Tradurre poesia: un atto di amore?

Un’intervista a Bianca Tarozzi, a cura di Vassilina Avramidi e Elena Strappato

Mentre i countdown per le feste natalizie sono già iniziati, e tante finestrine dei calendari dell’avvento sono già state aperte, anche noi dell’Almanacco ritorniamo su alcuni dei momenti più belli che abbiamo condiviso durante il 2024. Ritorniamo alle giornate calde di giugno, quando abbiamo organizzato il Grisù Festival de Lo Spazio Letterario, in collaborazione con Porta Pratello e con la libreria indipendente Confraternita dell’Uva.

Con l’intervista a Bianca Tarozzi avvenuta durante il Grisù, si è chiuso un anno di lavori e collaborazioni sulla traduzione, e in particolare sul rapporto tra poesia e traduzione. Durante il 2024 abbiamo desiderato di incontrare traduttori e traduttrici per diversi motivi: certamente, per conoscere il punto di vista di chi traduce, considerandolo un punto di vista privilegiato, critico sul testo, ma anche per valorizzare il lavoro di chi traduce e per rivendicare il lavoro di traduzione come una forma di scrittura contemporanea.

Bianca Tarozzi è nata a Bologna e vive a Venezia. Ha insegnato letterature inglesi e angloamericane tra Verona, Venezia e Milano, e come traduttrice ha abitato la poesia americana, in particolar modo quella confessionale e i suoi nomi più rappresentativi come Robert Lowell, Sylvia Plath e Elizabeth Bishop. Ha tradotto anche la poesia di Emily Dickinson, A. E. Hausmann e Louise Glück, vincitrice del Premio Nobel del 2020. Come autrice e poeta, l’esordio di Bianca Tarozzi avviene con Nessuno vince il leone (Arsenale, 1988), una raccolta di riscritture al femminile dove ritroviamo, tra altre, figure note dalla mitologia greco-romana, come Arianna e Penelope. In questa intervista, Bianca ci racconta la sua esperienza in quanto traduttrice di due tra le opere più rilevanti di Louise Glück, Ararat e Meadowlands, in Italia pubblicate entrambi dal Saggiatore (2021 e 2023 rispettivamente).

Elena: Nel 2021, dopo la vittoria del Nobel di Louise Glück, il Saggiatore pubblica la tua traduzione di Ararat, che in realtà però è precedente; era già stata pubblicata nel 2012, in un numero monografico della rivista In forma di parole, curata da Gianni Scalia. In realtà, fino alla vincita del Nobel, Louise Glück era parecchio sconosciuta nel panorama italiano, a tal punto che giravano articoli dal titolo “Louise Glück chi?”… Considerando che tu provenivi da una poesia contemporanea americana come quella confessionale, e che la voce lirica di Louise Glück in qualche modo sfugge questa categorizzazione, vorremmo che ci racconti com’è avvenuto l’incontro con la poesia di Glück, e in particolare come sei arrivata a tradurre Ararat e Meadowlands?

Bianca: Partiamo dalla mia formazione in quanto americanista. Quando ancora frequentavo l’università a Venezia ho scritto una tesi su Robert Lowell, che penso sia l’unico o, meglio, quasi l’unico poeta americano che si occupi della storia americana, perché sia la Glück che altre importanti poetesse e scrittrici contemporanee nordamericane, come Mary Robinson e Anne Carson, non parlano della storia nella loro poesia. Lo stesso credo vale anche di molti poeti americani contemporanei. Ci sono, certo, alcune eccezioni, ma allora si tratta di newyorkesi, ebrei, che hanno una diversa consapevolezza della storia. Mentre dunque lavoravo su Robert Lowell ed Elizabeth Bishop, ho letto un libro della critica letteraria Helene Vendler, scomparsa recentemente, intitolato Part of Nature, Part of Us (Parte della natura, parte di noi), pubblicato nel 1980.[1] Lì, verso la fine del libro, c’era una parte dedicata sulla poesia di Glück. Allora ho pregato la mia sorella maggiore, filosofa che vive a New York, di farmi avere qualcosa della Glück. Quindi, per le vacanze di Natale del 1980, mi ha mandato proprio quel librino di Glück che Vendler aveva commentato nel suo grosso volume sulla poesia americana. A una prima lettura, mi è sembrato molto facile individuare le influenze di Glück. Già dalla prima poesia sua che ho letto, ho pensato a Silvia Plath, perché il suo verso era libero, drammatico, la tematica era gotica… aveva però un tema suo specifico, ed era quello – se vogliamo chiamarlo così – dell’anoressia. Louise Glück aveva avuto una formazione un po’ particolare: ha studiato alle scuole superiori, dopo però si è ammalata e ha avuto gravi problemi di salute (anoressia), come non ha seguito un curriculum “normale”, studiando, per esempio, in una facoltà di lettere. Quando dunque mi è arrivato questo libro, [n.d.r.: Descending Figure), io lo lessi con molto interesse, e pian piano che uscivano anche le opere successive, me le procuravo. Anni dopo, quando insegnavo letterature angloamericane all’Università di Verona, ho organizzato un convegno su Ulisse e Circe. A quel punto, Meadowlands, il libro in cui Glück riscrive in parte i personaggi di Ulisse, Penelope, Telemaco e Circe, era già uscito e lo conoscevo.

