Nella primavera di quest’anno Rina Edizioni ha ripubblicato Arca di Noè, raccolta di racconti di Gianna Manzini ormai da decenni fuori catalogo. I racconti erano già, in parte, apparsi in Animali sacri e profani (Casini, 1953), ma trovarono la loro versione definitiva nell’edizione Mondadori del 1960, con il titolo Arca di Noè.
L’operazione editoriale di Rina sembra collocarsi entro due tendenze critiche ben precise. La prima riguarda il recupero di autrici dimenticate o escluse dal canone letterario, a cui la critica e l’editoria italiana e internazionale stanno finalmente dedicando crescente spazio. Rina Edizioni, appunto, nasce con questo esatto obiettivo, come ci ricorda il Manifesto posto in calce a tutte le pubblicazioni della casa editrice. Riscrivere la storia letteraria si configura come azione necessaria per restituire voce a chi è stata tolta e, quindi, per guardare al contemporaneo da un altro punto di vista, adottando una stortura imprescindibile per la comprensione della sua complessità. Cambiare postura, dunque, ma anche cambiare forma: per stare dentro questa complessità occorre assumere una struttura rizomatica. Si assiste infatti – ed ecco la seconda tendenza – a una crescente ibridazione dei saperi. Tra le varie relazioni possibili – con i femminismi, la teoria queer, gli studi postcoloniali, e così via –, la critica letteraria stabilisce connessioni anche con l’ecologia e gli animal studies. E qui arriviamo a Gianna Manzini, che in tempi non sospetti aveva scritto di animali[1] attraverso uno sguardo inconsueto.
Benché i racconti dell’Arca di Noè riflettano una prospettiva antropocentrica e specista (implicita nella forma mentis novecentesca), il continuo riferirsi in modo didascalico a certe pratiche umane che violano la soggettività animale – ad esempio la caccia, la pesca, la sperimentazione scientifica – provoca nel lettore la sensazione dello straniamento. Questo meccanismo narrativo riesce a decostruire la percezione automatizzata che ci abitua a considerare gli animali proprietà dell’umano. È normale, leggendo Manzini, domandarsi che effetto faccia a una trota moribonda giacere su un piatto, oppure pensare alle gabbie dello zoo come prigioni, o ancora definire l’invenzione del cappone sopruso e delitto: è la narratrice-autrice a dichiararcelo. Il suo sguardo si posa sugli animali con interesse quasi scientifico, nel tentativo di comprendere i gesti di creature vicine ma sconosciute: «che festa,» – scrive in Il mio bestiario, prefazione alla raccolta – «sapere esattamente, con precisione, in tutte lettere, che cosa vuol significare un’ala quando appena si solleva e si ricompone serrandosi»[2].
Nei racconti la relazione tra umano e animale si consuma quasi interamente nello sguardo (John Berger, parecchi anni dopo, scriverà Perché guardiamo gli animali?), ed è attraverso quella osservazione che la scrittrice individua nel legame con gli animali «qualcosa di più vasto e segreto»[3]. Essi sembrano custodi di un qualche sapere iniziatico, di un oltre a cui in pochi, capaci di incanto e compassione, possono accedere: «ecco che, non si sa come, un granello di vita ignorata vien proiettato di sorpresa al centro di una splendente emozione. Queste fortune capitano di rado; a me, di tanto in tanto con gli animali. Fortune; non arbitrii coscienti; non invenzioni»[4]. Manzini intuisce nell’alterità animale la possibilità di aprirsi a una verità nascosta, a un mistero di cui queste creature, seppur attraverso il silenzio, si fanno messaggere.
Emilio Cecchi aveva definito Manzini animalista[5], e questo ci dice molto sull’originalità che la sua scrittura deve aver rappresentato per la letteratura italiana. Tuttavia, il rischio di sovrainterpretazione è molto alto: nell’Arca di Noè non c’è un messaggio politico esplicito, né è facilmente desumibile come invece in altre opere sul tema animale. È però indubbio che in questo bestiario l’esistenza animale venga riconosciuta al di là di quella umana, invertendo automaticamente la tendenza che ci ha abituato a considerare gli animali oggetti da asservire. Manzini non esorta a adorare gli animali, né proteggerli, ma mi sembra significativo concludere con la potente metafora contenuta nel penultimo testo della raccolta, Il sangue del leone. La protagonista fa un sogno ispirato a un episodio agiografico, rappresentato su una sua vecchia cartella da scrivere: San Girolamo si reca nel deserto, dove resta per tre anni. Qui, un giorno, arriva un leone che mette in fuga quasi tutti i monaci. Girolamo rimane e, riconoscendo nella zampa del leone una spina, gliela leva e cura la ferita.
[1] Per comodità, da ora in avanti con il termine “animali” ci si riferirà a tutti gli animali non-umani. [2] G. Manzini, Il mio bestiario, in Arca di Noè, Rina Edizioni, Roma 2023, p. 8. [3]Ivi, p. 6. [4] G. Manzini, Pascolo a Carbonin, in Arca di Noè, cit., pp. 141-142. [5] Cfr. E. Cecchi, Manzini animalista, in Letteratura italiana del Novecento. Vol. 2, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1972, pp. 926-928.
«Cosa ci sta succedendo, Chris? Che sta succedendo a tutti quanti?».
Juliana si spinse oltre il bracciolo della poltrona per ispezionare il volto di Chris, pallido e chino sul pavimento, mentre affondava le unghie nella stoffa verde dell’imbottitura. Chris non si mosse. Aveva gli occhi puntati verso un abisso sottostante che vedeva solo lui, una zona negativa nel suo salotto che stava risucchiando via tutta la luce delle sue pupille, e la vita che un tempo c’era dietro di esse. Cristiano “Christian” Della Rocca, considerato un tempo il miglior investigatore privato di New York, sagace ma un po’ burbero, era ormai ridotto a un guscio vuoto di dubbi e incertezze, messo di fronte a un caso che non aveva né capo né coda, un’orgia di elementi indiziari disseminati in un viale di cadaveri: la sua esistenza.
Cos’è successo, caro Chris? Dov’è finita la tua arguzia, la tua battuta sagace sempre a portata, il tuo intuito trascendentale in grado di connettersi a un mondo paranormale oltre le soglie della percezione umana? Nella tua carriera hai affrontato sette assassine, novelli alchimisti, demonologi e dementi, fattucchieri e omicidi telepati e hai sempre trovato una soluzione elegante quanto conveniente e improvvisa come un fulmine a Catacumbo… Ma che soluzione darai all’insolubile, stavolta?
La New York esoterica si era aperta al tuo terzo occhio, i suoi misteri erano diventati la tua quotidianità. Ebbene, ora ti viene presentato un mistero ben più grande, che non trascende soltanto il mondo empirico, ma la tua realtà. Te ne è stato dato un semplice assaggio, eppure appari così inerme! Guardati: non riesci nemmeno a sollevare lo sguardo sulla tua amata, Juliana Jade, una donna impetuosa, corvina, tutta nervi, istinto e sentimenti. La sua voce è rotta dal pianto, ma non riesci neanche a guardarla. Chris, povero idiota, come farai a raccontarle l’indicibile, a spiegarle per filo e per segno i risvolti del caso, con voce calma e superba come un padre che parla alla figlia seienne, come facevi ogni volta?
Ma eccoti muto, immobile, in attesa che qualcuno ti metta le parole in bocca.
«È… una maledizione? È opera di Flynt?» Juliana tentò di spezzare il silenzio abbozzando un ragionamento, tornando ai vecchi schemi, a un passato radioso e leggero di indagini e congetture.
Ma no, cara Juliana: non è uno stratagemma di Eugene Theodore Flynt, diabolica nemesi del tuo amante e massonico maestro dell’Occulto. No, nessuna di quelle scemenze. Persino tu, però, ingenua Mrs. Jade, iniziavi a collegare i puntini del grande schema di questo orrore innominabile. Benché mancasse una ragione, non poteva essere un caso; non potevano essere solo un insieme di eventi contingenti tutte le sventure che vi erano capitate.
Era iniziato con la morte di Alistair Moore, l’ufficiale britannico che, al contrario del nostro “detective”, era rimasto nelle forze dell’ordine della città, da sempre sospinto da un forte e disgustoso senso del dovere. Ma non per questo avevano smesso di essere amici. I migliori, anzi. Fu una tragedia quando, nel ’29, la Borsa crollò e il nobile Alistair si tolse la vita con un colpo di pistola al cuore perché inondato da debiti che avrebbero afflitto almeno cinque generazioni dopo di lui. Tutto a causa di quegli investimenti edilizi a Manhattan che tu, Chris, il suo più grande confidente, gli avevi consigliato di fare!
Una vera tragedia. Così come quella che colpì Alice Della Rocca, la cara sorella, vispa, geniale, mai quieta e dall’orientamento sessuale ambiguo. Ah, Alice era una grande inventrice, fautrice di decine di apparecchiature pseudo-scientifiche che avrebbero fatto arrossire il Dottor Frankenstein, ma che di certo ti hanno aiutato, caro Chris, a risolvere decine di casi senza che tu mostrassi un pizzico di gratitudine, duro e distaccato come sei. Peccato che una di quelle stesse diavolerie l’abbia trasformata in uno scarafaggio fotofobico. Chissà che non sia quello che tu abbia schiacciato per errore, eh, Chris?
Persino Malleus Cole, il tuo mentore, il paziente professore la cui mente non è più tornata dal viaggio nel sovrannaturale, l’uomo saggio e mite che ti ha insegnato tutto, non è scampato alla catena di tragedie. Ormai definitivamente impazzito, vaga per le sale di un istituto psichiatrico in attesa di una lobotomia che lo salvi da se stesso e dalle creature demoniache che sono venute a fargli visita.
Ma come è potuto accadere tutto questo? Quale la causa comune di questi destini?
Questa è la parte più crudele dell’orrore, Chris. Che tu sai. Tutto.
Chris, senza staccare lo sguardo dal vuoto in cui la sua anima stava precipitando, porse la Lettera a Juliana. Il pezzo di carta giallastra sembrava un brandello di carne tumefatta, strappata a un corpo morto di recente. Benché la stanza fosse illuminata dalle ampie finestre in stile vittoriano, la Lettera rimaneva nell’ombra. Juliana avvicinò la mano tremante al foglio sospeso per aria. Una volta che lo ebbe fra le mani, Chris lo lasciò andare con sollievo, come si abbandona un carico pesante. Juliana avvicinò la lettera al volto. Quando, infine, trovò il coraggio di guardare la pagina, vide parole scritte col sangue, in una grafia folle. Immediatamente, la carta le tagliò le dita, un tuono echeggiò nella valle più vicina e una porta di quercia sbatté da qualche parte. Non ebbe bisogno di leggerla; il contenuto della Lettera, semplicemente, le invase la mente, come una macchia di inchiostro riversata su un foglio bianco.
«Cosa… come può essere… Chris… Io…»
Ora sapeva anche lei. Avresti voluto risparmiarle l’Orrore, Chris, un ultimo gesto disperato di amore, quell’amore profondo che non le avevi mai dimostrato, che non sei capace di esprimere. Ma era tardi. Tardi come lo è per me. Pare che la “Saga del Detective Maleficarum” sarà il mio unico lascito a questo mondo. Diciotto romanzi e centinaia di racconti brevi con protagonista il grande Chris Della Rocca, l’indagatore dell’incubo più amato dalle sessantenni. Il più dozzinale rifacimento di una parodia malfatta di Sherlock Holmes, unito al morboso gusto gotico di un’ambientazione sovrannaturale ed esoterica nella New York degli anni Venti e poi Trenta. Un’idea partorita a forza fra sangue e feci per pagarmi l’affitto e un condizionatore decente. Ero addirittura entusiasta quando, quel tredici ottobre, giorno da maledire in ogni calendario, ricevetti la telefonata dell’editor Fronelli, o “Frodelli”, come lo chiamo io. Tale fu l’entusiasmo che firmai qualsiasi foglio, in triplice copia, firmai senza leggere e firmai col sangue.
Quel sangue che adesso macchia quella Lettera, caro Chris.
“Un successo editoriale”, lo chiamarono. Un fulmine a ciel sereno; altro che Catatumbo… E quando iniziarono ad arrivare tutti quei soldi, pensai davvero di avercela fatta. Di aver vinto il gioco. Ma ero stato giocato. Sono dovuti passare trent’anni per accorgermene. Poi altri quindici. Fu a quel punto che capii che non mi avrebbero fatto scrivere mai più nient’altro che questo. Che la mia reputazione si basava solo su “quello del Detective Della Rocca”. Che ero disprezzato e deriso in qualunque circolo letterario, considerato, al più, uno scaltro e viscido opportunista, quando non un mediocre plagiatore. Soprattutto, capii di essere stato maledetto quando mi resi conto che la saga non avrebbe mai avuto fine. Che ero legalmente obbligato a “non far cessare l’esistenza finzionale” dei miei protagonisti. In altre parole, non posso farvi fuori. Furbo, il Frodelli, ad avermi ingabbiato fin dal principio e ad avermi costretto a scrivere abomini a metà fra l’italiano e l’inglese, per via di una qualche infernale linea editoriale che ancora oggi non comprendo. Ormai non ha neanche più senso cercare un cavillo, una scappatoia legale. Potrei anche uscirne con facilità, con un avvocato decente. Ma che senso avrebbe? Nessuno mi prenderà mai più sul serio, neanche se mi mettessi a scrivere un Infinite Jest o una nuova Recherche – e non ho neanche più la forza o la capacità di farlo; ho procrastinato abbastanza a lungo da non sapere più perché scrivevo. E siamo del tutto onesti, almeno fra noi: non sarei mai stato in grado di farlo. Vedi, Chris? La tua ragion d’essere si riduce a una nota a piè di pagina di un contratto e all’indolenza di un vecchio amareggiato! Dovrai vivere avventure scadenti e mal strutturate fino alla fine dei miei giorni. Purtroppo, godo di ottima salute e il mio stile di vita benestante mi garantisce l’accesso alle migliori cure. No, la tua leggenda non è destinata a concludersi. Uscirà presto anche una di quelle dannate serie televisive su di te, caro Chris. Per mesi ho avuto a che fare con quegli idioti di sceneggiatori americani, pieni di domande insulse, predicatori di neologismi pomposi e senza senso.
No, non posso ucciderti, Chris Della Rocca. Posso, però, con la scusa del genere, dell’orrore cosmico crescente, catapultare te e ciò che ami in un incubo senza fine. Posso renderti insopportabili quei tuoi baffetti ispidi; posso farti cadere quei quattro peli che ti sono rimasti in testa. Forse posso gambizzarti, devo controllare il contratto. Soprattutto, posso maledirti con la conoscenza. La consapevolezza di vivere in un inferno letterario, sottoprodotto della mente di uno scrittore indegno di questo nome, ti accompagnerà in ogni tuo gesto. È una questione editoriale, vedi; non potrai mai suicidarti e scappare dall’orrore. I tuoi “fan” non me lo perdonerebbero.
Per il resto, non preoccuparti: ho già pensato alla tua prossima battuta. Una chiosa efficace – ma non troppo, non vorrei alzare il livello – per “confortare” la tua donna.
Chris, incapace persino di produrre liquido lacrimale, con gli occhi secchi e sbarrati si alzò e andò a prendersi un sigaro Montecristo, una nuova marca con cui aveva sostituito i suoi amati Romeo y Julieta, che non riusciva più a trovare da nessuna parte. Fumare un sigaro lo aiutava sempre a pensare e distendersi. Ma il sigaro, non appena toccò le sue labbra, gli lasciò una sensazione di viscidume e acido in bocca. Lo allontanò amareggiato e si massaggiò i folti baffi con le dita, un altro dei suoi gesti più amati, quasi una firma; ma i suoi stessi peli lo punsero, e avvertì una crescente irritazione sopra il labbro. Juliana era affondata nella sua poltrona verde acido. Stava anch’ella sprofondando nel medesimo abisso del suo amato. La nausea crescente dentro di lei si stava trasformando in disprezzo. Disprezzo silenzioso e strisciante. Disprezzo per Chris. Egli si voltò e, senza espressione alcuna, recitò come un automa una frase inserita a forza nel suo processore.
«Nella mia vita, ho affrontato ogni tipo di orrore. Ma adesso siamo precipitati nel più grande… ed esso è ovunque.»
E non poté che sospirare. Anzi, no. Non sospirò affatto. Se lo tenne tutto dentro, insieme al putrido sapore del Montecristo.
Giuliano Tomarchio ha studiato cinema e sceneggiatura, ma la sua vera passione è fare Mexican Mule. Ha pubblicato diversi racconti sulla rivista «MALPELO» e un paio su «Spaghetti Writers»; un suo scritto è sfuggito alla censura dell’imminente antologia “Limonə” di «Malgrado le Mosche». Dice di scrivere per l’audiovisivo; ma questo è facile dirlo.
Le parole dei vivi | Intervista a cura di Fausto Paolo Filograna. Traduzione dall’inglese di Chiara Ciarpelli. Foto di Juan Manuel Serrano Arce.
Pluricandidato al Premio Nobel, universalmente considerato uno dei più importanti scrittori contemporanei. Inoltre poeta, saggista rumeno, dotato di una poetica assimilabile all’opera di Joyce, Kafka, Pavic e, soprattutto, Thomas Pynchon, Mircea Cărtărescu (Bucarest, 1956) è stato esponente di spicco della Blue Jeans Generation. Oggi è considerato il più importante autore romeno contemporaneo. In questa intervista l’autore racconta l’importanza dell’ultimo suo libro pubblicato in Italia: Melancolia.
