Di amore si parla troppo e si scrive troppo poco. È nello spazio d’ombra tra l’eccesso e il difetto di discorso teorico, però, che le nostre relazioni prendono forma, ci riempiono il corpo, ci accendono la testa. Ed è nel campo sterminato di lemmi e immaginari che ci siamo voluti muovere affinché una lunga sessione di chiacchiere assumesse le sembianze di una teoria dell’amore. Impropria, sfilacciata – ma fa quello che fa una teoria: campiona l’esistente e prova a osservarlo.
Abbiamo discusso di dating app a partire dalla variabile ‘tempo’; della sanificazione procedurale delle relazioni; della scomodità del desiderio, argomento così in vista sulle bocche di tutti che mostra facilmente il suo lato di tabù.
Il nostro punto di partenza è La rosa più rossa si schiude, la graphic novel di Liv Strömquist uscita in Italia per Fandango nel 2021. Il testo è l’insieme di una serie di teorie sull’amore che, prendendo a riferimento principalmente Byung-Chul Han, Eva Illouz e Slavoj Žižek, si interrogano su come la società contemporanea rimuova l’idea dell’amore come sentimento assoluto, pervasivo, a volte distruttivo, e su come alcune dinamiche imposte dal nostro sistema sociale ed economico contribuiscano a questa rimozione.
App di incontri, economia del tempo
Fabio: Non ho mai usato le dating app perché ho sempre pensato che comportino un grande investimento di tempo che perlopiù non conduce a nulla. Mi sembra una continua ricerca come se fossi dentro un supermercato. Tu, quando le hai usate, cosa cercavi?
Silvia: Un incontro di natura non predeterminata – e con questo intendo dire che è possibile che non sia aprioristicamente nitido ciò che si cerca.
F: Al contrario, alcuni amici che vivono negli USA mi hanno raccontato che lì l’uso delle app è finalizzato al sesso, qui rimane come più diagonale. Sarà che negli USA il capitalismo è più compiuto e hanno introiettato lo scopo originario delle app, ovvero fare economia delle relazioni…
S: È anche un’economia del tempo, per la verità un po’ paradossale: venendo meno molte occasioni di interazione sociale, le app incanalano il desiderio e massimizzano il tempo dedicato agli incontri; d’altra parte, è necessaria molta attività sull’app prima che tu abbia un appuntamento.
F: Mi chiedo, allora, come le usano persone che hanno una routine di lavoro scandita. Immagino si manifesti quasi un obbligo, per far sì che l’attività sull’app funzioni, a dedicare delle sessioni predeterminate per cercare un appuntamento. Mi sembra che sia lo strumento stesso che utilizziamo per cercare le relazioni a determinare il modo in cui lo facciamo.
S: E tuttavia è uno strumento che, in qualche modo, ti lascia credere di poter sconfiggere l’entropia degli incontri casuali: quante serate fuori con gli amici devo fare, quante cene da single, quanti corsi di ceramica per trovare qualcuno? Una volta finita l’università, le possibilità di incontro si diradano, i corpi sociali intermedi sono scomparsi; da parte sua, la app ti dice: “Spendi pure del tempo su di me e qualcosa succederà per forza”. Mi sembra che Strömquist colpevolizzi chi entra nel mercato delle app senza tenere in conto i reali modi di produzione dell’amore oggi, le condizioni materiali per cui le app fanno presa: non tutti abbiamo le occasioni, le attitudini, le realtà da vivere che ci facciano incontrare persone in modo autentico e inaspettato. L’idea di amore puro che ha lei – fulminante, estremo, assoluto – ha i suoi tempi, che possono essere a lenta ebollizione. Io direi che, proprio per il modo in cui viviamo, il tempo è la cosa che più in assoluto ci manca ma è anche quello che serve per conoscere l’altro.
F: Paradossalmente, l’unico modo per evitare le controindicazioni delle dating app – ad esempio un incontro sgradevole – sembra sia rimanere dentro la logica delle app stesse: dare un tempo predeterminato all’altro, fuggire se necessario.
Sono d’accordo con te quando dici che Strömquist ignora le condizioni materiali che determinano le “leggi sociali” del sentimento amoroso: nel libro leggo una teoria assoluta dell’amore, ma non sono sicuro che l’amore sia ascrivibile a delle categorie eterne, astoriche. Una volta si impazziva per amore, oggi ci si deprime – abbiamo canoni relazionali diversi e quindi anche patologie diverse connesse a questi canoni.