A questo punto occorrerebbe tornare un po’ indietro: già anni prima, quando facevo lezioni di poesia americana alla Ca’ Foscari, per il Novecento partivo da Ezra Pound e dal suo poemetto Hugh Selwyn Mauberley (tradotto in italiano da Giudici), dove Ulisse diventa l’emblema del poeta novecentesco. Dopo Pound, anche Lowell, sul quale io avevo fatto la tesi, ritorna sul personaggio di Ulisse, per rappresentare la sua storia biografica, esistenziale: nella sua poesia Penelope era la maschera per la seconda moglie, Circe per la terza. Bisogna dire di Lowell che tutte le sue mogli sono state scrittrici, romanziere o critiche letterarie – almeno su questo direi che abbia rivelato un certo buon gusto! La sua versione però di Ulisse e Circe è tremenda: la sua era una maga aristocratica, dell’ Atlanta del nord, che si, scriveva romanzi, ma era di una famiglia disastrata, figli, droghe… insomma, succedeva di tutto. Per Lowell, quel periodo è stato un disastro, ed è quello che racconta attraverso questa riscrittura del mito. Ciò che fuori dalla poesia invece è che Lowell decide di ritornare dalla seconda moglie, Elizabeth Hardwick, ma il nostos non avviene: il poeta è morto in taxi, proprio mentre tornava a New York, dalla sua Penelope. La mia traduzione dell’Ulisse di Lowell è stata pubblicata nel 1977, in una rivista di Gianni Scalia, qui a Bologna – dico una perché, ai quei tempi, Scalia si inventava delle riviste in continuazione, appena finiva una ne cominciava un’altra.

Sono partita quindi da Ulisse, ma certo Penelope mi ha sempre molto interessata. Qualche anno dopo, nel 1985, ho scritto le “Variazioni sul tema Penelope”, un poemetto piuttosto lungo di trecento versi, mi fu subito pubblicato – per alcuni, quel poemetto sarebbe la cosa migliore che ho scritto; io non sarei tanto d’accordo su questo, ma ognuno ha i propri gusti. Allora, in quel periodo, sul terzo programma della radio, leggevano l’Odissea nella meravigliosa traduzione di Aurelio Privitera, pubblicato presso la casa editrice Lorenzo Valla. Passavo quindi le mie mattine ascoltando l’Odissea e nel frattempo scrivevo la mia versione di Penelope. L’ho ambientata nella contemporaneità, aggiungendo una buona dose di elementi autobiografici. Telemaco, per esempio, era mia figlia e mi faceva delle domande veramente strane: «tu, mamma, c’eri quando nell’era dei dinosauri?»… Avendo quindi scritto io stessa una Penelope, dai toni in parte comici e in parte drammatici, quando è uscito Meadowlands, mi sono precipitata, l’ho tradotto tutto e Gianni Scalia mi ha subito fatto pubblicare tutto il libro nella rivista In forma di parole. Questa è la storia del mio incontro con Glück.