Su Melancolia (La nave di Teseo, 2022)
1) L’infanzia appare spesso nei tuoi libri, penso soprattutto ai tuoi monumentali romanzi Abbacinante e Solenoide, ma non ne è mai stata protagonista. In questo libro è il tema principale. Ho trovato singolare che nel momento in cui parli di questo tema adotti la forma frammentaria del racconto. Ci puoi spiegare questo passaggio?
Melancolia non è direttamente collegato a Orbitor (Abbacinante, N.d.T.) e Solenoid (Solenoide, N.d.T.), anzi, è un tentativo di sfuggire alle strutture molto complesse e intricate di quei grandi romanzi. È un libro neoromantico e surrealista, nel segno di Giorgio De Chirico e H. C. Andersen. I cinque racconti sono fiabe metafisiche, chiuse ermeticamente nel loro enigma. Melancolia” è il libro più puro finora. Lo amo per il suo stile, la stranezza e l’atmosfera di innocenza.
Ho scritto Melancolia quando avevo sessant’anni, come una sorta di richiamo e rielaborazione del mio primo libro di prosa, Nostalgia, scritto trent’anni prima. In entrambi l’infanzia e l’adolescenza sono il tema principale, entrambi sono scritti archetipici composti da cinque storie, la prima e l’ultima delle quali costituiscono un prologo e un epilogo dei libri veri e propri. I racconti non sono affatto brevi, alcuni sono piccoli romanzi, tra i migliori che abbia mai scritto: “REM” e “I gemelli” in Nostalgia, “Le pelli” in Melancolia. Sono uno scrittore della vita interiore, di quella notturna, e penso che viviamo circondati da enigmi. Quando siamo bambini, tutto ci appare strano, poetico e onirico. Ecco perché mi interessa tanto quell’età paradisiaca.
2) Che relazione c’è tra il tema dell’infanzia e la tua età attuale?
L’età ha poco a che fare con la nostra vita interiore. Un artista, così come ogni persona creativa, è colui che è in grado di conservare il bambino dentro di sé fino alla vecchiaia. Cioè, una persona capace di non lasciarsi coinvolgere dal denaro, dal potere, dal prestigio, dalla politica e dalla cronaca, dal giudizio sugli altri e condurre la sua vita all’insegna della bellezza, della creatività, dei miracoli quotidiani. Infanzia e poesia sono la stessa cosa: una propensione per la delicatezza che si può trovare in una goccia di rugiada, in un’equazione, in un concetto filosofico, in una teoria scientifica, in Dio, in una graffetta, in un cristallo di neve o in un gatto morto. Viviamo tutti non solo in un sottomarino giallo, ma anche in un’enorme poesia: ogni bambino lo sa bene, ma gli adulti fanno del loro meglio per dimenticarlo e vivere nella noia, nell’avidità e nella turpitudine.
3) Il titolo di questo libro, Melancolia, rimanda a un contesto clinico e scientifico da cui hai sempre attinto. Ci vuoi raccontare perché hai usato un nome con una così lunga tradizione e soprattutto il nome di una malattia per un libro incentrato sull’infanzia?
Inizialmente, durante il Medioevo, la malinconia era effettivamente un concetto medico, tradotto come “la bile nera” (“Il sole nero della malanconia”, scrisse nei secoli Gérard de Nerval). Ci si riferiva a sentimenti di depressione, tristezza, impotenza e mancanza di motivazione di alcuni pazienti nelle primitive istituzioni di salute mentale. Ma dopo che Robert Burton scrisse la sua immensa opera, Anatomy of Melancholy, divenne un concetto culturale con un’enorme influenza sullo sviluppo del pensiero e delle arti europee (la letteratura romantica, ad esempio, non è concepibile senza questo concetto). Uno scrittore che aspira a essere fondamentale o universale non può ignorare i suoni più profondi dell’animo umano, i suoni gravi della solitudine, della tristezza e della depressione. Tutti questi definiscono l’eterna malinconia.
I bambini non conoscono la malinconia (sebbene ci siano studi clinici sulla depressione nei bambini e negli adolescenti), perché vivono fuori dal tempo che corrompe ogni cosa. Ma l’infanzia è ancora molto legata a questo tema, perché ogni persona adulta che talvolta ha il coraggio di immergersi nella propria vita interiore percepisce la propria infanzia come un’enorme perdita, una patria perduta senza possibilità di ritorno. I ricordi d’infanzia scorrono come lava liquida dentro di noi, ma sono sepolti in profondità sotto la crosta della pelle adulta, del cervello adulto, della vita adulta, caotica e priva di senso. Sono sempre terribilmente malinconico quando sfoglio le foto sul mio computer: gli anni passano e non c’è modo di tornare indietro, e le poche foto in bianco e nero, sbiadite, di quando ero bambino sono ora come lame che mi trafiggono il cuore.
4) Proust appare nei meandri consci e inconsci della mente delle persone che leggono le tue opere. Addirittura il bambino del racconto “Le volpi” si chiama Marcel. Che relazione hai con la sua opera? Chi è Marcel?
Marcel in realtà sono io, Mircea, non Proust. Molti critici hanno oscillato tra due poli cercando di descrivere il mio lavoro e il mio metodo: Proust e Kafka. Ma mentre Kafka ha avuto, e tuttora ha, un’enorme influenza sulla mia vita quotidiana e artistica, non posso dire lo stesso di Proust. Ovviamente ho letto il suo libro diverse volte, a volte con piacere, altre volte con noia, e ammetto che è stato un grande scrittore, ma non sento una particolare affinità con il suo mondo. Non tutti gli autori che utilizzano frasi complesse ed elaborate sono proustiani, così come non lo sono tutti quelli che trattano della “memoria involontaria”. Nella letteratura rumena moderna degli anni ’30 e ’40 c’era un gruppo di scrittori che ammirava molto Proust e per questo venivano chiamati “il gruppo proustiano”. Ma leggendo i loro libri si scopre con sorpresa che nessuno di loro ha davvero compreso la novità del suo metodo e che nessuno ha seguito le sue orme. Orbitor (Abbacinante, N.d.T.), la mia opera più importante finora, può dare l’impressione di un libro “proustiano” perché è molto voluminoso e contiene frasi molto lunghe, ma il suo scopo non è quello di recuperare ricordi perduti, bensì di costruire un intero mondo dalla mia sostanza cerebrale, come il ragno che tesse la sua tela dai filamenti brillanti.
5) In un’intervista su L’indiscreto, fatta da Vanni Santoni, racconti di scrivere le tue opere su grandi quaderni. Che differenza c’è tra il funzionamento della tua mente e ciò che scrivi su quella carta?
Ho sempre scritto a mano, mi piace molto. È più intimo, più umano e ti concede più tempo per pensare e immaginare. Scrivo a mano il mio diario ormai da 50 anni, quindi sono piuttosto abituato a scrivere con la penna stilografica. Mi piace che le mie pagine siano belle, quindi detesto cancellare le parole o strappare le pagine. I miei manoscritti sono puliti, sembrano copie di un originale inesistente. Orbitor (Abbacinante, N.d.T.), ad esempio, ha 1500 pagine, ma non c’è una pagina strappata, ci sono poche parole cancellate, anzi è stato pubblicato senza modifica alcuna. Tutti i miei libri, anche quelli più grandi, sono la prima stesura. Inoltre, non esiste un piano o una sinossi e non uso alcuna documentazione. È tutto nella mia mente: i miei libri sono in realtà mappe o ologrammi della mia mente. Per me, scrivere è come rimuovere una pellicola bianca dalle mie pagine per rivelare il testo già scritto.
È vero che solo alcuni dei miei libri, come Solenoid (Solenoide, N.d.T.), Orbitor (Abbacinante, N.d.T.) e il mio diario, sono scritti a mano. Altri, come Melancolia o Theodoros, il mio ultimo libro, sono scritti al computer. Questo perché dopo aver compiuto 60 anni ho perso la pazienza necessaria per scrivere a mano. Ma il resto – nessun editing, nessun piano, nessuna documentazione – è rimasto invariato. Forse perché sono uno dei pochissimi scrittori al mondo che ancora crede nell’ispirazione, nel senso più letterale del termine: la sensazione che qualcuno di molto più saggio e dotato di me mi detti effettivamente ciò che scrivo. Il vero scrittore non è mai solo, così come il fantino da solo non vince mai le corse: ha bisogno di un cavallo per farlo.
6) Qual è il tuo rapporto di scrittore con la Romania?
“Nessuno è profeta nella propria patria”, dice il proverbio, ed è proprio così. Negli ultimi vent’anni mi sono ritrovato ad essere molto più apprezzato all’estero che nel mio paese e nella mia cultura. Tuttavia, vivo ancora in Romania nonostante le molte avversità e mi piace molto vivere tra i miei connazionali. C’è un sottile strato di persone ben istruite, che comprano ogni sorta di libro, partecipano a tutti gli eventi culturali, concerti, spettacoli teatrali e festival e sono veri cittadini del mondo. Tra loro ho dei buoni amici, che rendono la mia vita nel mio paese molto piacevole. Oltre a viaggiare molto all’estero, partecipo attivamente alla vita culturale e letteraria del mio paese, partecipo a molti eventi sul palcoscenico, a festival di poesia o narrativa, do letture delle mie opere in molte città. È bello risiedere nel proprio Paese, indipendentemente da quanto si viaggia e da quanto si è trattati male a casa propria. Senti di appartenere ad un posto, senti di essere tra le persone che ami.
7) Chi ti conosce tramite i social sa che hai una predilezione per un certo tipo di camicie, con un certo tipo di disegno. Lo stesso tipo di disegni si trova spesso, in varie forme – mentali, organiche, metafisiche – nei tuoi romanzi. Desideri avere quei disegni anche sul corpo, nella tua vita non letteraria di Mircea Cărtărescu?
Sono già impressi sul mio corpo, tatuati su ogni singolo centimetro della mia pelle. I miei simboli e disegni mentali avvolgono il mio corpo come una toga viola. Le persone che mi conoscono e mi amano li percepiscono come abiti reali, sottili, leggeri e pieni di colori cangianti.
8 Quali sono i tuoi autori viventi preferiti? Sembra che tra gli scrittori della tua generazione ci sia una certa preferenza per gli autori morti. Ci puoi dire cosa pensi di questo?
Gli autori morti sono solo quelli mediocri. Gli altri, a cominciare da Omero e Virgilio, sono ancora vivi dopo migliaia di anni. Non mi interessa se un autore è morto o vivo, cinese o etiope, donna o uomo, etero o gay. Discrimino solo tra autori che riesco a leggere e autori che non riesco a leggere.
Eppure, sono pieno di gioia al pensiero che sto ancora calpestando lo stesso suolo e respirando la stessa aria di alcuni degli déi del mio Pantheon interiore, come Mario Vargas Llosa, Thomas Pynchon, Paul Auster, Dacia Maraini, Bob Dylan o Salman Rushdie. Sono felice e grato di essere loro contemporaneo.
Melancoliaè composto di Tre storie – incorniciate da due evocativi racconti brevi – che affrontano alcuni grandi temi come la paura del cambiamento, la solitudine, l’amore con l’immaginazione del ragazzo e lo stile del grande scrittore. I tre racconti riguardano altrettante fasi: l’infanzia, perché “è nell’infanzia che ha inizio la melancolia, quel sentimento che ci accompagna per tutta la vita, quella sensazione che nessuno ci tiene più per mano”, l’età della ragione e l’adolescenza. Quando la madre esce per fare la spesa, un bambino di cinque anni è convinto che non tornerà. Marcel, invece, ha otto anni e vive in simbiosi con l’adorata sorellina Isabel, in un mondo in cui gli adulti sembrano non essere altro che presenze fugaci. Ivan di anni ne ha quindici e si sente l’uomo più solo dell’universo. In un armadio conserva le pelli che, di anno in anno, crescendo, ha dovuto cambiare. Quando incontra Dora e se ne innamora inizia a chiedersi se anche le donne, come gli uomini, cambiano pelle.
Mircea Cărtărescu ha vinto molti premi, tra cui l’Internationaler Literaturpreis a Berlino (2012), lo Spycher in Svizzera (2013), il premio di Stato per la Letteratura europea conferito dalla Repubblica austriaca (2015), il premio Gregor von Rezzori Città di Firenze (2016) e il Prix Formentor (2018). È stato inoltre più volte segnalato per il premio Nobel. In Italia Voland ha pubblicato i romanzi Travesti (2000), la monumentale trilogia di Abbacinante, consistente in L’ala sinistra (2007), Il corpo (2015) L’ala destra (2016); Perché amiamo le donne (2009) e Nostalgia (2012, vincitore del Premio Acerbi). Nel 2021 Il Saggiatore pubblica Solenoide, da molti considerato il suo capolavoro, mentre nel 2022 esce per La nave di Teseo Melancolia. Altrettanto importante, sebbene in Italia poco considerata, è la sua produzione in poesia, rappresentata in italiano da Il poema dell’acquaio, edito per Nottetempo nel 2015. La sua produzione finora tradotta in Italia è opera interamente del traduttore Bruno Mazzoni, professore ordinario dell’Università di Pisa.
Ho una fascinazione per le case degli altri, mi basta stare sulla soglia per immaginare segreti nascosti in bella vista. Una finestra aperta, il pavimento profumato, la lavatrice in funzione, avviene sempre qualcosa di inconfessabile prima che una porta di casa venga aperta.
Così ho pensato sulle scale che portavano al primo piano. Dalla parete di vetromattoni sulla destra filtrava la sagoma di Martin Paredes. Sembrava stesse trafficando con i cuscini del divano. Giunto in cima alle scale l’ho trovato seduto con le mani sulle ginocchia.
Avrà pronunciato delle formalità rimaste inascoltate, perché mentre parlava mi sono accorto di non essermi portato dietro il coltello e allora il mio volto ha certamente rivelato le mie intenzioni. Sono momenti, questi, in cui crediamo alla telepatia, come quando sentiamo che il telefono sta per squillare, e squilla davvero. Questo mistero, per cui da uno sguardo Martin Paredes abbia capito, io non me lo spiego tuttora. Mi sono arrangiato con il trofeo che stava sulla scrivania. Sangue ovunque, le mie impronte, la macchina vista dai vicini, altre testimonianze, mi hanno preso subito.
Il commissariato puzza di muffa e di sudore, i visi dei poliziotti sono fieri, hanno il mento all’insù, perché il crimine fa marcire anche i palazzi e un buon poliziotto col marcio ci convive. Ma meglio lasciar stare le metafore, che in un commissariato sono pericolosissime.
Seduto e ammanettato nella stanza degli interrogatori, osservo il commissario Acuña avvicinarsi, sputarmi il fumo del cigarillo in faccia, non per sbeffeggiarmi, lo fa con chiunque, non distingue più il respiro dal fumo.
Vuole dirci cosa è successo?, mi chiede.
Il problema di un reo confesso è che tutti gli credono.
Ho difficoltà a organizzare una confessione, dovrei cominciare da ciò che conosco meglio: la mia fascinazione per le case degli altri, appena entrato in un appartamento immagino segreti nascosti in bella vista. Una scrivania ordinata, la cucina che profuma di limone, il letto rifatto e impeccabile. Cosa fa la gente, prima di aprirci la porta?
Così ho pensato sulle scale che portavano al primo piano. Attraverso la parete di vetromattoni sulla destra non vedevo Martin Paredes, ma sentivo il rumore dei bicchieri poggiati sulla scrivania. Giunto nello studio ho preso il whisky che mi ha offerto, abbiamo brindato.
Il sole che filtrava dalle finestre segava la stanza. Paredes mi ha fatto una domanda nell’ombra, ha aspettato la risposta nel fascio luminoso, poi è tornato nell’ombra con un passo all’indietro, la mano che si muoveva accanto al cassetto della scrivania… Ci credete che lo spionaggio aziendale esiste persino qui? L’imprenditoria provinciale è un pollaio di gallinacci spennacchiati, ma ho detto niente metafore, con le metafore un uomo si rovina. Meglio le faccende concrete, la bottiglia che si spacca sulla testa e poi il vetro che trapassa la gola di Martin Paredes; io che provo a cancellare le tracce, ma con un macello simile basterebbe un novellino per prendermi.
Infatti mi portano subito in commissariato, la stanza per gli interrogatori è la più puzzolente.
Insomma, vuole dirci che è successo?, chiede il commissario Acuña.
Mastica un bastoncino di liquirizia. Lo sanno tutti che non fuma più, i cigarillos fanno malissimo, ha detto il dottore, così dice la moglie. Ma tutti sanno che Acuña, quando risolve un caso, se ne va sul tetto del commissariato e si fuma un robusto. Sputa il fumo più in alto possibile perché vorrebbe riempirne il cielo, creare il proprio mondo grigio nel quale sarebbe l’unico a sapersi muovere.
Mi rendo conto che le parole si susseguono con poca efficacia, il racconto è incoerente, c’è davvero qualcuno che si fida dei rei confessi? Dovrei cominciare da ciò che sento davvero mio. Non c’è niente di più intimo di un delitto.
Confesso di avere una fascinazione per le case degli altri, mi basta stare in strada e osservare le facciate, le file di finestre attraverso le quali osservo teste, mezzibusti in movimento, dettagli dell’arredo e immagino i peggiori segreti appena sotto la linea del davanzale, segreti che vengono nascosti in bella vista non appena la porta dell’appartamento viene aperta. Segreti che stanno dietro la porta di villa Paredes. Mentre salgo le scale tocco la superficie liscia della parete di vetromattoni sulla destra e guardo la sagoma deforme di Martin Paredes al centro della stanza, nella mano ha un oggetto scuro, che cambia dimensione al mio scorrere da un mattone all’altro.
