Lettera aperta ai lettori

di Michela Dentamaro

«I lettori non sono scomparsi, basta andarli a cercare»

André Schiffrin

«È cosa detta più volte, che quando decrescono negli stati le virtù solide, tanto crescono le apparenti».

Giacomo Leopardi

«Le donne, nell’adoperare la penna sono diventate guerriere;

hanno da combattere battaglie sociali; da vendicarsi;

da denunciare (ecco la grande parola);

da mettere avanti qualche alibi;

e soprattutto da legittimare, nero su bianco, l’aspirazione alla loro libertà».

Gianna Manzini

Care lettrici e cari lettori,

colgo questa gentile occasione che mi è stata offerta per scrivere una lettera aperta a voi e raccontarvi un’esperienza editoriale e i retroscena che ne conseguono e ragionare insieme sullo stato attuale del settore dei libri contemporaneo.

Sette anni fa ho fondato Rina edizioni, casa editrice, etichettata come indipendente, il cui progetto si occupa di scegliere e recuperare i testi di scrittrici italiane dalla fine dell’Ottocento a gran parte del Novecento e di scrittrici straniere inedite in Italia o a margine della letteratura internazionale. L’intento è quello di preservare e presentare il percorso identitario, intimo, sociale e politico intrapreso dalle scrittrici che, seppur molto diverse tra loro, coesistono in un contenitore letterario che diffonde le loro opere e si impegna a restituirle al panorama contemporaneo.

Il progetto di Rina fonde insieme lavoro editoriale e ricerca letteraria, scava nel passato per ricostruire una memoria e sensibilizzare una coscienza critica sul grave processo di rimozione della presenza delle scrittrici nella storia della letteratura, soprattutto in quella italiana. Emarginare e rinnegare la loro presenza vuol dire amputare l’altro sguardo, quello femminile, la prospettiva e la percezione da un’intera nazione e rendere monca la sua identità. Questo impegno coinvolge tutti in un atto di responsabilità verso noi stessi, per i movimenti di emancipazione e inclusione a cui crediamo di aderire e di portare avanti per migliorare la nostra società, per contrastare il patriarcato interiorizzato di cui siamo vittime e per educarci a un altro sentire.

Recentemente riscoprire e occuparsi di donne è diventata una tendenza editoriale ‒ e non solo ‒, un’operazione che fortunatamente sta rimettendo sul mercato molti testi scomparsi come le loro autrici, ma ciò che ci dobbiamo chiedere è come lo stiamo facendo e a quale scopo. Che sia per cavalcare una moda? Per sentirci a posto con la coscienza e garantire una condizione di parità e uguaglianza anche in letteratura? Per garantire un femminismo liberale così da conformarci all’intellighenzia engagé? Ma quanto durerà prima di dover ricominciare tutto da capo tra quarant’anni?

Il pregiudizio e la diffidenza nei confronti dei testi scritti da donne sono molto diffusi; se la casa editrice che le pubblica non è un marchio conosciuto hanno meno valore, tra voi lettori meno che tra gli editoriali, se poi sono italiane e non straniere si rischia ancora di più ‒ fatta eccezione per le solite note, soggette a una ciclica promozione e riabilitazione di massa ‒, così come se non si confeziona il libro facendolo introdurre e quindi (ri)battezzare da un nome conosciuto.

Se ci riflettete per un momento è paradossale che nel nostro paese le persone conoscano un numero maggiore di nomi di scrittrici anglosassoni – pronunciati più correttamente – di quelli di scrittrici italiane: sono citate nei discorsi dai più impegnati a quelli da bar, sono inserite nei programmi scolastici, quindi si studiano a scuola, trattate con un po’ più di considerazione rispetto alle colleghe italiane relegate invece nei riquadri, schede di approfondimento o paragrafi di curiosità all’interno dei manuali di storia della letteratura. Sono scrittrici, quelle straniere, su cui si organizzano conferenze, rassegne, gruppi di lettura, su cui si scrivono articoli, che va bene – intendiamoci, il valore letterario va al di là di qualsiasi appartenenza geografica, culturale, identitaria – però introdurre qualcosa di nuovo, di poco conosciuto, che farebbe parte della nostra identità potrebbe stimolare diversamente la conoscenza, l’intelligenza e la sensibilità e aiuterebbe a conoscerci meglio, no?