Vassilina: Come hai ben accennato, in Meadowlands Glück riscrive l’Odissea in chiave lirica. Scrive, sì, in verso libero, ma gioca tanto con la forma e cerca di riportare dentro un genere per eccellenza monologico come la lirica, l’elemento del dialogo. Nei suoi versi, il mito è un velo, e la famiglia di Itaca diventa un’analogia triangolare (Penelope-Ulisse-Telemaco vs Glück-marito-Noah) attraverso cui la poeta racconta la fine del suo matrimonio. Una poesia che trasmette i sentimenti dolceamari del divorzio e della rottura, una poesia piena di lutto non per la morte, bensì per la perdita di una vita matrimoniale che ha segnato la vita della scrittrice e il suo rapporto con il figlio. Come Glück, anche Penelope è una figura che vive nell’assenza dell’altro, che fa esperienza della perdita, e del lutto continuo – del resto, anche la stessa tela di Penelope è un’arma contro i pretendenti, radunati a Itaca a causa dell’assenza del marito, ed è un oggetto del lutto, un che Penelope prepara per la morte eminente del suocero Laerte; una morte che non avverrà all’interno dell’Odissea.

 Sentire il lutto per qualcosa che si è perso è anche un sentimento che ci riporta alla pratica della traduzione; pensiamo anche al termine “resa”, all’ “arrendersi” davanti al testo e ai possibili “intraducibili” della lingua di partenza. Facciamo un esempio: nella tua traduzione di Meadowlands hai scelto di lasciare il titolo uguale nella versione italiana, una decisione che abbiamo visto ripetersi anche nella traduzione in greco moderno, come anche in quella francese. Tale decisione è senz’altro giustificata, visto che Meadowlands è il nome dello stadio della squadra The Giants a New Jersey, un luogo-chiave in questo libro di Glück, che diventa tema centrale nei dialoghi lirici con il marito. Questa scelta però nasconde un altro significato nascosto nel titolo inglese: “meadowlands” sono, infatti, le terre dei “meadows”, parola che traduce il greco antico λειμών (il prato, il pascolo), luogo poetico già dai tempi dell’Odissea dove i «meadows» erano la casa delle Sirene. Questa, per esempio, è una connessione con Omero che il lettore italiano, greco, francese perde quando vede la parola «meadowlands».

Bianca: Allora, parliamo dei titoli e della strutturazione dei libri della Glück. Le sue poesie sono strutturate all’interno dei libri con un senso, con un’unità tematica, non sono poste cronologicamente man mano che le scriveva. Ararat, anche quello lasciato invariato nelle varie lingue, è un altro bel esempio della molteplicità di significati che si nascondono dietro i titoli della Glück: per la maggioranza dei lettori, Ararat è il monte dove si pose l’Arca di Noè, dopo l’alluvione; ma Ararat è anche un nome di un cimitero ebraico di Long Island, dov’è sepolto il padre della Glück, un personaggio centrale di questo libro. «Meadowlands» in inglese significa terreno a pascolo, ma è anche lo stadio. Questo è un punto tematico di scontro tra marito e moglie nel libro: per lui, i calciatori che giocano lì sono persone straordinarie, quasi eroi, mentre per lei, sono quasi dei delinquenti, degli energumeni. Addirittura, il personaggio di Penelope, attenta all’estrema cementificazione della zona, ride del nome dello stadio e lo paragona all’interno di un forno. Quindi i titoli della Glück sono sempre plurivalenti, indicando allo stesso tempo l’unità tematica dei libri.

Vassilina: Infatti, lo stadio dei Giants prende il suo nome proprio dai prati di New Jersey su cui è stato costruito, durante un periodo che ha segnato la zona per l’edificazione intensiva e la perdita di una dimensione più bucolica che la caratterizzava. Ritornando all’idea della perdita vorrei chiederti come ti sei approcciata a questo libro, e anche più generalmente, come ti approcci alla pratica della traduzione? Come riesci a mantenere i molteplici significati che ci sono all’interno dei versi e delle parole straniere, senza sentirti di perdere sempre qualcosa dall’originale?

Bianca: Ho recentemente pubblicato un libro sulla traduzione per Molesini, che si chiama Imitazioni.[3] Il titolo è un termine usato nel Settecento da traduttori inglesi, per es. da Dryden, perché si sono resi conto che una traduzione vera e propria è impossibile – addirittura, alcune volte è proprio impossibile tradurre. Poi la parola è diventata una tradizione, sia in Italia che negli Stati Uniti: un libro di Bertolucci si chiama così, come anche uno di Sinisgalli. Per non parlare poi delle Imitations di Robert Lowell, dove in realtà la voce poetica è tutta sua, non c’è nessuna fedeltà all’originale.[4] Per me, il problema delle traduzioni era dovuto al fatto che traduco poesia da sempre, ho cominciato appena ho potuto, partendo da Baudelaire per divertimento. Tradurre poesia è un atto di amore, perché la poesia interessa pochi. La vera sfida nella traduzione di poesia non è il ritmo, ma la struttura metrica, la rima… quelle non si possono tradurre. Ogni tanto uno può anche riuscirci, ma è raro. Le questioni, quindi, sarebbero due: la fedeltà al testo e il tentativo di costruire un ritmo, che non potrà, certo, essere proprio identico a quello del testo originale, ma che dovrà essere percepito come un ritmo.