Abbasso il finestrino e accendo un cigarillo. L’aria è calda e immobile. Devo scacciare fuori il fumo che rimane nella macchina e mi pizzica gli occhi. Nel cielo il sole è ancora alto e non tutti i vicini sembrano essere partiti per le vacanze.
Un paio di ore, magari tre, poi suonerò al campanello di Martin Paredes, varcherò la porta e salirò le scale fino al suo studio, nel quale mi starà aspettando con una mano nella tasca, un sorriso imposto, un caffè dal sapore strano che mi pento già di avere bevuto.
Marco Parlato ha pubblicato romanzi e racconti. Nel 2015 è stato scelto come autore italiano per il progetto Scritture Giovani di Festivaletteratura di Mantova. I racconti più recenti sono apparsi sull’antologia Multiperso (pièdimosca edizioni), su Super Tramps Club e sul terzo numero di Quattro. foglio letterario (Nuova Editrice Berti). Vive e scrive a Foligno.
Da qualche tempo passavo i miei pomeriggi in un bar che serviva la crema di caffè. Mi ero trasferita da poco, un mese appena, ed ero in cerca di punti di riferimento per costruirmi una routine. Era l’inizio dell’autunno ma faceva ancora caldo; in genere, ordinavo la crema subito e in seguito, a metà pomeriggio, un tè freddo. Andò così anche quel martedì, solo che il tè era finito e presi un bicchiere di vino bianco. Avevo appena bevuto il primo sorso quando avvertii un prurito alla mano. Era localizzato in un punto preciso, appena a destra della nocca del mio mignolo sinistro.
A prima vista, non c’erano punture di zanzara o screpolature in quel punto, né alcun segno di arrossamento. Mi grattai e decisi di provare a non pensarci, mi guardai attorno a lungo, poi bevvi un altro sorso. Il prurito però non si attenuava, anzi dopo il secondo sorso di vino si fece più intenso e persistente. Mi grattai di nuovo, portando via un po’ di pelle, e rimasi a fatica seduta a finire il mio vino, prima di precipitarmi casa a cercare una pomata lenitiva. Per allora, andava molto peggio, e pure con la pomata la situazione non migliorò.
Arrivò l’ora di cena e mi preparai una salsa di pomodoro, tagliai l’aglio a pezzetti, sminuzzai il peperoncino, non potendo fare a meno di interrompermi a intervalli regolari e grattarmi.
Dopo cena, guardai un film fino a metà, ma il prurito non mi permise di concentrarmi a sufficienza, così decisi di andare a dormire. Un’ora dopo, di addormentarsi non se ne parlava, così decisi di prendere qualche goccia del sedativo che conservavo per i momenti difficili. Riuscii a dormire sei ore di fila.
Sei mesi prima, nessuno avrebbe immaginato che di lì a poco mi sarei trasferita lontano dalla mia città natale. Non l’avevo mai lasciata per più di una ventina di giorni, e un certo numero di fatti pratici – una casa di proprietà, tre gatti, un marito – stavano là a indicare una certa propensione alla stabilità, che del resto io stessa non mi sarei sognata di negare. Apparentemente, la mia routine quotidiana era rimasta identica da una quindicina di anni, ma nell’ultimo periodo erano cominciate a succedere cose.
Una di queste era stata la sparizione del pettine: lo riponevo sempre nel primo cassetto del mobiletto del bagno, eppure una mattina non ce lo trovai, e da allora non ricomparve mai più. Avevo cominciato allora a servirmi di una vecchia spazzola, ma, usando quella, i miei capelli non assumevano lo stesso aspetto di prima, rimanevano più gonfi; inoltre, una volta terminato di pettinarmi, impiegavo qualche minuto in più a liberarla dei miei capelli rimasti impigliati. Sul momento, tuttavia, non avevo dato peso alla faccenda.
Il risveglio fu sgradevole: il prurito era fortissimo, e nel grattarmi sotto le coperte, ancora mezza addormentata, sentii qualcosa di diverso dal solito. Mi ripromisi di controllare una volta che fossi stata più presente a me stessa, quindi andai a lavarmi la faccia e misi la moka sul fuoco. Osservai con attenzione il quadratino di pelle tra la nocca del mignolo e quella dell’anulare e notai che ora c’era un piccolo bozzo, come un rigonfiamento.
Andai al lavoro e trascorsi l’intera mattinata in ufficio sforzandomi di non grattarmi troppo spesso e di concentrarmi, ma non andò molto bene. Il prurito aumentava e pure il rigonfiamento, dopo qualche ora, mi sembrava cresciuto. Mi chiedevo se fosse davvero così o se, invece, mi stessi suggestionando per il fastidio profondo che provavo. Di sicuro, ero spaventata. Cercai su Google il recapito di un dermatologo in città e presi un appuntamento, ma non avrei potuto vederlo prima di due settimane. Nel tardo pomeriggio ero molto nervosa e preoccupata, e al prurito si era aggiunto un leggero dolore nello stesso punto. Tornai a casa e, senza mangiare, presi direttamente il sedativo, in una dose doppia rispetto alla sera precedente.
Il mattino dopo non sentii la sveglia e aprii gli occhi a fatica solo intorno alle dieci e trenta, intorpidita e con una gran confusione in testa. Capii subito che c’era qualcosa di diverso: il prurito era sparito, e così il dolore. Non avvertivo più nulla. Sdraiata a pancia in su, estrassi la mano sinistra dalle coperte e me la portai davanti agli occhi. Non c’era traccia di arrossamenti o bozzi. Cominciavo a tirare un cauto sospiro di sollievo, eppure c’era ancora qualcosa. Ma cosa? Continuai a fissare la mia mano per qualche secondo, sbattendo le palpebre. Tra mignolo e anulare non c’era più il bozzo, ma qualcosa c’era: un dito.
Dopo il pettine, era stata la volta dei calici da vino. Non erano scomparsi tutti assieme, certo; della prima sparizione mi ero accorta soltanto per caso, e chi sa dopo quanto tempo: non li utilizzavo praticamente mai tutti e otto assieme. La sparizione del secondo calice era stata un inconveniente da poco, ma quando venne a mancare anche il terzo mi trovavo nel bel mezzo di una cena con altre due coppie, che nemmeno conoscevo bene, e non mi aveva fatto piacere bere vino da un bicchiere da acqua. Quando, alla fine, ne era rimasto uno solo, avevamo finito per non adoperarlo più, e l’assenza di calici, anche se sulle prime non ci avevamo fatto caso, aveva modificato l’atmosfera delle nostre cene. Non che non bevessimo più vino, ma non rimanevamo più a sorseggiarlo con calma parlando a lungo, tra una portata e l’altra o una volta terminato di mangiare.
In seguito Alberto, mio marito, un avvocato, aveva cominciato ad alzarsi spesso da tavola per andare a controllare il cellulare di lavoro nello studio, e io avevo preso a guardare serie tv dopo cena, con il mio portatile appoggiato sul tavolo di cucina e gli auricolari nelle orecchie. Avevo cominciato con una sola puntata alla volta, poi ero arrivata anche a tre o quattro di fila, per cui raggiungevo Alberto a letto molto tardi, quando lui già dormiva. Dopo le prime volte, lui non mi aveva più chiesto di che serie si trattasse, e pian piano avevamo smesso completamente di farci domande a vicenda.
Grassottello e più corto del mignolo, ma comunque dotato di tre falangi, il sesto dito della mia mano sinistra appariva turgido e aveva la pelle molto più morbida e liscia di quella che ricopriva il resto del mio corpo; era nuovo. Lo esaminai con curiosità, piegandolo, stendendolo, muovendolo a destra e a sinistra, avanti e indietro. A quanto pareva, non aveva nulla da invidiare alle altre dita: funzionava a meraviglia.
Il giorno della scoperta non andai più al lavoro: si era fatto tardi, e poi avevo troppe cose per la testa: se farmi fare dei guanti su misura e da chi, se mascherare il dito agli occhi degli altri e come – arrivata a sera, decisi di non farlo – e pure a come lo avrei usato. Non mi venne in mente nessun impiego preciso, eppure mi sentivo in qualche modo certa della sua utilità. Non avevo fretta di capire, comunque.
Dopo cena, mi versai del vino rosso nel calice che avevo comprato qualche giorno prima – uno solo, tanto per cominciare, per me – e andai a prendere lo smalto. Bevvi un sorso di vino, poi lentamente, con grande cura, tinsi di rosso acceso la piccola unghia del mio nuovo dito. Nella penombra della cucina, brillava come sangue vivo.
Caterina Iofrida è nata a Pisa il 16 gennaio del 1981, è una nottambula che di giorno fa la biologa e la notte scrive. Oltre alla lettura ama molto il cinema, coltiva entrambi come passione e non ha mai voluto studiarli, per non rovinarsi il gusto. È convinta che nulla sia stato mai scritto bene quanto le sceneggiature delle commedie di Lubitsch, tranne forse le serie tv di Amy Sherman-Palladino, ma sa che si tratta di un’affermazione contestabile. Scrive regolarmente solo da quattro anni e talvolta si chiede perché non abbia cominciato prima, ma soprattutto non ha più intenzione di smettere, perché la faccenda la diverte troppo. Suoi racconti sono usciti su riviste online e blog letterari come Malgrado le mosche, Nazione Indiana, Kairos, Quaerere, In fuga dalla bocciofila, Micorrize, Voce del verbo, Il mondo o niente, sulla rivista cartacea Seconda Cronaca (Cupressus Editore) e in due antologie, Fiabe storte (Edizioni Il Foglio, 2017) e In virus veritas (MdS Editore, 2020).
Intervista a cura di Fausto Paolo Filograna. Traduzione dal bulgaro di Daniela Di Sora.
“Un Proust venuto dall’Est.” – Andrea Bajani
1) «Ho 44 anni, ma aggiungetevi l’età di mio nonno, nato nel 1913, aggiungete anche quella di mio padre, nato alla fine della Seconda guerra mondiale, di Giulietta davanti al cinema, di Gaustìn in fuga» è una frase di Fisica della malinconia, quanti anni pensi di avere nel 2023?
Mi sembra che davvero qualcosa nel meccanismo del tempo si sia rotto e che viviamo in un vuoto speciale, un’atemporalità dopo questi due anni di pandemia e soprattutto dopo un anno di guerra. Nel corso di simili prove il tempo scorre in maniera diversa, oppure non scorre affatto. È bloccato in un ciclo. Gira sempre nello stesso punto. L’orizzonte si restringe, il futuro sparisce e l’uomo comincia a contare i giorni invece degli anni. In questo senso mi sento privato del tempo. Gli anni ormai non sono più un’unità di misura.
2) Ci puoi parlare del brano di Cronorifugio a cui sei più affezionato emotivamente?
Lì dentro ci sono parecchie storie personali, anche se invece il romanzo sembra più universale e politico. Sento molto vicino a me uno dei capitoli più brevi, verso la fine del romanzo, si chiama “Sindrome della non appartenenza”. Penso di sentirmi esattamente così in questo periodo: non appartenente.
3) Mi sembra che il giornalismo stia diventando la forma di scrittura prediletta di questi anni, specialmente nel continente europeo. Anche i racconti del tuo personaggio Gaustin sembrano essere influenzati da questo tipo di scrittura. Cosa ne pensi?
Non sono d’accordo. Il romanzo europeo si è sempre distinto per l’amore nei confronti della riflessione, per aver affrontato temi importanti come il tempo, la memoria, la morte. Non è un caso che si parli di romanzi-saggi e abbiamo esempi come La montagna incantata di Thomas Mann o Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Questo è tutto tranne che giornalismo. Credo che la tradizione continui ancora oggi. E questi due autori sono stati molto importanti per me mentre scrivevo Cronorifugio.
4) Lo storico Reinhart Koselleck ipotizzava che in questo tempo storico fosse impossibile parlare del passato senza gettarvi una inconsapevole tensione verso il futuro. Cosa pensi del futuro in base alle catastrofi passate di cui parli?
A me (e a Gaustin) il catastrofico presente ci obbliga inevitabilmente a correre verso il passato, per nasconderci nel suoi rifugi. Anche se questa è una posizione privilegiata. Se il presente è davvero catastrofico, ci si preoccupa della propria sopravvivenza in quel momento. E l’idea del passato e del futuro arriva un po’ più tardi.
5) La trasformazione è uno dei temi più importanti di Cronorifugio. In cosa desideri trasformarti, come scrittore o come persona?
Per me è molto difficile separare lo scrittore dalla persona. Come pure mi è difficile separare me stesso da Gaustin. Ma se parliamo di trasformazioni, allora nel mio romanzo uno passa costantemente nell’altro. E non sai mai chi sta creando chi: se è lo scrittore che crea il personaggio o al contrario è il personaggio che crea il proprio autore.
6) C’è qualcosa di cui vorresti scrivere e che non sei ancora riuscito a trovare il modo di scrivere?
Ci sono talmente tante cose che ancora non ho trovato modo di scrivere. E non sto parlando di temi e trame, non è questo che mi interessa. Parlo di voci. La cosa più difficile è trovare una voce, la voce giusta per iniziare a sviluppare il filo della storia.
7) Cosa intendono secondo te i critici quando definiscono la tua letteratura “sperimentale”?
Mi sorprendo sempre. Probabilmente intendono il modo labirintico e non lineare in cui racconto le mie storie. Ma questo è l’unico modo possibile e naturale in cui di solito le persone pensano e raccontano. Ogni volto provo a scrivere un romanzo lineare che vada dal punto A al punto B, ma alla fine viene sempre fuori un labirinto.
8) Chi sono gli scrittori viventi che ammiri?
Tutti gli scrittori che amiamo e ammiriamo sono vivi. Per me gli scrittori vivi e amati sono Borges e Brodskij, Omero e Seneca, amo molto leggere la poesia: Eliot, Kavafis, Quasimodo.
9) Cosa consiglieresti a un giovane scrittor* nel 2023?
Di mantenere la propria sensibilità nei confronti di tutto quello che lo circonda. Viviamo in un mondo che sanguina di continuo, e per questo l’empatia è una delle qualità più importanti per ognuno di noi. Non puoi diventare scrittore senza sperimentare i dolori del mondo. La buona letteratura dà continuamente significato e umanità a un mondo altrimenti insensato.
Georgi Gospodinov è nato a Jambol nel 1968, è poeta, prosatore e studioso di letteratura, considerato lo scrittore più talentuoso della Bulgaria. Con Romanzo naturale (Voland 2007), accolto come una vera rivelazione, ha immediatamente incontrato il favore di critica e pubblico ottenendo il primo premio del concorso Razvitie per il romanzo bulgaro contemporaneo. Finora è stato tradotto in diciannove lingue. La casa editrice Voland ne ha pubblicato le raccolte di racconti …e altre storie (2008), E tutto divenne luna (2018), Tutti i nostri corpi (2020) e i romanzi Fisica della malinconia (2013), e Cronorifugio (2021), Premio Strega Europeo 2021, finalista del The International Booker Prize 2023, tradotto, con la maggior parte delle pubblicazioni italiane, da Giuseppe Dell’Agata.
Con il permesso dell’autore pubblichiamo la trascrizione della presentazione di Palermo (Humboldt 2022) tenutasi presso lo Spazio Labo’ di Bologna lo scorso 24 febbraio. I moderatori dell’incontro sono Federico Di Mauro e Fausto Paolo Filograna dello Spazio Letterario e Laura De Marco e Simone Sapienza dello Spazio Labo’. La presentazione del libro, come accade spesso durante gli incontri con Vasta, si trasforma in modo prima sotterraneo e inavvertito e poi con sempre maggiore chiarezza in una straordinaria lezione di letteratura e di fotografia. Questa trascrizione, che cerca riprodurre l’andamento oscillatorio e divagante ma allo stesso tempo rigorosissimo dello stile di Vasta, vuole essere sì un testo introduttivo a un libro, Palermo appunto, ma anche un modo per osservare più da vicino quelle «ossessioni» – la luce, lo spazio e il tempo – che stanno nel cuore della sua letteratura. Ringraziamo la casa editrice per averci gentilmente concesso di ospitare le fotografie di Ramak Fazel e Giorgio Vasta per la disponibilità e per l’editing.
Federico: Ad apertura di libro, leggendo la sinossi, Palermo sembrerebbe la prosecuzione di Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, il libro nato dalla collaborazione con il fotografo iraniano naturalizzato americano Ramak Fazel nel 2016. Sembrerebbe una prosecuzione – del resto si tratta di un fototesto, vale a dire un libro che mescola la parte testuale con quella fotografica, e di un reportage narrativo su un luogo fisico. Due costanti delle pubblicazioni di Humboldt Books. Ma le somiglianze, secondo me, finiscono qui. In realtà, chi ti aveva già letto – e chi, come me e molte altre persone in quest’aula, ha avuto la fortuna di averlo fatto per l’università – si troverà davanti a un libro completamente diverso rispetto alle aspettative. A me personalmente è franato il terreno sotto i piedi. Questo perché Palermo, almeno secondo me, segna uno sviluppo davvero imprevedibile rispetto ai tuoi libri precedenti.
Come Absolutely Nothing, anche Palermo si apre nel segno della mancanza. Se nel libro del 2016 la mancanza era uno «spazio bianco» che il narratore, Giorgio, avvertiva dietro la nuca al momento di partire per il suo reportage narrativo sugli spazi abbandonati, in questo libro la narrazione inizia nel segno di un’altra mancanza, quella del linguaggio. Il narratore, che si tratti davvero di te o di un io finzionale, subisce una specie di perdita del linguaggio, una particolare forma di afasia: è come se le parole, prima ancora che egli riesca a esprimerle, a farle diventare parte della comunicazione, gli morissero in bocca, si volatilizzassero e lo lasciassero in una condizione di estraneità rispetto alla propria vita – un’impossibilità di «stare serenamente nel linguaggio», come scrivi tu. Ed è una cosa che mi ha fatto pensare alla Lettera di Lord Chandos di Hugo von Hoffmannsthal, su cui avevi scritto qualche anno fa. Questa afasia non dipende tanto da un fatto tragico o drammatico; ma al contrario da una fascinazione, forse possiamo chiamarla un’ossessioneper la luce, che occupa la parte centrale della vita del narratore, mettendo in secondo piano il resto della sua vita.