S: È facile tracciare una serie di motivi per cui oggi possiamo amarci diversamente rispetto al passato: la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, l’emancipazione femminile. Cioè, queste cose le sappiamo già, sono assodate.
Invece, mi incuriosisce molto di più la questione della patologizzazione dell’amore: ad oggi, si può impazzire per amore o, come dicevi tu, è più probabile che ci si deprima?
F: Se ci pensi, oggi rifiutiamo di stare così male. Se io ti dicessi che sono depresso per amore, tu mi consiglieresti di andare in terapia. Mi chiedo quanto accettiamo socialmente la degradazione d’amore. A leggere razionalmente certi romanzi di Walter Siti, ad esempio, alcune persone penserebbero che il protagonista dei suoi romanzi, come persona desiderante, è un caso clinico da manuale, ad esempio nel modo in cui annulla sé stesso per assecondare le ambizioni e le dipendenze di Marcello in Troppi paradisi.
Amore sano, sanificazione dell’amore
S: Questo è il secondo nodo: la sanificazione dell’amore. Tornando a Strömquist: questa visione dell’amore come elemento dirompente, che sovverte l’ordine e sconquassa l’ego, forse mi piace proprio perché è in netto contrasto con il discorso pubblico sull’amore sano e non tossico. Mi sento a disagio, ovviamente, con l’amore pericoloso che ti ammazza ma anche con quello per forza sano, dove si verbalizza tutto.
F: Da una parte mi sembra che clinicizzare i rapporti ci inserisca in delle dinamiche che non hanno a che fare con la vita reale. D’altro canto, esiste ancora oggi un modo di amare possessivo che alcune persone rivendicano: mi viene da pensare alla romanticizzazione del malessere – inteso come appellativo per una persona possessiva, tossica e che, più in generale, adotta comportamenti disfunzionali in una coppia – che si contrappone alla rimozione della gelosia e del possesso da parte della classe media riflessiva. C’è una canzone di Fabiana, un’artista pop napoletana, che recita: «Troppo educato non mi interessa/ ca port ‘e rose nun ce vaco appriess/ Voglio che viene con la motocicletta/ sott’ o balcone pure all’una ‘e notte/ ca fa ‘o geluso pure annanz a gente se n’ato me vo guardà/ mi piace ‘o malessere».
Possiamo davvero eliminare il dolore e clinicizzare l’amore per stare bene? E quando questo non succede, dobbiamo sentirci in colpa?
S: Non credo che sia possibile sanificare completamente l’amore. Mi chiedo però: qual è un dolore costruttivo per cui sia sensato rimanere dentro la coppia, e quale uno che dovrebbe funzionare come una spia, un allarme per allontanarci da una data situazione? Quali sono i dolori sopportabili e abbracciabili, e quali no?
F: Non so quale sia il confine, so solo che alcune persone dicono di non volere una relazione perché non vogliono stare male: non lo capisco, il dolore mi sembra consustanziale all’amore. Mi sembra che la sanificazione dell’amore sia diventata anche content per chi lavora con i social. Siamo bombardati da post, reel e video – non di rado finalizzati a vendere qualcosa – che promuovono un’idea specifica di amore “sano”, che mi sembra il contenuto masticato e digerito di teorie femministe ben più radicali e complesse.
Riceviamo costantemente messaggi di influencer e influattivist* che ci spiegano come amare e come desiderare, ma mi sembrano discorsi slegati dalla realtà: da una parte proprio perché hanno spesso un secondo fine; dall’altra nella misura in cui le teorie del ceto medio riflessivo, spesso, non sono espandibili perché, al di fuori del proprio contesto di classe, pure le condizioni materiali in cui ci si ama vengono a essere diverse.
S: E se dicessimo quasi una bestialità – ovvero che forse che le dating app e le influencer finiscono con l’igienizzare i rapporti in modo similare, dando alla relazione un assetto di linearità e di proceduralità che sottrae dall’incontro ciò che di bello c’è? C’è un aggettivo greco che secondo me simboleggia bene cosa sia un incontro amoroso, e questo è un termine polisemico: δεινός (deinos) che si traduce con ‘tremendo’ ma anche ‘fascinoso’, ‘terribile’, ‘travolgente’… ?
Se abbiamo in mente un concetto forte di amore – e cioè che in qualche modo il suo senso cada nei pressi della parola δεινός –, le procedure delle influencer di Instagram e le dating app sono agli antipodi di uno stesso spettro dei modi in cui non vogliamo parlare di amore – e dei modi in cui non vogliamo amare.
