In teoria e in pratica | Franca Mancinelli

Le risposte di Franca Mancinelli all’inchiesta sulla poesia contemporanea a cura di Raggi γ.

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1) Un libro di poesia, prima di essere un’opera compiuta, è un progetto in costruzione, in movimento. Va incontro a fasi creative diverse e a momenti del processo editoriale che influiscono o possono influire sul percorso di realizzazione dell’intera opera. 

Qual è stata la tua esperienza in questi termini? Come lavori sulla forma e come sulla costruzione? Chi sono i tuoi maestri da questo punto di vista? Il tuo approccio è cambiato (pensi cambierà) nel tempo? Se dovessi dare dei consigli sulla costruzione interna di un’opera, cosa consiglieresti?

Credo ancora nella forma libro, nel libro di poesia come compiuta costruzione di senso, nonostante i lettori si fermino sempre più spesso ai testi sparsi che si trovano a galleggiare nella rete. Per questo continuo a dedicare tutta la mia cura al compimento di un libro, la stessa necessaria per ogni singolo testo. Come in una poesia sono fondamentali il primo e l’ultimo verso, così in un libro sono fondamentali i testi di apertura e di chiusura. E come in una poesia un verso è legato all’altro attraverso connessioni che sono anche aperture del significato, strappi, interruzioni, inarcature, così accade in un libro tra un testo e l’altro.

Il lavoro che porta alla costruzione di un libro è simile a quello che compie un gatto su una coperta, o un mucchio di stracci. Muove il tessuto, tirandolo con le zampe, fino a che sente che si è trasformato in una cuccia. Le nostre carte avranno la forma di un libro quando saranno il luogo in cui deporre ogni difesa, ogni progetto, chiudere gli occhi e dormire. Un libro come una cuccia accoglie interamente non soltanto il nostro corpo, ma anche ciò che continua a transitare in noi, oltre la nostra coscienza.

Su questo tema del progetto in poesia e sul lavoro che porta alla costruzione di un libro ho riflettuto in Un libro di poesia, una struttura vivente, un testo scritto per un numero monografico della rivista «Materiali di Estetica», curato da Stefano Raimondi (n.7.2, 2020), che si può leggere qui, oppure nel mio libro di prose in traduzione inglese, con testo originale a fronte, The Butterfly Cemetery (The Bitter Oleander Press, 2022).

2) Il senso comune tende a vedere nella poesia il genere per eccellenza dell’espressione del sé, della realtà biografica di un io. Credi si possa parlare (o abbia senso parlare), invece, di finzione poetica? Quale ruolo ricopre l’invenzione nella tua scrittura?

Non mi piace pensare alla poesia nei termini della “finzione” né dell’“invenzione”. Se c’è finzione c’è letterarietà, manierismo, qualcosa che mi porta ad interrompere al più presto la lettura e, se sto scrivendo, a dimenticare quei segni. Sono segni, appunto, sporcano il bianco e lo spazio della nostra mente. Non c’è nulla da “inventare” in poesia, ossia, etimologicamente, da trovare con l’ingegno, la ragione, la volontà. Piuttosto si tratta di creare lo spazio perché qualcosa accada.

3) Volendo parlare dei gradi di formazione della tua scrittura: come hai iniziato il tuo percorso di formazione poetica e cosa ha contribuito allo sviluppo della tua voce? Considereresti, a distanza di tempo, (o consideri) il tuo esordio la prima vera presa di parola come autorə? Se sì, in che termini? Pensi che il rapporto con l’esterno, con il pubblico o la “bolla” abbia mai influito sulla tua scrittura? Quanto l’effetto sul pubblico influenza il tuo processo creativo?

Sì, Mala kruna, il mio primo libro, è il mio esordio. Ricordo ancora il tormento che ha accompagnato la consegna del file che sarebbe andato alle stampe. Sentivo quel distacco come qualcosa di assoluto, la fine di ogni rinvio, di ogni ripensamento: una ghigliottina, o il taglio di un cordone. Non potevo concepire il dolore di ritrovare stampato, in diverse copie, qualcosa che non mi corrispondeva, in cui non mi sarei riconosciuta, anche solo per un verso. Per fortuna non è stato così, e Mala kruna ha continuato ad accompagnarmi, ad aprirmi sentieri e incontri nella vita, per altri cinque-sei anni, prima dell’uscita del libro seguente, Pasta madre.

Certamente gli occhi di tutti coloro che hanno letto le mie poesie prima che fossero pubblicate in Mala kruna, hanno contribuito a portarle alla loro essenza, plasmandole, così come l’acqua di un fiume fa con i suoi ciottoli: consigli di maestri e compagni di strada, uscite su riviste e antologie che hanno chiamato al lavoro sui testi, al confronto con la pubblicazione, per quanto in forma ridotta e attenuata rispetto al grande evento che è l’uscita di un libro. Penso all’acqua come a ciò in cui siamo immersi, il fluire, la vita, le relazioni importanti per noi, prossime e concrete nella nostra esistenza o invisibili e inconsapevoli, e ai ciottoli come a forme che possono smussarsi restando fedeli al loro nocciolo inscalfibile, alla loro struttura minerale, che è l’essenza di una lingua.

4) Cosa pensi delle modalità delle presentazioni di poesia contemporanea e cosa cambieresti?

Ciò che mi manca negli incontri di poesia contemporanea è un elemento di ritualità, di festa condivisa. Penso a un luogo in cui sopravvive il residuo, anche minimo, di una comunità, un cerchio di persone che si ritrovano con l’intento di condividere un nutrimento essenziale per la loro esistenza.

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