Forse no, ma la butto lì, non resta che stoicamente guardare avanti, magari verso altri orizzonti.

Lo stesso discorso, quello di introdurre nuovi approcci, andrebbe fatto meno teoricamente ma più concretamente rispetto al sistema davvero contorto che rende il mercato editoriale un universo di commercio e comunicazione a sé, con peculiarità bizzarre che lo differenziano dalle altre attività produttive. Il libro è un oggetto nobile, sì, ma è anche il frutto, o meglio il prodotto, di un investimento di denaro e di lavoro, e alla fine si inserisce anch’esso in un mercato commerciale.

In sé per sé fondare una casa editrice, se non si hanno un capitale consistente da investire, molte conoscenze e grandi velleità, non è un’operazione complicata o molto diversa dall’avviare un’attività in proprio; si crea un marchio, lo si registra in camera di commercio, si istituisce una forma giuridica consona al tipo di investimento, al numero di lavoratori e di obiettivi da raggiungere, si decide che tipo di prodotto creare – in questa sede non approfondiremo il discorso sulla filosofia che ogni editore può avere rispetto alla realizzazione della sua linea editoriale etica ed estetica – e soprattutto ci si avvale di un bravo commercialista! Quello che poi si scopre una volta entrati nell’ambiente è uno scenario sorprendente, in peggio.

Per esempio, fin da subito Rina si è affacciata al mercato editoriale senza avere una distribuzione, secondo una presa di posizione molto discussa all’esterno, sia per i costi a dir poco elevati di questo servizio e il conseguente debito che matura, sia soprattutto per la costrizione che dipendere dal distributore genera in fatto di produzione. Provo a semplificare e chiedo scusa a chi ha già noto il processo: il ruolo di mediazione che il distributore – molto spesso anche promotore – ricopre regola il funzionamento del mercato editoriale tra case editrici e librerie che siano di catena o indipendenti. Una volta ricevuti gli ordini dalle librerie di un titolo che l’editore affida alla distribuzione, quest’ultima paga all’editore la quota di prenotato (non di vendita) scontata, allo stato attuale è il 60% sul prezzo di copertina, per poi rivendere il titolo ai librai, i quali se il libro non vende possono renderlo e quindi scambiarlo con liquidità. La resa però, un tempo prenotato, ricade sull’editore che dovrebbe restituire i soldi ricevuti in precedenza sottraendo le copie che sono rientrate. Per ripagare il distributore ciò che spesso accade è uno scambio con novità invece di soldi, quindi più produci più vai a coprire il tuo debito. A tutto ciò si aggiungono i costi di magazzino e della mobilitazione delle copie.

Se regolarsi e decidere sul debito rende dipendenti, mi chiedo allora come si fa a definirsi davvero una casa editrice indipendente? Si dipende dalla distribuzione, il cui effetto strozzinaggio ramificato manda in corto la (sovra)produzione intellettuale e il catalogo delle case editrici; si dipende dalle fiere, perché vige il motto «se non ci vai non esisti», e peccato che ogni anno di più l’aumento dell’affitto degli spazi, pagati al metro quadro come nel mercato immobiliare, e ulteriori servizi, è sproporzionato rispetto al guadagno; si dipende dai giornali, a cui molto sfugge ma se non ti recensiscono non vali; si dipende dalla tendenza a trovare in qualcuno, simpatico e influente, un capo a cui affidarsi e lasciarsi guidare; si dipende dalle relazioni con un contesto sempre più simile allo star system, che se ti inimichi stai pur certo che gli incubi delle ricreazioni alle medie torneranno a trovarti.