Questo libro, che è un libro secondo me allucinatorio da tanti punti divista, vi sorprenderà: è un libro su Palermo ma comincia con un inizio completamente spostato, completamente differito, dove tu parli del tuo rapporto con la luce e con Palermo. La prima domanda che ti farei è com’è nato il libro e qual è il tuo legame biografico, ma soprattutto letterario, con una città che tu definisci così «prossima e aliena».
Giorgio: Prima di tutto grazie allo Spazio Letterario, allo Spazio Labo’ e alla Confraternita dell’Uva per la generosità di invitarmi a presentare questo libro. Non tornavo a Bologna da tempo e sono impressionato. Il libro nasce dal desiderio di dare manifestazione a un legame professionale e d’amicizia che si è creato nel 2013 con Ramak Fazel. In un certo senso, è come se ci fosse il desiderio di nutrire un legame, e di nutrirlo attraverso il racconto dei luoghi. Io e Ramak ci siamo incontrati a Los Angeles nel 2013 quasi accidentalmente. Dico “accidentalmente” perché non era lui il fotografo con il quale avrei dovuto fare quel viaggio. Humboldt Books e Quodlibet avevano invitato Francesco Iodice. Poi c’era stato un imprevisto, un piccolo problema di salute per cui Iodice non era potuto partire e a ridosso del viaggio Giovanna Silva, l’editore, per risolvere il problema, per cercare di dare una struttura al libro, si è ricordata che Ramak Fazel – che per 15 anni ha vissuto a Milano – era negli Stati Uniti. L’ha contattato e gli ha detto: Guarda, tra un giorno e mezzo noi arriviamo. Se ti va nelle prossime settimane viaggiamo assieme negli spazi abbandonati – una proposta che ti può anche affascinare, però si suppone che nel giro di un giorno non ci sia la capacità di organizzarsi. Ramak non ha battuto ciglio e trenta ore dopo questa telefonata compariva nel chiostro interno di un motel di Los Angeles. Io l’ho guardato: indossava una camicia hawaiana, i bermuda, dei calzettoni vinaccia fino alle ginocchia, i sandali, sembrava il Grande Lebowski. Aveva la barba di quattro giorni, che però in realtà è strutturale, quasi consustanziale in lui. Lui può farsi la barba davanti a noi ma comunque la carnagione riaffiora in quella maniera. Era pronto a partire. Io arrivavo lì, lo affrontavo senza che ci fossimo mai incontrati, col mio trolley pesante, ansioso, pieno di cambi, come se mi fossi scordato all’improvviso di tutti i film visti dove negli Stati Uniti trovi lavanderie a gettoni ovunque. Lui aveva un bagaglio personale, ma era pieno di pentole, padelle, scatolame e fornelletti da campo, chiarendo sin da subito un’interpretazione avventurosa e infantile – in senso ammirativo, non negativo – del viaggio. Per lui fare un viaggio era confrontarsi con l’inaspettato, e se l’inaspettato è così avaro e non si manifesta spontaneamente, trovi dei modi per farlo accadere, e Ramak è riuscito a fare di tutto – siamo stati quasi arrestati ai confini col Messico, senza che riuscissimo a spiegare i motivi di quello sconfinamento. La jeep sulla quale viaggiavamo affonda nel fango, accanto a uno di quelli che tecnicamente si chiamano “laghi effimeri”. Ramak è riuscito a ottenere anche questo, sembrava che fossimo esposti alle famiglie antropofaghe degli horror americani degli anni Settanta.
Io avevo incontrato quindi la persona Ramak Fazel per alcune settimane, poi per alcuni anni non l’ho più vista e ho passato il tempo in compagnia del personaggio – che non è un’alternativa netta rispetto alla persona, è la distorsione la deformazione l’accelerazione di alcuni connotati della persona. E mi sono accorto – succede ogni tanto – che mi trovavo molto bene con il personaggio di finzione, nel senso che riuscivo a usarlo, perché Ramak ha una intraprendenza che io non ho, e la capacità di far accadere cose che, se avessi viaggiato soltanto con Giovanna Silva o con Francesco Iodice, non sarebbero successe. C’è un elemento avventuroso che diventa centrale. All’inizio della giornata non sai se sarai arrestato, non hai idea di cosa potrà accadere. Questa cosa mi piaceva così tanto che nel 2016, dopo l’uscita di Absolutely Nothing, ho raggiunto Ramak Fazel per un viaggio per raccontare la provincia americana subito prima delle elezioni vinte da Trump.
Già nel 2016 c’era l’idea di tornare a lavorare insieme, a incontrarsi, a far accadere qualcosa. Ci siamo detti: abbiamo lavorato sull’absolutely nothing. Palermo – attraverso un’interpretazione nemmeno chissà quanto profonda, forse anche abbastanza immediata, istintiva, che rischia di essere ovvia – sembra il luogo nel quale si manifesta l’absolutely everything, se non l’absolutely too much, ti dà questo senso di eccesso e dispersione continua di segni. Un’esuberanza quasi autodistruttiva, di cui poi il Barocco è stata espressione. Quindi Ramak è venuto nel 2017-2018, in stagioni diverse, è andato in giro per Palermo in pressocché ogni circostanza, girando per conto suo. L’unico suggerimento che mi ero permesso di dargli era: Non farti ipnotizzare dal centro storico, nel senso: non ignorarne la bellezza: il centro storico di Palermo, meritoriamente recuperato negli ultimi anni, impalla il resto della città – ma se vuoi avere una visione reticolata stratificata complessa di questo luogo c’è molto altro che vale la pena osservare. Questi erano i presupposti. Doveva esserci a questo punto il momento editoriale, il momento della pubblicazione. Ramak è stato questa volta puntuale – per Absolutely Nothing nessuno di noi due è stato puntuale – e avevamo anche questa specie di solidarietà che nasceva dal fatto che ognuno dava la responsabilità all’altro. Invece questa volta Ramak mi ha fregato perché è stato rispettoso dei tempi. Mi sono reso conto che ero del tutto inadempiente – e a quel punto era il 2018, arriva il 2019, mi metto a scrivere il testo, relativamente convinto – e poi, forse perché ero relativamente convinto lo perdo, quaranta pagine spariscono all’interno del testo e non riesco a recuperarle. Poi arriva il 2020, che sappiamo essere un anno particolare – fra l’altro mi rendo conto, durante il 2020, che per me il 2020 era iniziato un paio di anni prima e, per me, personalmente, non si è ancora concluso. Non ho il tempo per stare al computer e scrivere il testo, ma ho il tempo per prendere appunti dietro le foto di Ramak che avevo stampato. E quell’estate è trascorsa continuando a scrivere sui passepartout, sui bordi delle fotografie, ogni tanto poi mi serviva girare l’A4 e scrivere anche dietro. A un certo punto mi sono accorto che sì, prendevo spunto dai soggetti fotografati da Ramak, soprattutto dai più inaspettati e dalle rime dalle sovrapposizioni dalle parentele che lui crea tra Palermo e gli Stati Uniti. Trova una quantità di Stati Uniti dentro Palermo che non avrei mai notato senza il suo sguardo. A un certo punto mi accorgo che sto scrivendo dello sguardo di Ramak – perché guardare le fotografie di un fotografo non vuol dire guardare qualcosa che oggettivamente esiste bensì esplorare il suo sguardo, con le sue costanti, con i suoi elementi ricorrenti – e quindi mi accorgo che Ramak ha questa inclinazione a far declinare l’immagine verso il crepuscolo, verso la penombra. Quando poi mi sono messo a scrivere davvero mi sono reso conto che lo sguardo di Ramak era quello che mi interessava maggiormente. E ho immaginato che mi raccontasse, a un certo punto, in una conversazione che nella cosiddetta realtà non è mai avvenuta, di quando ragazzino giocava a Fort Wayne nell’Indiana, dove va a vivere dalla famiglia lasciato l’Iran – giocava con sua sorella appendendo un lenzuolo alle sedie, a un divano, in modo da creare una specie di grotta di stoffa. Se ci pensate nascondersi è tra i godimenti maggiori nel gioco durante l’infanzia, e secondo me non solo durante l’infanzia, perché lì nascosto tu bisbigli per non farti sentire, nonostante appunto non ci sia nessuno in casa, ma non importa, perché di nuovo quella è la realtà, ed è un problema di cui liberarsi. E intravedi attraverso questa coltre, attraverso il tessuto, quello che c’è dall’altra parte – e quindi viene inventata un’origine dello sguardo – è come se Ramak dicesse: io guardo, io fotografo oggi in un certo modo perché c’è stato un momento originario in cui ho guardato le cose così – e questa è la precondizione per poi mettere la voce narrante nelle condizioni di dire: Adesso mi invento l’origine del mio sguardo, che ovviamente non è la scoperta oggettiva di qualcosa che è accaduto, è una decisione, perché è un’invenzione.
Fausto: Intanto grazie. Volevo dire a chi non avesse letto il libro che non c’è nessun problema di spoiler perché non è un libro che si basa sul sapere come va a finire ma è un libro che si basa sulla bellezza della scrittura, sulla qualità del contenuto in sé. Volevo farti una domanda a partire dal titolo, perché il titolo è Palermo e sotto c’è un sottotitolo che dice: Un’autobiografia nella luce. Siccome io ho il brutto vizio di avere studiato filologia, bios in greco è vita, e io con autobiografia mi immagino la narrazione della vita di qualcuno. Quindi mi sono chiesto se tu fossi Palermo, se uno dei tuoi personaggi fosse proprio la città, oppure se tramite Palermo tu sia riuscito a comporre la tua autobiografia.
Per concludere, a proposito dello spoiler, una delle parti finali riguarda un bimbo, visto nella camera dall’occhio del padre, che si dice essere proprio il protagonista di questa autobiografia. Potresti chiarirmi questo passaggio?
Giorgio: Il libro si intitola Palermo perché è un vincolo della collana, nel senso che ogni titolo pubblicato dalla casa editrice all’interno di questa collana prevede di coincidere con un luogo fisico. Il primo testo che è stato pubblicato di Giovanna Silva e Claudio Giunta si chiama Togliatti, perché è esistito un luogo che si chiama Togliatti e che loro hanno visitato. Questo è il secondo titolo e ne seguiranno degli altri. E devo ammettere che questo è un titolo a cui ho cercato di dare un senso. Perché mentre scrivevo mi accorgevo che Palermo non era davvero l’oggetto del racconto. Secondo me, mi permetto di dire, non lo è non solo nel testo che ho scritto ma nemmeno nelle foto di Ramak, perché nelle foto di Ramak l’oggetto continua a essere il suo modo di guardare. Era come se cercassi dei modi, ovviamente impossibili, di cacciarlo questo titolo, di ridimensionarlo, di metterlo da parte. Poi c’era data la possibilità di decidere un titolo per la parte di scrittura e per quella di fotografia, e quindi Un’autobiografia nella luce è il titolo vero e proprio della parte che ho scritto e City of Ghosts è il titolo che ha scelto Ramak per la sua sezione. Quando per la prima volta ho scritto all’editore quello che stavo facendo ho detto: guarda, una possibilità sarebbe chiamare tutto questo Un’autobiografia nella luce, nella conversazione telefonica c’è stato un equivoco che giustamente si crea in questi casi – «Della luce?». «No, nella luce» – perché per me «nella luce» ha a che fare con una condizione che forse è della scrittura, sicuramente delle foto di Ramak: la luce non è qualcosa che si oppone al buio. In questo momento, penso a come è fatto questo spazio, come ci stiamo guardando: ci sono dei punti di illuminazione che non sono esasperati affinché lo spazio esista, si racconti, si faccia percepire anche tramite tante zone di penombra. Io ho la sensazione che più passa il tempo – lo accennavo prima a Federico; sarà anche una questione di età – che nella penombra, nel declinare, in quello che tecnicamente si può chiamare “vespro” – quel momento che non è ancora del tutto sera, ma è un punto intermedio – ci sia molto di più di quello che c’è nella piena luce, o di quello che ci si può immaginare nel buio. È come se ci fosse una disponibilità, che in altri tempi, in altre epoche non avevo, in questa sfumatura. In Spaesamento a un certo punto c’è un termine che mi ha colpito, e che poi ho ripreso in un’altra cosa che ho scritto dopo, che è “nictalopia”. La nictalopia è quella capacità di alcuni animali di vedere meglio in penombra o addirittura vedere meglio nel pieno buio, rispetto alla capacità di vedere nella luce. Pensate a quelli che sono soprattutto predatori notturni, siano mammiferi o uccelli. E Palermo, che pure è un luogo che sembra essere consegnato, obbligato alla solarità, alla luce piena e potente – poi la luce di Palermo l’ho compresa meglio quando mi sono trasferito a Torino, la capisci meglio per contrasto – a me invece ha sempre colpito nella misura in cui è una città stracolma di penombre, complice il fatto che l’illuminazione in molti punti lascia a desiderare – quindi i palermitani sono nictalopi: poi la parola mi piace perché ha qualcosa di minaccioso; ogni volta che la scrivo mi sembra di scrivere che siamo licantropi – la relazione con la luce dentro il libro è questa: non la piena luce come idea di rivelazione di qualcosa che diversamente non vedresti, ma una penombra o un bagliore – che di nuovo è uno stato non ideale per vedere perfettamente le cose. In sintesi, per me prendere un abbaglio non costituisce un problema: è esattamente quello che mi auguro accada nella scrittura, o che forse Ramak si augura per le sue foto. Per me non ha a che fare con l’errore, con qualcosa che non è riuscito, io prendo qualcosa se prendo un abbaglio.
Federico: Io avrei una domanda molto breve, si tratta della cosa che mi ha tormentato di più finito di leggere il libro. Palermo a me ha ricordato l’immagine dell’aleph borgesiano, cioè quel punto di estrema densità della materia in cui arrivano a concentrarsi tutto lo spazio e tutto il tempo possibili. Questo libro non ha una trama, nel senso che la narrazione segue un moto oscillatorio – che poi volendo è anche quello della luce, visto che la luce è una materia che non sta mai ferma, ma che va e viene in modo ricorsivo; anche questo libro non sta mai fermo, ma è una materia continuamente metamorfica – e questo libro appunto è fatto di continue oscillazioni. A me è sembrato qualcosa di vorrei dire quasi paradossalmente contrario rispetto a quello che hai fatto per esempio in Absolutely Nothing e in parte anche nel Tempo materiale. Se prima, mi sembra, ti eri concentrato sulla funzione nomenclatoria e sull’esattezza della lingua, in una specie di corpo a corpo con il linguaggio, mi sembra che in questo libro tu abbia provato a fare qualcosa di diverso, concentrandoti non più sulla parola come elemento della narrazione, ma sulla frase, sulla sintassi. Non so chi di voi ha già letto il libro, ma certamente avrete notato che tutto il libro è una specie di macroperiodo, una lunga catena verbale tenuta assieme da un inciso dopo l’altro. Cosa è successo per arrivare dalla funzione nomenclatoria e da quella esattezza quasi dolorosa degli elenchi di Absolutely Nothing a questo straniamento continuo della sintassi? A un certo punto ho pensato che questo cambiamento avesse a che fare con la natura della fotografia, perché è come se tu avessi abbandonato ancora di più la realtà, e stessi cercando, come un fotografo, di rendere visibile attraverso il linguaggio qualcosa che «tende incessantemente a diventare invisibile». Come sei arrivato a questa forma?
