Sesso, droghe, marginalità ed esistenze antiborghesi: sono questi gli ingredienti narrativi dell’opera d’esordio di Jacopo Iannuzzi. Edito da Einaudi nel 2024, White people rape dogs (d’ora in poi WPRD), potrebbe sembrare un romanzo della beat generation. Anche lo stile ne conserva gli echi, con il suo lessico concreto e colloquiale, la sintassi secca, gergale, a volte scomposta. Parole e immagini evocano un contatto diretto con l’accumulo disordinato e assurdo della realtà con cui i personaggi vogliono lottare, straziandola o essendone straziati. Il romanzo poggia su un’architettura episodica scandita da quattro capitoli, più uno di conclusione, al centro dei quali viene inquadrato ogni volta uno dei personaggi che fa parte della vita di Remo, io narrante e alter ego dell’autore.
Tra le strade di una cittadina di provincia senza nome, Remo incontra Gioia, studentessa di moda e creator su OnlyFans, inquietante e melliflua come una strega, ma soprattutto portatrice di una vitalità libera e ctonia di cui lui non riesce mai veramente a mettere a fuoco i contorni. Nonostante l’intensità con cui comunicano, infatti, il loro rapporto si conclude con la partenza di lei. L’incontro tra i due avviene fortuitamente per merito di Jem, l’amico più stretto di Remo e anche quello più incasinato, impegnato com’è a cercare una via d’uscita tra spaccio, sex work e piccole rapine. A completare il quadro ci sono Pingu, una specie di Mitridate delle anfetamine con l’hobby del collezionismo di ossa, e Franco, aka Francoboy, che fa consegne per la Coop e cospira segretamente per rovesciare il sistema.
Per quanto ognuno possegga una personalità ben definita, i personaggi sono strettamente accomunati dall’ambizione alla fuga dalle convenzioni della società borghese. Al termine del secondo capitolo, dopo aver fatto soldi in un modo che in fondo lo turba, Jem si lancia in un monologo contro la società conformista e sedata, contro la massa di coloro che seguono legge e morale come «cani artificiali abituati alla catena» (p. 61), mentre lui è, con le sue parole, un leprotto che scappa lontano. L’immagine del leprotto, scelta non a caso per la copertina, rappresenta in modo fulminante la risultante delle tensioni che animano il romanzo e l’identità autentica di tutti i personaggi.
Di tutti, ma non di Remo. Perché Remo non se ne va davvero come Gioia, non spaccia come Jem, non ruba i gioielli alla madre per farsi come Pingu, non fa parte di un gruppo terroristico come Francoboy. Remo prende la naspi, ogni tanto sogna di partire, di intraprendere il suo viaggio in fuga dalla società e alla scoperta di se stesso, ma alla fine rimane dove sta. È amico dei personaggi, partecipa alle loro avventure, ma non prende mai veramente l’iniziativa. Mentre gli altri si arrabattano, sostenendo disagi e angosce, esplorando in qualche modo la vita come la intendevano Kerouac e Burroughs, lui si fa trascinare: non è mai il motore dell’azione. In realtà Remo è poco più di un osservatore, e il suo stesso corpo porta i segni di questa impotenza. Per due volte le sue mani, la parte più rappresentata, vengono ferite, e altre due volte il protagonista viene mostrato nell’atto di ritrarle, per di più da un contatto con Gioia. Lui stesso, d’altra parte, le chiama «le mie mani sterili» (p. 23).
Questa passività dell’io narrante innesca una dinamica pornografico/voyeuristica di secondo grado, per cui chi legge osserva il protagonista che osserva. Di conseguenza, i fatti narrati prendono la forma di uno spettacolo di intrattenimento, al contempo vividi ma lontani, intensi ma bidimensionali, di fronte ai quali chi legge è consapevole e gode del suo ruolo di spettatore. Perché il vero focus è in realtà tutto all’interno e, piuttosto che i fatti narrati, sono le intuizioni poetiche e i monologhi riflessivi a fungere da punti di convergenza del libro. Remo diventa davvero protagonista solo quando pensa.
Del resto, che la scrittura funzioni solo secondariamente come rappresentazione dell’esperienza immediata, è testimoniato anche da elementi metaletterari che mostrano una chiara verve giocosa, già a partire dal titolo. L’asserzione “White people rape dogs”, infatti, pare rivolta a criticare la grottesca perversione dell’occidente bianco ma, per ammissione dello stesso autore, è in realtà stata reperita casualmente tra i commenti di un video su youtube e scelta a prescindere dal suo significato. Un discorso simile vale per le «scarpe da skate modello X Wing» (p. 20) con cui Remo si presenta a casa di Gioia, che ovviamente non esistono ma sono un inaspettato e (piacevolmente) gratuito riferimento a Star Wars.
Ma l’elemento narrativo più significativo a questo proposito è quello del drift. Le sostanze sono il tema più presente nel romanzo: le cannette sono una costante, ma anche funghetti, bamba, ketamina e altri analgesici vantano una discreta presenza. La precisione dei riferimenti, inseriti in contesti rappresentati in modo realistico, invita chi legge a prendere la narrazione sul serio, come resoconto ragionevolmente fedele di fatti realmente accaduti. La sostanza che domina, sia in termini di occorrenze che riguardo al peso specifico delle scene in cui compare, è proprio il drift. Stando al libro, si presenta per lo più in cristalli incolore, più raramente anche in forma liquida, e il suo effetto pare avere caratteristiche accostabili all’anfetamina, all’mdma e alla dmt. Si tratta, purtroppo, di uno stupefacente inesistente, eppure non è nemmeno una completa invenzione di Iannuzzi. Non so se ci sia un filiazione diretta, o se una trama oscura di rapporti letterari lo abbia portato fino a questo libro, ma il drift appare in un racconto pubblicato sul subreddit r/nosleep (qui) nelle vesti di una droga inizialmente paradisiaca, con effetti simili a quelli descritti in WPRD, ma che si rivela presto un raccapricciante strumento di morte. Sembra insomma che l’autore abbia voluto conquistare chi legge con il suo scabro realismo, per ottenere la libertà di inserire surrettiziamente non dei dati falsi, che sarebbe stato banale, ma delle particelle di puro gioco letterario.
È chiaro che al giudizio dato all’inizio serva una correzione. White people rape dogs sembra un romanzo della beat generation, ma a quell’esistenzialismo ribellistico, immediato e fenomenologico, aggiunge un layer di decostruzione psicologica e metaletteraria che lo arricchisce del fascino dell’ambiguità, e ne fa un’opera che merita di essere letta.