È un approccio dominante che oscilla tra rassegnazione e frustrazione, derivato anche dalla mancanza di una classe intellettuale che recentemente si è arenata, ha lasciato fare, si è piegata all’amichettismo e al posizionamento, a un imborghesimento, all’ipocrisia e al perbenismo, scollata dalla realtà, indifferente, individualista, superiore, che ha rinunciato a dialogare con la massa dei lettori e a continuare a proporre libri “difficili” per costruire e rinnovare una coscienza critica e politica. È stata silenziata la voce della popolazione, è venuto meno il dibattito e di conseguenza i libri non impattano più così tanto il discorso sociale, economico e politico.

È necessario immaginare nuovi spazi, nuovi contenitori e soprattutto nuovi approcci più congeniali a un’editoria artigianale e ai bisogni delle entità che ci lavorano, senza piegarsi alle regole del monopolio e della plutocrazia, e uso questo termine non a caso perché quello che succede o sta succedendo in politica si riversa in tutti gli altri ambiti in modo verticale, e perché nel settore editoriale sta avvenendo da tempo che pubblicare un libro e avere il controllo del mercato che ne regola la sua diffusione, tra informazione, comunicazione e stampa è di fatto un’azione e più ampiamente una manovra politica. Del resto. uno dei più grandi e influenti marchi editoriali, titano per raggruppamento di altre aziende nel settore, è di proprietà di Fininvest. Ma come scrive André Schiffrin: «Non affermerò che l’editoria è sempre stata, in passato, libera da pressioni politiche».

«Quando gli uomini sembrano essere più portati a confondere la saggezza con la dottrina e la dottrina con l’informazione, e a cercar di risolvere i problemi della vita in termini d’ingegneria, sta sviluppandosi una nuova forma di provincialismo che forse merita anch’esso un nome nuovo. È un provincialismo non di spazio, ma di tempo»[1] e per non cadere in questa trappola è necessario sforzarsi per superare le conseguenti ristrettezza di visione, cecità progettuale e mancanza di prospettiva e ripararsi da una vocazione globale che costringerà chi non vuole essere provinciale a farsi eremita.

È necessario e doveroso, mai come in questo momento storico, per chi opera nella cultura ridestarsi e ripensare, con uno sguardo al secolo scorso, il ruolo dell’editore e quindi del progetto che è alla base della casa editrice. È necessario riequilibrare la tendenza indiscriminata verso il profitto e l’appiattimento con la scelta di proposte più intellettuali e culturali per migliorarne le condizioni. Come abbiamo visto, scegliere di pubblicare un libro sarebbe un atto politico, di impegno e responsabilità verso i lettori.

È necessario chiedere più sostegno alla cultura, selettivamente, a uno Stato che apparentemente non esiste, almeno per il settore editoriale, che non si mobilita mai a differenza di altri settori per rivendicare e preservare la propria indipendenza culturale.

È necessario raggiungere concretamente uno stato di unione tra piccoli editori, con le librerie indipendenti, istituti scolastici e universitari, biblioteche, municipi, attraverso la collaborazione, il confronto e la cooperazione per cercare di affiliare nuovi lettori e insieme lottare per la sopravvivenza. E se si combatte per sopravvivere perché aderire alle logiche dei grandi e non contrastarle?

Bisognerebbe – come rifletteva Luce Fabbri – «portare l’umanità su un altro piano mentale e su un altro terreno di lotta (il piano mentale della libera solidarietà, il terreno di lotta fra tutti gli oppressori e sfruttatori da una parte ‒ e ce n’è di “destra e di “sinistra”, di “imperialisti” e di “comunisti” ‒ e tutti gli oppressi e sfruttati dall’altra). Per fare questo bisogna liberare noi stessi e gli altri dalle frasi fatte e dagli slogan che minacciano di condurre su opposti campi di battaglia ‒ per servire interessi non più tanto nazionali, ma di gruppi e caste sotto velo ideologico ‒ esseri umani che hanno le stesse aspirazioni e gli stessi bisogni»[2].