Giorgio: Grazie per la domanda, anche perché mette al centro del discorso il linguaggio, che poi di fatto è la sostanza della scrittura. Sì, è chiaro che attraverso il linguaggio prendono forma figure, si articolano scene, esistono i personaggi, però quello che per me è, come dire, la ragione d’esistenza della scrittura, è provare a capire cosa vuoi fare con una frase, dove ti trovi in quel momento all’interno della tua esperienza del linguaggio. Che cosa sia accaduto non lo so, sicuramente ci sono delle cose che sono successe. So che dentro Il tempo materiale, in alcuni passaggi di Spaesamento e Absolutely Nothing, c’era già un impulso a ridurre non la precisione ma la percepibilità del lavoro sull’esattezza, sulla nomenclatura, sul nominare – come se la frase tirasse, come se desiderasse allungarsi, e non perché avesse un obiettivo preciso – ecco, correva comunque dietro a un abbaglio – però la sensazione è che tirasse, che volesse andare da qualche parte, però veniva ancora tutto sommato tenuta a bada. Poi in realtà il lavoro di controllo è molto più impegnativo e faticoso, sia quando ti confronti con queste cinquanta pagine che con la forma del linguaggio del Tempo materiale e poi in Absolutely Nothing. C’è qualcosa che secondo me però ha a che fare in generale con la percezione del tempo. Io mi accorgo, pensandoci a posteriori – nel senso che non si tratta mai di decisioni prese prima di scrivere, ma di constatazioni fatte dopo – che Il tempo materiale è scandito attraverso il racconto di dodici mesi, un anno intero, il 1978, ma in effetti quando poi ho guardato il libro nella sua interezza, ho di nuovo constatato che c’erano 13 capitoli, quindi ho quasi bisogno di non far tornare i conti. Spaesamento racconta tre giorni in una maniera quasi modulare (mattina pomeriggio, mattina pomeriggio, con una specie di prologo e di epilogo). Poi ho fatto un libro insieme ad Andrea Bajani, Michela Murgia e Paolo Nori, Presente, che era il racconto di un anno intero – il 2011 mi pare – da gennaio a dicembre, e che aveva forse nel sottotitolo un riferimento al diario, nonostante fosse un libro di invenzione. Poi ce lo siamo detti a un certo punto: tu hai detto la verità, qualora scrivendo sia possibile effettivamente dirla –, e ognuno di noi si era preso una completa libertà. Io mi ricordo che dentro Presente descrivo il parto di una cavalla, mi trovavo in una residenza di scrittura nel Sud della Francia, e quando andavo a correre vedevo una cavalla incinta e speravo che partorisse prima della mia partenza. La cavalla non partoriva, io dovevo ripartire, ma volevo raccontare il parto della cavalla, quindi ho fatto cadere questo fatto. Ho guardato, in maniera quasi morbosa, una quantità enorme di parti di cavalle su YouTube, quasi una forma di pornografia equina, perché volevo continuare a guardare quello che succedeva per potere poi distillarne una frase, un elemento. In Absolutely Nothing ci sono le settimane di viaggio, ma il tempo non si sviluppa cronologicamente, di nuovo per creare una complicazione – nell’orologeria, intesa come studio del meccanismo di un orologio, all’inizio dell’Ottocento, viene introdotto da un uomo chiamato Breguet una complicazione, un ulteriore congegno, tecnicamente chiamato tourbillon, che serve, attraverso una serie di contrasti, a reagire alle inesattezze di misurazione determinate dall’esposizione della cassa dell’orologio alla gravità terrestre. Un orologio non è un’astrazione, esiste all’interno di uno spazio reale, quindi la complicazione serve a dire il tempo in modo più preciso. Il tourbillon è esattamente come Zazie, è come Zazie sta nel romanzo di Queneau. Quando sono arrivato a questo libro – che però, lo accennavo, ho scritto dopo un romanzo di cinquecento-seicento pagine, che però poi uscirà dopo questo libro, dopo altre cose – e però questa scrittura deve al romanzo che ho scritto il suo impianto, la sua impostazione, come se queste cinquanta pagine fossero una nota, una macronota, a margine di quel libro – mi accorgevo che non riuscivo più a credere a una scansione, a una descrizione del tempo, come quella alla quale quotidianamente e giustamente ci affidiamo. All’inizio di Palermo vengono raccontati vent’anni, dal 2000 al 2020, poi si va indietro e compaiono gli anni Settanta – il Settanta, il giugno del Settanta, ha una sua centralità –, si torna al 2021, al 2022 – ma il tempo viene sempre introdotto come fosse una quisquilia: «e poi era il 2013», «è il 2014», «e poi era il 2015», «poi il 2016», come se fosse un elemento secondario, marginale – perché c’è un momento a partire dal quale io non mi oriento più precisamente nel tempo – e desideravo che fosse proprio la sintassi, il movimento della frase, a convocare il tempo per un attimo come un miraggio – sta lì, quel numero, quelle quattro cifre sembra che dicano qualcosa di preciso ma questa voce narrante in realtà il tempo non lo sta mai davvero percependo; e c’è un instante nel quale, guardando un neonato, è come se tornasse a guardare quello da cui il racconto è partito, il bicchiere di vetro nello schermo di un computer illuminato da un software, e contemporaneamente è il 2022 e il 2000 e il 1970 – stanno tutti insieme.
Fausto: A proposito del tempo, mi oppongo per un secondo come lettore: è vero, ci sono degli anni annotati nel libro, ma ci sono anche molti pochi punti, il che fa quasi pensare che sia tutta una lunga frase. Una lunga frase, un lungo ragionamento, di fatto – e spesso i ragionamenti si svolgono anche in un secondo, in un secondo noi possiamo sognare un libro intero. Quindi l’impressione che ne ho ricavato da lettore è che fosse davvero solo un attimo, come l’ecografia di un cervello, un unico bagliore. A questo punto, volevo anche chiederti se ci leggeresti un passo.
Giorgio: Lo faccio con piacere, se riesco a vedere le frasi. C’è un momento, all’inizio, quando la voce narrante si trova davanti a questo software – che in effetti è un software reale, di cui avevo scoperto l’esistenza venti anni fa, che permette a chi realizza modellini e render al computer di illuminarli scegliendo oltre una serie di criteri più scientifici anche dei criteri quasi letterari, suggestivi. Si apre un planisfero, e si ha la possibilità di scegliere la luce in un luogo del mondo, ad esempio la luce di Bologna, in una stagione dell’anno e un’ora del giorno – quando avevo scoperto l’esistenza di questo software, ero rimasto sbalordito da una constatazione tutto sommato ovvia: è ovvio che la luce è sempre subalterna alla morfologia dello spazio nella quale si manifesta – la luce non è un dato assoluto, ha a che fare con le caratteristiche orografiche del territorio, della materia – mi ricordo la luce di Torino alle tre del pomeriggio, in primavera, con quelle superfici nere, alcune volte quasi ardesia, dei palazzi e dei marciapiede, il modo in cui ti bagnava gli occhi – non di commozione, te li faceva lacrimare. A un certo punto la voce narrante si mette a immaginare la luce nel corso del tempo:
E così avevo trascorso giorni immaginando la luce da piccola – anzi, prima ancora della luce neonata avevo cercato di immaginare la luce anteriore alla nascita della vita: la luce prima di tutto: ancora a se stessa estranea, ignota e ignara, espansiva e insieme introversa, ispida e scontrosa eppure tenerissima – una luce che esisteva ancora al di qua del tempo, della genesi e di ogni genealogia, della prospettiva e delle proporzioni: una luce a grandezza naturale – e poi nel corso delle settimane avevo immaginato i cuccioli di luce ruzzare lungo la curvatura della Terra e baruffare coagulandosi in nuclei incandescenti per poi disfarsi in bagliori, immaginavo la luce quando nessuno ancora l’ha mai pensata facendone concetto e trasformandola in cultura, perché la preistoria è ancora là da venire, l’umano è un futuro possibile ma non necessario e a dominare dappertutto è la naturale misantropia dell’inorganico, e dunque, immaginavo, durante la sua infanzia la luce è e non è, nessuno la percepisce, è orfana di sguardo e di pensiero, il linguaggio non esiste, non esistono i verbi che la descriveranno né gli aggettivi che la qualificheranno, la luce accade come parte del nulla originario, solo miliardi di anni dopo diventerà giovane e fluirà attraverso altri milioni di anni, sempre più veloce e casuale, sfrenata nel silenzio siderale – luce e silenzio: luce è silenzio e poi luce è brusio: qua e là le prime sporadiche reazioni chimiche, la schiusa dei fenomeni, l’acqua, l’alterazione profonda e superficiale delle temperature, la fotosintesi, la prima molecola organica e tutto ciò che ne consegue: gradualmente la materia interiore della luce si estroverte: è eucariote e poi vertebrata, mammifera, arboricola, erbivora carnivora e poi onnivora; lucepiteca, luce di Neanderthal; luce di sassi, luce di ossa, luce neolitica; luce che emana dalla fusione dei metalli, luce liquida che indurisce all’aria –, e poi la luce si fa adulta, sapiens, percepita e addirittura pensata, e scorrendo per i millenni penetra in quel giocattolo che sono i nostri secoli prima e dopo Cristo, il tempo in cui la luce è nominabile e nominata: la luce che si sprigiona dalla prima parola che la dice.
Laura: Grazie tanto perché il brano che hai letto è uno dei miei preferiti, lo userò moltissimo nei miei corsi di fotografia. Visto che siamo entrati nel libro leggendo le parole, avevo piacere a entrarvi guardando le fotografie. Avevamo accennato all’inizio del tuo viaggio con Ramak. Volevamo chiederti di parlare più approfonditamente il rapporto tra il testo e le fotografie. Se uno legge prima il tuo scritto e poi osserva le immagini nota che ci sono dei rapporti, a volte didascalici, a volte evocativi nelle immagini; ce n’è una su tutte su cui si può dire tantissimo, quella dell’anziano che legge «Il Giornale di Sicilia» con la scritta «rifiuti».
C’è l’immagine del carretto siciliano, c’è l’immagine della curva nord dello stadio, insomma ci sono diverse fotografie di cui noi leggiamo nel testo, e che poi vediamo nelle immagini. Quali sono i rapporti, gli incroci, cosa è venuto prima o dopo? Prima accennavi al fatto che ricevevi le foto da Ramak e ci scrivevi sopra.
All’inizio ci sono tre immagini in cui c’è una piccola spiegazione, dove dite che in alcune fotografie sentivate l’esigenza di inserire una parte del testo.
Queste tre immagini sono in qualche modo le uniche tre immagini di interni domestici. Mi chiedevo come mai aveste sentito l’esigenza di inserire e di specificare meglio in queste tre foto il rapporto col testo. Tutte le altre foto di Ramak sono all’esterno: nella parte fotografica c’è anche questo rapporto tra interno ed esterno, come due diversi punti di vista del racconto. Ho pensato al fatto che fotografie di Ramak hanno questo sguardo onnisciente, quasi antropologico, che fa vedere effettivamente cose che sono nella strada, quindi non un io che racconta la sua storia. Mi chiedevo quindi quanto sia legato al tema della memoria, uno dei temi fondamentali del tuo racconto. Quanto essa sia una costruzione e quanto le fotografie stesse, che come dicevi tu apparentemente parlano della realtà, siano a loro volta delle costruzioni.
Ramak fa un’operazione interessante, perché è vero che c’è la dimensione del penombra ma c’è anche l’utilizzo della luce artificiale, che in realtà sembra cancellare la luce di Palermo che invece vediamo nel tuo scritto. Ha uno sguardo totalmente suo, che crea anche uno spaesamento – perché appunto c’è Palermo, ma in alcune fotografie ci chiediamo dove siamo.
Giorgio: Peccato che non possa essere direttamente Ramak a rispondere. A Milano, in una delle prime presentazioni di questo libro, c’è stato un tentativo di collegarsi con Ramak – che forse, in camicia hawaiana e bermuda, si era perso per la metropolitana di New York e quindi era presente come fantasma. Intanto c’è un elemento tecnico che vale la pena subito evidenziare, anche perché è così evidente che è meglio contestualizzarlo. Ramak Fazel fotografa con una Rolleiflex, il formato quadrato ha a che fare con la macchina che utilizza; è una macchina che usa sempre, del ’66-’67 – come fosse quasi sua coetanea – tutta piena di ammaccature, è uno strumento di cui non riesce a fare a meno. Quando nel 2016 abbiamo percorso il Mississippi dalla foce andando verso nord, Ramak aveva con sé anche una macchina digitale, perché lì avevamo in qualche caso dei vincoli: perché dovevamo mandare a «Repubblica» tanto il testo quanto le foto che dovevano descrivere i giorni immediatamente prima del voto – e anche in quell’occasione Ramak, pur essendosi portato indietro la digitale, non è riuscito a fare a meno della Rolleiflex, ha trovato dei modi per inviare fisicamente i rullini al laboratorio in California dove stampano e sviluppano le sue foto, riuscendo in extremis a inviare le foto in tempo – ma anche in quel caso falsificando. Come di Absolutely Nothing fanno parte alcune immagini che non sono state scattate, non solo durante il nostro viaggio ma nemmeno negli Stati Uniti, nel reportage per «Repubblica» del novembre del 2016, c’è stato a un certo punto un problema: Ramak manda le foto, però mi fanno presente dalla redazione che abbiamo una maggiore presenza dei supporter repubblicani, mentre non abbiamo foto dei supporter democratici, quindi abbiamo più Trump che Clinton – e i giornali si pongono il problema di bilanciamenti di equilibri di questo tipo. Il problema è che noi non avevamo mai incontrato i supporter della Clinton, e forse avevamo anche in qualche modo presagito dal viaggio quello che poi accadde quella notte, trascorsa in giro per New York, riuscendo sempre con i sortilegi di Ramak a entrare all’Hilton, che era il quartiere generale repubblicano, senza crediti né niente di niente – Ramak mostrava la mia carta d’identità come l’equivalente in forma di documento di una supercazzola. Mostrandola era come se chiarisse che noi dovevamo necessariamente passare; io mi ritrovavo qualche metro dietro di lui, senza documenti, sempre più incerto non solo della mia identità ma anche di quella delle guardie all’ingresso. In quell’occasione Ramak ha recuperato una foto documentando le presidenziali quando era andato a fotografare i supporter della Clinton, mesi prima. Quella foto compare “come se”, perché sono livelli diversi su cui con Ramak ci troviamo perfettamente d’accordo: l’effetto di realtà non è la realtà. L’effetto di realtà è il titolo di un articolo di Roland Barthes dove riflette molto bene su tutti questi punti. Quando Ramak è arrivato all’ultima selezione delle sue immagini, e io avevo scritto tantissimo soprattutto sulla base di quello che lui aveva fatto, e ci siamo detti: ha senso introdurre nel libro didascalie specifiche che rendano conto di un luogo o dell’altro? A chi servono? Con chi dialogano? A chi serve dire che quelle foto sono state scattate al Giardino Inglese, quella ai Quattro Canti, quell’altra in via Danimarca? Allora ci siamo detti: facciamo così, precisiamo in una nota che tutto quello che si vede è Palermo, nei modi nei quali quella città è in grado di manifestarsi; in tre occasioni non mettiamo una nota tradizionale, ma inseriamo un frammento del testo, perché sono quei passaggi in cui c’è un dialogo più esplicito. Se poi qualcuno vuole andare al di là, la prima foto, quella del pozzo, è una foto che Ramak ha voluto a ogni costo scattare quando è arrivato a Palermo, perché lui sapeva che io vivevo in questa strana condizione da quando alla fine del 2015 ero andato via da Roma, ero tornato a Palermo pensando che sarei rimasto per un po’ per tornare poi a Roma, non avevo più una casa a Roma, e quindi avevo dovuto mettere tutte le mie cose in alcuni box. Poi ho capito che non sarei tornato a Roma e tutto quello che avevo l’ho traslocato non in una nuova casa, ma in dei nuovi box, invece di pagarli in alto Lazio, erano gratis a casa dei miei genitori, e dato che in quei momenti l’idea era l’absolutely everything, l’idea era entriamo nel discorso attraverso questa massa di scatoloni di libri (anche abbastanza discutibili), dal barbecue a quella specie di me donna appoggiata, che fra l’altro è ancora dentro quel box, non è stata portata via. Le altre due immagini in cui compaiono questi elementi sono quelle che hanno sempre a che fare con via Sciuti, che è un posto insignificante di Palermo, del quale io ho sempre scritto nelle cose che ho scritto, per il semplice fatto che io non ho nessuna capacità di invenzione né desiderio di invenzione su determinate cose, quindi ho sempre messo, in tutte le cose che ho scritto, l’indirizzo dei posti in cui ho abitato – che secondo me è una richiesta di aiuto. Forse, ripensandoci a distanza di anni, è una continua richiesta d’aiuto, e quando qualche mese fa mi sono trovato nella buca delle lettere una cartolina, non sono riuscito a capire chi fosse il mittente. Finalmente forse qualcuno ha capito qualcosa che io stesso non avevo capito.
Quella nella foto è mia madre, che carezza il dorso di alcuni libri. Quando io non c’ero, Ramak è entrato a casa dei miei e ha voluto fotografarli. E quindi c’è questo piccolo accenno dato che via Sciuti viene molto raccontata, ed è quasi teatro principale di gran parte del racconto – come se tutto il racconto fosse la dimostrazione che non riesci ad andare via da quel luogo e forse non è necessario andare via dall’origine.
L’unica didascalia tradizionale, fino a un certo punto, è quella che riguarda la Fiat Croma a piazza Dante, scattata alla scuola di formazione della polizia penitenziaria a Roma, ma abbiamo deciso di non rendere esplicito nel libro il motivo per cui compare questa foto: in una delle occasioni in cui Ramak è tornato a Palermo, tornando ha deciso di passare da Roma, ha ottenuto i permessi ed è riuscito a fotografare la Fiat Croma su cui viaggiava Giovanni Falcone il 23 maggio del 1992 insieme a Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. In questo caso abbiamo deciso di non esplicitare il riferimento per una questione di pudore. In questi casi l’esplicitazione è come se avesse non un’intenzione ma un effetto un po’ ricattatorio, un po’ patetico: commuoviamoci perché questa cosa è avvenuta; questo è un pezzo di Palermo che sta fuori di Palermo e che però Ramak ha avuto l’intuizione di andare a cercare.
Simone: Questa è l’unica foto non fatta a Palermo che però in modo didascalico racconta tanti anni che hanno stravolto la città, anche riguardo alla luce. Penso ad esempio a via Libertà. È possibile trovare Palermo come vocazione anche fuori dalla città? Mi ricordo che nella prima presentazione di questo libro a Palermo raccontavi di come Ramak nella sua confusione trovava immagini che magari facevano dubitare che fossero state scattate nella stessa città. La domanda è se è possibile trovare Palermo anche in altri luoghi e se magari attraverso le immagini di Ramak, tu hai scoperto una Palermo in qualche modo diversa. Quel «tutto» che tu menzioni nelle foto si vede tantissimo. Mi chiedevo, quindi, se è possibile trovare delle immagini di Palermo fuori dal contesto cittadino e come tu hai letto la città attraverso lo sguardo di Ramak.