Ciò che è sano, ciò che è desiderabile
F: Qui tornerei alla questione originaria, ovvero: quanto e come cambia nel tempo il modo di amare. Mi sembra che, tra le righe, Strömquist suggerisca qualcosa di più incisivo di quanto riesca a esprimere apertamente: e cioè che l’amore assoluto, potente e annichilente non è una cosa brutta.
S: Su questo, idealmente mi piace pensare di essere pronta per l’amore disordinato che mette a repentaglio il proprio ordine ma nel commentare le storie d’amore mi ingabbio da sola nella lingua rimasticata della diade sano-tossico. Forse il discrimine è tra soffrire a causa dell’altro o soffrire perché la relazione, per motivazioni esogene/endogene ma che fanno capo alla relazione stessa, non funziona? O già questo distinguo mi fa ricadere in quella grammatica di sanificazione? Quand’è che il dolore è giusto? Mi rendo conto che messa così è quasi una domanda puritana…
F: Secondo me quando rientra in dei codici prestabiliti. Mi sembra evidente che non esista un dolore “giusto”, ma credo che possa esistere un dolore, in qualche modo, non dannoso. Per portare questo discorso su un piano individuale, credo sia sempre necessario distinguere tra un comportamento abusante e uno che non lo è per capire se una relazione sia o meno “sana” al di là del dolore che ci provoca: quando nessuno dei due si comporta male in una coppia ma comunque si soffre, tendiamo fin troppo spesso a dire che quel rapporto deve concludersi – ma io non la penso così. Non so quanto spesso accettiamo di abitare il dolore che ogni relazione comporta.
S: Per me è anche una questione delle parole che usiamo. Possiamo stare fuori dalla grammatica psicoterapeutica, ad esempio? Se le parole che continuiamo a usare influenzano, anche in minima parte, le nostre strutture mentali, quali termini alternativi possiamo adottare per parlare di relazioni, considerando che “sano” e “tossico” stanno diventando sempre più usurati e polarizzanti?
F: Secondo me, il discrimine risiede nel concetto di desiderabilità – e qui arriviamo al terzo nodo. Pensando alle relazioni di altre persone, mi capita chiedermi se, per me, quel rapporto sia o meno desiderabile. Ma è possibile desiderare una relazione senza desiderare quella persona? Come molte cose che ci fanno male sono assolutamente desiderabili, ci sono amori assolutamente indesiderabili (noiosi, svilenti, degradanti) che a qualcuno fanno bene.
Immagina una coppia di amici che, da quando stanno insieme, smettono di frequentare tutti. Per me quella relazione è assolutamente indesiderabile, ma non posso dire che non è sana se loro sono felici. Se la dicotomia sano/tossico riguarda lo Zeitgeist in cui siamo immersi – mettiamola così –, desiderabile/non desiderabile sono invece categorie assolute ed estremamente soggettive. Mi sembra che, a volte, sovrapponiamo ‘sanità’ e desiderio. L’estrema individualizzazione dei rapporti amorosi, che va dall’autoprofilazione – citando Strömquist – a una serie di teorie e metodi per sanificare ogni relazione, si riflette su ciò che è desiderabile, e questo ha anche un riflesso di classe. Il ceto medio riflessivo ha stabilito benissimo per sé come classe ciò che è desiderabile e mi sembra voglia allargarlo anche a tutto ciò che non è sé stesso. Ma è davvero possibile farlo se esci dal tuo contesto? Inoltre, il puro desiderio spesso non è incasellabile, soprattutto quando è casuale, non canonizzato, disordinato.
S: Molte e molti di noi – credo – sono in una fase di stallo tra non volere l’amore tragico che ti fa a pezzi ma nemmeno l’amore totalmente sanificato. Esiste questa ambivalenza, secondo te?
F: Credo che in tante la viviamo, ma non so quanto la rendiamo un’azione trasformativa delle relazioni oggi. Siamo ancora nello stallo – è come se stessimo andando nella direzione sbagliata in questo momento e non possiamo fermarci, perché la nuova codificazione delle relazioni è troppo nuova per avversarla…
S: …Ovvero, non possiamo ancora dire realmente che non auspichiamo né relazioni di stampo patriarcale né quelle sottoposte alle procedure sanitarie – non possiamo, a meno di apparire almeno un po’ reazionari.