Quando facevo le medie, studiavamo l’Iliade, e cioè leggevamo il testo omerico, ovviamente in traduzione. Quando invece mia figlia andava alle medie ha studiato l’epica antica in un modo tutto diverso: rispondevano a delle domande perlopiù teoriche come “cos’è un poema epico” e a imparare varie definizioni, senza fare esperienza diretta del testo omerico. La mia generazione – io sono del ’41 – ha avuto la gioia di leggere l’Iliade nella meravigliosa traduzione di Vincenzo Monti, completamente infedele, più lunga dell’originale, quindi per certi versi disastrosa. Il suo ritmo però è favoloso; del resto, anche Leopardi era apprezzata anche da Leopardi.

Se quindi accettiamo che una delle maggiori sfide nella traduzione di poesia è quella della struttura ritmica, con la Glück questo problema non si pone: il suo è un verso libero. Ciò che costruisce il ritmo nella Glück è la semplicità, la chiarezza, la laconicità della frase e della struttura sintattica. Lei dice addirittura che non adopera nessuna parola che un bambino non potrebbe capire. Si tratta dunque di una poesia comunicativa, non difficile da tradurre salvo che per delle questioni culturali: per es., meadowlands non vuol dire nulla per un italiano, mentre per un americano evoca immediatamente lo stadio. Io non ho trovato delle grandi difficoltà. Ho tradotto prima Ararat perché l’ho trovato più facile, mentre Meadowlands, anche per via della presenza di dialoghi, ha un linguaggio più complicato: da un lato, è un inglese colloquiale, parlato dagli americani, dall’altro è elegante; due cose che sembrano contraddirsi, e invece Glück riesce miracolosamente a costruire un linguaggio conciso, elegante, perfettamente chiaro e comprensibile, con una struttura sintattica interessante, e quindi con una ritmicità. Non ha però né la metrica, né la musica.

Vassilina:La musica è però presente in Meadowlands lungo tutto il libro, attraverso citazioni o invocazioni. Già nell’esergo, la coppia dei protagonisti comincia un gioco: «– Giochiamo a scegliere la musica. La forma preferita. – L’opera lirica. – La tua preferita. – Figaro. No. Figaro e Tannhauser. Ora tocca a te: cantamene una.» Si parte, dunque, dall’opera e si procede con la prima poesia del libro, intitolata «Penelope’s Song», «La canzone di Penelope», dove l’eroina si stacca dalla sua anima, e le chiede di cantare una canzone al marito perché ritorni.

Bianca: Io nel primo verso di questa poesia, «little soul», «piccola anima», vedo un chiaro riferimento all’ «animula vagula blandula» di Adriano. Infatti, avevo tradotto «little soul» con «animula», ma la casa editrice ha scelto diversamente.

Vassilina: E alle perdite si ritorna, quindi… Le referenze musicali in Meadowlands arrivano fino alla musica kletzmer, un genere musicale ebraico proveniente dall’Est Europa, tanto conosciuto a New York e generalmente negli Stati Uniti, che di solito viene scelto per le feste e i matrimoni ebraici durante gli anni in cui Meadowlands viene scritto. La Penelope di Glück, invece, esprime il desiderio di cantare una «accattivante / innaturale canzone – appassionata come Maria Callas» («La Canzone di Penelope»). La tua Penelope, dall’altra parte, fa i conti con l’epica, e anche se trovi che l’endecasillabo sia «una muffa», scrive comunque in endecasillabi, nonostante alcuni siano spezzati, e altri nascosti tra enjambements. Vorrei dunque chiederti: che legami vedi tra Penelope, la musica e la metrica e qual è il tuo rapporto personale metrica e con l’endecasillabo?