Invece dell’indignazione e della protesta, la tendenza allo stato attuale è quella di soccombere in silenzio e con pavidità alle imposizioni degli altri e farsi guerra tra di noi.

Nel suo diario Piero Gobetti scriveva: «Il centro della crisi del libro dunque è la crisi dell’editore. In Italia non si crede all’editore. Quasi tutti gli editori sono tipografi e librai[…] Se il discorso si riferisce soltanto all’Italia, l’Italia non ha crisi libraria: voglio dire che la produzione non è diminuita né peggiorata in confronto ad altri periodi della nostra storia intellettuale. La crisi è sempre esistita e continuerà ad esistere se si paragona la qualità e la quantità della nostra produzione editoriale con quella di altri paesi civili […] La verità è che paragonata colla cultura europea moderna l’Italia manca di autori, di editori, di librai, di pubblico»[3]. Alla luce di questi frammenti devo ammettere che molte cose sono cambiate, anche in meglio, tuttavia la sostanza del discorso ruota intorno alla mancanza del ruolo dell’editore come creatore di un orientamento politico, intellettuale, culturale e del malfunzionamento del sistema imperante in un tempo, come direbbe Leopardi, nel quale i libri si stampano per vedere e non per leggere[4].

L’argomento è lungo e complesso, sarebbe bello sapere cosa ne pensate, la percezione e la prospettiva da lettori di un mondo come quello editoriale che si mostra spesso patinato da tante manifestazioni contrastanti ma che fa parte di una partita che ci riguarda tutti.

Michela


[1] T.S. Eliot, What is a Classic?,1944

[2] Luce Fabbri, Critica dei totalitarismi, a cura di Lorenzo Pezzica, Eleuthera, Milano, 2023.

[3] Piero Gobetti, L’editore ideale, Vanni Scheiwiller, Milano, 1966.

[4] Giacomo Leopardi, Pensieri, Feltrinelli, 1994. Cfr. anche Zibaldone, 4268-4272: «Molti libri oggi, anche dei bene accolti, durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli. Se poi si volesse aver cura della perfezion dello stile, allora certamente la durata della vita loro non avrebbe neppur proporzione alcuna con quella della lor produzione; allora sarebbero più che mai simili agli efimeri […]».

Su “Arca di Noè” di Gianna Manzini

Nota di lettura a cura di Eleonora Negrisoli.

Nella primavera di quest’anno Rina Edizioni ha ripubblicato Arca di Noè, raccolta di racconti di Gianna Manzini ormai da decenni fuori catalogo. I racconti erano già, in parte, apparsi in Animali sacri e profani (Casini, 1953), ma trovarono la loro versione definitiva nell’edizione Mondadori del 1960, con il titolo Arca di Noè.

L’operazione editoriale di Rina sembra collocarsi entro due tendenze critiche ben precise. La prima riguarda il recupero di autrici dimenticate o escluse dal canone letterario, a cui la critica e l’editoria italiana e internazionale stanno finalmente dedicando crescente spazio. Rina Edizioni, appunto, nasce con questo esatto obiettivo, come ci ricorda il Manifesto posto in calce a tutte le pubblicazioni della casa editrice. Riscrivere la storia letteraria si configura come azione necessaria per restituire voce a chi è stata tolta e, quindi, per guardare al contemporaneo da un altro punto di vista, adottando una stortura imprescindibile per la comprensione della sua complessità. Cambiare postura, dunque, ma anche cambiare forma: per stare dentro questa complessità occorre assumere una struttura rizomatica. Si assiste infatti – ed ecco la seconda tendenza – a una crescente ibridazione dei saperi. Tra le varie relazioni possibili – con i femminismi, la teoria queer, gli studi postcoloniali, e così via –, la critica letteraria stabilisce connessioni anche con l’ecologia e gli animal studies. E qui arriviamo a Gianna Manzini, che in tempi non sospetti aveva scritto di animali[1] attraverso uno sguardo inconsueto.

