Il vociare tartassante che plasma lui le cose. Il rapporto tra finzione e realtà tra il Mostro di Firenze e la scomparsa di Wilma Montesi. 

Intervista a Silvia Cassioli a cura di Giovanni Peparello.

La prima volta che ho sentito parlare del Mostro di Firenze è stato grazie a quello spezzone di processo che gira su YouTube, in cui l’imputato Pacciani e il giudice della Corte d’assise si scambiano battute con perfetti tempi comici. “Se ni monno esistesse un po’ di bene – recita la poesiola di Pacciani – e ognun si considerasse suo fratello / ci sarebbe meno pensieri e meno pene / e il mondo ne sarebbe assai più bello…”. Il giudice lo interrompe: “Bravo, bravo. Noi condividiamo. Ma ora siamo davanti alla Corte d’assise e lei è imputato di sedici omicidi”.

 Con gli amici alle medie continuavamo a guardare i video del processo, ossessionati da questo gruppo di assassini che parlavano e si comportavano come il mi’ nonno e la mi’ nonna, ma sbudellavano l’òmini come il mi’ nonno scannava ‘l maiale. A questa storia orribile si aggiungeva il fascino del complotto: com’è possibile che questi contadinotti avessero compiuto indisturbati sedici omicidi? C’era qualcuno dietro? Li avevano accusati ingiustamente per coprire qualcun altro? Ipotesi e illazioni: di questo è fatto il mistero del Mostro di Firenze. Così per anni ho continuato a informarmi su Wikipedia e su YouTube, senza avere il coraggio di affrontare i libroni dei “mostrologi” – come li chiama Silvia Cassioli – cioè coloro che studiano il Mostro e le sue dinamiche processuali, producendo caterve di teorie. Di tutte queste teorie, alla fine le poesiole del Pacciani mi sembravano l’unica cosa reale. 

Finché non è arrivato Il Capro di Silvia Cassioli. Uscito nel 2022 per Il Saggiatore, il libro racconta la storia del Mostro di Firenze da una prospettiva onnicomprensiva, gaddiana: nel romanzo c’è tutto, con un registro linguistico capace di passare dal dialetto all’italiano macchinoso dei questori. Così leggiamo che “l’òmini nel giorno del Signore son cacciatori e trombatori. Se non fosse che l’è attaccata, s’impaglierebbero anche qualche fiha, di modo che unne scappi”. E poi, subito dopo, sentiamo dire che il Mostro è “soltanto il povero schiavo di un incubo di tanti anni fa”. Le ipotesi surreali seguono gli atti del processo, con una piena consapevolezza del lato comico della vicenda. 

Al Capro è seguito Wilma (Il Saggiatore, 2024) che racconta l’indagine sulla morte della giovane Wilma Montesi, il cui cadavere fu trovato nell’aprile del 1953 sulla spiaggia di Torvajanica, vicino Roma. In un collage di frammenti contraddittori, seguiamo prima il ritrovamento del cadavere, poi l’indagine “che scuote l’Italia”, arrivando a lambire “i palazzi del potere”. Ma ogni cosa è confusa fin dal principio: già nella prima pagina, il cadavere viene trovato da un muratore che sta mangiando un panino; poi quel muratore, in realtà, stava facendo jogging; poi no, scusate: stava andando al lavoro in bicicletta; anzi no, aspettate, mi correggo: stava aspettando l’arrivo del capomastro. Ciò che accomuna Il Capro e Wilma, insomma, non è soltanto la cronaca nera più eclatante, ma anche l’idea della Verità come un concetto irraggiungibile. Durante l’indagine, è come se il velo del chiacchiericcio giudiziario nascondesse un velo più grande, il velo del mondo, e dietro questo velo si acquattasse il Male assoluto, insaziabile, irraggiungibile come la Verità stessa. Qui ho intervistato Silvia Cassioli, per chiederle da dove nascono questi due romanzi e l’idea di letteratura che li sostiene.


Giovanni Peparello: Uno degli aspetti interessanti della tua scrittura è che racconta contemporaneamente il crimine, il contesto e le persone che vi partecipano, arrivando a considerare ogni aspetto della realtà, senza per questo giungere alla verità – che sia giudiziaria, storica o personale. C’è qualche opera da cui hai preso ispirazione in particolare?