Bianca: Mentre nella poesia modernista del Novecento Ulisse è il poeta, nella poesia della Glück il poeta è Penelope – come lo è anche la mia, che scrive e traduce. Per quanto riguarda l’endecasillabo invece, la poesia dell’Ottocento inglese, mi viene in mente in particolare Tennyson, quella era una poesia così cantata, così musicale, che il Novecento ha dovuto reagire contro questa musica del metro. Anche Pound però, che ha preferito il verso libero, dice «there isn’t such a thing as free verse», «non esiste il verso libero», perché anche nel verso libero ci dev’essere un ritmo; se non c’è un ritmo, allora è semplicemente prosa. C’è chi ha molto criticato la Glück, dicendo «come mai quell’articolo su Persefone [n.d.r.: Averno] va sempre a capo»? La risposta è semplice, perché è poesia. Il ritmo della Glück è argomentativo. La poesia di Meadowlands ha come tema, tra altri, la musica, ma non è una raccolta di canzoni. Il suo è un lavoro quasi più simile a un’opera teatrale, con i personaggi che confliggono tra loro. Telemaco, per es., ha un ruolo centrale: è il figlio scisso tra due genitori completamente diversi. Il marito della Glück era un atleta, un professore di ginnastica, non era per caso che gli piaceva il calcio; era forse prevedibile che il matrimonio non potesse funzionare tanto bene. La struttura è dunque drammatica, un pensiero che si snoda ed esamina i pro e i contro di una relazione destinata a finire.

Per parlare del mio rapporto con l’endecasillabo tornerei ancora all’Iliade di Vincenzo Monti e all’influenza che ha avuto su di me – dovremmo anche considerare che allora si imparavano pezzi di poesia a memoria. L’endecasillabo è connaturato nella nostra tradizione, però nel mio caso si tratta di un endecasillabo terremotato: gioco con il verso lungo quello verso breve, endecasillabo e settenario, un’alternanza che troviamo già in Dante, Petrarca, Tasso, e via dicendo. Milton copia dall’Italia, l’endecasillabo influisce sulla poesia inglese del Cinquecento, perché leggono Petrarca e dopo viene creato il pentametro giambico. Il mio endecasillabo cerca di diversificare il ritmo, si spezza, in modo da evitare questa “cantilena” che risulta poco accettabile nella poesia del Novecento.

Elena: Tornando sui due libri della Glück che hai tradotto, Ararat e Meadowlands, noi abbiamo individuato un filo comune: entrambi questi libri sono pervasi dal lutto. Certo, parlando di perdite diverse. In Meadowlands c’è la perdita dell’eros, dell’intimità coniugale tra due sposi; c’è la lontananza di Ulisse da Penelope come anche la crisi, la fine di un matrimonio. In Ararat il lutto è prima di tutto familiare: vi ci troviamo il resoconto poetico di vicende familiari che forma un intreccio quasi narrativo, romanzesco. Allo stesso tempo questi due libri che cantano della perdita, sembra ragionino sul desiderio. Nell’epigrafe di Ararat troviamo una citazione da Platone: «il desiderio è la ricerca per l’intero; si chiama amore». Il tema della perdita in Ararat non è legato solo alla perdita del padre, ma anche all’amore difficilissimo che univa la Glück con la sorella; due sorelle tanto diverse, che ricordano in parte le opposing forces di Ulisse e Penelope in Meadowlands. Il desiderio come portatore di lutto, di perdita, ci ha fatto venire in mente la Canadese classicista, scrittrice e poeta Anne Carson, che definisce l’eros come perdita, mancanza e lutto. Per Carson l’esperienza erotica del desiderio come caratteristica dell’amante, del mancante (colei che non ha) e del sapiente (colei che sa di non sapere?) – un po’ come fa Penelope in Meadowlands. Dalla tua esperienza di questi due testi, c’è qualche riflessione che intreccia in entrambi desiderio, perdita, e ricerca di una voce creativa?

Bianca: Se pensiamo di nuovo al titolo Ararat, c’è una terza connessione che dovremmo aggiungere alle due precedenti, menzionate prima: nella radice ebraica, «ararat» vuol dire salvezza. Sarà dunque l’inevitabile ricerca dell’intero possibile? Dopo, un tema importantissimo di questo libro è vero, è il rapporto complicatissimo tra le due sorelle. Si tratta di una insopportabilità che ha una lunga tradizione: nella scrittura biblica, il primogenito è sempre cattivo; il secondogenito, invece, gode di una maggiore libertà, forse addirittura felicità. Il primogenito è condannato all’invidia. Il personaggio di Glück in Ararat confessa la sua invidia, è onesta ed esplicita. Avendo io stessa una sorella maggiore, ero molto interessata a indagare meglio sul racconto di Glück di questo rapporto tra sorelle.

