In questi giorni esce per Argolibri l’opera completa del poeta e traduttore dal francese Cosimo Ortesta (1939-2019), a cura di Jacopo Galavotti, Giacomo Morbiato e Vito M. Bonito. Il volume persegue coerentemente il progetto della casa editrice di Macerata di riproporre autori fuori canone del Novecento italiano. Già ampiamente conosciuti i bei volumi sull’opera omnia di Corrado Costa e su Trilce di Cesar Vallejo. La collana Talee ancora una volta si distingue per la grande cura critica ed editoriale: come nelle precedenti uscite, le introduzioni e le postfazioni si pongono come un luogo di dibattito critico serio, a margine di una riflessione generale sulla poesia d’avanguardia di ieri e di oggi.
Ortesta ha fatto fatica a trovare uno spazio nelle antologie della poesia recente, a eccezione della breve comparsa tra le pagine di Dopo la lirica di Enrico Testa. Le ragioni sono espresse da Galavotti e Morbiato nel saggio Una sola digressione ininterrotta. Cosimo Ortesta poeta e traduttore (Padova University Press), che tre anni fa ha aperto la strada per la riscoperta del poeta. Oltre a essere ostile al conformismo dei salotti letterari italiani, Ortesta era un poeta consapevolmente e orgogliosamente anacronistico. Esordiente a oltre quarant’anni con Il bagno degli occhi (1980), opera emblematica e barocca che molto deve a Mallarmé e ai poeti di Tel Quel (Sollers, Jaccottet, e altri), egli traccia una parabola autoriale insolita e difficilmente catalogabile. Da un lato, riprende con coerenza il materialismo che aveva animato la cultura francese del Sessantotto – già ampiamente dismessa all’altezza degli anni Ottanta, per non dire negli anni Novanta; dall’altro, impegna un dialogo serrato con se stesso, che di raccolta in raccolta lo porterà a chiudersi nei temi e nei motivi più ossessivamente personali: la memoria, la malattia, il disfacimento del corpo, la morte.
Letta oggi, la poesia di Ortesta ha un importante valore documentario perché ritrae un momento di svolta della poesia del secondo Novecento dal punto di vista di un interprete d’eccezione.
Dopo una prima fase all’insegna dello sperimentalismo di matrice parigina, Ortesta raggiunge la piena maturità stilistica in Serraglio primaverile (1999). Qui l’autore sa bilanciare istanze di un certo manierismo oscuro, come il travestimento in figure del mito, le accese sinestesie, i pesanti ossimori, la metaforica obliqua alla Dylan Thomas e l’insistenza martellante sul significante, al disvelamento di un vissuto lacerato, solcato dal trauma costante della perdita e da una pervasiva sofferenza psichica.
Il Serraglio abbandona in parte la messa in scena esclusivamente intra-psichica delle prime raccolte e va incontro al mondo esterno, percepito come minaccia costante. Alberi, animali, personaggi dai contorni evanescenti (bambini, ragazze, donne vedove) inscenano una specie di idillio rovesciato, dove un mondo radicalmente negativo rischia di rovesciarsi sulle vite degli esseri umani, inseparabili dal dolore, dall’invecchiamento e dal lutto:
È verde il bocciolo e fiorirà
quando più non parlerai.
Una specie di primavera sfiora il corpo gelato
un odore di felci e miele tutt’intorno
alle bocche che mangiano e baciano
annuncia un pensiero
l’umida crepa mistero tremante
nel fiato della madre.
Colpisce la compattezza stilistica e tematica della raccolta, che segna una rottura rispetto alle prime fasi sperimentali di Ortesta.
A seguire La passione della biografia, un’auto-antologia uscita nel 2006 per Donzelli. Il libro prende il nome dal poemetto uscito originariamente nel 1977 sui Quaderni della Fenice di Guanda, diretti al tempo da Attilio Bertolucci, e segna il consuntivo di questo poeta notturno, terminale, quasi postumo in vita.
Ortesta si muove dietro la rappresentazione, sul palcoscenico della mente e dei suoi fantasmi, per mezzo di un linguaggio-geroglifico segnato dalla rimozione; qui però un maggiore intento comunicativo e in generale una disposizione più favorevole alla comprensione e l’immedesimazione del lettore permettono alla sua poesia di rilasciare l’incandescente contenuto psichico delle sue immagini e di avvolgere il lettore in un ritmo più disteso e quasi narrativo. Da Zanzotto e Ungaretti, i punti di riferimento diventeranno soprattutto Giudici e Bertolucci. Nel lungo poema Céleste che apre la raccolta, indossando la maschera di Proust, l’autore ci fa calare nell’esperienza del corpo malato e dell’attesa della morte, riscattata in parte dal progetto di un’opera capace di trascendere l’esperienza della finitudine dell’individuo:
immobilità e silenzio gli [a Proust] insegnano a lavorare
per un’improbabile vita futura
mentre, sul fondo, fa la sua comparsa il presentimento del nulla definitivo
un’unica forma nera pronta
a dileguarsi nella notte
sta per toccare il confine
ecco adesso vi è entrata
l’azzurro intravisto dalla finestra
è un luogo preciso della terra
senza rilievo senza colore gli alberi
e le colline non entrano più nei suoi occhi.