Giorgio: Parto dalla seconda parte, trovare Palermo nello sguardo di Ramak. La prima volta e l’unica in cui sono stato presente durante un giro di Ramak – c’era anche Giovanna Silva in quell’occasione – in un posto di Palermo che è Mondello, li ospitavo nella casa dove vivevo in quel momento. A un certo punto andiamo all’interno di uno spazio proto-industriale abbandonato da tempo – vetri, telai completamente vuoti, ruderi, macerie, che in una città come Palermo diventano un elemento strutturale. Ramak si guarda attorno ed esclama: Non sembra di essere in Europa, ma non lo dice con un’intenzione critica o moralistica. L’esperienza di Europa che ha Ramak è quella di qualcuno che per quindici anni ha vissuto a Milano. Quindi ha una sintesi dell’Europa e dell’Italia che ha a che fare con lo spazio sobrio, pulito, dotato di servizi, con determinate caratteristiche. Ma Ramak è di origini iraniane, il luogo in cui il suo sguardo ha preso forma è quello, sia a livello di realtà che di invenzione, di mito – è un posto dove periodicamente torna. Io ho avuto l’impressione che Ramak sia andato in giro per Palermo cercando un po’ di trovare l’Iran e un po’ di trovare pezzi di Stati Uniti, che io non avrei mai trovato. Ramak ha trovato un harleyista a Palermo, uno con l’Harley Davidson a Palermo. Per me gli harleyisti erano esotici quando li vedevamo negli Stati Uniti, era un Easy Rider permanente; con alcuni di loro ha parlato nel 2016 – nel 2016 l’harleyista incontrano in un motel del Kentucky si chiamava Glenn, l’harleyista trovato da Ramak a Palermo si chiamava Lucio – in ogni caso un harleyista – ha visto le bandiere americane in mezzo a quelle rosanero del Palermo fuori dallo stadio. Ci saranno sempre, faranno evidentemente parte della proposta degli ambulanti che le vendono, ma io non ci avevo mai fatto caso. Quello che soprattutto mi ha impressionato è stato quando Ramak ha fotografato un eremita che ha vissuto per tanto tempo in un faro borbonico sulla montagna di Capo Gallo, che dovrebbe essere quel signore con la barba lunga sale e pepe, le braccia leggermente allargate. Israel è il nome che quest’uomo si era dato. Aveva realizzato delle opere musive con dei tasselli, con dei materiali vari. Il fatto è che Ramak insieme a me e Giovanna Silva aveva visto e fotografato Brother Simon, che era un frate francescano riformato che abbiamo incontrato in un villaggio di 24 abitanti nel Texas. Abbiamo passato un pomeriggio a casa di questo frate. Se fossimo stati soltanto io e Giovanna a viaggiare l’avremmo visto da lontano in mezzo alla polvere e ci sarebbe bastato – con Ramak invece siamo entrati a casa di quest’uomo, e gli abbiamo anche lasciato gran parte di quello che Ramak si era portato dietro dello scatolame. Era sorprendente, perché Ramak ha preso questa specie di danza, questo specie di istante di danza; nella foto di Brother Simon c’è di nuovo un moto di sospensione, un modo di allargare le braccia, come se li avesse guardati in modo molto simile, li avesse fissati alla stessa maniera. Le fotografie di Ramak non sono mai immagini oggettive, ognuno di noi in un modo anche rassicurante, porta il proprio sguardo ovunque, costruisce confronti. Ero con Ramak in Arizona, in un posto che si chiama Trotter Park, che è un ippodromo abbandonato, aperto nel ’64 e chiuso nel ’65 – constatando che sì, avevi compiuto quest’opera ingegneristica di costruire un ippodromo fuori Phoenix, ma sempre nel deserto sei, non puoi far correre i cavalli nel deserto, quindi dopo un anno lo spazio viene abbandonato. A un certo punto ci troviamo davanti alle scale mobili. Per me negli anni Settanta da bambino le scale mobili erano tutto 2001 Odissea nello spazio, ma dentro la Standa vicino casa. E io ho guardato quelle scale mobili – che sono, fra l’altro, rare, non perché in assoluto non ce ne siano, al contrario, ma quelle erano “monoposto” – oggi le scale mobili delle metropolitane danno la possibilità di tenere la destra in modo tale che qualcuno può salire – quelle erano proprio strette, anguste. E io in Arizona ho guardato le scale mobili attraverso il modo in cui ho guardato e vissuto l’euforia e l’incanto delle scale mobili di Palermo, quindi il nostro sguardo non è mai sgombro, ma è affollato di una quantità di elementi che agiscono, e in un certo senso determinano anche la nostra curiosità nei confronti di una cosa o di un’altra.
Ogni tanto capita a lezione di ragionare sullo sguardo, sul fatto che secondo me l’elemento centrale dello sguardo di ciascuno è la trave, è quella che nel passo evangelico Cristo invita a considerare: Guarda la trave nel tuo sguardo, prima di dire qualcosa della pagliuzza che sta nello sguardo dell’altro. Da un punto di vista morale capiamo questo passo, e il principio è perfettamente sensato, ma al netto di questa prospettiva io ho la sensazione che ognuno di noi abbia una trave che prende forma nel corso del tempo e che se racconti, se fotografi, non ha senso farne a meno. Stai sempre guardando attraverso la trave, e la trave stessa.
Domanda dal pubblico: Tornando un po’ sulla questione della luce, mi sembra ci sia una piccola tradizione a livello letterario di autori che sono nati o che scrivono del Sud, della Sicilia. Una tradizione che ha riflettuto sulla luce come concetto, e che credo faccia capo a uno scritto di Gesualdo Bufalino intitolato La luce e il lutto, in cui lui in sostanza mette in rapporto il concetto della luce con la tragicità degli eventi e della vita che accade nella luce del giorno. Dov’è piena ed eccessiva la luce anche l’evidenza dei fatti tragici o legati in qualche modo alla morte, sono anch’essi più evidenti. Anche Brancati ha scritto che in Sicilia la luce ha sempre un risvolto di tenebra. Quindi mi veniva di chiederti se questo è un tema, una tradizione con cui ti sei scontrato o ti sei posto, o se pensi il tuo libro possa in qualche modo dialogare con essi.
Giorgio: No, non c’è uno scontro con una tradizione letteraria; c’è nella migliore delle ipotesi un dialogo, un piacere dell’influenza che però non è circoscritto a un ambito regionale. Nel senso che dentro questo testo ci sono delle influenze delle quali ho consapevolezza e poi ce ne sono sicuramente tantissime altre che ho meno sotto controllo, che sono state meno vagliate o che non lo sono state per nulla. Le influenze delle quali ho consapevolezza sono: Manganelli, al quale viene fatto una specie di specifico omaggio attraverso la parola «bambinosauro», perché è un termine di Manganelli di cui mi sono appropriato nel momento in cui comparve un dinosauro; c’è Piovene, una cosa che sta all’interno di una riga delle Stelle fredde, che però mi aveva talmente colpito da essermela annotata quando l’avevo letto, ed essermela poi ritrovata davanti. Il protagonista a un certo punto incontra Dostoevskij che viene fuori da una breccia nel muro e usa l’espressione «l’aria gli parlava nella bocca». Federico faceva riferimento all’inizio a questo stato di afasia, a questo rapporto col linguaggio in cui a un certo punto la frase sembra innalzarsi, farsi filamentosa, fino a quando ti accorgi che non la stai più dicendo, è diventata aria che ti parla nella bocca, è diventata silenzio. Molto bello il riferimento a Bufalino e Brancati. D’accordissimo non soltanto sul risvolto, ma sul fatto che strutturalmente la luce è inseparabile dalla tenebra. Nel libro faccio riferimento al modo in cui luce e tenebra si manifestano simultaneamente nel vespro, nella penombra. L’ultimo elemento che aggiungerei a queste considerazioni su come la luce si manifesta, sul fatto che le cose si vedono più chiaramente non quando sono nitide ma quando c’è qualcosa che offusca lo sguardo. Io da tanto tempo lavoro, ragiono su degli sguardi, li prendo e li considero a partire dal cinema. Certi close-up, certi primi piani, anche storici, notissimi: come ci guarda Carlito Brigante all’inizio, che poi è anche alla fine di Carlito’s Way – è stato colpito a morte, nel momento in cui vorrebbe o si immagina di poter fare andare le cose in un’altra maniera, siccome quella è una storia di redenzione impossibile resta al di qua e guarda – lo sguardo a quel punto è un po’ acquoso, postumo, lo sguardo di chi ha visto tutto, ed è come se avesse compreso che quello che c’era da capire era pochissimo, ma non nel senso di qualcosa che non ha valore, ma di qualcosa che si può sintetizzare nel titolo shakespeariano Much Ado About Nothing. C’è qualcosa di liberatorio, un sollievo, non una mancanza di rispetto, nell’accorgersi che quasi tutto alla fine è molto rumore per nulla – è quello che splendidamente intuisce Aldo Busi all’inizio del Seminario sulla gioventù: «Cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani», di tutto quello che abbiamo fortemente desiderato, quando lo guarderemo a distanza di anni – quel modo di guardare, il modo in cui guarda “Noodles” De Niro alla fine di C’era una volta in America – quella specie di sorriso di chi ha visto tutto e ammutolisce, si accorge che non c’è nulla da dire. E che secondo me trova anche una manifestazione straordinaria in alcuni sguardi animali. In un altro di nuovo cinematografico che è quello di Balthazar, l’asino del film di Bresson. Un altro non cinematografico, che è di un animale a cui sono affezionato, il puffin, cioè la pulcinella di mare – non so perché chiamato «pulcinella» quando ha uno sguardo da Pierrot, quasi una lacrima dipinta. In quegli offuscamenti dove c’è tenebra, dove c’è luce, io ho sempre più la sensazione che ci siano delle cose centrali che accadono quando o non c’è ancora il linguaggio o non c’è più tempo. Vale a dire lo sguardo del neonato, il modo di guardare di chi non ha ancora il linguaggio per nominare le cose, e poi l’ultimo sguardo, lo sguardo di chi è “in punto di morte”, dove magari il linguaggio c’è ma non c’è più il tempo per dirlo. È come se tutte le cose centrali sfuggissero strutturalmente, stanno tutte quante da un’altra parte, e proprio per questo sono il centro delle azioni letterarie, perché non le puoi prendere, perché il momento in cui hai la sensazione che le stai per prendere, ti rendi conto che tutta la letteratura non ha una qualità che viene misurata dal fatto che qualcuno ogni tanto prende qualcosa; la qualità della letteratura è la capacità di avvicinarsi, di creare una tensione – faccio questo movimento perché risento di quella scena bellissima di Morte di un matematico napoletano, dove il protagonista, interpretato da Carlo Cecchi, dice ai suoi studenti: questo è il linguaggio, queste sono le parole, questa è la vita. Hai una tensione continua delle dita verso il polso, ma non arrivano a toccarlo. E non è un limite, il rapporto è asintotico. Ogni scrittura è la qualità della tensione che riesce a esprimere per cercare di prendere qualcosa che però le deve sfuggire.
Mi vogliono tagliare, sradicare anche, l’ho sentito dire al grande-lui, alla grande-lei.
Chissà se la piccola-lei lo sa, non lo sa, non può saperlo, se lo sapesse la sentirei urlare, urlare, ne sono certo, non può saperlo. La piccola-lei non lo sa.
Mi vogliono tagliare, mi vogliono tagliare.
I miei anelli dicono che ho sedici anni, i tempi della linfa grezza che sono alto tredici metri: la linfa arriva dalle radici, dalla cleriptra dell’apice meristematico, ai rami, all’ultimo verticillo, in quasi un’ora. Ho delle incredibili, magnifiche fronde, le mie foglie sono decidue, alterne, di colore verde brillante, glauche sulla pagina inferiore, con ciuffetti di peli rossicci agli angoli della nervatura, ovate-cordate, asimmetriche, cuoriformi. A giugno mi riempio di fiori bratteati, profumati, riuniti in infiorescenze ascellari, di frutti con costole poco visibili e fragili endocarpi.
Che bell’albero, dicono i grandi-loro che mi passano accanto. Il grande-lui aggiunge: è un tiglio.
Mi hanno piantato quando è nata la piccola-lei. Quella primavera il mio apice si fece subito gemma, alterna, globosa, verde poi rossastra, con solo due scaglie visibili; la gemma si fece subito germoglio, carico di cellule embrionali, indifferenziate: il meristema primario che origina tutte le altre cellule. Le cellule iniziali totipotenti potevano solo suddividersi, dare origine ad altre cellule iniziali, all’infinito. Alcune però smisero di moltiplicarsi, cominciarono a trasformarsi nel tessuto tegumentario, il parenchimatico, il tessuto di trasporto, quello di sostegno. Quella primavera il mio germoglio cresceva, le sue cellule iniziavano a dividersi, ad accrescersi per distensione: le bozze fogliari diventarono vere foglie, gli internodi si allungarono, spaziando. Dentro alle foglie, dentro agli internodi si formarono i fasci conduttori che trasportano la linfa grezza, dalle radici alla foglia, e la linfa elaborata, dalla foglia alle radici. Sotto il tegumento di fasci conduttori, il tessuto parenchimatico cominciava a gonfiarsi, a trattenere le cellule di riserva, accumulare l’acqua, le sostanze vitali elaborate dalle foglie. All’ascella delle bozze fogliari si formarono i primordi di ramo: nuovi apici, nuove gemme, nuovi germogli.
La struttura primaria di quella primavera abbagliò il bianco dell’intonaco granuloso, grosso, della grande-casa, dove abitavano il grande-lui, la grande-lei, la piccola-lei, il piccolo-lui; abbagliò il giardino dove, in primavera e in estate, passavano la notte il grande-cane e il piccolo-cane, ma non il gatto nero, che se ne andava a stare altrove, intorno a certe querce gozzute, nei campi dove pascevano le vacche podoliche, femmine, soprattutto femmine, dal mantello bianco appena sfumato di nero o di grigio, con musello, ano e vulva completamente neri, le corna a forma di lira che con il passare del tempo si attorcigliano sulla punta.
Pascevano le podoliche oltre la collina, tagliata nel suo punto più alto da una strada asfaltata dove la piccola-lei e il piccola-lui imparavano la conservazione della forza peso, la curvatura dei campi vettoriali, le variabili del cronotopo. Andavano a volare, lanciandosi in discesa sulla bicicletta: li vedevo, li sentivo cadere, muovere l’aria, in picchiata, senza mani.
Il gatto nero non restava mai a dormire nel giardino o nei dintorni della grande-casa, lui se ne andava a stendersi sui malli freschi sotto gli alberi di noci dei vicini, o ai piedi dei mastodontici pini marittimi di cento anni, lontani solo qualche chilometro da me, di cui il vento di nord est mi portava l’odore, la resina secca a impregnarmi la scorza.
La struttura primaria di quella primavera abbagliò anche la clorofilla, tutta la clorofilla, dentro di me, quella intorno: le conifere medie sempreverdi, aghiformi, le euphorbia dal lattice urticante e i fiori unisessuali, le rosali angiosperme, le graminacee microterme su cui la piccola-lei crollava, ogni tanto, il piccolo-lui correva, avanti e indietro e in tondo, con il grande-cane, il piccolo-cane, rincorrendo il gatto nero. Le graminacee microterme, le poacee, le festucoidee, le panicodee, le eragrostidee che crescevano in chiazze intorno al mio colletto e che avrei, di lì a qualche anno, divelto con le mie radici robuste, fittonanti.
Quando il mio fusto primario raggiunse la maturazione, i suoi tessuti, ad eccezione dell’apice e delle gemme laterali, erano ormai cellule ben differenziate, adulte, incapaci di rigenerarsi oltre. Per mantenere in vita gli apici, farne crescere di nuovi, si costruiva dentro di me un secondo meristema, un’altra struttura: alcune cellule adulte del fusto regredirono allo stato embrionale, per ricominciare a dividersi, ad accrescersi per distensione. Tra i fasci conduttori primari si formò il cambio, una circonferenza estesa per tutta l’altezza del mio fusto, un cilindro cavo di cellule meristematiche. Il cambio iniziò a duplicare le sue cellule, sia verso l’esterno, formando un anello continuo, il libro – uno strato sottile che sta sotto la corteccia, che s’ispessisce col tempo – sia verso l’interno, formando un anello di alburno. Nascevano nuovi germogli, i rami precedenti lignificavano, iniziava il tempo dell’accrescimento secondario. Il cambio produceva nuovo alburno, sovrapposto a quello più vecchio che si degradava, perdeva la sua funzione. Le cellule dell’alburno morivano, rimanendo nella parte più interna del mio fusto, diventando il mio sostegno, il legno morto, il duramen, che per non marcire lo impregnano i tannini e le altre sostanze prodotte dal legno vivo. Esternamente al cambio si generava il nuovo libro: il cambio si espandeva, il libro più recente spingeva il più vecchio verso l’esterno. Il libro più esterno si differenziò nuovamente, creando un ulteriore tessuto meristematico, il fellogeno, che visse poco, appena il tempo di formare il periderma e la corteccia, le cui cellule morirono presto, spinte verso l’esterno, assumendo un aspetto fessurato. Ogni anno da quella primavera, a partire dal libro, internamente, si è formato un nuovo strato di corteccia, di sughero morto. Ho, come tutte i grandi-alberi, i piccoli-alberi che vivono in climi temperati freddi, seguito le stagioni, crescendo con discontinuità: ho smesso di crescere in inverno, ricominciato in primavera, quando, all’ascella delle bozze fogliari si formano nuovi primordi di ramo: nuovi apici, nuove gemme, nuovi germogli.