Per quanto riguarda invece la perdita, questo penso sia il tema di tutta la poesia. Ci tengo a citarvi almeno due casi. Elizabeth Bishop ha scritto una poesia intitolata «The Art of Losing», dove dice: «the art of losing isn’t hard to master», «l’arte di perdere non è difficile da padroneggiare» – del resto, questo è destino comune di tutto il genere umano. La poesia vuole conservare ciò che si perde, fermare l’attimo, congelare l’emozione. Qui ritorno ancora a Pound, che parla della poesia come «frozen emotion», «emozione ghiacciata, fermata, trattenuta». Emily Dickinson, invece, in una sua poesia ci ricorda come «la percezione di un oggetto costa precisamente la perdita dell’oggetto», cioè, se hai l’oggetto, sei contento, non hai bisogno di scrivere dell’oggetto. Sul tema della perdita ho scritto una poesia che si chiama «Orchidee impossibili», che finisce così: «io, invece, al posto della cosa, ho la figura. Non solo una, due. Ciascuna mi sollecita tentare un’arte non banale, una linea sottile. Io, che non so curare una vera orchidea, mi prendo cura delle immagini. Vive nella mente, indugiano, ritornano. Così vivo di niente. È come tessere una tunica di anemoni, con un filo di ragno, con le ortiche, raffigurare quello che non c’è o almeno non è qui. E ti chiedi perché puoi farlo, e poi perché, soprattutto perché non puoi non farlo». Potremmo chiederci, «perché fermare l’attimo?», ma questa è una vocazione, e non si può evadere.


[1] Helen Vendler, Part of Nature, Part of Us: Modern American Poets (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1996).

[2] La turbolente relazione tra Lowell e Hardwick viene rispecchiata nella loro corrispondenza, pubblicata recentemente nel volume The Dolphin Letters 1970-1979: Elizabeth Hardwick and Robert Lowell, The Dolphin Letters 1970-1979, ed. Saskia Hamilton (London: Faber & Faber, 2020).

[3] Bianca Tarozzi, Imitazioni (Venezia: Molesini editore, 2023).

[4] Robert Lowell, Imitations (New York: Noonday Press, 1990).

Un diario poetico in divenire: la poesia del corpo di Stéphane Lambion

Introduzione e traduzione dal francese a cura di Elena Casadio Tozzi.

Stéphane Lambion è un poeta e traduttore francese. Nato a Bruxelles nel 1997, ha pubblicato la sua prima raccolta, dal titolo Bleue et je te veux bleue, nel 2019 per la casa editrice L’Échappée belle, con una prefazione di Jean-Michel Maulpoix. Nel 2022 è uscita per la casa editrice La Crypte la sua seconda raccolta, presque siècle, vincitrice del Prix des Trouvères Lycéens. Suoi testi inediti sono apparsi regolarmente su diverse riviste, tra le quali «Arpa», «Traversées», «Contre-allées». Dal 2020 è curatore delle riviste «Point de chute» e «Canal», quest’ultima nata nel 2022 e dedicata agli scambi tra poesia francofona e britannica. Lambion accompagna il lavoro di scrittura a quello di traduzione dal rumeno e dall’inglese: ha curato le raccolte 04:00 Canti domestiques di Radu Vancu (Vanneux, 2019) e Plantations di Constant Tonegaru (Abordo, 2022).

Dal 2021 è ricercatore presso l’Université d’Aix-Marseille dove sta svolgendo una tesi di ricerca e creazione sulla malattia nella poesia contemporanea, di cui è possibile consultare un diario sempre aggiornato sulla rivista online «remue.net». Questo lavoro si affianca alla poetica de l’intime di Lambion, volta a indagare il rapporto con il corpo “urtato”. La sua scrittura nasce, infatti, dall’esperienza vissuta e si sviluppa nello spazio della pagina con un ritmo, quasi un soffio, a cui corrispondono esperienze vive, sia artistiche che personali, come dimostra la sua attuale propensione alle forme poetiche e narrative ibride, all’arte visiva e alle arti plastiche.

