciando il posto. I colori della città erano baluginati nei suoi, tutti mescolati, cerchietti vorticanti, no non glielo avrebbero portato via, aveva alzato il piede, aveva sbattuto le palpebre, no non le avrebbero tolto anche lui, aveva affondato il piede, il tacco quadrato nello zigomo, no non avrebbe perso anche lui, l’uomo macilento aveva spalancato la bocca nel tentativo di morderle la caviglia, non voleva tornare nel tunnel, aveva alzato, affondato, di nuovo alzato, affondato, aveva sentito le ossa spezzarsi sotto il tacco quadrato. L’uomo era rimasto immobile con la bocca spalancata, la mascella frantumata. Da allora non erano più stati visti. La notte erano rientrati nel buco e si erano seduti sul letto; a gambe incrociate, lui, in ginocchio, lei, dietro di lui. Aveva afferrato la biscia dal fondo della borsa. Aveva chinato la testa e gli aveva annusato i capelli, la nuca, il collo fino all’orlo della maglietta. Sì, era umido, ora, quell’odore umido di sudore dimenticato addosso. Aveva portato il naso sopra la spalla, aveva inspirato, su di sé non riusciva a sentirlo ma era sicura di avere addosso anche lei, ora, quell’odore, l’umidità. Aveva sollevato la catenina d’oro, le estremità tra pollice e indice, gliel’aveva posata sul petto, aveva chiuso il fermaglio dietro il collo.