Quando la piccola-lei era persino più piccola di adesso, più minuta, più sottile, più bassa, quando era solo un brindillo, un dardo fiorifero, e aveva il fusto spesso quanto una femminella, un ramo anticipato, passava così tante ore a girarmi intorno. Girava, girava, girava sempre. Rideva così bene, la sentivo ridere, la sua risata mi titillava tutte le foglie. Mi girava intorno correndo con il suo grande-cane, il suo piccolo-cane, il suo gatto nero; spesso anche il piccolo-lui veniva a correre, a girarmi intorno, il piccolo-lui che non si stancava mai. La piccola-lei qualche volta, invece, era stanca, stanchissima, stramazzava sulle mie radici che avevano da tempo scavalcato la terra intorno al colletto, il punto dove il mio fusto inizia a capovolgersi. Si buttava sulle mie radici scoperte, accasciandosi come mi hanno raccontato che fanno i faggi alti nei boschi quando i grandi-loro li tagliano con le seghe, le motoseghe, i motori a scoppio che gocciolano una miscela dall’odore forte, persino più forte dei funghi, del marcire lento del sottobosco; la catena di ferro che fa il rumore dell’orso primitivo chiuso nell’antro di una caverna: l’orso primitivo che vuole uscire, che ha fame. La catena che certe volte si chiama Husqvarna, li ho sentiti dire, che ha un regime di massima di dodicimila cinquecento giri al minuto, li ho sentiti precisare, una velocità di ventimila metri al secondo, li ho sentiti spiegare. La catena che ruotando ventimila volte per metro al secondo fa precipitare gli alberi. Alberi precipitati per la rotazione furibonda di una catena di ferro, diamantata a volte, li ho sentiti specificare.
La piccola-lei crollava inesorabilmente. Si stendeva sulle mie radici, le toccava, accarezzandole, gli parlava, gli raccontava certi sogni di tronchi elastici, neri, che passando tingevano tutto. Erano fusti senza midollo, senza durame, alburno, cambio, libro, senza corteccia, erano tronchi melliflui, corrotti, tronchi morti ma posseduti da una linfa momentanea, putrida, che aveva concesso al fusto di trascinarsi per le strade nei sogni della piccola-lei, imbrattando l’asfalto, i marciapiedi, i muri. Erano fusti di una marcescenza elastica, che ne aveva decapitato le fronde, i rami, tutto il cormo, erano cormofite morte, tracheofite senza respiro, animate da una linfa guasta, dalla saliva pestilente di un demonio che, supino sotto le loro radici, le aveva eiaculate di una resina oscura. Erano tronchi iniettati di un sangue perverso, delirante. Captivi diaboli, prigionieri del diavolo, erano fusti in cattività, fusti dal cattivo sangue, ammorbati di una pece nera del sottosuolo, bucato dagli angeli caduti per andare a nascondersi. Fusti mozzati, senza radici, senza rami, senza fronde, condotti disanimati, pompati dall’energia disidratata, languente di batteri letali che pure irrora il mondo. La piccola-lei si accasciava sulle mie radici fuori del colletto, abbracciandole, volendole sentire accanto, addosso, a consolarle il battito, a darle una misura di lentezza che non avveniva nel suo fusto, nel centro della sua zona generatrice, dove il suo strato lignoso ancora non si era formato, e perciò prevaleva soltanto lo strato libroso, che si rigenerava una primavera dopo l’altra. Mi raccontava i suoi sogni, la piccola-lei, di scappare, di volare, di precipitare, di trovarsi tinta le mani di una pece oscura, di sentire il corpo gonfiarsi, le dita farsi giganti; di presenze, di domande che non sapeva capire. Di una strada, sempre in salita, che all’inizio non era una strada davvero, ma tetti, migliaia di tetti, e la strada era un percorso teorico, puntiforme, cromodinamico di stringhe in vibrazione, in interazione da un tetto all’altro, e la piccola-lei percorreva la strada saltando, cadendo, spalancando a volte gli occhi nella notte per ritrovarla bagnata, lacrimosa, gnaulente. Poi la strada si faceva una strada davvero, appariva il grande-lui nella sua centoventisette azzurra, la piccola-lei e il grande-lui andavano sulla strada che intanto si era fatta inerpicata, stretta, calcinosa, sassosa e di montagna, che finiva in una grande roccia bucata, che non si poteva vedere al di là, che bisognava strisciarci dentro. La piccola-lei e il grande-lui restavano a guardare la grande roccia, immobili, abbassando lo sguardo davanti all’imperforabilità della montagna, entrambi ansimando, come se anche il grande-lui avesse passato la notte a saltare e precipitare da un tetto all’altro, a salire scale a pioli appoggiate al niente, galleggianti sulla portanza verticale di un mare di bosioni e fermioni e gravitoni della cromosfera parallela del sogno della piccola-lei.
Arrivano, li sento avvicinarsi, li vedo arrivare. La motosega nelle mani del grande-lui, un altro grande-lui gli viene dietro, corde arrotolate, posate sul suo braccio come un mazzo di rami di salice bianco, l’ascia corrusca, la tanica della miscela dall’odore più forte del sottobosco.
Io ho paura, ho paura. Io non voglio morire. Vengono a tagliarmi.
Guardami, grande-lui, sono vivo, sono vivo, guardami grande-lui, guardami, sentimi, metti una mano sulla mia corteccia, sulle mie radici, ti prego ascoltami grande-lui, ti prego, ti prego ascoltami. Piccola-lei vieni, vieni, corri, corri, salvami, piccola-lei, vieni, aiutami, non voglio morire, ho paura, piccola-lei aiutami, li vedo sotto le mie fronde, è autunno, smetterò a breve di crescere, che male posso fare? Le mie foglie, forse sono le mie foglie a forma di cuore? È per quelle? Che mi tagliate, mi volete tagliare. Perché cadendo ricoprono tutte le graminacee microterme che crescono in chiazze intorno al mio colletto, perché le mie radici fittonanti divellono le graminacee, impoverendole, e le fondamenta della grande-casa, anche quelle, scardinandole.
Fondamenta, ho sentito dire al grande-lui: è così che i grandi-loro chiamano le radici di una casa.
È per loro, che mi tagliate? Mi volete tagliare. Per le mie foglie a forma di cuore, per il sottosuolo condiviso, per le mie radici che s’espandono, irriflesse toccano le radici della grande-casa.
Aspettate, ascoltatemi, vi racconterò la leggenda di Filemone e Bauci, che accolsero Zeus ed Ermes che vagavano per la Frigia in sembianze umane, aspettate, ascoltatemi, Filemone e Bauci, non volete sapere? Di come diventarono un tiglio e una quercia, lo stesso fusto, le stesse radici.
Io ho paura, ho paura. Io non voglio morire. Vengono a tagliarmi.
Dove sei, piccola-lei, dove sei, corri, vieni a crollare su di me, sul mio sistema radicale che pompa linfa alle mie branche viventi, vieni a precipitare come un sasso lanciato dal mio ramo più alto, vieni a rotearmi intorno come la tempesta dei miei cuori decidui in autunno, vieni, piccola-lei, ti prego, vieni, aiutami, abbracciami, aggrappati al mio colletto, al mio fusto, al libro sotto la corteccia, penetra con la tua mano fino a quello, leggimi la paura, piccola-lei, leggimi la tortura della paura che sbrindella la cuffia radicale di ogni mia singola radice, che mi stordisce le cellule della columella, gli statoliti di amido accumulato che, tramortiti, inebetiti, non sanno più la gravità, l’orientamento geotropicamente positivo in cui per sedici anni sono stato, cresciuto. La tortura della paura, piccola-lei, nei tubi cribrosi, nelle cellule parenchimatiche, nelle fibre sotto il colletto, sotto, nelle radici, nella parte segreta profonda scavata su cui tu hai imparato a dire i tuoi sogni di resina nera, di strade calcinose, sassose, di montagne imperforabili, di tetti in interazione, di scale a pioli appoggiate al niente, di un mare di bosioni e fermioni e gravitoni della tua cromosfera parallela: su cui tu hai imparato a crollare. Vengono a tagliarmi, piccola-lei, non mi troverai più al tuo ritorno: non saprò se avrai bucato la roccia alla fine della strada in salita, dove resti immobile a guardare fuori dalla centoventisette azzurra del grande-lui. Striscia, piccola-lei, striscia! Entra nella roccia, vai a guardare, a vedere.
Mi vogliono tagliare, vengono a tagliarmi.
Sento il suono, il ringhio otturato dell’orso primitivo chiuso nell’antro di una caverna: l’orso primitivo che vuole uscire, che ha fame. Sento i dodicimilacinquecento giri al minuto della catena, i sette denti del pignone, i diciassette metri al secondo della sua velocità: sento il suono del mio primo apice, la prima gemma, il germoglio bagnato della più primitiva clorofilla, la linfa primaria, la quiescenza delle mie radici alla terra, ai funghi del sottosuolo, le endomicorrize, le ectomicorrize, le ectoendomicorrize dell’interazione simbiotica che lascia ai funghi il carbonio organico, a me i sali minerali che mi hanno fatto diventare il tiglio-grande davanti alla grande-casa della piccola-lei. Abbiamo sedici anni, sedici anelli, piccola-lei: sono tutti per te. Ne avrai tanti altri, all’ombra mancata delle mie fronde, nell’assenza caduta delle mie foglie cuoriformi, nella vuotezza dei miei fiori bratteati di giugno, nella fragilità frantumata dei miei endocarpi.
Lo strazio del taglio nella carne del tronco, lo strazio del taglio nella corteccia senza sangue, perché gli alberi noi non abbiamo il sangue, dicono, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia senza sangue, la corteccia non ha sangue cosa, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia l’epidermide senza sangue, lo strazio del taglio nella carne nell’epidermide, attraverso il parenchima corticale senza sangue lo strazio mi trasmigra, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale senza sangue, io sento lo strazio del taglio nella carne senza sangue lo sento trasmigrarmi, farmi altro da me, lo sento, il dolore recide la dimensione della materia, recide la percezione della materia concreta, recide il ciclo di differenziazione del sistema primario, secondario, meristematico, recide la percezione: reciso entro nel sogno, nella cromosfera parallela dove lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale senza sangue non potrà farmi più male, lo strazio del taglio nella carne senza sangue che pure gronda, senza sangue essa gronda la mia sofferenza, stilla lo scempio della mia carne la corteccia l’epidermide il parenchima corticale il libro il cambio senza sangue, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro, lo strazio del taglio che recide il cambio, recide la differenziazione primaria la secondaria i pensieri che avrei pensato, il silenzio che avrei pronunciato, le parole che avrei accolto, le risate che avrebbero titillato le mie foglie, lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio io lo urlo ai tetti interconnessi del sogno della piccola-lei, al percorso teorico, puntiforme, cromodinamico di stringhe in vibrazione del sogno della piccola-lei, lo urlo, lo strazio io lo urlo all’intonaco grosso della grande-casa della piccola-lei, lo urlo alla strada a pochi chilometri da me, ai pini marittimi, ai malli freschi, alle querce gozzute, alle podoliche con le corna che si attorcigliano, lo urlo lo piango alle poacee, le festucoidee, le panicodee, le eragrostidee stese intorno al mio colletto, impoverite dalle mie radici fittonanti, le graminacee microterme ticchiolate sotto i migliaia di cuori miei decidui, alterni, glauchi sulla pagina inferiore, con pochi peli rossicci agli angoli della nervatura, i miei cuori ovati-cordati, asimmetrici, brillanti di verde ondulatorio, corpuscolare. Lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio nell’alburno nel midollo senza sangue, io piango, io grondo la sofferenza della catena di ferro che rotea nella sua quantità di moto, nella scellerata sua potenza di lacerazione della mia carne senza sangue per farmi cadere, crollare, tracollare, la sofferenza lo strazio del taglio nella carne nella corteccia nell’epidermide nel parenchima corticale nel libro nel cambio nell’alburno nel midollo senza sangue, recisi i fasci collaterali aperti, io sanguino, io piango, io grondo, io urlo al cielo alle fronde alle gemme avventizie, alle gemme dormienti, ai germogli d’acqua, lo strazio del taglio nella mia carne senza sangue, io lo sanguino, acqua salata, linfa grezza, porfirina, magnesio, emoglobina senza ferro, io lo urlo, lo urlo al cielo alle fronde alle gemme avventizie, alle gemme dormienti, ai germogli d’acqua, lo strazio del taglio nella mia carne senza sangue, io lo sanguino, acqua salata, linfa grezza, porfirina, magnesio, emoglobina senza ferro, io lo urlo, lo urlo a te, piccola-lei, urlo il mio pianto, il mio pianto è senza sangue, il mio pianto è verde.
Mariana Branca è laureata in architettura a Napoli e ha vissuto a Parigi, Bruxelles, Lione, Torino, poi Londra, Roma, infine Lisbona, sempre svolgendo lavori diversi. Vive tra l’Irpinia e l’Emilia Romagna.
Non nella Enne non nella A ma nella Esse è il suo primo romanzo, finalista alla XXXIV edizione del premio Calvino, pubblicato da Wojtek edizioni nel 2022.
Il Duca di Matteo Melchiorre (Einaudi 2022, 464 pp., 21 €) è ambientato perlopiù nel 2018 in un piccolissimo e fittizio paese di montagna, Vallorgàna, probabilmente tra Veneto e Trentino Alto-Adige. Il protagonista è un uomo né giovane né vecchio – il duca, appunto; anche se in realtà si tratterebbe di un conte – che a poco a poco capisce di non potersi sottrarre a un confronto definitivo con se stesso, cioè con la propria storia e i propri luoghi, i quali deve decidere se accettare o rifiutare una volta per tutte.
Quest’uomo senza nome è l’ultimo discendente della quasi millenaria famiglia dei Cimamonte, signori feudali di Vallorgàna. Dopo una giovinezza trascorsa altrove, sempre nell’agio economico e dedicandosi a studi paleografici e filologici, il duca si trasferisce nella villa dei propri antenati: una scelta radicale, a cui però non fa seguito una vera integrazione nella comunità del paese. Il duca è solo, privo di grandi occupazioni, e quasi non fa altro che passeggiare per i boschi e chiacchierare con gli operai che lo aiutano ad amministrare i suoi possedimenti rurali.
Questo, almeno, finché non litiga con un allevatore – Mario Fastréda, ottant’anni passati – per una questione di confini di proprietà: il duca non vuole cedere quel che è suo, l’allevatore ha bisogno di tre ettari in più per ottenere delle sovvenzioni statali con cui costruire una strada per l’alpeggio delle vacche. A questo scontro di interessi in fondo meschini, da una parte e dall’altra si sovrappongono motivazioni più complesse, tali da delineare, pian piano, due figure diversissime, eppure accomunate da una certa tragicità: tanto il duca sviluppa un rapporto ambivalente con la storia dei propri antenati, tanto Fastréda si mostra geloso dell’ascendente che è riuscito a guadagnarsi sugli altri abitanti del paese.
IlDuca ha molti tratti del romanzo realistico tradizionale: narratore omodiegetico in prima persona, racconto retrospettivo, registro medio-alto, colpi di scena preparati dal sedimentarsi di motivi riconoscibili, nette opposizioni e sostanziale continuità di tempo, luogo e vicenda. Eppure io credo che si tratti di un romanzo innovativo.
Nel Duca, per cominciare, ha luogo uno scontro preciso e solo in apparenza anacronistico: quello tra borghesia e nobiltà, rappresentate rispettivamente da Fastréda e dal duca, il cui sapore arcaico è pienamente riscattato da una disposizione inconsueta delle forze in campo. Per quanto sia un privilegiato e agisca mosso da velleità piuttosto puerili, infatti, il duca è qui il personaggio positivo, quello che subisce un torto, quello con cui – anche senza poter aderire ai deliri che lo portano sull’orlo di teorie razziste e classiste – si è portati a identificarsi. Ne deriva, per il lettore, un costante senso di straniamento, e per l’autore la possibilità di inscrivere nell’intreccio stesso una critica sociopolitica rivolta alla tendenza a non riconoscere limiti di sorta all’agire umano. Nel nobile decaduto privo di preoccupazioni materiali, mi sembra che Melchiorre abbia trovato un punto di vista alternativo rispetto alla borghesia ma interno alla nostra società, dal quale – pur senza salire su un piedistallo – gli è stato possibile mettere in discussione l’ansia di guadagno, la virtù imprenditoriale, l’idea che il paesaggio sia una merce da comprare, valorizzare, ridisegnare, liquidare. Non è un caso, in questo senso, che il duca si trovi spesso a conversare col tagliaboschi sessantenne Nelso Tabióna, montanaro testardo e intransigente, il quale a propria volta appare del tutto organico alla società attuale, eppure – grazie alla sua lunga familiarità con campi di forze non del tutto governabili, quali in questo romanzo sono il bosco e la montagna – estraneo alle leggi monologiche del profitto, dell’interesse e dell’espansione commerciale. È proprio Nelso a mettere le cose in chiaro: «Fastréda e quelli come lui», il tagliaboschi dice al duca, «hanno vissuto gli anni in cui il mondo andava avanti. Ogni giorno una conquista, ogni giorno più su di uno scalino. Perciò, a Fastréda e a quelli come lui, anche adesso che il mondo va indietro, è rimasta nello stomaco quella fame lì: quella fame di conquistare» (p. 312).
Ora, per quanto l’attuale situazione climatica renda necessarie e urgenti critiche di questa famiglia, è ad oggi piuttosto difficile trovarne qualcuna che sia declinata con i mezzi adoperati da Melchiorre – cioè coi mezzi del romanzo tradizionale, scevro di sperimentalismi vistosi nella lingua o nelle invenzioni e anzi ben disposto, in favore della leggibilità, a maneggiare motivi e svolte di trama prossime al cliché. Nel Duca il motivo anti-antropocentrico e anticapitalistico risulta giocato più sulla contraddizione che sull’assertività, più sulla rappresentazione complessa di identità conflittuali che sulla più o meno eroica presa di posizione individuale: nessun personaggio ha ragione fino in fondo e il vero protagonista è la società coi suoi conflitti, le sue disuguaglianze, la crisi dei suoi strumenti interpretativi e il suo essere parte infinitesima di una realtà più grande e irriducibile all’umano; e questo lo rende a mio giudizio un romanzo innovativo, di cui fare tesoro e dal quale imparare.