Silvia Cassioli: Forse alla radice di questo c’è un’ostinazione nevrotica a dire tutto, a non passare sopra a niente. E quindi il racconto collassa, si tira dentro quello che trova: crimine, contesto, diretti interessati e indiretti interessati. È come se qualcuno mi avesse detto “guarda che non si può raccontare tutto” e per reazione mi fossi fissata a raccontare tutto invece, da tutti i punti di vista, con l’idea di esaurire la faccenda in modo che non se ne parli più. Ostinazione, rigidità. Vedi che il salto al comico è un attimo. E qui la prima cosa che mi viene in mente è Vita e opinioni di Tristram Shandy, non c’è Wilma senza Laurence Sterne, quel tipo di discorso viene direttamente da lì, dalla versione inceppata e idiosincratica delle Mille e una notte. Nel mio caso muovo da un’indagine giudiziaria, ma la deriva parossistica è simile. Quell’intestardimento sulle cose secondarie, a sviscerarle bene, quell’aggrapparsi alle parentesi mentre sei in caduta libera…

G. P.: Hai dichiarato di aver scelto il titolo Il Capro per “dare l’idea collegiale del male, qualcosa che rimanda a una entità diabolica dove si passa di continuo dal presunto colpevole a un altro presunto colpevole, come se la colpa fosse diffusa in un mondo patriarcale violento”. Anche la vicenda di Wilma Montesi ha a che fare con un male collegiale, patriarcale e violento. Ci sono altri aspetti che accomunano le due vicende? Sei sempre stata interessata a queste storie oppure è un caso che i tuoi ultimi due romanzi abbiano a che fare con due casi eclatanti di cronaca nera?

S. C.: Wilma e Il Capro raccontano due vicende già successe, secondo me è questo che mi attira più che il fatto di cronaca in sé. Preferisco saperlo subito come va a finire. E infatti il romanzo che precede questi due, totalmente d’invenzione, [Il figliolo della terrora, Exòrma edizioni 2019, Ndr] l’avevo costruito a partire da una griglia rigidissima di eventi predeterminati, mi ricordo che ero andata dalla mia prima agente e le avevo srotolato davanti questa bobina chilometrica di carta e mi aveva chiesto ma perché?, non le aveva fatto una bella impressione. Sarà che ho un problema con le cosiddette storie e allora le prendo già fatte, può essere.

Altro tratto in comune che mi viene in mente: il silenzio di Wilma e quello in bianco di una vittima nel Capro vs la logorrea del racconto. È la solita lotta tra il tenersi tutto dentro e il non tenersi niente. Finisce che scrivi troppo, e infatti i miei lavori sono pieni di gente ossessionata dallo scrivere. In Wilma a un certo punto producono una tale quantità di carta che il magistrato è costretto a installare una cassaforte alta, che tutti continuano a scambiare per un ascensore. C’è qualcosa di irresistibile in questa gente che scrive, scrive. E mi attirano l3 scrittor3 corpos3. In generale li trovo più sporchi e più umani. Insomma, simpatizzo.

Quanto alla cronaca nera, è stato un caso. Non sono un’appassionata di nera ma non ho niente contro le storie di nera, per me vale tutto. Per dirti, dopo questi due romanzi pensavo che anche il terzo sarebbe stato un caso di nera, e mi sono messa a cercare, di solito incappo in quelli più eclatanti proprio perché non sono una specialista, e però alla fine ho trovato tutt’altro, la vita di una santa. Sì, il caso di Wilma l’avevo seguito in televisione, mi aveva appassionato anni fa, ma era finita lì. Poi ho avuto un incidente in mare, la corrente stava per portarmi via. Allora ho ripescato questa vicenda della ragazza (forse) annegata, e l’ho raccontata in un modo per cui la corrente in realtà si porta via tutti gli altri, giornalisti e investigatori, indiziati e testimoni oculari. Ti faccio un esempio, per uscire dalla vaghezza: a un certo punto del romanzo introduco il marchese della Capocotta. Nel tempo che mi metto a spiegare chi è, che storia ha, lui in contro scena ha già concluso un paio di affari tirando sul prezzo, ha già piazzato una partita difettosa di tappeti persiani alla madre di Claretta Petacci… è questa la corrente che intendo: tu provi a mettere un punto e sei già da un’altra parte. È come se dicessi: sì, io gli faccio il ritratto a questo signore, ma intanto lui ha messo le gambe per conto suo. È come se una cosa dovesse sempre lottare con la sua rappresentazione.

G. P.: Il Capro ha un narratore popolare e anonimo, che forse è Silvia Cassioli stessa, che cambia tono, dialetto e voce a seconda del personaggio su cui si focalizza. In questo chiacchiericcio, qual è il rapporto che intercorre tra lo spazio dell’indagine e quello del romanzesco?

S. C.: Non lo so, c’è confusione fra queste due parti. C’è sicuramente la voce di qualcuno che fa di tutto per sparire dentro alle voci degli altri, ogni tanto riemerge e poi torna sommersa. Narrativamente parlando non è un male, è una modalità come un’altra, diventa interessante se è la tua propria, se è proprio quella cosa che ti fa impazzire nella vita, cioè se è tua, se è autentica. Il conflitto con l’io decide il narratore. Quanto riesci a sparire? Qual è la crepa in cui ti puoi infilare? Ha a che fare con la molteplicità di personaggi esterni e interni. A proposito di narratore popolare, penso a Giovanna Marini, a quella voce piena di altre voci che dà un impatto emotivo enorme. Eh, magari somigliarle.