Scaturita da un ambiente plurilingue e attraversata da più lingue, la scrittura di Lambion prende come oggetto di indagine privilegiato il corpo nelle sue diverse accezioni. La ricerca di una poesia incarnata, lontana da ogni astrazione, porta Lambion a fare del corpo uno strumento per dare carne a sensazioni ed emozioni, come in “le seul calcul est le sommeil”, dove emerge la volontà di dare corpo alla notte, di tagliarla e metterla in rapporto con la fisicità umana; o ancora in “. . .”, dove lo slancio vitale, la vergogna e la paura sono emozioni rappresentate in funzione del corpo e dei suoi movimenti. Questa ricerca fisica in poesia si spinge fino alla fascinazione per le potenziali trasformazioni del corpo, che siano dovute al tempo o alla malattia, e di cui la raccolta presque siècle e il testo En cœur costituiscono un diario poetico in divenire.


le seul calcul est le sommeil

la nuit s’est cassée
.
en mille morceaux
.
lorsqu’elle est tombée
.
sur ma maison.

je la dévisse,
elle a une odeur d’os.

je pose la nuit
sur une plaque millimétrée,

y découpe
la forme de ma chambre,
la forme de mon sommeil.

l’étends
par terre.

la nuit respire
sur le sol

, doucement.

se soulève
à peine.

si l’on coupe un cube de nuit de gauche à droite,


puis chaque moitié de haut en bas,

par combien multiplie-t-on
la surface de la nuit

, il demande.

pleine,
la nuit sera – pleine
.

ils

vérifieront
cette hypothèse.

testeront
ses corolaires.

chercheront le contre-exemple.

discuteront
son bien-fondé.

je

prendrai
les outils à la cave,

remettrai
la nuit en place.

elle sentira
le propre,

ce sera une
nuit neuve

comme il y en a tous les
deux-mille-neuf-cent-soixante-seize ans

, environ.

j’y collerai
mon visage
sans couleur.

la nuit

courra
sur mes tempes,

se faufilera
dans mes yeux,

se glissera sous mes ongles,

entière.

elle

deviendra
une prière

, dite
le long
des os.

la nuit aura
la surface de ma peau

, ce sera l’heure de dormir.

le sommeil sera le seul calcul


l’unico calcolo è il sonno

la notte si è rotta
.
in mille pezzi
.
quando è caduta
.
sulla mia casa

la svito
ha un odore d’ossa

poggio la notte
su un tavolo millimetrato,

vi ritaglio
la forma della mia stanza
la forma del mio sonno.

la stendo
per terra.

la notte respira
sul suolo

, dolcemente

si solleva
appena.

se tagliamo un cubo di notte da sinistra a destra,
poi ogni metà dall’alto in basso,

per quanto moltiplichiamo
la superficie della notte

, lui chiede.

piena,
la notte sarà – piena
.

loro

verificheranno
questa ipotesi.

testeranno
i suoi corollari.

cercheranno il contro-esempio.

discuteranno
la sua fondatezza.

io

prenderò
gli strumenti in cantina

rimetterò
la notte a posto.

lei sentirà
il pulito,

sarà una
notte nuova

come ce ne sono ogni
due-mila-nove-cento-sessanta-sei anni

, circa.

vi incollerò
il mio viso
senza colore.

la notte

correrà
sulle mie tempie,

s’intrufolerà
nei miei occhi,

scivolerà sotto le mie unghie,

intera.

lei

diventerà
una preghiera

, detta
lungo
le ossa.

la notte avrà
la superficie della mia pelle

, sarà ora di dormire.

il sonno sarà l’unico calcolo


La tristesse dans le pied

ma maison est une boîte
de nuit j’y danse
de jour aussi

, c’est la fête rue berthe,

tout le temps c’est la fête
charlotte de witte à trois
heures du matin spaghettis
au petit-déjeuner je danse

, toujours je danse
sans voir que

depuis quelques semaines
quand je

, quand je danse rue berthe
j’ai la tristesse dans le pied.

depuis quelques semaines je danse
en battant des pieds

, rue berthe je danse
comme un enfant qui ne veut pas
que sa tête aille sous l’eau

, danse comme un garçon
qui demande à charlotte
de l’aider à clouer
la tristesse au sol.