Benché i racconti dell’Arca di Noè riflettano una prospettiva antropocentrica e specista (implicita nella forma mentis novecentesca), il continuo riferirsi in modo didascalico a certe pratiche umane che violano la soggettività animale – ad esempio la caccia, la pesca, la sperimentazione scientifica – provoca nel lettore la sensazione dello straniamento. Questo meccanismo narrativo riesce a decostruire la percezione automatizzata che ci abitua a considerare gli animali proprietà dell’umano. È normale, leggendo Manzini, domandarsi che effetto faccia a una trota moribonda giacere su un piatto, oppure pensare alle gabbie dello zoo come prigioni, o ancora definire l’invenzione del cappone sopruso e delitto: è la narratrice-autrice a dichiararcelo. Il suo sguardo si posa sugli animali con interesse quasi scientifico, nel tentativo di comprendere i gesti di creature vicine ma sconosciute: «che festa,» – scrive in Il mio bestiario, prefazione alla raccolta – «sapere esattamente, con precisione, in tutte lettere, che cosa vuol significare un’ala quando appena si solleva e si ricompone serrandosi»[2].

Nei racconti la relazione tra umano e animale si consuma quasi interamente nello sguardo (John Berger, parecchi anni dopo, scriverà Perché guardiamo gli animali?), ed è attraverso quella osservazione che la scrittrice individua nel legame con gli animali «qualcosa di più vasto e segreto»[3]. Essi sembrano custodi di un qualche sapere iniziatico, di un oltre a cui in pochi, capaci di incanto e compassione, possono accedere: «ecco che, non si sa come, un granello di vita ignorata vien proiettato di sorpresa al centro di una splendente emozione. Queste fortune capitano di rado; a me, di tanto in tanto con gli animali. Fortune; non arbitrii coscienti; non invenzioni»[4]. Manzini intuisce nell’alterità animale la possibilità di aprirsi a una verità nascosta, a un mistero di cui queste creature, seppur attraverso il silenzio, si fanno messaggere.

Emilio Cecchi aveva definito Manzini animalista[5], e questo ci dice molto sull’originalità che la sua scrittura deve aver rappresentato per la letteratura italiana. Tuttavia, il rischio di sovrainterpretazione è molto alto: nell’Arca di Noè non c’è un messaggio politico esplicito, né è facilmente desumibile come invece in altre opere sul tema animale. È però indubbio che in questo bestiario l’esistenza animale venga riconosciuta al di là di quella umana, invertendo automaticamente la tendenza che ci ha abituato a considerare gli animali oggetti da asservire. Manzini non esorta a adorare gli animali, né proteggerli, ma mi sembra significativo concludere con la potente metafora contenuta nel penultimo testo della raccolta, Il sangue del leone. La protagonista fa un sogno ispirato a un episodio agiografico, rappresentato su una sua vecchia cartella da scrivere: San Girolamo si reca nel deserto, dove resta per tre anni. Qui, un giorno, arriva un leone che mette in fuga quasi tutti i monaci. Girolamo rimane e, riconoscendo nella zampa del leone una spina, gliela leva e cura la ferita.

L’immagine a cui probabilmente Gianna Manzini fa riferimento nel racconto Il sangue di leone: Giovanni di Paolo (Siena, 1403-1482), San Girolamo medica la zampa del leone, 1436, 44,5 x 32 cm, Archivio di Stato di Siena.

[1] Per comodità, da ora in avanti con il termine “animali” ci si riferirà a tutti gli animali non-umani.
[2] G. Manzini, Il mio bestiario, in Arca di Noè, Rina Edizioni, Roma 2023, p. 8.
[3] Ivi, p. 6.
[4] G. Manzini, Pascolo a Carbonin, in Arca di Noè, cit., pp. 141-142.
[5] Cfr. E. Cecchi, Manzini animalista, in Letteratura italiana del Novecento. Vol. 2, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1972, pp. 926-928.