G. P.: Il Capro è un romanzo che si nutre anche di spazi bianchi, che sembrano manifestare sia il silenzio dei testimoni sia ciò che rimane inenarrabile, come una voragine incolmabile tra ciò che può essere saputo e la verità. In Wilma questi spazi bianchi diventano costitutivi del testo, finché anche l’indagine scompare, scompare il corpo della ragazza, rimane solo il contesto. Wilma è stato definito “un collage di tutto ciò che è stato detto e scritto su Wilma Montesi”. Ci sono state altre fonti, oltre quelle citate? Tra un romanzo e l’altro, il cambiamento stilistico è stato il riflesso di un’evoluzione di pensiero?

S. C.: Ha senso questo che dici, anche se ho scritto prima Wilma e poi Il Capro. C’è una centralità dello spazio bianco che prende una forma precisa nel Capro proprio perché sono passata attraverso i pezzi esplosi di Wilma. Sono tutte cose a cui uno pensa dopo, ovviamente, ma che scompaia il corpo e rimanga solo il contesto mi sembra detto perfetto: a forza di indagare su qualcosa la cosa sparisce, e allora come fai a raccontarla? C’è di mezzo un eccesso di informazioni, ormai è il nostro habitat naturale. Non è solo che sono contraddittorie, è che sono tante. Si contraddicono e non si contraddicono. Ti portano via: eccola di nuovo, la corrente. Il vociare tartassante che plasma lui le cose. Spero che Wilma riesca a parlare di questo, non solo del caso Montesi.

G. P.: In Wilma l’istanza narrante si configura nel montaggio dei frammenti che vengono dalle fonti più disparate: il Corriere della Sera, atti giudiziari, ma anche documentari, film, libri sul caso Montesi. Oltre a questo collage, affiorano anche alcuni commenti e dichiarazioni senza fonte, che sembrano provenire dalla voce dell’autrice, spesso in tono ironico e antifrastico. Quanto c’è di fittizio, di inventato e di romanzesco in queste frasi?

S. C.: Di romanzesco tutto, anche nel caso dei pezzi tratti dai giornali, perché il montaggio non è un’operazione neutrale, è solo un altro modo del narrare. Infatti non ho messo bibliografie, non volevo che ci fossero dubbi su questo: è finto, tutto finto. Eppure non ho inventato niente dal punto di vista dei fatti, nemmeno le cose più assurde come l’indagine sui piedi della sorella al posto di quelli della morta o l’arrivo alla sbarra di un testimone che nessuno sa perché è stato chiamato lì, o il medico legale che parla l’esperanto. Ma anche le cose vere diventano finte quando ci fai sopra un romanzo. E poi non volevo inciampi sulla pagina: dove la citazione della fonte rallentava il passo l’ho tolta e amen. Quindi ci sono passaggi che in effetti sono tolti da un giornale, ma senza che sia segnalato. E di alcune fonti ho travisato il nome, per esempio non esiste nessun libro dedicato al caso Montesi che si intitoli Sesso potere e morte perché ce ne sono diversi che hanno quel tipo di focus e non avrebbe avuto senso citarli tutti: ne ho fatto uno solo. E ho trattato il Corriere della sera come un personaggio distinto dal Messaggero o il Gazzettino, anche se non esiste nessun signor Corrieredellasera, e due commentatrici le ho inventate di sana pianta, la psicologa Nadia Ferro e la sessuologa Marta Cavallo… alla fine paradossalmente la voce più “vera” è quella che finge di essere un semplice connettore di voci altrui.

G. P.: Qual era l’idea di partenza? Questi commenti sono arrivati in un secondo momento o sono sempre stati nella struttura originaria del romanzo?

S. C.: No no, nasce tutto insieme. Ho cominciato a raccontare del ritrovamento di questo cadavere sulla spiaggia e già al secondo rigo è partito quell’impulso a rettificare: ehi, però non è andata esattamente così. All’inizio ho cercato di trattenermi, poi mi sono detta “ma sì”, e ho lasciato che anche la mia voce si insinuasse. Anche sotto forma di commento figurato, attraverso le icone. L’importante è dire sempre con il minimo. Ripetere va bene, però appena si capisce dove vai a parare devi passare oltre, a costo di lasciare la frase a metà. Tapparsi la bocca non va bene, rischi di fare peggio. E poi era nello spirito di partenza, in reazione a quell’incidente in mare. Anche lì sono finita dentro a un vortice e non ho cercato di nuotare contro corrente, non ce la facevo, ho dovuto lasciarmi andare. Le onde mi hanno portato su uno scoglio, mi sono salvata così.


Silvia Cassioli (Torrita di Siena, 1971) è scrittrice e poetessa. I suoi testi sono apparsi su varie riviste, fra cui L’immaginazione, il Verri e Semicerchio. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Unghie, plantari, gambe di legno e altri ex-voto fantastici (2009). Il Saggiatore ha pubblicato Il capro (2022) e Wilma (2024).