*

hier soir rue berthe mes jambes
étaient si lourdes que j’ai cru
couler

mes pieds s’enfonçaient
dans le parquet je
déjà me noyais

, battais fort
– la pointe le talon le plat
de tout le pied battais

et mes jambes de douleur
sont devenues pierres

, le bois du parquet
est devenu pierre

, la pierre
cognait la pierre

et un feu petit
à petit s’est allumé
sous la tristesse
de mes pieds

, hier soir rue berthe un feu
s’est allumé et mes pieds
ne s’enfonçaient
plus et je ne
coulais plus
hier soir

, j’ai dansé rue berthe
avec charlotte comme
un noyé qui prend feu
à six heures j’ai mis l’eau
à bouillir pour les pâtes

et j’ai dormi
dans ma boîte où
je vis je danse
rue berthe

, dans le pied la trace
d’une tristesse brûlée.


La tristezza nel piede

la mia casa è un locale
notturno in cui ballo
anche di giorno,

, è festa in rue berthe,

è sempre festa
charlotte de witte alle tre
del mattino spaghetti
per colazione io ballo

, ballo sempre
senza vedere che

da qualche settimana
quando io

, quando io ballo in rue berthe
ho la tristezza nel piede

da qualche settimana io ballo
battendo i piedi

, in rue berthe io ballo
come un bambino che non vuole
avere la testa sott’acqua

, io ballo come un ragazzo
che chiede a charlotte
di aiutarlo a inchiodare
la tristezza al suolo.

*

ieri sera in rue berthe le mie gambe
erano così pesanti che mi sembrava di
affondare

i miei piedi sprofondavano
nel parquet io
già annegavo

, battevo forte
– la punta il tallone la pianta
di tutto il piede battevo

e le mie gambe di dolore
sono diventate pietre

, il legno del parquet
è diventato pietra

, la pietra
colpiva la pietra

e un fuoco a poco
a poco si è acceso
sotto la tristezza
dei miei piedi

, ieri sera in rue berthe un fuoco
si è acceso e i miei piedi
non sprofondavano
più e io non
affondavo più
ieri sera

, ho ballato in rue berthe
con charlotte come
un annegato che prende fuoco
alle sei ho messo l’acqua
a bollire per la pasta

e ho dormito
nel locale dove
vivo ballo
in rue berthe

, nel piede la traccia
di una tristezza bruciata.


. . .

tape tape prend prend prend
tape prend prend tape tape
prend prend prend tape
prend prend tape tape
tape tape prend
prend tape
tape tape
prend
tape


      en un lancer,
      mélanger l’espace et le temps


          se nourrir du rythme,
          du plein, du vide, des
          éclairs de silence
          entre deux


tisser l’air
de mouvement


          (au creux du coude, bloquer :
          rien, ni même le vent, ne
          bougera le monde
         jusque-là roulé)


droit debout,
poursuivre


          tenir la mesure,
          la cadence à
          deux mains


respirer et ne pas oublier
d’avoir peur


         nécessairement, chuter :
         ramasser sans rougir et
         recommencer encore


du bout des doigts,
construire un
château d’air


         prêt à accueillir le visiteur
         à l’instant où il frappera :
         serrer la main


                la paume ouverte en
                trois petits
                 points


tape
prend
tape tape
prend tape
tape tape prend
prend prend tape tape
prend prend prend tape
tape prend prend tape tape
tape tape prend prend prend


. . .

batti batti prendi prendi prendi
batti prendi prendi batti batti
prendi prendi prendi batti
prendi prendi batti batti
batti batti prendi
prendi batti
batti batti
prendi
batti

        in un lancio,
        mischiare lo spazio e il tempo

         nutrirsi del ritmo,
         del pieno, del vuoto, dei
         barlumi di silenzio
         tra i due

tessere l’aria
di movimento

         (nella cavità del gomito, bloccare:
         niente, nemmeno il vento,
         muoverà il mondo
         fin lì rotolato)

dritto in piedi,
proseguire

         tenere il tempo,
         la cadenza con
          due mani

respirare e non dimenticare
di aver paura

         necessariamente, cadere:
         raccogliere senza arrossire e
         ricominciare ancora

dalla punta delle dita
costruire un
castello d’aria

          pronto ad accogliere il visitatore
          nel momento in cui busserà:
          stringere la mano

                il palmo aperto in
                tre piccoli
                punti

batti
prendi
batti batti
prendi batti
batti batti prendi
prendi prendi batti batti
prendi prendi prendi batti
atti prendi prendi batti batti
batti batti prendi prendi prendi


Copertina di Presque Siècle di Stephane Lambion
presque siècle di Stéphane Lambion (La Crypte, 2022)