Ma l’aspetto forse più notevole di questo romanzo è la rappresentazione delle forze naturali: quest’ultime, con una centralità piuttosto rara nel romanzo moderno, svolgono un ruolo compiutamente e propriamente drammatico, intervenendo nel momento di maggiore tensione e reindirizzando la trama verso direzioni inaspettate. Nel Duca accade né più né meno ciò che è accaduto nella realtà: arriva imprevista la tempesta Vaia(ottobre-novembre 2018), che sfigura il paesaggio e lascia spaesati gli esseri umani. E il narratore non può che registrare quel che succede:
Iniziò un finimondo. Il vento sfuriava come mai prima di allora l’avevo sentito sfuriare. Ululava. Muggiva. Trascinava con sé il latrato di mille latrati […]
Vidi che insieme al vento c’era l’acqua. E quest’acqua, nell’alone di luce del lampioncino della corte, non cadeva affatto dall’alto al basso ma correva a mezz’aria, quasi parallela al suolo, via dritta in quel vento. […]
Attendere con fiducia, mi dissi […] le buriane fanno così. Pochi minuti di frastuono e se ne vanno. […]
E il vento peggiorò ancora, ed era da non credere come potesse peggiorare dal peggio. Avevo caldo. Sudavo. […] Conobbi, quella sera, ciò che significhi l’impotenza. (pp. 367-370)
Qui uno schema interpretativo consueto («le buriane fanno così») non fa più presa e, dileguandosi, consegna all’osservatore una cognizione più esatta della propria impotenza. Due cose vanno sottolineate. La prima è che questo «finimondo» invade il romanzo come un corpo estraneo, o comunque del tutto inatteso: la sua descrizione e i suoi strascichi, i quali occupano in tutto una trentina di pagine, arrivano nel momento di maggiore tensione della vicenda, quando una rivelazione radicale sul rapporto che lega il duca a Fastréda è stata annunciata da un po’ e si appresta infine a essere condivisa. La vicenda umana viene dunque interrotta, rimandata a più tardi e con ciò stesso ridimensionata, senza per questo perdere ogni importanza, solo passando, se non in secondo piano, certamente da una condizione di urgenza assoluta a una di urgenza relativa.
Il secondo aspetto da sottolineare riguarda proprio il carattere eccezionale, eppure reale, empirico, della tempesta raccontata. Nella storia del romanzo non sono molti i testi che inglobano organicamente simili cataclismi, vuoi perché la crisi dell’antropocentrismo è un fatto relativamente recente, vuoi per il gusto per trame e personaggi ordinari che si è andato affermando tra XIX e XX secolo. Ma i tempi sono cambiati, gli eventi climatici eccezionali sono sempre più frequenti e da più parti, negli ultimi anni, è stata evidenziata la necessità di rivedere questi e altri paradigmi (vedi Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi 2021, e Antonio Moresco, Il grido, Sem 2018). Lo spiega benissimo lo scrittore indiano Amitav Ghosh, il quale nella Grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile (Neri Pozza 2017) riferisce di non essere mai riuscito a raccontare in un suo romanzo di quando, nel 1978, si era trovato nell’occhio di un tornado apparso improvvisamente a Dheli nord, salvandosi per pura casualità e testimoniando il finimondo da molto vicino. Ghosh afferma che la difficoltà nel narrare questa vicenda proviene da un’incompatibilità di fondo tra la sua esperienza e l’arte del romanzo così come si è andata configurando nella modernità:
Nei miei libri ricorrono tempeste, inondazioni ed eventi climatici insoliti […] Perché dunque non riuscivo, a dispetto delle mie migliori intenzioni, a spedire un personaggio giù per una strada che sta per essere investita da un tornado?
Riflettendoci, mi trovo a domandarmi quale sarebbe la mia reazione di fronte a una simile scena se la trovassi nel romanzo scritto da un altro. Sospetto che sarebbe di incredulità, che sarei portato a considerarla una trovata di bassa lega. Penserei che solo uno scrittore di ormai scarse risorse immaginative ripiegherebbe su una situazione tanto improbabile.
Insomma, l’invenzione di una lingua e di dispositivi drammatici per raccontare simili eventi metereologici sembra essere una delle frontiere del romanzo attuale. Ed è per questo, soprattutto, che mi sembra che Melchiorre sia stato all’altezza di raccontare il nostro presente, pur muovendo da contesti geografici marginali (i paesi di montagna) e concentrandosi su personaggi tutt’altro che medi (il nobile appassionato di filologia). Anzi, forse proprio la scelta di un palcoscenico così piccolo e di protagonisti dai quali, sia pure indirettamente, dipende il destino di un minuscolo gruppo sociale, ha permesso all’autore di coniugare il racconto realistico tradizionale col racconto dell’impensabile. Non è che Melchiorre «torna astutamente al romance», come ha scritto Danilo Bonora su «L’indice dei libri del mese» (settembre 2022); è che il nostro tempo, in qualche modo, rende dirompente la condizione di un nobile decaduto e suscita romanzi con al centro, inaspettata, una tempesta mai vista prima.
Dopo aver letto Il Duca ho preso in prestito in biblioteca il primo libro di Melchiorre, Requiem per un albero. Resoconto dal Nord Est (Spartaco 2004), pubblicato quando l’autore aveva ventitré anni, ben prima di intraprendere la carriera di ricercatore universitario in storia medievale e moderna e di bibliotecario. È un libretto prezioso, cronachistico e digressivo, tutto incentrato su un gigantesco olmo che c’era fino a vent’anni fa a Tomo, frazione di Feltre, in provincia di Belluno. Veniva chiamato l’Alberón ed era un punto di riferimento geografico e sentimentale per gli abitanti del paese.
Anche quell’albero, ho scoperto con sorpresa, è stato sradicato dal vento.
Introduzione a cura di Margherita Podestà Heir. Intervista a cura di Fausto Paolo Filograna. Traduzione dall’inglese di Virginia Ciampi.
Su L’altro nome. Settologia (La nave di Teseo, 2021)
Settologia, L’altro nome. Non manca molto a Natale. Asle è un anziano pittore che vive su un fiordo imprecisato della Norvegia occidentale. Da quando sua moglie Ales è morta, conduce un’esistenza isolata e frugale. I pochi contatti che ha sono con il vicino Åsleik, che, unico erede di una misera fattoria, lo rifornisce di pesce, carne di agnello affumicata e legna, in cambio di un quadro da regalare ogni Natale alla sorella.
Asle, che è sempre stato fedele alla sua personale concezione dell’arte, ha un grande ammiratore nel gallerista Beyer, che tutti gli anni, durante il periodo dell’Avvento, allestisce a Bjørgvin una mostra con le sue opere.
Sempre a Bjørgvin, una città che per molti versi ricorda Bergen, Asle ha un amico. Ha il suo stesso nome, è anche lui pittore, ma ha il vizio di bere. Mentre sta rientrando a casa dopo una visita al gallerista, Asle ha la sensazione che l’amico si trovi in uno stato di declino mentale e fisico tale da decidere di ritornare in città per andare a trovarlo. La situazione è gravissima.
Nei vari squarci retrospettivi che si alternano nella mente del protagonista, vediamo Asle, ancora piccolo con la sorellina, e Asle da giovane, follemente innamorato di una ragazza. Momenti luminosi che però vengono contaminati da episodi molto bui – un bambino che annega cadendo dalla barca, un abitante del villaggio che è un pedofilo. Come se lo scrittore volesse rimarcare che la vita del protagonista avrebbe potuto assumere una piega diversa.
Proprio come Asle ricerca nei suoi quadri il contrasto tra luce e oscurità, così fa Jon Fosse. La sua narrazione procede senza sosta, non è ancorata a tempi e luoghi concreti. La scrittura è sobria, asciutta, ma al contempo impalpabile. Per creare questo effetto, il testo ha solo virgole, nessuno punto. Questa è stata per me la sfida maggiore. Riprodurre la musicalità, la fluidità che l’opera ha in norvegese. Per questo motivo, ho tradotto parlando e ripetendo il testo ad alta voce fino a quando, con grande umiltà, mi è sembrato di aver raggiunto la potenza espressiva di questi primi due volumi della Settologia.
Sta al lettore giudicare se ci sono riuscita.
M. P. H.
1. Perché hai scritto Settologia in prosa? E come sono state concepite le scene di Settologia?
Per moltissimi anni ho scritto principalmente per il teatro, fino ad ora ho scritto circa trenta opere teatrali, con più di mille spettacoli un po’ ovunque (ma la maggior parte in Europa). Ho anche viaggiato molto per vedere spettacoli. Poi, per varie ragioni, ho deciso di smettere di scrivere per il teatro e di ripartire da dove avevo iniziato, a scrivere il mio genere di prosa e poesia. Il mio primo libro pubblicato è stato, in ogni caso, il romanzo Red, Black, uscito nel 1983.
Durante gli ultimi dieci anni ho, principalmente, scritto Trilogia e Settologia (e tradotto molto, soprattutto opere teatrali, e scritto versioni di tragedie greche, ad esempio).
Semplicemente ho deciso di smettere di scrivere per il teatro, di non viaggiare per vedere spettacoli, di scrivere principalmente prosa. Ho anche immaginato di scrivere una sorta di “prosa lenta”; con questa espressione intendevo scrivere in modo tale da darmi abbastanza tempo o spazio per sviluppare qualsiasi cosa volessi e, oltre a ciò, da lasciare che il processo prendesse quanto più tempo, o quante più parole, volessi. Scrivere numerose pagine soltanto su un momento, ad esempio. E, forse, l’intera Settologia è solo un momento?
Un’ opera teatrale, almeno nel modo in cui la scrivo io, non necessita di molta azione, ma ha bisogno di un’intensità molto forte, di un genere di intensità un po’ come quella dell’epifania in una buona poesia. Io, in qualche modo, volevo rifuggire l’intensità estenuante di un’opera teatrale e trasformarla in un altro tipo di intensità a cui il fluire della prosa potesse dar vita.
Quando inizio a scrivere non pianifico niente prima di sedermi e iniziare effettivamente. Non voglio sapere che cosa scriverò prima di scriverlo: perché scrivere se sai che cosa scriverai? Per me scrivere è un viaggio nell’ignoto . E per me la migliore metafora per la scrittura è l’ascolto. Ascolto qualcosa, ma non so cosa sia. Ad un certo momento ho la sensazione che il testo a cui sto lavorando, che sia un’opera teatrale o un romanzo, sia già stato scritto e in qualche modo esista fuori da me, non dentro me, e che semplicemente io debba metterlo su carta prima che scompaia. A volte lo scrivo senza cambiare niente, altre volte devo ricercarlo a lavoro già finito, omettendo, riscrivendo etc.
Quando ho iniziato Settologia non avevo nessun piano di scrivere un romanzo, ma dopo averlo completato avevo scritto circa 1500 pagine; era molto più lungo di qualsiasi cosa avessi mai scritto prima. Il romanzo era organizzato in sette parti. Quando stava per essere pubblicato sia gli editori, sia io, pensavamo fosse la cosa migliore pubblicarlo in tre volumi, e così è stato pubblicato in norvegese e in numerose altre lingue – o sta per esserlo. Ma dal momento che è un solo romanzo, era mio desiderio, alla fine, che fosse anche pubblicato in un solo libro, e da adesso è disponibile in un unico volume, in norvegese e in inglese.
Soltanto le parti I e II sono state pubblicate ad ora in Italia, ma le parti III, IV e V usciranno in un secondo volume, e la VI e la VII in una terza.
2. W. G. Sebald dice che l’unità metrica del suo libro è la pagina. Leggendo le parti I e II abbiamo osservato che sono prive di punti; qual è la tua unità metrica?
Scrivo anche poesia, incluse poesie in metrica (come i sonetti), ma la cosa più importante, anche per una poesia del genere, non è l’unità metrica, che la rende simile ad una marcia, ma il ritmo. Tutti sanno cos’è il ritmo, ma dire cos’è è quasi impossibile tanto quanto dire cos’è il tempo, anche se tutti sanno cos’è il tempo.
Il formato di una pagina ha, certamente, a che fare con il formato del font utilizzato; quindi, non capisco realmente cosa intende Sebald. Per me, sicuramente, non è la pagina. Forse posso dire che l’unità metrica, o, piuttosto, ritmica, della prosa è l’onda; le onde sono grandi o piccole, si muovono lentamente, o sono veloci. Ma più che paragonare la mia prosa alla poesia in metrica, in realtà io penso ci si avvicini di più paragonandola ad una composizione musicale.
3. Ci saranno dei punti nei volumi successivi?
No. Ho finito per scrivere l’intero romanzo in un unico flusso, senza usare alcun punto. Quindi, in un certo senso, l’intero romanzo è un unico periodo, o la cosa migliore è, forse, dire che è scritto in sette periodi, anche se nessuna delle sette parti finisce con un punto. Nonostante ciò, il romanzo nella sua totalità è un fluire unico.
Quando ho iniziato a scrivere non avevo pianificato di scriverlo così, ho solo sentito fosse la cosa giusta. È accaduto e basta. E l’arte accade, come ha scritto Heidegger.
4. Leggendo L’altro nome, mi sono ricordato che Sant’Agostino ha detto: “Il desiderio prega sempre anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre”. Intendo dire che le tue parole, anche se dovrebbero possedere un suono, sono più simili al silenzio che alle normali parole. Che ne pensi? E come ti sei sentito scrivendo questo libro?
Sono d’accordo su tutto! Io stesso molti anni fa ho detto che per me scrivere è pregare, che è il mio modo di pregare. Mi sono sentito stupido quando l’ho detto, ma poi ho letto da qualche parte che Kafka aveva detto proprio la stessa cosa riguardo alla sua scrittura.
Ogni grande opera d’arte dice molto, ma in maniera silenziosa. Si pensi, ad esempio, ai dipinti di Rothko. Per me la stessa cosa vale per la letteratura.
Su tutt’altro piano, sono sicuro che nel caso si possa sentire la voce di Dio, allora è in silenzio.
5. Qual è la relazione tra le tue opere e quelli che vengono chiamati i morti? In Mattino e sera dici che il cosiddetto mondo dei morti è un mondo senza parole.
Senza le parole nel modo in cui sono nel mondo dei vivi, senza dubbio. Forse, dall’altra parte tutto può essere compreso e non c’è nessun bisogno delle parole; normalmente fraintendiamo tanto quanto capiamo con le parole. Ma non so niente di cosa ci sia dall’altra parte, nessuno lo sa, naturalmente, quindi non sento la necessità di specularci su.
In Mattino e sera seguo l’uomo che sta per morire, o l’uomo morto, fino a quando le parole possono seguirlo, fino a quando egli, almeno nella finzione, è dentro questo mondo; quando fa ingresso dall’altra parte non ho parole da spendere a riguardo, dal momento che il suo amico morto lo sta informando, o lo sta istruendo.
6. In Italia, al momento, si può leggere solo L’altro nome, ovvero le parti I e II della tua Settologia. Che cosa ci dobbiamo aspettare dagli ultimi due arrivi?
Dovete aspettare e vedere. Ma, se volete, si può leggere l’intero romanzo in inglese, in realtà la stessa traduzione in tre edizioni diverse, una per il Regno Unito, una per gli Stati Uniti e una per l’Australia. Tutti e tre bellissimi libri.
7. Quali sono i tuoi scrittori o poeti viventi preferiti?
Non penso di averne. I miei preferiti sono tutti tra gli scrittori morti, come Kafka e Virginia Woolf. O come Georg Trakl. O come Chekov.
Recentemente, però, ho tradotto un romanzo dello scrittore australiano Gerhard Murnane (The Fields) ed ammiro la sua opera, al momento sto leggendo i suoi romanzi.
8. Cosa consiglieresti a un giovane scrittore?
Ascolta te stesso, la tua voce interiore, non cosa dicono o pensano le altre persone. Se ottieni ottime recensioni o feedback di qualsiasi tipo, non lasciare che ti influenzi e influenzi il tuo modo di scrivere, e lo stesso al contrario, se ricevi risposta negativa, non dargli spazio o potere di alcun tipo.
A cura di F. P. F. e V. C.
Jon Fosse è uno dei più importanti scrittori viventi. Forse non dei più conosciuti, ma questo è un altro discorso. Nato nel 1959 in Norvegia, vive nel Grotten, una residenza del 1823 datagli in affido dal re di Norvegia per i suoi meriti in campo letterario. Dal 1983 i suoi lavori sono apparsi in tutto il mondo, tradotti in oltre 40 lingue, le sue opere teatrali attualmente rappresentate più di 1000 volte, ha pubblicato romanzi, saggi, libri per bambini, poesie, sonetti. Gli abbiamo chiesto della prima parte di Settologia, uscita lo scorso anno per La nave di Teseo. Settologia è la sua prosa finora più imponente: 1500 pagine, divise in sette parti raggruppate in tre volumi, di cui finora in Italia è uscito solo il primo, tradotto in italiano da Margherita Podestà Heir col titolo L’altro nome.
Margherita Podestà Heir vive a Oslo dal 1994. Ha tradotto al momento oltre sessanta opere letterarie, in particolare dal norvegese, ma anche dallo svedese e dal danese. Tra gli scrittori contemporanei più importanti: Karl Ove Knausgård, Vigdis Hjort, Jon Fosse, Jostein Gaarder e Jonas Jonasson.
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